(Sulle iniziative di cui si parla qui si veda anche:

https://www.cnj.it/INIZIATIVE/appellokosmet07.htm



E' arrivato il momento di riaprire il "caso Kosovo"

Ricominciamo a discutere della natura e della necessità della missione militare italiana in quelle terre 

di Fosco Giannini - senatore Prc-Se da Liberazione del 30/05/2007

 

«In quale momento - si chiede  il filosofo sloveno Zizek ( "Centro per i diritti umani", 2006) - i Balcani, da regione sud orientale dell'Europa, diventano "i Balcani", con tutto ciò che significa oggi per l'immaginario ideologico europeo? E' questa la risposta : a metà del XIX secolo, quando i Balcani vengono investiti dagli effetti della modernizzazione europea... Da dove hanno avuto origine, dunque, i tratti fondamentalisti - l'intolleranza religiosa, la violenza etnica, la fissazione di un trauma storico - che ora l'Occidente associa alla propria idea de "i Balcani"? Evidentemente dall'Occidente stesso».
Potrebbe essere questo un punto di partenza per ricostruire i drammi recenti di questi popoli, che hanno sperimentato la brutalità dei piani di espansione della NATO e i piani egemonici degli Usa e delle diverse potenze europee, abili a sfruttare con cinismo quelle contraddizioni che erano, sì, riemerse alla fine degli anni '80, ma che avrebbero potuto essere governate con ben altri strumenti. I Balcani, da potenziale minaccia, dovevano essere "normalizzati", diventare terra di conquista : così è stato, con ogni mezzo e senza badare a spese. Nel delirio di una propaganda a senso unico, in Italia sono diventati eroi i nipoti degli ustascia croati e i mujaheddin fondamentalisti di Izetbegovic prima, e una organizzazione di criminali  fascisti, successivamente, in Kosovo. Improvvisamente, poi, almeno nel nostro paese, dopo la "guerra umanitaria" (78 giorni di bombardamenti contro ciò che rimaneva della Jugoslavia, con l'Italia di centro-sinistra protagonista e l'orrenda disseminazione dell'uranio impoverito) e dopo il golpe di Belgrado dell'ottobre 2000, sui Balcani e sul Kosovo è calato un assordante silenzio, durato più di un lustro. Con il solo, breve squarcio mediatico della morte di Milosevic.
Che cosa è accaduto in questi anni nella provincia serba a maggioranza albanese, militarmente occupata dalla NATO (Kfor) e amministrata da una delle missioni Onu (Unmik) più scandalosamente e ottusamente di parte che la storia, recente e non, ricordi? In estrema sintesi: 300.000 serbi, rom e albanesi non irredentisti cacciati dalle loro terre; 3.000 desaparecidos (1.300 dei quali dati per morti); un regime di vero e proprio apartheid con le minoranze costrette a vivere in enclavi circondate dal filo spinato; un intero patrimonio culturale distrutto e dato alle fiamme; testimoni scomodi eliminati. E' questo il Kosovo dell'Uçk, quel Kosovo che il "mediatore" Ahtisaari vorrebbe indipendente (con tanto di Costituzione e bandiera), stracciando la stessa risoluzione Onu 1.244 con la quale si era posto fine ai bombardamenti e rendendo così concreta la nascita dell'ennesimo narcostato nella regione, passaggio obbligato per armi, droga, esseri ed organi umani come nuove e orrende fonti di lucro.
Era questo, evidentemente, l'obiettivo vero della "guerra umanitaria", che basandosi sulla crisi dell'autogestione "titina" e sull' iniziale diaspora - su basi neo capitalistiche - jugoslava, puntava a portare a termine il processo di divisione dell'intera regione (tanto perseguito dall' Occidente e dal Vaticano), mettendogli una sola maschera: quella etnica e confessionale.
Se gli obiettivi fossero stati altri, in questi anni non sarebbe calato il silenzio: di fronte a una falsa strage come quella di Racak (riconosciuta tale dalla Commissione Onu) si è gridato al genocidio e ad Hitlerosevic, mentre di fronte a migliaia di morti e torturati è sceso il sipario.
La guerra della NATO e del governo D'Alema ha prodotto un quadro nefasto: oggi siamo di fronte sia al dramma sociale serbo che al vastissimo disagio della grande maggioranza della popolazione albanese e delle minoranze.
Il quadro internazionale attuale, però, non è quello della fine degli anni '90 del secolo scorso e per Usa e Ue la partita sarà più difficile. Le avvisaglie si sono già viste al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. La Russia di Putin - realtà ben diversa da quella di allora, quando Eltsin liquidò a inizio bombardamenti il governo progressista di Primakov con dentro i comunisti del Pcfr - non ha solo fatto emergere la propria contrarietà, ma ha fatto sapere che potrebbe applicare gli stessi principi alla Georgia, dove due regioni a maggioranza russa rivendicano la secessione da Tbilisi. Anche i cinesi - meno isolati certamente oggi di allora - hanno chiaramente manifestato la loro contrarietà ad un Kosovo indipendente.
Nonostante il piano di Ahtisaari sia stato intenzionalmente presentato dopo le elezioni politiche in Serbia per ovvie ragioni tattiche, il clima a Belgrado è teso, tanto che persino il presidente Tadic, di comprovata fede filo occidentale, è costretto a fare la voce grossa. I radicali, che hanno vinto di nuovo le elezioni - pur senza una chiara maggioranza - e possono contare sul Presidente del Parlamento, si dichiarano pronti a sostenere lo scontro. Kostunica, che incarna la parte meno compromessa di quello che è stato il fronte di opposizione a Milosevic, si è da tempo schierato contro, tanto da non aver neanche voluto incontrare Ahtisaari. Stessa cosa hanno fatto i socialisti e i frammenti di ciò che resta della sinistra comunista o "jugoslava". Tutti, anche a Belgrado, giocano le proprie carte, a partire, ovviamente, dallo stesso Tadic, ma tutti, anche nell'ormai separato Montenegro, hanno potuto vedere la condizione e ascoltare i racconti di quei profughi kosovari che vivono come fantasmi nei campi alla periferia di Belgrado o Podgorica, o nel sud della Serbia. Quella condizione che l'Occidente vuole nascondere, quei racconti che l'Occidente non vuole si conoscano.
E' ora che in tutte le sedi - politiche, sociali, istituzionali - si riapra il "caso Kosovo". Ricominciando anche a discutere della natura e della necessità, senza darla più per scontata, della missione militare italiana in quelle terre.

