Vivere al tempo della guerra imperialista

1) Gaza e la guerra più grande (Giulietto Chiesa)
2) Il ritorno di George Orwell e la guerra del Grande Fratello alla Palestina, all’Ucraina e alla verità (John Pilger)
3) La permanenza della guerra. La barbarie temuta è arrivata (Tommaso Di Francesco)


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Gaza e la guerra più grande

Gaza è parte dello scatenamento del disordine mondiale. Aggiungiamo il 'Califfato' del Levante. Aggiungiamo la crisi ucraina. Vediamo l'insieme

lunedì 21 luglio 2014 - megachip.globalist.it


di Giulietto Chiesa.

Ci sono lettori che mi chiedono di pronunciarmi sulla tragedia diGaza.
L'ho già fatto più volte nel corso di questa crisi.
Considero altamente probabile che il rapimento e l'uccisione dei tre ragazzi israeliani sia stato una ennesima false flag operation. Cioè un pretesto per organizzare una attacco letale contro Hamas, contro la Striscia di Gaza, contro il popolo palestinese nel suo insieme. È l'ennesima prova che Israele non ha mai voluto negoziare e che il suo obiettivo immediato è di cancellare definitivamente ogni possibilità per uno stato palestinese.
Posso solo provare cordoglio - e un acuto senso di impotenza - per la vittime innocenti, per gli oltre 500 morti già contati. Saranno molti di più, temo. Posso solo aggiungere la mia vergogna di appartenere a questo "Occidente" assassino e vile, che non sa dire nulla di fronte a un tale massacro. E che quello che dice è ipocrita e falso.
Oggi ho visto la faccia di John Kerry, indignato e sconvolto per i tredici soldati israeliani uccisi nell'invasione di Gaza.
13 fanno orrore; 500 è un numero.
Questa è la nostra superbia e la nostra illusione: che le nostre vite valgano di più venti, cento volte di più, delle loro. Verrà il tempo che dovremo pagare questa superbia.
Ma questo è solo un aspetto. Ci torno ora perché mi pare chetroppi non riescono a collegare i fatti.
Ciò che accade a Gaza è un tassello del mosaico che conduce a una guerra molto più grande. Stiamo tutti molto attenti. Gaza fa parte di un'operazione di scatenamento del disordine mondiale. Aggiungiamo il "Califfato" di Iraq e Siria. Aggiungiamo la crisi ucraina.
Non perdiamo di vista il quadro. Chi muove tutte queste pedine insieme vuole andare "oltre". L'obiettivo è la Russia. Ecco perché io occupo gran parte del mio tempo a seguire questo disastro. E l'altro obiettivo (segnatamente per Israele e l'Arabia saudita) è l'Iran. Questi due obiettivi equivalgono a un salto di qualità bellico incalcolabile.
Gaza è la cartina di tornasole di un disegno apocalittico. Muoviamoci per fermarlo.



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THE ORIGINAL ARTICLE, IN ENGLISH: The Return of George Orwell and Big Brother’s War on Palestine, Ukraine and Truth
By John Pilger - Source: teleSUR English, July 12, 2014


http://www.controlacrisi.org/notizia/Conflitti/2014/7/18/41629-il-ritorno-di-george-orwell-e-la-guerra-del-grande-fratello/


Il ritorno di George Orwell e la guerra del Grande Fratello alla Palestina, all’Ucraina e alla verità


L’altra sera ho assistito a ‘1984’ di George Orwell messo in scena sul palcoscenico di Londra. Pur reclamando a gran voce un’interpretazione contemporanea, l’avvertimento di Orwell circa il futuro è stato presentato come un’opera d’epoca: remota, non minacciosa, quasi rassicurante. E’ stato come se Edward Snowden non avesse rivelato nulla, il Grande Fratello non è oggi uno spione digitale e lo stesso Orwell non ha mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”.

