(Nel 94.esimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, 7 novembre 1917-2011)
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Ottobre rosso in Asia orientale
5 Novembre 2011
di Spartaco Puttini per Marx21.it
La rivoluzione russa e la lotta dei popoli oppressi contro l’imperialismo
“Quando la storia della prima metà del ventesimo secolo […] verrà scritta in una più ampia prospettiva, è difficile che un solo tema si riveli più importante della rivolta contro l’Occidente" [1] . [Geoffrey Barraclough]
La Rivoluzione d’Ottobre aprì una fase nuova nella storia, tanto per quel che riguarda le masse popolari dei paesi occidentali, quanto per quel che concerne la riscossa dei popoli coloniali.
Tra gli effetti ad oggi più duraturi della Rivoluzione d’Ottobre vi è senza dubbio quello di aver concorso in modo determinante al risveglio dei popoli sottoposti al colonialismo. E’ di questo aspetto che cercheremo di dare conto nelle righe che seguono, con una particolare attenzione all’Asia orientale dove nel corso del Novecento si svilupparono vittoriosamente due grandi rivoluzioni nazionali e antimperialiste (egemonizzate dai comunisti): quella cinese e quella vietnamita. Due rivoluzioni che contribuirono come poche altre a cambiare la storia del mondo. Oggi che l’Asia orientale con al suo centro la Cina emerge prepotentemente è il caso di interrogarsi sulle radici lunghe di quelle esperienze.
- “L’imperialismo” di Lenin
La condanna delle spedizioni militari nei paesi africani e asiatici e la condanna dei crimini e delle repressioni compiute dalle truppe coloniali oltremare erano già oggetto di attenzione da parte dei partiti socialisti della II Internazionale. L’agitazione di queste forze era per lo più incline a sottolineare il valore dell’antimilitarismo, tradotto nello slogan: “più burro, meno cannoni”. Ma i socialdemocratici non erano mai arrivati a comprendere fino in fondo la causa dei popoli oppressi e il legame che correva tra la loro liberazione e l’emancipazione delle classi lavoratrici nelle metropoli imperialiste. Non senza scopi polemici un pamphlet del Partito comunista francese, risalente all’incirca al 1927 ed indirizzato ai militanti e ai quadri di partito per spiegare loro l’importanza della questione nazionale e coloniale, così stigmatizzava la posizione della II Internazionale in merito:
“[la questione nazionale] era allora limitata quasi esclusivamente alla questione dell’oppressione delle nazioni ‘civili’. Irlandesi, ungheresi, polacchi, finlandesi, serbi: questi erano i principali popoli più o meno asserviti le cui sorti interessavano la II Internazionale. Quanto ai milioni di asiatici, e d’africani, schiacciati sotto il giogo più brutale, quasi nessuno se ne preoccupava. Sembrava impossibile mettere sullo stesso piano i bianchi e i neri. I ‘civili’ e i ‘selvaggi’. L’azione della II Internazionale in favore delle colonie si limitava a rare e vaghe risoluzioni dove la questione dell’emancipazione delle colonie era cautamente evitata” [2].
Il pamphlet del PCF mostrava come prima del 1917, anche all’interno del movimento operaio, vi era stato uno sguardo miope e venato di paternalismo verso i popoli oppressi dal colonialismo. Anche se si condannavano le modalità dell’amministrazione coloniale, la conquista di altri paesi ritenuti meno civili (e quindi bisognosi di essere educati sulla via dello sviluppo) non veniva messa in discussione. Questo faceva filtrare marcatamente il mito del “fardello dell’uomo bianco” anche nelle elaborazioni delle forze più progressiste.
