Attentato a Sarajevo: è solo l’inizio?
Guerra santa, terrorismo di stato e crimine organizzato in Bosnia
di Riccardo M. Ghia (Bright Magazine [http://bit.ly/aoEECd])
L’attentato contro l’ambasciata americana a Sarajevo potrebbe essere stato un test per l’esecuzione di un attacco in grande stile, secondo fonti vicini alle indagini.
Lo scorso 28 ottobre, Mevlid Jašarević esplose 105 colpi di armi da fuoco, ferendo due persone in modo grave e scatenando un’ondata di panico. Poi, per venti minuti, Jašarević passeggiò avanti e indietro di fronte all’ambasciata, fino a quando un tiratore scelto della forze speciali bosniache lo neutralizzò con un proiettile alla gamba.
Le dinamiche dell’attacco sono certamente singolari. L’edificio dell’ambasciata è stato concepito per resistere ad attacchi ben più organizzati di quelli di un militante solitario e del suo kalashnikov [http://bit.ly/uSLAdi]. Inoltre non è chiaro perché Jašarević non abbia utilizzato le due bombe a mano di cui era armato.
L’avvocato di Jašarević, Senad Dupovac, ha descritto il gesto del suo cliente come l’azione di un militante solitario affetto da disturbi mentali: “Il suo obiettivo era quello di essere ucciso dagli ufficiali di guardia dell’ambasciata statunitense per diventare un martire e andare in paradiso.” [http://reut.rs/uHxuuK].
Tuttavia gli investigatori temono che l’azione di Jašarević sia solo l’inizio di una serie di attentati intrapresa da un gruppo di wahabiti, una corrente islamica estremista radicata in Arabia Saudita. La sparatoria, quindi, sarebbe stato il modo per sondare le capacità di reazione delle forze di polizia e del personale dell’ambasciata.
In connessione con l’attentato, la polizia ha arrestato Emrah Fojnica, 20, Dino Pecenkovic, 24 e Munib Ahmetspahic, 21. L’attentatore, Jasarevic, ha 23 anni. Una generazione che ha subito l’influsso - e forse ricevuto gli ordini - di “cattivi maestri”, ancora a piede libero.
Uno dei mandanti, secondo le indiscrezioni del quotidiano serbo-bosniaco Press Rs, sarebbe l’egiziano Imad al Misr. L’uomo ha già scontato una pena detentiva in Egitto dal 2001 al 2009, dopo essere stato estradato dalla Bosnia su pressione degli Stati Uniti. Una volta uscito dal carcere, al Misr è riapparso nei Balcani [http://bit.ly/ukz6rN].
I cattivi maestri: mujahideen, ONG ed estremismo wahabita
L’apertura di un fronte della jihad in Bosnia, nel cuore dell’Europa, era già stato dipinto nel romanzo “Madrasse - Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa” di Antonio Evangelista [http://bit.ly/sUDMbd].
L’autore - esperto di terrorismo e crimine organizzato della European Union Police Mission (EUPM) - descrive una generazione di ventenni come Jašarević, allevati e istruiti da ex mujahideen arrivati in Bosnia per combattere serbi e croati a fianco dei fratelli musulmani. Mentre il protagonista di Madrasse, l’orfano di guerra Georgje Kastrati, è personaggio di fantasia, i fatti narrati nel romanzo affondano nelle cronache bosniache degli ultimi 20 anni.
Nel 1992, migliaia di combattenti islamici dal Nord Africa all’Afghanistan si unirono ai gruppi paramilitari bosgnacchi della “Legione Verde” e dei “Cigni Neri”. Quattro anni più tardi queste unità militari vennero sciolte ma 400 mujahideen rimasero in Bosnia. Altri militanti islamici arrivarono nel paese a guerra finita [http://bit.ly/tgbJNZ].
Organizzazioni umanitarie non governative saudite e kuwaitiane operanti in Bosnia sono anche state messe sotto osservazione, in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre.
L’Arabia Saudita ha sempre negato di aver fornito supporto logistico e finanziario a gruppi di militanti islamici anti-occidentali. Tuttavia, un ex comandante di Al-Qaeda, Ali Ahmed Ali Hamad, ha testimoniato davanti a un tribunale ONU di aver ricevuto denaro dalla Alta Commissione Saudita per gli Aiuti alla Bosnia-Erzegovina. Le ONG islamiche avrebbero anche permesso ai mujahideen di entrare in Bosnia, fornendo documenti falsi e mezzi di trasporto [http://bit.ly/vFow8E].
Forse non è un caso che proprio Antonio Evangelista, l’autore di Madrasse, abbia ricordato le parole di Ali Ahmed Ali Hamad durante un forum internazionale sul crimine organizzato a Pechino, celebratosi il giorno successivo all’attentato all’ambasciata americana a Sarajevo [http://bit.ly/rIpor7].
Novi Pazar: la città di Jašarević
Jašarević è nato a Novi Pazar, il centro culturale dei bosgnacchi nella regione di Sandzak, in Serbia, nel 1988.
La città è stata teatro di importanti operazioni di polizia contro l’estremismo islamico. Nel marzo 2007 le forze dell’ordine irruppero in un campo di addestramento di militanti islamici arrestando cinque wahabiti provenienti proprio da Novi Pazar. Un mese più tardi, durante una sparatoria, la polizia serba uccise il leader della cellula locale, Ismail Prentic.
