1) I mediocri fondatori dell'Unione Europea (Jacques-Marie Bourget)
2) La Nato spinge l’Ue nella nuova guerra fredda (Manlio Dinucci)
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca.
par Manlio Dinucci, Tommaso di Francesco
— Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, 9.6.2014
Nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, aveva annunciato l’apertura di una procedura Ue contro la Bulgaria per presunte irregolarità negli appalti del South Stream.
Appena tre giorni prima, il 5 giugno, la direzione del Partito socialista bulgaro, che sostiene il governo Oresharski, dava per sicuro che il tratto bulgaro del gasdotto sarebbe stato costruito nonostante la richiesta di Bruxelles di fermare il progetto. «Per noi è d’importanza vitale», sottolineava il vicepresidente della commissione parlamentare per l’energia, Kuiumgiev. E il presidente della Camera dei costruttori, Glossov, dichiarava che «il South Stream è una boccata d’ossigeno per le imprese bulgare».
Che cosa è avvenuto? Il progetto nasce quando, nel novembre 2006 (durante il governo italiano Prodi II), la russa Gazprom e l’italiana Eni firmano un accordo di partenariato strategico.
Nel giugno 2007 il ministro per lo sviluppo economico, Pierluigi Bersani, firma con il ministro russo dell’industria e dell’energia il memorandum d’intesa per la realizzazione del South Stream. Secondo il progetto, il gasdotto sarà composto da un tratto sottomarino di 930 km attraverso il Mar Nero (in acque territoriali russe, bulgare e turche) e da uno su terra attraverso Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia e Italia fino a Tarvisio (Udine). Nel 2008–2011 vengono conclusi tutti gli accordi intergovernativi con i paesi attraversati dal South Stream.
Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni che finanzia la realizzazione del tratto sottomarino anche la tedesca Wintershall e la francese Edf con il 15% ciascuna, mentre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gazprom il 50%. La costruzione del gasdotto inizia nel dicembre 2012, con l’obiettivo di avviare la fornitura di gas entro il 2015. Nel marzo 2014 la Saipem (Eni) si aggiudica un contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione della prima linea del gasdotto sottomarino.
Nel frattempo, però, scoppia la crisi ucraina e gli Stati uniti — con un lavoro all’unisono tra Casa bianca e diplomazia congressuale dei Repubblicani — premono sugli alleati europei perché riducano le importazioni di gas e petrolio russo, che costituiscono circa un terzo delle importazioni energetiche dell’Unione europea.
Primo obiettivo statunitense (scrivevamo sul manifesto il 26 marzo) è impedire la realizzazione del South Stream. A tale scopo Washington esercita una crescente pressione sul governo bulgaro. Prima lo critica per aver affidato la costruzione del tratto bulgaro del gasdotto a un consorzio di cui fa parte la società russa Stroytransgaz, soggetta a sanzioni statunitensi.
Con tono di ricatto, l’ambasciatrice degli Stati uniti a Sofia, Marcie Ries, dichiara: «Avvertiamo gli uomini d’affari bulgari di evitare di lavorare con società soggette a sanzioni da parte degli Usa». Il momento decisivo è quando, domenica scorsa a Sofia, il senatore Usa John McCain, accompagnato da Chris Murphy e Ron Johnson, incontra il premier bulgaro trasmettendogli gli ordini di Washington. Subito dopo Plamen Oresharski annuncia il blocco dei lavori del South Stream.
Una vicenda emblematica: un progetto di grande importanza economica per la Ue viene sabotato non solo da Washington, ma anche da Bruxelles per mano dallo stesso presidente della Commissione europea. Ci piacerebbe sapere che cosa ne pensa il governo Renzi, dato che l’Italia – come ha avvertito allarmato Paolo Scaroni, ancora numero uno dell’Eni – perderebbe contratti per miliardi di euro se venisse affossato il South Stream.
di Manlio Dinucci | da il manifesto, 24 maggio 2014
Silenzio politico-mediatico sulla riunione Nato dei ministri della difesa svoltasi a Bruxelles il 21-22 maggio. Eppure non si è trattato di un incontro di routine, ma di un vertice che ha enunciato una nuova strategia che condizionerà il futuro dell’Europa. Basti pensare che 23 dei 28 paesi della Ue sono allo stesso tempo membri della Nato: di conseguenza le decisioni prese nell’Alleanza, sotto indiscussa leadership statunitense, inevitabilmente determinano gli indirizzi dell’Unione europea.
