GLI ANNIVERSARI DELL'URSS


1) D. Kovacevic: 8 dicembre 1991

2) A. Catone: 7 novembre 1917


=== 1 ===

8 DICEMBRE 1991

L'8 dicembre 2006 si sono compiuti 15 anni dal formale
scioglimento dell'URSS.

Dopo una serie di mosse sbagliate di Gorbiaciov, in data
del 8/12/1991, i leaders della Russia, Bielorussia ed Ucraina
firmarono l'accordo sulla creazione della Comunità degli Stati
Indipendenti (CSI). In questo modo, cessò la sua esistenza
l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, fondata nel
1922. Nel corso del 1991, tante repubbliche sovietiche già avevano
lasciato autonomamente l'Unione.

I rappresentanti dei suddetti Stati firmarono questo "accordo", se
ben ricordo, in una dacia in Bielorussia, bevendo pesantemente,
parlando di tutto il resto dei possibili temi di questo mondo
- dato che avevano raggiunto l'intesa già da prima, si capisce...
Dopo aver messo le firme, si ubriacarono tutti e caddero assopiti.
Eltsin per primo, perdette coscienza e si addormentò nei fumi
dell'alcool e nell'amnesia che gli ha fatto dimenticare quei 71
anni precedenti di uno Stato glorioso.

Gli anni seguenti furono i peggiori possibili per la Russia e
gli altri paesi dell'ex-URSS. La crisi economica sprofondò
ancora nell'ulteriore caos. Tanta gente rimase per strada,
diventando veri senza-tetto, fino a morire congelati. La durata
media della vita si accorciò di un decennio, se non di più. Ed è così
tuttora.

Nel contempo, i nuovi leaders recitarono i ruoli dei tutori di
tanti nuovi "imprenditori democratici". I capitali uscivano dal paese
con un ritmo di 100 miliardi di dollari annui, e di più. Le
imprese da privatizzare, di una grandezza di 600 operai in media,
erano messe in vendita a non più di 500 dollari. Un appartamento a
Mosca si offriva per 1,5 dollari, giusto per coprire le spese di
compravendita. Il fondo della crisi arrivò dopo qualche anno,
verso il 1995 o 1996, nell'autunno. Fu il momento in cui, come
al solito, mentre si intravvedeva un spiraglio di luce, di minima
prosperità, si sprofondò nella crisi del raccolto, la crisi delle
patate.

Ci sono tanti che valutano che l'Unione Sovietica avrebbe
potuto r/esistere ancora per un buon periodo. E ci sono
quelli che considerano la sua caduta naturale, insieme con
la "naturale" scomparsa del socialismo, dove questi ultimi, mi
sembra, ragionano come se fossero eterni e immortali il che darebbe
loro il diritto di esprimere dei giudizi definitivi, come se il
XX secolo fosse stato il periodo ultimo e conclusivo di tutti i
processi sociali in questo mondo, e come se, guardando dalla
postazione odierna, nel XXI secolo, varianti diverse non possano
più esserci!

Oggi, i souvenir ex-sovietici, dopo un periodo di loro perdità
del "fascino" commerciale e per via della stessa amnesia "alla
Eltsin", vanno a ruba nuovamente. Ci sono prodotti di tutti i tipi.
Anche E. Evtushenko, invano, cantò più o meno questi versi:

"non sono un comunista / ma quando vedo la bandiera sovietica /
in vendita sul mercato dei pulci di Pietrovka / per un dollaro /
non posso far altro / che piangere."

Forse, piangere, potrebbero farlo ora in tanti.

