http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Dicembre-2005/art83.html

il manifesto, 6 Dicembre 2005

Indipendenza del Kosovo? Che ne pensano i 260.000 rom cacciati nel terrore

Nessuno chiede agli zingari

Viaggio nei campi profughi dove da sei anni vivono decine di migliaia
di rom espulsi a forza dal Kosovo, e rimasti privi di tutto. «Non ci
sono più aiuti, né locali né internazionali, e non c'è lavoro. Ma non
possiamo nemmeno tornare a casa, siamo minacciati di morte»

TOMMASO DI FRANCESCO
INVIATO A BELGRADO

«Sei del manifesto? Allora conosci Rossana Rossanda? Ti prego
salutala, lei è stata per me un mito quando ero studente in Germania
alla fine degli anni Sessanta». A parlare è Rajko Djuric, al secolo
giornalista della Tanjug ma soprattutto famoso per essere il «re degli
zingari». O meglio l'«ex-re», perché a quella carica è stato eletto
dal congresso mondiale degli zingari per ben due mandati dal 1990 al
2000, poi è stato presidente del congresso mondiale e ora dirige il
Centro internazionale degli zingari di tutto il mondo e da «re» ha
pubblicato molti libri sulla condizione degli zingari, tradotti anche
in Italia dove ha accompagnato dal papa nel 1991 la prima delegazione
rom mai entrata in Vaticano. Siamo a Zemun, grande sobborgo storico di
Belgrado che degrada verso immense periferie e poi la vasta pianura
dove la Sava entra nel Danubio scuro e limaccioso. Non fa ancora quel
freddo pungente dei Balcani, fastidiosamente piove, l'umidità entra
nelle ossa. L'appuntamento per andare a vedere come vivono i rom
cacciati dal Kosovo era nell'area dell'ex ufficio degli zingari della
Serbia a ridosso di una delle tre sedi della televisione rom e davanti
ad un piccolo supermercato cinese dai prezzi bassissimi che vende di
tutto. «Vedi questa strada - dice Jovan Donyanovic, presidente dei rom
serbi, indicando la via che proviene direttamente dal sud e attraversa
i nuovi agglomerati e le vecchie isbe basse dei contadini inserite
ormai a forza nella città di più di due milioni di abitanti - su
questa strada in questo punto esatto dove io e te stiamo parlando, nel
luglio 1999, a solo un mese dall'ingresso delle truppe Nato ho visto
arrivare una fila sterminata di decine di migliaia di zingari,
affamati, disperati che marciavano, arrivati con mezzi di fortuna e
senza niente addosso, con sacchetti di plastica della spesa come
valigia, arrivavano tutti in fuga dal Kosovo e non c'erano telecamere
dei network internazionali a riprenderli. Raccontavano fatti che i rom
avevano patito solo durante la seconda guerra mondiale sotto i
nazifascisti: stupri, violenze, bambini uccisi. E' purtroppo tutto
documentato dall'Onu. Nel silenzio del mondo il nostro popolo ha
sofferto la pulizia etnica e le violenze razziali».

All'estrema periferia, a ridosso dell'autostrada che va a nord verso
Novi Sad, si aprono zone industriali abbandonate con poche fabbriche
in funzione. In una di queste, l'area dell'ex stabilimento della
fabbrica Grmec, tra capannoni da anni serrati, gru arrugginite, catene
montuose di rottami e pozzanghere come laghi si stende una delle tante
baraccopoli di rom fuggiti dal Kosovo, che vivono nelle capanne fatte
di gesso e cartone, a volte con muratura improvvisata, che una volta
erano usate come spogliatoi dagli edili che hanno costruito i
complessi industriali.