Con l’elaborazione di Lenin la questione assume altri connotati. Lenin, con la sua analisi dell’imperialismo, lega indissolubilmente il problema della liberazione dei popoli oppressi (includendovi i popoli colonizzati) con la lotta del proletariato nelle metropoli. Questione nazionale e questione coloniale vengono così fuse. La lotta contro l’imperialismo deve essere portata da tutte le sue vittime. L’alibi del presunto “fardello dell’uomo bianco” che a frustate, se necessario, deve occuparsi di portare i popoli ‘incivili’ sulla via della ‘civiltà’ capitalistica viene smascherata come pura ambizione di dominio e di sfruttamento. Alcuni anni dopo lo scoppio della rivoluzione d’ottobre Lenin avrebbe sottolineato come “il movimento rivoluzionario dei paesi più progrediti sarebbe in realtà solo un inganno, senza l’unità più completa e più stretta tra gli operai in lotta contro il capitale in Europa e in America e le centinaia di milioni di schiavi coloniali oppressi da quel capitale”, sottolineando il legame tra i due fronti della lotta all’imperialismo [3].
Da allora la questione nazionale e la categoria di imperialismo entrarono a far parte della più ampia visione dell’internazionalismo propria del movimento comunista.
- Il Komintern e la rivoluzione nel mondo coloniale
Quando i bolscevichi conquistano il potere nel 1917 chiamano alla sollevazione il proletariato europeo. Con i primi passi dello Stato sovietico si rivolgono apertamente ai popoli coloniali. Lo fanno in quanto rivoluzionari (tramite la costituenda Terza Internazionale) e in quanto primo paese sfuggito alle grinfie dell’imperialismo e chiamato, dalle circostanze concrete, a traslare lo scontro tra le classi a livello di Stati, svolgendo un ruolo di contrasto alle pretese delle grandi Potenze predatrici. Le colonie vengono allora raffigurate come le “retrovie” dell’imperialismo, dove questo può attingere risorse per restare in piedi. La rivolta delle retrovie assume pertanto un rilievo prioritario per lo Stato sovietico e per il movimento comunista internazionale.
Al III Congresso del Komintern Lenin rilevò come “Centinaia di milioni di uomini (praticamente la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) appaiono ora sulla scena come fattori rivoluzionari autonomi ed attivi, ed è chiaro che nelle prossime decisive battaglie della rivoluzione mondiale il movimento della maggioranza della popolazione del globo, che in origine era orientato verso la liberazione nazionale, si rivolgerà contro il capitalismo e contro l’imperialismo e assumerà probabilmente un ruolo rivoluzionario molto più importante di quanto non ci aspettiamo”[4].
Alcuni anni dopo, al XII Congresso del partito bolscevico, Stalin ribadì con estrema chiarezza il significato che le lotte dei popoli coloniali rivestivano nel quadro della lotta tra la rivoluzione e l’imperialismo: “Una delle due: o noi mettiamo in movimento le retrovie profonde dell’imperialismo, i paesi coloniali e semicoloniali dell’Oriente, infondiamo loro lo spirito rivoluzionario e acceleriamo così la caduta dell’imperialismo, oppure non ci riusciamo, e allora rafforziamo l’imperialismo e indeboliamo la forza del nostro movimento. La questione si pone in questi termini”[5].
Nel 1920 venne convocato a Baku il Congresso dei popoli dell’Oriente. L’evento era indicativo dell’orientamento che aveva preso tanto il movimento comunista internazionale, quanto la Russia sovietica e rappresentò una “pietra miliare”[6] per lo sviluppo dei movimenti di liberazione asiatici. Per la prima volta circa 2mila delegati provenienti da ogni parte dell’Asia si incontrarono per confrontarsi tra loro su come liberarsi dalla dominazione occidentale.
Nel suo II Congresso il Komintern aveva stabilito un’analisi della situazione coloniale e aveva avanzato la tesi dell’alleanza dei comunisti con le forze che nei paesi coloniali e semicoloniali si battevano conseguentemente contro l’imperialismo e per la conquista della piena indipendenza. A queste correnti andava fornito tutto l’appoggio possibile, sia da parte dei locali partiti comunisti, che sulla base della loro piena autonomia erano chiamati a stabilire con le correnti del nazionalismo rivoluzionario un’organica alleanza strategica, sia da parte dell’Unione Sovietica.