  


«Verità e giustizia per i popoli del Kosovo Metohija».
           
Conferenza stampa al Senato della Repubblica
 

 

«Verità e giustizia per i popoli del Kosovo Metohija». Con queste parole d’ordine, giovedì 31 maggio, nella sala conferenze stampa di palazzo Madama, il senatore Fosco Giannini, con il contributo di autorevoli rappresentanti parlamentari e della società civile, del calibro di Mauro Bulgarelli, Lidia Menapace, Franca Rame, Heidi Giuliani, Luana Zanelli, Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, ed Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado-Italia, ha riacceso i riflettori su un conflitto “umanitario” ormai passato in sordina: la guerra dei Balcani. «Abbiamo voluto fare questa conferenza stampa - ha spiegato il senatore comunista, Fosco Giannini – perché su quel conflitto è calato un sipario che tenteremo di rialzare. Quello che attualmente rimane è la vittoria della Nato e la sofferenza dei popoli, ma le notizie che arrivano preannunciano la possibilità di un nuovo conflitto civile. Condizione che l’Occidente vuole nascondere, racconti che l’Occidente non vuole si conoscano. E’ ora che in tutte le sedi politiche, sociali, istituzionali, si riapra il “caso Kosovo”. Ricominciando anche a discutere della natura e della necessità, senza darla più per scontata, della missione italiana in quelle terre. In questo – ha aggiunto il senatore Giannini – ma anche per le altre operazioni militari italiane, spero che tutta la sinistra riesca, con l’unità, a spostare l’asse attuale del governo Prodi». Nulla si è risolto, quindi, dopo che le forze Nato, il 24 marzo del ‘99, anche con l’appoggio dell’Italia, con l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, sono intervenuti per risolvere un conflitto etnico che ha interessato tutta l’area dei Balcani. Oggi, il Forum di Belgrado, che raccoglie eminenti personalità culturali e politiche della Serbia, denuncia i pericoli di nuove, violente, conflittualità e destabilizazioni, legate agli esiti dei negoziati a proposito della definizione dello status futuro della provincia serba del Kosovo. La denuncia, che viene resa pubblica nel corso della conferenza stampa, tramite un manifesto appello, è quella che, nella vittoria militare e nel raggiungimento degli obbiettivi politici e geostrategici della Nato e della comunità internazionale, vuole sottolineare il totale fallimento per i popoli della regione. «Il risultati di quell’impegno militare - ha affermato Enrico Vigna – sono tutt’altro che rassicuranti: quasi 300mila profughi di tutte le etnie, in maggioranza serbi e rom, scacciati dalla propria terra; più di 3000 casi di desaparesidos, di cui 1300 gia dati per morti, rapiti dal marzo ’99 ad oggi; quasi 100mila persone che vivono rifugiati in poche decine di enclavi, sopravvissute alle violenze e alla pulizia etnica dei secessionisti albanesi, veri e propri campi di concentramento a cielo aperto; centinaia di migliaia di case bruciate e distrutte; 148 monasteri e luoghi di culto ortodosso distrutti o danneggiati dalle forze criminali dell’Uck». In altre parole, una regione senza più apparati produttivi, con altissimo tasso di disoccupazione, completamente uranizzata dai bombardamenti e dove i dati sulle nascite malformi o i decessi sono top secret, «ma basta parlare con i sanitari del posto – ha sostenuto lo stesso Vigna - per farsi un’idea della situazione