È stato il generale Usa Philip Breedlove – ossia il Comandante supremo alleato in Europa, nominato come sempre dal presidente degli Stati uniti – a enunciare a Bruxelles il punto di svolta: «Siamo alla decisione cruciale di come affrontare, nel lungo periodo, un vicino aggressivo». Ossia la Russia, accusata di violare il principio del rispetto delle frontiere nazionali in Europa, destabilizzando l’Ucraina come stato sovrano e minacciando i paesi della regione orientale della Nato.
La predica viene dal pulpito di una alleanza militare che ha demolito con la guerra la Jugoslavia, fino a separare anche il Kosovo dalla Serbia; che si è estesa a est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, due della ex Jugoslavia e tre dell’ex Urss; che è penetrata in Ucraina, assumendo il controllo di posizioni chiave nelle forze armate e addestrando i gruppi neonazisti usati nel putch di Kiev. Significativo è che alla riunione dei capi di stato maggiore dei paesi Nato, il 21 maggio a Bruxelles, abbia partecipato anche il generale Mykhallo Kutsyn, nuovo capo di stato maggiore ucraino. Contemporaneamente il segretario generale della Nato Rasmussen, in visita a Skopje, ha assicurato che «la porta dell’Alleanza rimane aperta a nuovi membri», come la Macedonia, la Georgia e naturalmente l’Ucraina. Continua dunque l’espansione a est.
La Nato, avverte il Comandante supremo in Europa, deve intraprendere un «adattamento strategico per affrontare l’uso da parte russa di improvvise esercitazioni, ciber-attività e operazioni coperte». Ciò «costerà denaro, tempo e sforzo». Il primo passo consisterà nell’ulteriore aumento della spesa militare Nato, già oggi superiore ai 1000 miliardi di dollari annui: a tal fine il segretario Usa alla difesa Chuck Hagel ha preannunciato una riunione, alla quale parteciperanno non solo i ministri della difesa ma anche quelli delle finanze, il cui scopo è spingere gli alleati europei ad accrescere la loro spesa militare.
Lo scenario dell’«adattamento strategico» Nato va ben oltre l’Europa, estendendosi alla regione Asia-Pacifico. Qui – sulla scia degli accordi russo-cinesi, che vanificano le sanzioni occidentali contro la Russia aprendole nuovi sbocchi commerciali a est – si prefigura la possibilità di una unione economica eurasiatica in grado di controbilanciare quella Usa-Ue, che Washington vuole rafforzare con la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti. Gli accordi siglati a Pechino non si limitano alle forniture energetiche russe alla Cina, ma riguardano anche settori ad alta tecnologia. È in fase di studio, ad esempio, il progetto di un grosso aereo di linea che, prodotto da una joint venture russo-cinese, farebbe concorrenza a quelli della statunitense Boeing e dell’europea Airbus. Un altro progetto riguarda la costruzione di un super-elicottero in grado di trasportare un carico di 15 tonnellate.
La questione di fondo, sostanzialmente ignorata nella campagna delle elezioni europee, è se l’Unione europea debba seguire gli Stati uniti nell’«adattamento strategico» della Nato che porta a un nuovo confronto Ovest-Est non meno pericoloso e costoso di quello della guerra fredda, oppure debba svincolarsi per intraprendere un suo cammino costruttivo respingendo l’idea di gettare la spada sul piatto della bilancia, accrescendo la spesa militare, per conservare un vantaggio che l’Occidente vede sempre più diminuire.
L’unico segnale che viene dalla Ue è un insulto all’intelligenza: la Commissione europea ha deciso che, dal 2014, nel calcolo del pil la spesa per sistemi d’arma sia considerata non una spesa ma un investimento per la sicurezza del paese. Per aumentare il pil dell’Italia investiamo dunque negli F-35.
http://www.marx21.it/internazionale/europa/24113-i-tabu-della-sinistra-radicale.html
L'articolo è stato pubblicato nel n. 2/2014 della rivista "Gramsci oggi" (www.gramscioggi.org) e lo proponiamo ai nostri lettori come contributo alla discussione dei comunisti sul futuro dell'Europa, anche in vista delle elezioni del parlamento dell'UE.
Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione
Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.
Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.
Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista. Sulle prime il Front national si è affermato presso i settori già collocati a destra dello spettro politico, in zone e milieu nei quali la sinistra comunista e anche i socialisti avevano tradizionalmente un forte insediamento e dove la destra tradizionale neogollista o giscardiana appariva più fragile. Successivamente, grazie alla progressiva perdita di credibilità presso le classi popolari dei socialisti, che con Mitterand aprono la parentesi della scelta neoliberista per non chiuderla mai più, il FN comincia la penetrazione anche tra le fila delle classi lavoratrici deluse dall’esperimento socialista, disegnando una prospettiva inquietante. Anche il PCF subisce un drastico calo di consensi, per avere, all’inizio, seguito i socialisti nella politica del rigore.