Acclamata dai critici, l’abile produzione è stata una misura del nostro tempo, culturale e politico. Quando si sono accese le luci, la gente stava già uscendo. Il pubblico sembrava indifferente, o forse altre distrazioni lo reclamavano. “Che incasinamento!” ha detto una giovane, accendendo il suo telefonino.

Con la depoliticizzazione delle società avanzate, i cambiamenti siano sia sottili sia spettacolari. Nei discorsi quotidiani, il linguaggio politico è capovolto, come profetizzava Orwell in ‘1984’. “Democrazia” è oggi un artificio retorico. Pace è “guerra perpetua”. “Globale” è imperiale. Il concetto un tempo positivo di “riforma” oggi significa regressione, persino distruzione. “Austerità” è l’imposizione di capitalismo estremo ai poveri e regalo del socialismo ai ricchi; un sistema creativo nell’ambito del quale la maggioranza rimborsa i debiti dei pochi.

Nelle arti l’ostilità alla sincerità politica è un articolo di fede borghese. “Il periodo rosso di Picasso”, dice un titolo dell’Observer, “ è perché la politica non produce buona arte.” Considerate questo in un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq come una crociata liberale. L’opposizione di Picasso al fascismo per tutta la vita è una nota in calce proprio come il radicalismo di Orwell è svanito dal premio che si è appropriato del suo nome.

Alcuni anni fa Terry Eagleton, allora professore di letteratura inglese alla Manchester University, ha reputato che “per la prima volta in due secoli non c’è alcun eminente poeta, commediografo o romanziere inglese pronto a mettere in discussione le fondamenta dello stile di vita occidentale”. Nessuno Shelley parla per i poveri, nessun Blake per i sogni utopistici, nessun Byron danna la corruzione della classe al potere, nessun Thomas Carlyle e John Ruskin rivela il disastro morale del capitalismo. William Morris, Oscar Wilde, HG Wells, George Bernard Shaw non hanno equivalenti oggi. Harold Pinter è stato l’ultimo a far sentire la propria voce. Tra le insistenti voci del femminismo consumistico nessuna echeggia Virginia Woolf che descrisse “le arti del dominare altre persone … del governare, dell’uccidere, dell’acquistare terra e capitale”.

Al National Theatre una nuova commedia, Gran Bretagna, mette alla berlina lo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto giornalisti processati e condannati, tra cui l’ex direttore di News of the World di Rupert Murdoch. Descritta come “una farsa con le zanne [che] mette sul banco degli imputati l’intera cultura incestuosa [dei media] e la sottopone a un impietoso ridicolo”, i bersagli della commedia sono i personaggi “beatamente buffi” della stampa scandalistica britannica. Va bene ed è giusto, e così familiare. Ma che dire dei media non scandalistici che si considerano rispettabili e credibili e tuttavia assolvono un ruolo parallelo come braccio del potere dello stato e dell’industria, come nel caso della promozione di una guerra illegale?

L’inchiesta Leveson sulle intercettazioni telefoniche ha gettato uno sguardo su questo innominabile. Tony Blair stava testimoniando, lamentandosi con Sua Signoria per le molestie dei tabloid a sua moglie, quando è stato interrotto da una voce dalla galleria del pubblico. David Lawley-Wakelin, un regista, ha chiesto l’arresto e l’incriminazione di Blair per crimini di guerra. C’è stata una lunga pausa: il trauma della verità. Lord Leveson è balzato in piedi e ha ordinato l’allontanamento di chi diceva la verità, scusandosi con il criminale di guerra. Lawley-Wakelin è stato incriminato. Blair se n’è andato libero.