reale». Di tutte le promesse e gli obbiettivi che furono annunciati dall’inizio del conflitto, insomma, nulla è stato mantenuto e raggiunto; la realtà quotidiana di oggi, stando a quanto denunciato nel corso della conferenza stampa, è un alto tasso di illegalità e criminalità diffusa, la violazione di ogni elementare diritto umano e civile, dove migliaia di uomini, donne e bambini vivono in condizioni disumane, senza lavoro, sanità, educazione, diritti. Tutto ciò mentre iniziano le trattative per la definizione del futuro status della regione serba, ancora sotto il protettorato internazionale. Le spinte delle forze secessioniste kosovare albanesi vanno in direzione dell’indipendenza come unico obbiettivo non trattabile, cosa che aprirebbe sicuramente nuovi scenari di tensioni internazionali, con in più i rischi di ulteriori destabilizzazioni non solo nel Kosovo e nella Serbia, ma anche in Macedonia, Bosnia, Montenegro, Bulgaria e nella stessa Grecia settentrionale, stando alle previsioni fatte. La seconda ipotesi, invece, caldeggiata dal Forum, che si contrappone alla prima, la quale potrebbe rappresentare un precedente pericoloso, sarebbe, invece, quella di raggiungere l’autonomia della regione sotto una diretta osservazione, secondo i principi dell’Onu e del diritto internazionale. L’unica certezza, come quella che rimane in tutte le guerre di massa, dirette eredi delle guerre del secolo scorso, è che sarà più facile ricostruire gli edifici distrutti che le vite dei sopravvissuti. In particolare quelle di donne e bambini, come ha fatto emergere la parlamentare Franca Rame: «50.000 è il numero delle donne violentate. Queste sono le prime vittime, insieme ai bambini, della guerra». In particolar modo delle guerre mascherate dal carettere etnico. Guerre che sembra non riguardino l’Europa. Ma ciò di cui stiamo parlando, ha ammonito la senatrice Lidia Menapace, «è Europa, il più cruento di tutti i continenti. Noi siamo un continente che non ha molto di cui vantarsi. Ciò che succede è lasua storia. In più – ha aggiunto – bisognerebbe fare delle censure culturali: la porola etnia va cancellata. Bisogna mutare questo atteggiamento, chiarendo che non c’è niente di assoluto per quello per cui ci ammazziamo». Anche Don Andrea Gallo non ha risparmiato qualche bordata, in particolare al suo ambiente, circa il disinteresse che oscura i fatti del Kosovo: «Il cardinal Bertone è stato abbondante di commenti sul Family Day, ma nulla ha detto sui 148 monasteri ortodossi distrutti», arrivando anche a definire l’amministrazione Bush «terrorista». Ma resta, comunque, il problema di come intervenire per evitare ogni possibile nuova tragedia su un popolo ed un paese già fortemente provati da un’intensa guerra tra la sua stessa genta. Così come invita a fare al governo italiano Z. Jovanovic, ex ministro degli Esteri della Jugoslavia e presidente del Forum Belgrado, intervenuto in collegamento telefonico nel corso della conferenza stampa: «Diciamo no ad un altro stato albanese. La situazione reale è molto lontana dall’obbiettivo di una società multi etnica e multireligiosa. Rispettiamo la posizione dell’Italia, membro influente del G8 e dell’Europa, ma siamo sconcertati nell’apprendere che la sua posizione è cambiata. Per questo, invitiamo a riflettere su una soluzione che si basi sui principi dell’Onu e del Diritto Internazionale».

 

Di Antonio Callà