Impauriti ancora adesso

Ci accompagna Gashi Cerim: parla sottovoce, anzi è proprio restio a
parlare. Ma poi si lascia andare quasi a un'invettiva: «Abbiamo avuto
tanto terrore - tira fuori i documenti che provano che è presidente
dei rom di Lipljan in Kosovo - e siamo ancora impauriti adesso. A
Lipljan c'erano tremila rom, già sotto i bombardamenti molti di noi
sono scappati, non si poteva vivere. Ma il genocidio è cominciato dopo
il bombardamento. Siamo stati costretti a lasciare le nostre case
sotto la minaccia degli albanesi normali, non dell'Uck, dei civili. Lì
avevamo negozi, case, macchine, terre, eravamo una comunità integrata
e vivevamo bene. I rom erano artigiani del legno. Io ero meccanico.
Avevo tanti amici albanesi che mi dicevano di stare tranquillo che non
sarebbe successo niente, ma abbiamo scoperto che avevano paura anche
loro. Così non ci ha aiutato nessuno. Le nostre case? O le hanno
bruciate o sono state occupate dagli albanesi. Parlano tanto di
indipendenza, ma perché nessuno chiede agli zingari che cosa pensano
dell'indipendenza? Certo noi non torneremo più a queste condizioni.
Molte nostre abitazioni risultano vendute, ma i contratti sono falsi,
il catasto del Kosovo è stato tutto manipolato». «Ho fatto la stessa
domanda all'amministratore Onu Michael Steiner - parla il «re» Rajko
Djuric che guida la nostra carovana - nel 2003 in Germania e gli ho
ricordato che dopo gli albanesi e i serbi gli zingari erano il terzo
popolo del Kosovo. E lui prima è cascato dalle nuvole, poi si è
arrampicato sugli specchi è non è stato capace di rispondermi. Secondo
gli stessi dati dell'amministrazione Unmik-Onu, fino al giugno 1999
c'erano in Kosovo 260.000 rom sparsi in 193 comunità, ne rimangono
29.656 in sole 26 località. Anche l'unico vero intellettuale
kosovaro-albanese, Veton Surroi, ha definito `fascista' la pulizia
etnica e gli eccidi di zingari, ne sono stati uccisi più di cento.
Solo in Kosovo i rom sono odiati perché hanno raccontato che si sono
schierati con i serbi. dimenticando che la maggior parte delle
comunità viveva integrata con tutti e spesso in località dove i serbi
non c'erano proprio. Invece non sono mai stati odiati in Albania. A
Pec gli zingari erano più di 20.000, molti quelli ricchi e benestanti,
ne restano sotto assedio 1.100; a Obilic erano 7.000 ora sono 500, a
Gnjlane erano 7.000 e sono 250, 5.000 a Vucitr rimangono in 300, e
sono tutti scappati quelli di Pristina, Pec, Djakovica, Lipljan,
Podujevo, Urosevac. Con tante donne violentate, alcune per disprezzo
ulteriore, davanti al suocero o al marito, e tanti, tantissimi
scomparsi. Alle Nazioni unite sanno tutte queste cose, le hanno anche
documentate, ma non è mai successo niente. A Pristina poi ci sono
stati attentati contro le sedi dell'Onu, addirittura tre quest'estate.
Sappiamo da funzionari dell'Unmik che vogliono mantenere l'anonimato
che gli estremisti albanesi vanno ogni giorno nelle case dei pochi rom
rimasti minacciandoli con questa semplice formula: se dite qualsiasi
cosa contro l'indipendenza c'è una pallottola per voi. I rom non li
protegge nessuno, viviamo lì peggio dei serbi. Sì, peggio dei serbi».

Entriamo dentro una baracca a tre vani, scura e affumicata dentro, c'è
la televisione accesa su un programma cult in Serbia: una specie di
reality dove una coppia prova a sposarsi per 24 ore. Entrando qualche
calcinaccio cade, ci scusiamo per l'intrusione, dentro stanno
cucinando ma fa più freddo che fuori, bambini dappertutto, ne contiamo
sei, fuori ce ne sono decine, qualcuno addirittura scalzo, tutti
malvestiti, visibilmente malnutriti. «Qui abbiamo la luce che paghiamo
cara, 30mila dinari al mese, l'acqua invece non c'è, non ci regala
niente nessuno e ormai non si vede più assistenza o aiuto né locale né
internazionale, ma non vogliamo elemosine, vogliamo lavorare», dice
Krasnici Raghib. Viveva presso Majora, vicino Lipljan, una frazione di
50-60 case di rom, qualche zingaro ashkali è rimasto; ha 11 persone in
famiglia, tutti i figli, la nuora, i figli della nuora; la moglie è
morta di tumore in questa baracca due anni fa, ora ha due figlie
piccole da mantenere che non hanno madre. Intanto la stanza si riempie
di molti vicini, ognuno racconta la sua storia. Krasnici Raghib aveva
due appartamenti e una casa dove viveva, lui era minatore scelto nella
miniera di Golesh, anche la moglie e il figlio lavoravano in miniera.
Adesso non hanno lavoro, «viviamo con la raccolta di carta e ferro che
troviamo nei container che lasciano nella zona industriale» dice Fadi,
il genero di Raghib. E le vostre case?chiedo a tutti quelli che ormai
riempiono la baracca: «Sono arrivati gli albanesi e le case sono state
bruciate - rispondono quasi in coro - tutte bruciate. Come possiamo
tornare senza protezione e senza le nostre case? Eravamo minacciati
ogni giorno, facevano il segno del coltello che taglia il collo.
Perché non ce lo vengono a chiedere a noi che pensiamo
dell'indipendenza?». «Noi siamo la prova di quanto sarebbe ingiusta
l'indipendenza di una sola etnia - risponde Raghib - ma se torno trovo
il coltello, è la democrazia del coltello. Vogliono vivere soli, che
vivano da soli. Che torno a fare e che mondo è questo?».