Ma in prospettiva è ben altro il terreno della disfida che si profila. Il vero punto di svolta è visto dall’autore nel cambiamento di indirizzo che Le Pen impartisce alla sua creatura nel corso della campagna contro l’Europa di Maastricht. Se, fino ad allora, Le Pen si era caratterizzato come un esponente della vecchia destra anti-repubblicana e vichyssoise (1) che mostrava ammirazione per Reagan, fastidio per l’invadenza dello Stato, e riservava le sue premurose attenzioni per il mondo delle imprese, specie piccole, che dipingeva come tartassate dal fisco, dopo Maastricht cambia tutto. O quasi. Il FN diviene il vessillifero della lotta contro il mondialismo della globalizzazione neoliberista e contro l’integrazione europea, che ne è lo strumento per soggiogare i popoli europei, cancellare le nazioni e soprattutto la Francia. Con questa nuova postura, integrata dalla campagna per la sicurezza e contro l’immigrazione, la crescita della fiamma è continua e costante e gli score che Le Pen fa registrare alle presidenziali paiono crescenti e aprono all’estrema destra ben altre prospettive.
Ma sulle prime la bandiera della questione nazionale e della lotta contro l’europeismo non viene lasciata in esclusiva al FN. In occasione del referendum del 1995 per chiedere ai francesi la loro sanzione del Trattato di Maastricht tutte le principali famiglie politiche si spaccano trasversalmente. Del resto, come hanno sostenuto Hix e Lord (2), di fronte al processo d’integrazione europeo le forze politiche non si polarizzano solamente in senso orizzontale lungo la dicotomia destra-sinistra ma anche in senso verticale, lungo la dicotomia difesa della sovranità-devoluzione dei poteri all’unione. Così alla campagna contro Maastricht dell’estrema destra fa da contraltare quella del Partito comunista francese, custode della sovranità e dell’idea di Nazione declinata a sinistra, sulla scorta del precedente della rivoluzione giacobina e della Resistenza. Durante la campagna referendaria del 1995 per la ratifica del Trattato a sinistra si aggiunge ai “no” Jean-Pierre Chevènement, a destra si schierano contro Maastricht Philippe Séguin e Charles Pasqua. I principali partiti (socialisti, RPR e UDF (3) ) sostengono il sì che la spunterà nelle urne, ma di pochissimo. Il risultato mostra tutta la potenzialità della critica radicale all’integrazione liberista europea. La strada sarebbe aperta per la costruzione di una vera alternativa di sinistra, sovranista e di classe. Invece viene fatto all’estrema destra un insperato regalo.
- Lo scivolamento dei comunisti: da euroscettici a eurocostruttivi
Purtroppo di lì a poco il PCF, con la segreteria di Robert Hue, imboccherà la strada della mutation e cercherà di riportare i comunisti all’intesa con i socialisti e con i verdi in quello che sarà il governo della “sinistra plurale”, che di plurale avrà solo la composizione ministeriale, l’indirizzo restando fermamente fissato sulla politica liberale scelta anni addietro dal PS. Nel giro di qualche mese Hue e i dirigenti che gli si stringono attorno cambiano discorso sull’Europa e si convertono al fumoso, inconcludente, ingenuo e poco credibile refrain dell’altra Europa possibile. Hue stesso si definisce “eurocostruttivo”. C’è chi, non senza ragione, lamenta una conversione vera e propria. Alle elezioni europee del 1999 il PCF si camuffa dietro l’insegna di una lista alter-europeista e i suoi massimi dirigenti sostengono ormai che per cambiare in Francia occorra cambiare l’Europa, vaneggiando di una possibile Europa sociale. L’inversione dei fattori è ormai fatta, e in questo caso cambia il risultato; la svolta del PCF è smaccatamente bocciata dalle urne, la lista della sinistra radicale (che aveva imbarcato anche esponenti favorevoli all’aggressione alla Jugoslavia) prende meno di quanto aveva raccolto il solo PCF nella tornata precedente e appare per quello che è: un insperato regalo all’estrema destra.
Al discredito per essere rimasto nel governo Jospin, a rimorchio del PS senza riuscire ad incidere in alcun modo, il PCF somma allora l’errore della metamorfosi che imprime al suo discorso sull’Europa. Dal fermo, patriottico e sociale al contempo, “no” della gestione Marchais, paladina della difesa della sovranità nazionale fino allo slogan “produciamo francese”, si passa alla versione euro-critica e alter-europeista. Sulla scia di un movimento alter-mondialista di cui oggi non si ha più nemmeno il ricordo (ma che in quegli anni veniva dipinto da molti come la superpotenza del futuro) si inizia a sostenere la litania: “Un’altra Europa è possibile”, ma curandosi bene dal poter indicare come arrivarci.