D. Kovacevic


=== 2 ===

Il nostro Ottobre

Commemorare l’Ottobre sovietico da tempo non è più di moda né
politically correct per la “sinistra”. Si preferisce piuttosto
tributare onori ad altri “ottobre”: la “caduta del muro di Berlino”
nel 1989 o l’insurrezione anticomunista di Budapest nel 1956,
salutata dal presidente della repubblica Napolitano e dal presidente
della camera Bertinotti – l’uno ex comunista, l’altro leader di un
partito che si richiama alla rifondazione comunista - come la vera
rivoluzione anticipatrice delle “rivoluzioni” del 1989-91 che
segnarono la fine delle democrazie popolari e dell’URSS, di quel
lungo ciclo storico che percorre il “secolo breve”, inaugurato
appunto dalla rivoluzione d’ottobre. Il cerchio sembra chiudersi. Il
giudizio della storia – si dice – è stato indiscutibilmente
pronunciato: quella rivoluzione (ma qualcuno tra i pentiti del
comunismo ha sposato persino la tesi del putsch, del colpo di stato)
ha prodotto indicibili orrori ed è finita in un cumulo di macerie. Da
qui una condanna senza appello, la rimozione di quella storia, la sua
cancellazione dal calendario degli anniversari che occorre ricordare
alle nuove generazioni per la loro formazione comunista. E chi
pretende di richiamarsi alla storia delle rivoluzioni comuniste del
‘900 aperta dall’Ottobre sovietico viene etichettato di nostalgico,
irrimediabilmente incapace di leggere le sfide del tempo presente.
Questa è al momento la tendenza prevalente – salvo meritorie
eccezioni – nella cultura politica della “sinistra”, degli eredi di
quel che fu il partito comunista italiano e della “nuova sinistra”
sessantottina e post-sessantottina, in Italia e in molti paesi del
mondo. Questa situazione è ben presente ai comunisti che resistono,
che non accettano la cancellazione di una storia, di un progetto di
società, di un’identità che ha segnato profondamente la storia del XX
secolo e che ora si vuole condannare al silenzio e all’oblio.
Di contro a questa tendenza maggioritaria e devastante, che tutto
sembra travolgere nella sua furia iconoclasta, da cui non si salvano
non solo i bolscevichi – va da sé – ma neppure Marx, anzi, neppure
Rousseau e i giacobini francesi e chiunque abbia odore di
rivoluzionario (l’unica “rivoluzione” oggi ben accetta è la
controrivoluzione!), la prima reazione immediata e appassionata è
quella di sollevare alta al vento la propria rossa bandiera e gridare
con quanta voce si ha in corpo: viva Lenin! Viva la rivoluzione
d’Ottobre, che ha aperto la strada alla liberazione dei popoli dal
giogo coloniale e imperialistico! Viva il partito bolscevico che ha
saputo – unico tra i partiti socialisti della II Internazionale –
dire guerra alla guerra e rovesciare la guerra imperialista in guerra
rivoluzionaria! Viva l’Internazionale comunista, che ha formato una
generazione di comunisti capaci di lottare nella clandestinità contro
il fascismo e di guidare le resistenze in Europa! Viva l’Unione
sovietica, che con l’armata rossa e la resistenza dei suoi popoli è
stata determinante nella sconfitta del nazifascismo! viva l’URSS che
nel secondo dopoguerra ha saputo fronteggiare l’imperialismo
americano e ha favorito, con la sua sola esistenza la resistenza
vietnamita, la liberazione di Angola e Mozambico, le lotte
anticoloniali, la rivoluzione cubana e le lotte popolari in America
Latina! Viva la rivoluzione che, prima nella storia, ha provato a
costruire una società senza privilegi di casta, senza proprietà
capitalistica, fondata sull’idea di uno sviluppo razionale ed
equilibrato dell’economia attraverso il piano!
E questo diciamo e ricordiamo a chi vuole cancellare dalla storia il
comunismo del ‘900. Ma non basta, e anzi, se rimane soltanto un grido
esacerbato nel deserto contro l’infamia e la calunnia, può essere
anche una reazione impotente, l’indice di una debolezza strategica.
La commemorazione fine a se stessa non ha mai interessato i
comunisti. Il giovane Gramsci in uno dei suoi articoli appassionati
accusava il partito socialista di aver ridotto Marx ad un’icona, un
santo al capezzale, da rispolverare per le occasioni, le
commemorazioni, le ricorrenze, per poi lasciarlo marcire in soffitta
per tutto il resto dell’anno, evitando scrupolosamente di trasformare
in azione politica vivente il suo pensiero critico.
Ricordare, difendere, approfondire la memoria storica è utile e
necessario nella misura in cui riusciamo a tradurre questa memoria in
azione culturale e politica, in consolidamento e accumulazione delle