Nelle tesi del IV Congresso del Komintern sulla questione orientale si sostiene chiaramente l’appoggio alle correnti del nazionalismo-rivoluzionario in lotta contro l’imperialismo[7].
Il primo esempio e il banco di prova di questa strategia fu la rivoluzione nazionalista cinese del 1925-1927. La decisione unilaterale assunta dalla Russia di rinunciare ai privilegi strappati alla Cina dal regime zarista, avevano convinto il vecchio agitatore nazionalista Sun Yat-sen a guardare verso le cupole del Cremlino impostando in modo nuovo la questione della liberazione della Cina. Sun comprese che la comparsa sulle scene dell’Unione Sovietica creava una situazione nuova a livello internazionale. “La nascita della Russia rivoluzionaria aveva rotto oggettivamente il fronte internazionale imperialistico ed aveva creato un polo di riferimento per ogni lotta antimperialistica”[8]. Dopo aver riformato il Kuomintang (partito nazionalista rivoluzionario del popolo) su basi nuove stabilì un’alleanza con i comunisti (accettati all’interno del KMT) e con l’Unione Sovietica e accettò il ruolo e le rivendicazioni degli operai e dei contadini. Il suo programma si spostò notevolmente a sinistra rispetto al passato. Stabilito il suo governo a Canton, iniziarono ad arrivare gli aiuti sovietici in armi, istruttori militari e consiglieri politici. Questi sforzi miravano a consentire a Sun di disporre di una forza militare rivoluzionaria per unificare la Cina e schiacciare i “signori della guerra” feudali, alleati dell’imperialismo. Fu il primo passo della rivoluzione cinese che, dopo un tortuoso percorso, sarebbe sfociata nell’avvento al potere dei comunisti di Mao nel 1949.
- La rivoluzione russa vista dall’Asia orientale
Per valutare l’impatto che ebbe la rivoluzione russa sull’Asia occorre indagare come dal mondo coloniale, in particolare qui ci interessa l’Asia orientale, venne vista la rivoluzione russa. Tre testimonianze ci sembrano piuttosto emblematiche. La prima è quella del nazionalista vietnamita Nguyen Ai Quoc, il futuro Ho Chi Minh. Ho ha ricordato questo cruciale passaggio della sua vita in un articolo pubblicato nel luglio 1960 dal titolo significativo : Il cammino che mi ha condotto al leninismo. Il leader vietnamita ha rievocato le assidue riunioni nelle sezioni socialiste alla fine della prima guerra mondiale:
“A quell’epoca, nelle sezioni del partito…, si discuteva ardentemente per decidere se bisognava restare nella Seconda Internazionale, o creare un’internazionale due e mezzo, o aderire alla Terza Internazionale di Lenin. Assistevo regolarmente a tutte queste riunioni…All’inizio non ne comprendevo interamente il contenuto. Perché discutere con tanto accanimento? […] Si poteva fare la rivoluzione, perché accanirsi a discutere? … La questione che mi bruciava sapere era quale fosse l’Internazionale che sosteneva le lotte dei popoli oppressi. Nel corso di una riunione sollevai questa questione. Alcuni compagni risposero: è la Terza Internazionale e non la Seconda. E un compagno mi diede le Tesi di Lenin sui problemi delle nazionalità e dei popoli coloniali… Le tesi suscitarono in me una profonda emozione, un grande entusiasmo, una grande fiducia e mi aiutarono a vedere chiaramente il problema…Da allora ebbi fiducia in Lenin e nella Terza Internazionale. […] Dopo la lettura delle tesi di Lenin mi lanciai nella discussione…Il mio unico argomento consisteva nel domandare: ‘compagni, se voi non condannate il colonialismo, se non sostenete i popoli oppressi, quale è dunque la rivoluzione che pretendete fare?’”[9].