Bernier fa notare che il discorso del PCF in mutazione si assimila progressivamente e velocemente alla rimozione della questione nazionale, della questione della difesa della sovranità come spazio di esercizio della democrazia e strumento per la difesa e l’avanzata delle rivendicazioni di classe. Nella sinistra radicale inizia a prevalere la visione strabica e ottusa dei gruppi trotzkisti, che ripudiano la questione nazionale come destrorsa, abbandonandola nelle mani della demagogia lepenista. E’ questo passaggio a rendere possibile l’accordo di governo tra il PCF e i socialisti di Jospin nel 1997. Al sì dei socialisti per l’adozione della moneta unica si contrapponeva fermamente il no dei comunisti all’euro. Dietro la coltre dell’impegno (verbale) a cercare di cambiare questa concreta Unione europea, tante cose sarebbero passate in fanteria nell’arco di una breve stagione.
Successivamente, un altro referendum, quello del 4 marzo 2005 per ratificare il Trattato Costituzionale Europeo, segnerà la vittoria dei “no” all’integrazione e mostrerà come i cittadini francesi abbiano saputo scorgere nel processo d’integrazione europeo un chiaro attacco alla loro sovranità, ai loro diritti, al loro tenore di vita. In breve tempo il Front national resta l’unico partito organizzato in campo a sostenere una netta linea euroscettica e cerca di affermarsi come autentica forza anti-mondialista e anti-sistema. Chevènement continua, beninteso, a sostenere la sue ragioni, ma da una posizione sempre più isolata, come un profeta nel deserto della sinistra legata al carrozzone liberal-europeista del Ps. A destra Séguin viene marginalizzato e riassorbito da Chirac, mentre Pasqua tenta per una breve stagione la strada di una propria forza autonoma e sovranista di destra; il tentativo riscuote un certo successo sulle prime ma poi si sgonfia per varie ragioni. Il discorso del PCF continua ad essere confuso, pur restando il partito ancorato saldamente sulla linea del “no” nel referendum del 2005.
L’esplosione del FN è rallentata da scissioni interne e dalla scelta del vecchio leader di cavalcare la tigre della lotta all’immigrazione e l’islamofobia, strade che gli vengono ben presto sbarrate dalla deriva impressa da Sarkozy alla destra tradizionale francese. Ma i nodi prima o poi vengono al pettine e la crisi scopre i guasti causati dall’euro e dalla scelta europea presso un pubblico via via più largo. Il Front national è ben appostato per approfittarne. La sinistra radicale si ritrova a dover ripensare tutta la propria strategia.
Con la nascita del Front de Gauche, che tiene assieme il PCF, l’ex sinistra socialista di Mélenchon e un’altra formazione di origine trotzkista, una certa radicalità sembra ritrovata. Durante l’ultima campagna per le presidenziali Mélenchon sosteneva l’idea di disobbedire ai trattati europei. Una posizione che però manca al fondo di chiarezza, circa le eventuali caratteristiche, conseguenze e implicazioni di simile parola d’ordine. Se alle presidenziali, per la prima volta dall’era Marchais, il candidato dei comunisti e della sinistra radicale raccoglie più del 10%, alle politiche il Front viene un po’ ridimensionato (sotto il 7%).
Eppure la sfida per la sinistra transalpina, e in prospettiva non solo transalpina, è chiara: la lotta per l’egemonia nella società e per rispondere ai bisogni delle classi popolari è ingaggiata, o la vinceranno i comunisti con quanti alleati di sinistra riusciranno ad aggregare attorno a un loro progetto, o la vincerà il Front national (4).
- La posta in gioco, oggi, in Europa
Per coltivare la possibilità della vittoria, Bernier mette al centro delle sue riflessioni la necessità che la sinistra radicale abbandoni tre tabù che caratterizzano il suo discorso sull’Europa e auspica il ritorno alla radicalità con la quale il PCF combatteva la sua battaglia sovranista da sinistra (un riconoscimento e un invito significativo da parte di chi non proviene, per filiazione ideologica, dall’ortodossia marxista-leninista).
I tre tabù sono: il protezionismo (che viene oggi rifiutato in favore della scelta liberoscambista), la sovranità nazionale (dipinta come di destra o non considerata, e su questo si potrebbe scrivere un libro); l’Europa (a cui si guarda come ad un feticcio che non ci si può rifiutare di idolatrare, pena il rischio di essere additati come nazionalisti). Quanto di questo discorso riguarda anche noi!