Parlano senza speranza, parlano rom, la musicalità di una lingua
preziosa e ricca irrompe nella miseria circostante. Ridono, perché ci
presentano le piccole del campo che arrivano a frotte anticipate da
Saba e Sirya, di 8 e 6 anni, le due figlie di Raghib e dalla piccola
«zia» Bera di 9 anni. Hanno occhi luminosi e neri, sembrano irreali.
Vengono dal silenzio. Nero è il loro cielo.

Proprio sul Danubio, tornando verso Belgrado, dopo il ponte di Pancevo
il polo industriale chimico devastato dai bombardamenti della Nato e
considerato, dopo Chernobyl, il posto più inquinato d'Europa, si
stende Karaburma (anello nero), l'altra immensa baraccopoli di zingari
cacciati dal Kosovo, con una predominanza di persone che vengono da
Djakovica, Pec e Pristina. Aveva ragione Raiko Djuric a dire che a
paragone il campo di Grmec era oro. Qui non ci sono nemmeno le finte
murature e i calcinacci di gesso, ma solo cartone, lamiere e tende. Ed
è qui che incontriamo una comunità di «cittadini», la famiglia Ghalyc
che viene dalla capitale del Kosovo. «A Pristina - ci racconta il capo
famiglia Vojan - nella via Moravska vivevano più di 22.000 rom,
avevamo case a due tre piani, terre, officine, aziende artigiane,
c'erano professionisti, intellettuali. Ora non ne è rimasto nemmeno
uno. Così come hanno costretto a fuggire la piccola comunità ebraica
di Pristina, ma nessuno lo racconta. Anche la comunità croata di
Jajevo (agnello) è dovuta scappare».


«Noi non esistiamo»

«Vedi che bel servizio ha fatto il nazionalismo - commenta il «re»
Raiko Djuric - nella Federazione jugoslava abbiamo avuto anche un
ministro zingaro, Drakisha Svetkovic, e ora siamo solo profughi o
ospiti. Se i serbi cacciati dal Kosovo sono cittadini di serie B nella
Serbia dilaniata dalla crisi economica, senza lavoro e prospettive,
dove la vita è cara come in Europa, noi zingari semplicemente non
esistiamo. Così vaghiamo qui, in Macedonia, in Italia, soprattutto a
Milano; molti, 46.000, sono arrivati in Germania perché anche quando
c'era l'embargo rimaneva il canale aperto con l'Ungheria. Da lì era
facile entrare in Germania. Ma ora non passa settimana che un po' alla
volta con vagoni e pullman li rispediscono «a casa»: non in Kosovo
naturalmente, ma qui in Serbia».

Ora il Parlamento mondiale dei rom che sta per riunirsi si prepara a
chiedere i danni di guerra perché nei loro confronti è stato
perpetrato un genocidio e per pretendere dalle Nazioni unite e dalle
corti internazionali che siano trovati i colpevoli. Ma è una storia
che sembra avere perso la sua colonna sonora di speranza.

Nei campi che abbiamo attraversato abbiamo chiesto che fine ha fatto
la musica. Preferiscono non parlarne. Non che non amino i loro ottoni.
Ma si sentono strumentalizzati dai serbi. Prima li usavano in testa
alle loro battaglie, ora esportano la musica rom che in fondo
considerano solo folklore ma con l'etichetta dell'ultimo Goran
Bregovic che invece «è arte». Se i Balcani sono le banlieue d'Europa,
gli zingari che cosa sono?