Da dove arrivavano le armi di Prentic e dei suoi seguaci? Gli investigatori serbi ne rintracciarono la provenienza in Kosovo, dalle città di Pec/Peja e Vucitrn. Le autorità di Belgrado trovarono prove di un’alleanza strategica tra gruppi ultranazionalisti albanesi kosovari e wahabiti serbi e bosniaci.
Gli investigatori hanno anche trovato collegamenti tra elementi del crimine organizzato e combattenti islamici. Infatti la polizia serba arrestò, tra gli altri, Senad Ramovic, già noto in Italia per traffico internazionale di armi e di esseri umani, stupro e sfruttamento della prostituzione [http://bit.ly/rLAjIr].
Ramovic si convertì successivamente alla dottrina wahabita. Secondo le fonti investigative, avrebbe utilizzato le sue conoscenze per rifornire di armi i mujahideen nei Balcani.
Jašarević a Vienna
Ai tempi dell’uccisione di Prentic e dell’arresto di Ramovic, Jašarević stava scontando una pena di tre anni di reclusione in Austria. Il giovane era stato condannato per una rapina a Vienna. Quando fu rilasciato nel 2008, le autorità austriache lo espulsero dal paese.
L’Austria ricoprì un ruolo fondamentale nei rifornimenti di uomini e mezzi durante le guerre nell’ex Jugoslavia che hanno segnato i Balcani negli anni ’90 con il supporto logistico dei servizi segreti americani ed europei.
“Vienna era, all’inizio, il centro di controllo per le operazioni di contrabbando d’armi per sostenere la jihad. L’esercito musulmano bosniaco fu creato con finanziamenti e volontari del mondo islamico; Bin Laden in persona ne discusse i dettagli con il presidente Alija Izetbegovic,” ha scritto il giornalista tedesco Jürgen Elsässer [http://bit.ly/vs6Glo].
A Vienna, dove risiedono 35.000 bosniaci, è anche presente l’importante cellula wahabita guidata dall’imam Muhammed Porca [http://bit.ly/sIVRvA]. Il predicatore esercita una forte influenza anche sulle comunità della diaspora bosniaca in Europa.
Inizialmente membro della Comunità Islamica (Islamska Zajednica) guidata da Reis Mustafa Ceric, massima autorità religiosa in Bosnia, Porca ne prese le distanze e fondò un gruppo autonomo in seguito a conflitti interni.
Non è chiaro perché Jašarević si trovasse in Austria e quando fosse iniziato il suo processo di radicalizzazione: a Novi Pazar o a Vienna?
L’ex ambasciatore statunitense alla NATO, Kurt Volker, ha recentemente affermato davanti alla Commissione Affari Esteri del Congresso che Jašarević fu avvicinato dai wahabiti a Vienna [http://bit.ly/vKFqgX].
Secondo gli investigatori, Jašarević sarebbe stato convertito alla causa estremista proprio durante la sua permanenza in carcere a Vienna. Se questa circostanza fosse confermata, solleverebbe inquietanti interrogativi sulla vigilanza delle autorità penitenziaria austriaca.
Gornja Maoca
Qualunque sia la risposta, Jašarević era già un soldato di Allah quando ritornò in Serbia. Nel novembre 2010 venne fermato proprio a Novi Pazar insieme a un altro militante. I due si trovavano nei pressi di un palazzo dove era in corso una riunone di ambasciatori, tra cui quello statunitense. La polizia serba gli trovò addosso un coltello da guerra, ma venne presto rilasciato.
Lo scorso maggio, uno dei leader wahabiti, Bilal Bosnic, giurò di vendicare la morte di Bin Laden [http://bit.ly/rDjGAm]. Forse, come osserva il giornalista italiano Stefano Giantin [http://bit.ly/uZGYDY], Jašarević lo ha preso in parola.
Bilal Bosnic è strettamente legato a un altro predicatore finito nel mirino degli inquirenti: si tratta di Nusret Imamovic di Gornja Maoca, comunità bosniaca dominata dai wahabiti. Imamovic era stato arrestato in connessione con un attacco contro un serbo nel 2006. Quattro anni più tardi, erano scattate nuovamente le manette ai polsi di Imamovic durante “Operation Light” [http://bit.ly/sUDMbd], un’azione di antiterrorismo che aveva ... dato ben pochi risultati, forse perché i wahabiti erano stati avvertiti in anticipo” [http://bit.ly/uSLAdi].
Imamovic fu presto rilasciato.
Nel luglio 2010, la stazione di Bugojno, città a 80 km da Sarajevo, fu oggetto di un attacco bomba. Bilancio: un morto e sei feriti. La responsabilità è stata attribuita, ancora una volta, a gruppi wahabiti [http://bit.ly/tnkM3d].
Quando Jasarevic attaccò l’ambasciata americana, i sospetti della polizia tornarono su Gornja Maoca. Ed è proprio là che agenti ritrovarono i suoi documenti.
Il giorno dell’attentato, Jašarević lasciò Novi Pazar in Serbia per dirigersi a Gornja Maoca, e di lì a Sarajevo, dove ebbe luogo la sparatoria.
Un’intrigante coincidenza per gli investigatori, che pare escludere la pista del militante solitario. Nel frattempo, Imamovic ha preso ufficialmente le distanze dall’attacco.
Chi protegge gli estremisti islamici?
Jašarević era già noto agli investigatori: tuttavia, è stato in grado di compiere l’attentato all’ambasciata quasi indisturbato per circa mezz’ora. Come ciò è potuto accadere?