Non mettere in discussione il liberoscambismo e la libera circolazione dei capitali porta inevitabilmente ad ingessare sul nascere qualsiasi ipotetica politica alternativa di sinistra. Non affrontare il nodo ha ricadute evidenti. Supponiamo che un esecutivo di sinistra voglia rivedere il peso dei carichi fiscali, redistribuendo le imposte in senso progressivo. I maggiorenti potranno spostare i capitali all’estero, e la fuga dei capitali metterebbe in panne la politica economica del governo. Se si volesse difendere il mondo del lavoro dal dumping salariale e dalla concorrenza al ribasso dei diritti, poi, non ci si potrebbe che scontrare con la possibilità delle imprese di delocalizzare e con l’effetto di induzione alla svalutazione interna svolto dalla moneta unica. Occorre tenere in considerazione che l’architettura delle politiche neoliberiste (che costituisce la base e l’essenza dell’Unione europea) funziona anche come un impedimento all’implementazione di politiche espansive e redistributive ispirate ai principi della democrazia sociale. Ma non ditelo a Barbara Spinelli e ai suoi accoliti…
Per questo acquisisce un significato strategico la questione dell’appropriazione della bandiera della sovranità nazionale da parte della sinistra di classe. Bernier ci dice che ultimamente il Front de Gauche si sta riposizionando, nonostante gli errori dell’era Hue, e nonostante la crisi che attraversano le relazioni tra le sue componenti. Ma per riuscire ad adottare una postura potenzialmente vincente che possa mettere la sinistra radicale francese in grado di contrastare il montare dell’estrema destra è necessario rompere gli ultimi tabù e passare dalla protesta alla proposta; e l’unica proposta possibile è quella di propendere per la rottura unilaterale dei trattati in modo da riconquistare la sovranità, conditio sine qua non di ogni cambiamento progressivo.
La prospettiva scelta da Bernier è certo particolare. Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla crisi della sinistra radicale (in Francia e in Europa) e sulla crescita del Front national e di formazioni di estrema destra, dinamiche nelle quali giocano molteplici fattori. Ma la scelta operata dall’autore tiene conto della questione che oggi è indubbiamente la più rilevante in questa parte di mondo, anche se andrebbe in qualche modo sottolineato con maggior forza, a nostro personale giudizio, il parallelismo che corre tra l’abbandono della questione nazionale da parte dei partiti comunisti e la rottura con il loro bagaglio ideologico-strategico di matrice marxista-leninista. Più si allontanano dall’ortodossia, più rimuovono (quando non ripudiano) la questione nazionale.
Le ricadute e le conseguenze del discorso dell’autore e della sua ricostruzione sono chiare: solo impugnando l’arma della sovranità da riconquistare e rifiutando il discorso integrazionista e liberoscambista (cavalli di Troia del neoliberismo) sarà possibile proporre in modo credibile politiche che possano invertire l’attuale tendenza reazionaria e difendere gli interessi delle classi popolari, impedendo al contempo alla demagogia dell’estrema destra di approfittare della legittimazione che le viene dall’avere il sostanziale monopolio della questione nazionale, seppur malamente declinata, e dall’apparire come l’unica forza radicalmente anti-sistema.
La scelta di porsi sullo scivoloso, angusto e poco credibile (perché non fattibile) terreno della riforma della costruzione europea, dell’accettazione della moneta unica e della promozione di una futuribile “altra Europa possibile” lascia la sinistra radicale disarmata e pertanto incapace di incanalare il disagio delle classi popolari e di fette crescenti della popolazione che vengono spinte verso l’astensionismo o sono attratte da formazioni demagogiche.
La scelta che occorre avere il coraggio di operare è cercare di recuperare consenso nell’astensione e nella disaffezione promuovendo una politica più coraggiosa, radicale e realista, anziché limitarsi a cercare di raccogliere le schegge perse dalle formazioni socialdemocratiche nella loro continua marcia verso destra, magari in vista di un nuovo accomodamento, che sul breve periodo può premiare con qualche eletto ma che sul medio periodo lascia la sinistra radicale in mutande
- E in Italia? Anche in Italia… (Consiglio ai sordi)
Sono considerazioni che si stanno facendo strada un po’ ovunque, in Francia come in Italia. Da questo punto di vista un certo parallelismo è già percepibile. Con tutte le differenze del caso, sia chiaro. Intanto perché in Francia c’è un Front de Gauche (anche se malandato) costruito attorno a un Partito comunista, anche se debilitato da una mutazione con la quale non riesce a chiudere i conti in modo convincente, passaggio obbligato per rilanciarsi abbeverandosi alle proprie salde radici, patriottiche e internazionaliste. Al Front de Gauche stesso l’autore chiede, in modo convincente, più coraggio nel rompere i tre tabù che menzionavamo. In Italia, invece, non manca solamente un fronte di sinistra degno di questo nome. Come prendere seriamente formazioni costruite attorno a guru che credevano che non fosse più centrale il conflitto capitale-lavoro o che non esistesse più l’imperialismo? Come pretendere di sostituire l’attività strutturata delle vecchie sezioni con il salotto di Barbara Spinelli? (anche al netto delle riflessioni che si possono e devono fare circa le strampalate sciocchezze che da quel luogo provengono). Ma soprattutto in Italia manca un partito comunista che voglia davvero essere tale.