Diversa è la marcia di avvicinamento di un altro grande rivoluzionario asiatico: il generale Chu Teh, che sarebbe divenuto lo stratega militare della rivoluzione cinese e il fondatore dell’Esercito Popolare di Liberazione. Chu era già un militare di carriera ed era entrato nell’esercito proprio per salvare il suo paese dal colonialismo. Aveva fatto parte della cospirazione repubblicana del 1911 che aveva rovesciato la dinastia Manciù ed era stato un fedele seguace del rivoluzionario nazionalista Sun Yat-sen. Di fronte alla dissoluzione dell’autorità centrale, mentre la Cina sprofondava nell’anarchia e diveniva terreno di battaglia tra i signori della guerra, Chu aveva continuato a fare il soldato per sostenere la causa di Sun, ma questi aveva dovuto adottare la tattica di appoggiarsi ora all’uno ora all’altro capo feudale, considerato di volta in volta il meno peggio, pur di tenere accesa la debole fiaccola della rivoluzione. Perse le prospettive Chu sprofondò così, senza volerlo, nel gorgo che lo portò a diventare, lui stesso, un militarista, cioè un signore della guerra. E dei signori della guerra prese anche i vizi: divenne un accanito fumatore di oppio. Fino a che la rivoluzione russa destò in lui una profonda impressione; e la difesa della rivoluzione nel corso della guerra civile e contro l’intervento delle Potenze dell’Intesa, se possibile, ancora di più. Decise di partire per l’Europa per studiare da vicino i comunisti, chi erano e come agivano. Iniziò il percorso della disintossicazione dalla droga e, prima di partire, si recò a Shanghai per incontrare Sun Yat-sen. Così ricorda quell’incontro nell’intervista rilasciata anni dopo alla reporter americana Agnes Smedley:
“Sebbene ignoranti dal punto di vista della teoria marxista, i miei amici ed io seguivamo con profonda emozione le notizie delle vittorie che l’Armata Rossa rivoluzionaria riportava sulle forze armate della nobiltà zarista e quelle dei paesi imperialisti. Come mai i rivoluzionari russi avevano sconfitto i potenti eserciti avversari ed erano riusciti a instaurare il loro governo, mentre i rivoluzionari cinesi non ne erano stati capaci? [10] […] Avevamo perso ogni fiducia nelle alleanze tattiche con questo o quel militarista [signore della guerra]. Simili alleanze erano sempre finite in una disfatta per la rivoluzione e col rafforzamento dei militaristi. Avevamo trascorso undici anni in quella bolgia. Davanti a noi c’era un solo punto fermo: la rivoluzione in Cina era fallita mentre in Russia aveva trionfato. Esprimemmo al dr. Sun la nostra convinzione che i rivoluzionari russi avevano vinto perché si erano basati su una teoria e un metodo rivoluzionari di cui noi sapevamo poco o nulla. […] Avevamo deciso di andare all’estero per incontrarvi i comunisti, per studiare e approfondire la loro teoria, prima di rimetterci all’opera per combattere la nostra lotta in Cina. […] I comunisti sapevano cose che anche noi dovevamo imparare. […] Il dr. Sun disse che c’era molto di vero in ciò che dicevamo. Ci parlò di una svolta politica del Kuomintang ma in che cosa consistesse non potemmo capirlo allora. Dovevano passare altri due anni perché quelle parole ci diventassero chiare. Si trattava dell’alleanza tra il governo rivoluzionario di Canton e l’Unione Sovietica” [11].