forze comuniste, in formazione comunista per le nuove generazioni.
Non siamo qui per agitare bandiere o icone, non siamo i nostalgici
(anche se questa “nostalgia” comunista è sentimento che merita
rispetto) di un paradiso perduto, di illusioni non realizzate, di un
nobile sogno, di un’utopia irrealizzabile. Se il 7 novembre 1917 è
ancora una data che riteniamo di dover ricordare e onorare non è solo
per un doveroso omaggio agli eroici furori di un tempo che fu, non
intendiamo essere gli avvocati d’ufficio della rivoluzione. L’Ottobre
sovietico non ne ha bisogno né di questo hanno bisogno i comunisti oggi.
Di altro c’è urgente bisogno. In primo luogo di riappropriarsi della
propria storia comunista, contro ogni demonizzazione, ma liberi anche
da ogni mitizzazione. Il comunismo nasce come critica – critica
teorica dell’economia politica borghese nel “Capitale” di Marx e
critica come prassi (e anche l’agire teorico è un’azione pratica
nella misura in cui influisce sulla trasformazione dei rapporti
sociali), pratica politica per l’abolizione dello stato di cose
presente, per il rovesciamento dei rapporti di proprietà borghese
nella proprietà comunista. Occorre sapersi riappropriare criticamente
della propria storia comunista del ‘900. Sono gli altri, la parte
borghese e anticomunista a scrivere oggi questa storia – in parte
molto rozzamente, in parte con mezzi più raffinati che fanno leva
anche sulle centinaia di migliaia e milioni di documenti di storia
sovietica e dei paesi che furono democrazie popolari resi oggi
accessibili agli studiosi. Su questo terreno noi oggi siamo rimasti
indietro. Chiunque abbia provato a scrivere di storia sa che è
attraverso la selezione che lo studioso opera della documentazione
d’archivio che si può delineare un quadro in un modo o nell’altro. I
documenti – verificatane filologicamente l’autenticità – riportano i
fatti, ma all’interno di una massa che come nel caso russo è davvero
straordinaria (6 milioni di documenti all’archivio centrale russo) si
possono selezionare alcuni elementi e ometterne altri. Così la storia
dell’URSS può anche essere ridotta a quella di un immenso Gulag e la
carestia in Ucraina negli anni trenta può essere attribuita a un
qualche diabolico piano staliniano di eliminazione fisica di una
nazione. È tempo di commemorare l’Ottobre dotando i comunisti degli
strumenti adeguati per rispondere all’azione denigratoria e alla
demolizione dell’esperienza storica del comunismo del ‘900.
Ma non si tratta solo di risposta alla diffamazione storica. Il
lavoro che i comunisti possono e debbono intraprendere oggi nella
conoscenza della storia delle rivoluzioni non può essere
principalmente “reattivo”, non deve nascere cioè solo come risposta
agli attacchi. Lo studio appassionato e critico della nostra storia
deve saper giocare d’anticipo – per dirla con una battuta: non
bisogna aspettare agosto 2008 per lavorare su un’adeguata
comprensione di ciò che portò i carri armati dell’URSS a Praga. I
comunisti devono concepirsi e organizzarsi come soggetto autonomo,
che assume l’iniziativa anche sul terreno insidioso e fondamentale
della lotta culturale, senza attendere che siano altri a scegliere e
determinare il terreno sul quale misurarsi.
La storia – in tutti i suoi aspetti - delle rivoluzioni comuniste del
‘900 va studiata e approfondita dotandosi di tutti gli strumenti
adeguati per un lavoro critico collettivo non solo per battere il
“revisionismo storico”, ma perché in essa vi è un bagaglio di
esperienze fondamentali per la lotta politica di oggi, per le sue
prospettive. Per citarne solo un aspetto: il terreno della
costruzione di una nuova organizzazione economica fondata su una
proprietà prevalentemente pubblica, statale, e in diversi casi
sociale. Quell’organizzazione economica, tanto ammirata anche dai
paesi in via di sviluppo poiché riuscì a dotare l’URSS in pochi anni
di un grande apparato industriale, portandola a competere in alcuni
campi con i più avanzati paesi capitalistici, non riuscì a passare
alla fase superiore di un’economia intensiva ad alta produttività. E
ciò fu certamente una delle cause che condussero il paese
dell’Ottobre all’ingloriosa fine del 1991. Ma intanto i bolscevichi e
i comunisti delle democrazie popolari la questione della
organizzazione e gestione di un’economia socializzata la posero e con
essa si misurarono, conseguendo alcuni successi accanto a pesanti
sconfitte. Questo grande patrimonio di esperienze, di teoria