Nel contesto attuale la sua costruzione è certamente possibile. Ma per rendere il progetto vitale occorrerebbe risultare in grado di dare una speranza e una prospettiva di cambiamento anzitutto alle giovani generazioni, le più schiacciate dalla crisi. Per questo oggi, in Italia, i comunisti dovrebbero anzitutto costruire a partire dalla risposta da dare alle due questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale e la questione nazionale. E dovrebbero farlo a partire dalle risposte che dovrebbero dare all’attuale crisi europea, che rappresenta il nodo gordiano da tagliare. Da questo punto di vista, analogamente alle riflessioni svolte da Bernier sul panorama politico francese, i comunisti italiani non possono sostenere le stesse traballanti castronerie della sinistra radicale alter-europeista e dovrebbero caratterizzarsi come i veri difensori e sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale, in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella monetaria. Chi si trincera dietro la presunta impossibilità dell’esercizio della sovranità è già fuori dalla storia, fuori dal campo di contesa politico. Chi rifiuta di dare fiducia al proprio popolo non può chiederla. Chi pretende che l’Italia non ce la possa fare si è già arreso, come può essere un interlocutore, un punto di riferimento?
In Italia vi sarebbe, tra l’altro, il vantaggio che lo spazio della critica alla Ue e all’euro non è ancora egemonizzato da alcuna formazione demagogica e di destra (affine al liberismo), a differenza che in Francia, dove il FN ha occupato abilmente quel vuoto. E’ vero che determinate formazioni demagogiche e di destra anche in Italia cercano di posizionarsi in tal senso. Ma sono all’inizio e godono, al momento, di una credibilità limitata, a causa dei loro trascorsi nei governi Berlusconi, dove non hanno dato affatto buona prova di sé.
A maggior ragione i comunisti dovrebbero porsi con urgenza l’obiettivo di presidiare questo spazio, evitando di cadere nella trappola illogica per cui se alcune formazioni di destra sostengono (a parole e a modo loro) determinate battaglie, bisogna negarne a priori l’eventuale validità. La Terra resta sferica e l’euro resta una trappola anche se lo dicono il Front national o la Lega Nord. Una ragione in più per non abbandonare determinate parole d’ordine.
Una delle parole d’ordine che la sinistra nostrana ha abbandonato da tempo è quella relativa alla difesa della sovranità nazionale. Se è vero che né il movimento socialista né la nuova sinistra avevano mai compreso la valenza e la portata della questione nazionale, per il movimento comunista valgono tutt’altre riflessioni (si pensi alla Resistenza, per non citare che un passaggio). La rimozione di questa radice dal proprio DNA è andata di pari passo con lo snaturamento e la mutazione. Passaggi che hanno condotto i comunisti al lumicino in cui ora si trovano. Per uscire da questo stato di minorità occorre tornare se stessi.
Il passaggio delle prossime elezioni europee rappresentava un’ottima occasione per mettere in campo il progetto di costruzione di una sinistra patriottica e di classe e i comunisti italiani avrebbero dovuto posizionarsi per agire in quest’ottica. Invece hanno preferito accodarsi, in base ad una logica suicida, alla costruzione di una lista che difende la solita aria fritta alter-europeista, la lista Tsipras, che di fatto è la lista Spinelli. Tale lista ha risucchiato tutta la sinistra radicale. Persino la componente del Prc che si definisce comunista ha applaudito all’operazione. Segno che da quelle parti, ormai, ci si pone ben pochi problemi in merito alla direzione di marcia. Coloro che sbeffeggiavano Bertinotti ieri, oggi gli danno ragione, scimmiottandone le gesta.