Ma il racconto più singolare ed anche più significativo è quello dello stesso Sun Yat-sen, che tra l’altro non divenne mai comunista. Dopo la rivoluzione ed in seguito alla costituzione dello Stato sovietico Sun ebbe a dire: “Noi non guardiamo più verso Occidente. I nostri occhi sono rivolti alla Russia” [12]. Nel manifesto del 1919 disse: “Se il popolo della Cina vuole essere libero come il popolo russo, e vuole gli sia risparmiato il destino che gli alleati hanno preparato per lui a Versailles…deve
essere ben chiaro che nella lotta per la libertà nazionale i suoi soli alleati e fratelli saranno gli operai ed i contadini russi che combattono nell’Armata Rossa”[13].
Queste opinioni sono piuttosto esemplari di un diffuso atteggiamento. Stando al diplomatico e storico indiano Panikkar, “La sola esistenza di una Russia rivoluzionaria diede senza dubbio a tutti i movimenti nazionalisti asiatici une grande forza morale” [14].
“La Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, firmata da Lenin e da Stalin, proclamava la sovranità e l’eguaglianza di tutti i popoli della Russia, e il diritto delle minoranze nazionali al proprio libero sviluppo. Fu, questa, una dichiarazione veramente esplosiva, e destò una nuova speranza in tutte le nazioni asiatiche che stavano lottando per la propria libertà” [15].
Con la successiva alleanza tra Sun Yat-sen e l’URSS “l’appoggio della Russia rivoluzionaria al nazionalismo asiatico veniva […] proclamato pubblicamente” [16].
L’appoggio sovietico cambiò anche l’atteggiamento dei movimenti nazionalisti sotto molti punti di vista. Anche quei movimenti che non furono egemonizzati dai comunisti o che non evolsero mai verso il marxismo-leninismo iniziarono a inserire la loro lotta in un quadro diverso. Iniziarono a dare maggiore importanza al coinvolgimento del popolo nel processo rivoluzionario e furono quindi spinti a prenderne, almeno parzialmente, in considerazione le istanze. Secondariamente l’esempio di sviluppo e crescita economica dell’URSS durante i piani quinquennali, che cambiò completamente il profilo di una nazione arretrata, costituì un punto di riferimento per quei paesi che si trovavano ai margini del mercato capitalistico mondiale. Iniziarono a comprendere che la sola indipendenza politica li avrebbe relegati ad accontentarsi di una indipendenza puramente formale e che per ottenere un’effettiva sovranità dovevano puntare anche sull’indipendenza economica.
I lasciti furono dunque numerosi, ben oltre il breve periodo.
L’URSS continuò a svolgere il ruolo di sponda dei movimenti di liberazione anche in seguito, nonostante tutti gli eventuali errori che i dirigenti sovietici commisero in questo o quel frangente. Questo fatto viene ampiamente riconosciuto, ad esempio, dai protagonisti della rinascita araba tra gli anni ’50 e ’60. La scomparsa dell’Urss ha lasciato un vuoto in questo campo. Ma l’ascesa della Cina, il ritorno della Russia e la spinta per la costituzione di un equilibrio multipolare lasciano presagire che il mondo globalizzato è in forte competizione dal punto di vista dei mercati e ancor di più dal punto di vista politico. L’emergere dei paesi del Sud del mondo si fa sempre più marcato e questo suggerisce che la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre non sia affatto esaurita.
NOTE
1 G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Torino Laterza 1989, pp.157-158
2 Le communisme et la question nationale et coloniale par Lénine, Staline et Boukharine; Paris Bureau d’Editions [1927?], p.9
3 A. Agosti, a cura di- , La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol.1.2 (1919-1923); Ed. Riuniti 1974, p.759
4 Ibidem, p.762
5 A. Agosti, a cura di- , La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. 2.2 (1924-1928), p.591
6 Così la definisce Jan Romein nel suo libro Il secolo dell’Asia; Einaudi, 1975
7 Tesi del IV Congresso sulla questione orientale (novembre 1922), cit. in: A. Agosti, a cura di- , La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. 1.2, pp.791-792