dell’economia politica del socialismo, di pratiche, non può essere
gettato nel dimenticatoio da chi si propone il fine del superamento
della proprietà borghese in proprietà socialista. Solo chi ha
abbracciato un nuovo bernsteinismo e ritiene che il movimento sia
tutto e il fine nulla - e che nulla si può e si deve dire circa una
società socialista, ma aspettare che qualcosa sgorghi da sé, dalle
contraddizioni della società – può eludere il riferimento a questa
esperienza. Ma le contraddizioni del capitalismo, come Walter
Benjamin aveva ben intuito, non portano inevitabilmente al
socialismo, e senza l’azione cosciente e organizzata, diretta a un
fine, possono portare alla distruzione della civiltà: socialismo o
barbarie…
Il frutto peggiore dell’ideologia della fine delle ideologie e della
rimozione della storia comunista è il totale oscuramento delle
prospettive della trasformazione futura della società. La tattica, in
un presente senza storia, senza passato e senza futuro, è diventata
il pane quotidiano di buona parte del personale politico ex comunista
o pseudocomunista. A ben guardare, non è altro che apologia del
capitalismo presente. La coltre di oblio che copre la storia aperta
con l’Ottobre mira anche – e soprattutto - a questo: non solo a non
fare i conti con la storia comunista, ma ad eludere soprattutto la
questione della prospettiva comunista. Il ceto politico nichilista ex
comunista o pseudocomuista non è in grado e non vuole andare al di là
della tattica quotidiana.
Studiare l’Ottobre - e ricordarlo oggi, come si è chiarito, non
intende agitare bandiere ma costruire scienza comunista per la
costruzione di una società socialista - ci consente invece di pensare
ed agire strategicamente, senza elevare la tattica a fine in sé.
Pensare in termini strategici e non solo reattivi. Questo oggi ci
manca, di questo abbiamo bisogno, a questo ci induce oggi la
commemorazione di quel grande spartiacque della storia che fu il 1917
russo. La grandezza dei nostri grandi maestri – di Lenin in primo
luogo – è stata quella di aver saputo collocare ogni scelta tattica
all’interno di una grande prospettiva, ponendo in primo piano la
questione strategica. Pensare strategicamente significa costruire le
condizioni perché siano i comunisti a determinare il terreno su cui
porre le grandi questioni. Reagire, rispondere agli attacchi e alle
provocazioni dell’avversario è doveroso e giusto, ma la sola reazione
non ci fa compiere il salto di qualità di cui i comunisti hanno oggi
più che mai bisogno. L’agenda del mondo, l’agenda delle grandi
questioni culturali di importanza strategica non devono imporcela
altri, ma deve essere posta dai comunisti.
Commemorare oggi l’Ottobre significa allora pensare strategicamente
per la ricomposizione e il rilancio su scala mondiale del movimento
comunista. Un fattore importante per questo pensiero strategico è la
costruzione, coordinando forze e intelligenze, capaci di leggere la
nostra storia e di analizzare le contraddizioni mondiali e il loro
sviluppo, pensando la rivoluzione, il che significa individuare nelle
contraddizioni dell’imperialismo le premesse non solo per una
resistenza dei popoli alle aggressioni, ma anche della possibile
trasformazione della guerra in rivoluzione, della resistenza
nazionale in percorso di transizione socialista. Commemorare oggi
l’Ottobre significa passare dalla resistenza reattiva alla
“resistenza strategica”. Non si può essere soltanto “anti”:
anticapitalisti, antifascisti, antimperialisti. L’Ottobre russo non
fu solo contro la guerra, non fu “pacifista”, non fece solo “guerra
alla guerra”, ma trasformò la guerra in rivoluzione sociale.
Pensare strategicamente significa sapersi dotare oggi anche degli
strumenti culturali per la trasformazione socialista nel XXI secolo.
Non guarderemo allora alla storia del comunismo novecentesco come una
testimonianza del passato da salvaguardare dalle intemperie e
intemperanze dei nuovi barbari, come monaci amanuensi che salvano i
tesori perduti dei classici antichi, ma come una miniera preziosa, un
tesoro di esperienze da cui apprendere, un patrimonio di inestimabile
valore in cui affondano le radici della nostra identità e del nostro
futuro. Non vivremo così immersi nella tattica quotidiana di un
presente senza storia, ma nella prospettiva strategica della
costruzione delle condizioni della rivoluzione, che è nelle cose
presenti.

Andrea Catone

Fonte: www.resistenze.org