I risultati della scelta di pilotare i comunisti italiani nella lista Tsipras-Spinelli sono sotto gli occhi di tutti, erano scontati e prevedibili. Tutto si può rimproverare ai promotori della lista, tranne che non siano stati chiari sin dal principio. Ora basterebbe aprire gli occhi, e dirsi con franchezza che un conto è lavorare ad un progetto unitario, un altro è lavorare ad un aggregato confusamente di sinistra. Almeno ora, si dovrebbe scegliere con chiarezza di riconquistare ai comunisti la questione della sovranità nazionale, di riconquistare se stessi. Lavorando per costruire un fronte della sinistra sovranista e di classe in vista delle prossime elezioni politiche. Occorre scegliere, altri lo hanno fatto. Che si dimostri di voler fare sul serio. All’Italia e ai lavoratori italiani, ai tantissimi giovani senza futuro, serve ben altra offerta politica… e gli stessi militanti e simpatizzanti della sinistra comunista meritano di meglio.
NOTE
1) Vichysta”, sostenitrice ed erede del regime collaborazionista di Vichy.
2) S. Hix, C. Lord, Political Parties in the European Union; Londra, MacMillan 1997, p.50. Cit. in: M. PierMattei, Partiti d’Europa. Integrazione e federazioni transnazionali; in: “Memoria e Ricerca”, n.24 2007.
3) RPR, Rassemblement pour la République era la formazione neogollista guidata da Jacques Chirac, l’UDF, Union pour la démocratie française, era il partito composto dal centro destra democristiano e liberale degli eredi di Valéry Giscard d’Estaing.
4) “Noi abbiamo l’impressione di trovarci impegnati in una corsa contro il tempo con l’estrema destra. Il popolo che rigetta il sistema sceglierà tra la nostra proposta e la loro”; dichiarazione di Mélenchon a “Sud-Ouest”, 23 marzo 2013
http://contropiano.org/politica/item/24465-l-unione-europea-di-fronte-a-se-stessa
Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall'Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell'opposizione popolare e delle alternative. Può essere l'occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.
La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E' evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l'Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E' evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.
Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.
Anche perchè a rendere le cose difficili per l'Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell'Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.
Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell'avvento dell'euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull'Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l'asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell'Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.
Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all'interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l'interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l'Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell'Europa dell'Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.
Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l'asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.
Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote - per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L'Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l'intervento in Siria.
La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l'introduzione dell'euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l'Europa che dentro l'Europa”.
Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l'instabilità alle periferie sud ed est dell'Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.
Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l'antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell'Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L'occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l'opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c'è anche il tema dell'opposizione alla guerra. C'è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.
LES ÉLECTIONS EUROPÉENNES DE MAI 2014. NOUVELLES ÉTAPE DANS L’IMPLOSION DU PROJET EUROPÉEN
- La construction européenne a été conçue et mise en œuvre dès l’origine pour garantir la pérennité d’un régime de libéralisme économique absolu. Le traité de Maastricht (1992) renforce encore ce choix fondamental, et interdit toute autre perspective alternative. Comme le disait Giscard d’Estaing : « le socialisme est désormais illégal ». Cette construction était donc par nature anti-démocratique et annihile le pouvoir des Parlements nationaux élus, dont les décisions éventuelles doivent rester conformes aux directives du pouvoir supranational défini par la pseudo-constitution européenne. Le « déficit de démocratie » des institutions de Bruxelles, à travers lesquelles opère la dictature néo-libérale, a été et demeure consciemment voulu. Les initiateurs du projet européen, Jean Monet et autres, n’aimaient pas la démocratie électorale et se donnaient l’objectif d’en réduire le « danger », celui d’engager une nation hors des sentiers tracés par la dictature de la propriété et du capital. Avec la formation de ce que j’appelle le capitalisme des monopoles généralisés, financiarisés et mondialisés, à partir de 1975, l’Union Européenne est devenue l’instrument du pouvoir économique absolu de ces monopoles, créant les conditions qui qui permettent d’en compléter l’efficacité par l’exercice parallèle de leur pouvoir politique absolu. Le contraste droite conservatrice/gauche progressiste, qui constituait l’essence de la démocratie électorale évoluée, est de ce fait annihilé, au bénéfice d’une idéologie de pseudo « consensus ».
Ce consensus repose sur la reconnaissance par les opinions générales en Europe que les libertés individuelles et les droits de l’homme sont garantis, au moins dans la majorité des Etats européens sinon dans ceux de l’ex Europe orientale, mieux qu’ailleurs dans le monde. C’est exact et à l’honneur des peuple concernés. Néanmoins la double dictature économique et politique des monopoles généralisés annihile la portée de ces libertés, privées de leur capacité de porter en avant un projet de société qui transgresserait les limites imposées par la logique exclusive de l’accumulation du capital.
Par ailleurs l’unité européenne a été popularisée avec l’argument alléchant que celle-ci conditionnait l’émergence d’une puissance économique égale à celle des Etats Unis et autonome par rapport à celle-ci. Mais en même temps la constitution européenne combinait les adhésions à l’Union Européenne et à l’OTAN, en qualité d’allié subalterne des Etats Unis. Le nouveau projet d’intégration économique atlantique devrait dissiper les mensonges de cette propagande : le marché européen sera soumis aux décisions du plus fort, les Etats Unis. Adieu l’indépendance de l’Europe !
2. Mais le régime économique libéral absolu, imposé par la constitution européenne, n’est pas viable. Sa raison d’être exclusive est de permettre la concentration croissante de la richesse et du pouvoir, au bénéfice de l’oligarchie de ses bénéficiaires, fût-ce au prix d’une austérité permanente imposée aux classes les plus nombreuses, à la régression des acquis sociaux, voire au prix de la stagnation économique. La spirale infernale de l’austérité produit pour l’ensemble européen la croissance permanente des déficits et de la dette (et non leur réduction comme le prétend la théorie économique conventionnelle, sans fondements scientifiques). Les exceptions (l’Allemagne aujourd’hui) ne peuvent l’être que parce que les autres sont, eux, condamnés à subir leur sort. L’argument avancé – « il faut faire comme l’Allemagne » – n’est pas recevable : par sa nature même le modèle ne peut pas être généralisé.
Néanmoins le pouvoir absolu exercé par les monopoles généralisés et l’oligarchie de leurs serviteurs ne permet pas sa remise en cause par les « opinions générales ». Ce pouvoir absolu est déterminé à défendre jusqu’au bout et par tous les moyens ses privilèges, ceux des oligarchies, seules bénéficiaires de la concentration sans limite de la richesse.
3. Les élections européennes de mai 2014 traduisent le rejet par la majorité des citoyens de « cette Europe » (sans nécessairement être conscients que « l’Europe » ne peut être autre). Avec plus de la moitié d’abstentionnistes dans le corps électoral (plus de 70% d’abstentions dans l’Est européen), 20% de votes en faveur de partis d’extrême droite se déclarant « anti-européens », les listes dites « europhobes » en tête en Grande Bretagne et en France, 6% en faveur de partis de la gauche radicale critique de Bruxelles, cette conclusion s’impose. Certes, en contrepoint, la majorité de ceux qui ont participé au vote, se réclament toujours du (ou d’un) projet européen, pour les raisons données plus haut (« l’Europe garante de libertés et des droits ») et parce qu’ils pensent encore – avec beaucoup de naïveté – qu’une « autre Europe » (des peuples, des travailleurs, des nations) est possible, alors que la construction européenne – en béton armé – a été conçue pour annihiler toute éventualité de sa réforme.
Le vote de défiance d’extrême-droite porte en lui des dangers qu’on ne doit pas sous-estimer. Comme tous les fascismes d’hier, ses porte-paroles ne mentionnent jamais le pouvoir économique exorbitant des monopoles. Leur prétendu « défense de la nation » est trompeuse : l’objectif poursuivi est – outre l’exercice de leur pouvoir dans les différents pays concernés de l’Union Européenne – le glissement de l’Union Européenne de son régime actuel administré par la droite parlementaire et/ou les sociaux-libéraux à un régime nouveau géré par une droite dure. Les débats sur les origines véritables de la dégradation sociale (précisément le pouvoir des monopoles) sont transférés vers d’autres domaines (l’exploitation du bouc émissaire de l’immigration en particulier).
Mais si ce succès douteux de l’extrême droite « anti européenne » est celui qu’il est, la faute en revient à la gauche radicale (à gauche des partis du socialisme ralliés au libéralisme). Par son manque d’audacité dans la critique de l’Union Européenne, par l’ambiguïté de ses propositions, qui alimentent l’illusion de « réformes possibles », cette gauche radicale n’est pas parvenue à faire entendre sa voix.
4. Dans le chapitre intitulé « L’implosion programmée du système européen » (in, L’implosion du capitalisme, contemporain, 2012), je dessinais les lignes générales de la dégradation programmée de l’Union Européenne. On aura alors une petite Europe allemande (l’Allemagne, agrandie par ses semi-colonies d’Europe orientale, allant peut-être jusqu’à l’Ukraine), la Scandinavie et les Pays Bas attelés à cette nouvelle zone mark/euro ; la France ayant choisi son adhésion « vichyste » à l’Europe allemande (c’est le choix des forces politiques dominantes à Paris), mais peut-être tentée plus tard par un renouveau « gaulliste » ; la Grande Bretagne prenant ses distances et affirmant encore davantage son atlantisme dirigé par Washington ; la Russie isolée ; l’Italie et l’Espagne hésitant ente la soumission à Berlin ou le rapprochement avec Londres. L’Europe de 1930, ais-je alors écrit. On y va.