I persistenti complici di Blair sono più rispettabili dei pirati telefonici. Quando la conduttrice artistica della BBC Kirsty Wark lo ha intervistato nel decimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, gli ha regalato un momento che avrebbe potuto solo sognare; gli ha permesso di angosciarsi per la sua “difficile” decisione sull’Iraq, anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epocale. Ciò ha rievocato la processione di giornalisti della BBC che nel 2003 hanno dichiarato che Blair poteva sentirsi “scagionato” e la successiva serie “di successo” della BBC, Gli anni di Blair, per la quale è stato scelto come sceneggiatore, conduttore e intervistatore David Aaronovitch. Da valletto di Murdoch che aveva fatto campagna per gli attacchi militari contro l’Iraq, la Libia e la Siria, Aaronovitch è stato abilmente servile.

Dopo l’invasione dell’Iraq – esemplare di un’azione di aggressione non provocata che il giudice di Norimberga Robert Jackson definì “il crimine internazionale supremo, diverso dagli altri crimini di guerra per il fatto in concentrare in sé il male totale di tutti” – Blair e il suo portavoce e principale complice, Alastair Campbell, hanno avuto generoso spazio sul Guardian per riabilitare le proprie reputazioni. Descritto come una “stella” del Partito Laburista, Campbell ha cercato la simpatia dei lettori per la sua depressione e ha messo in mostra i suoi interessi, anche se non l’attuale incarico di consigliere, con Blair, della tirannia militare egiziana.

Mentre l’Iraq è smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair/Bush, un titolo del Guardian dichiara: “Rovesciare Saddam è stato giusto, ma ci siamo ritirati troppo presto”. L’affermazione ha trovato riscontro in un articolo di spicco del 13 giugno di un ex funzionario di Blair, John McTernan, che ha anche servito il dittatore installato dalla CIA in Iraq, Iyad Allawi. Nel sollecitare una nuova invasione di un paese che il suo ex padrone ha contribuito a distruggere, egli non ha fatto alcuna menzione degli almeno 700.000 morti, della fuga di quattro milioni di profughi e del caos settario in una nazione un tempo orgogliosa della sua tolleranza comunitaria.

“Blair incarna la corruzione e la guerra”, ha scritto l’opinionista radicale del Guardian Seumas Milne in un appassionato pezzo del 3 luglio. Nel mestiere questo è noto come “bilanciamento”. Il giorno dopo il giornale ha pubblicato un’inserzione pubblicitaria a piena pagina di un bombardiere invisibile statunitense. Su un’immagine minacciosa del bombardiere c’erano le parole: “F-35. GRANDIOSO per la Gran Bretagna”. Quest’altra incarnazione della “corruzione e guerra” costerà ai contribuenti britannici 1,3 miliardi di sterline, con i predecessori del modello F che hanno macellato gente in tutto il mondo sviluppato.

In un villaggio dell’Afghanistan, abitato dai più poveri dei poveri, ho filmato Orifa, inginocchiato presso le tombe di suo marito, Gul Ahmed, un tessitore di tappeti, di sette altri membri della sua famiglia, tra cui sei bambini, e di due bambini uccisi nella casa vicina. Una bomba “di precisione” da 500 libbre è caduta direttamente sulla sua casetta di fango, pietra e paglia, lasciando un cratere largo 15 metri. La Lockheed Martin, produttrice dell’aereo, è stata orgogliosa del proprio posto nella pubblicità del Guardian.

L’ex Segretario di Stato USA e aspirante alla presidenza Hillary Clinton ha recentemente partecipato all’”Ora delle donne” della BBC, la quintessenza della rispettabilità mediatica. La conduttrice, Jenni Murray, ha presentato la Clinton come un simbolo della realizzazione femminile. Non ha ricordato ai suoi ascoltatori l’oscenità della Clinton che l’Afghanistan è stato invaso per “liberare” donne come Orifa. Non ha chiesto nulla alla Clinton a proposito della campagna terroristica della sua amministrazione con l’uso di droni per uccidere donne, uomini e bambini. Non c’è stata alcuna menzione della minaccia sprecata della Clinton, durante la sua campagna per la prima presidenza femminile, di “eliminare” l’Iran e nulla a proposito del suo appoggio alla sorveglianza illegale di masse e al perseguimento dei denunciatori dall’interno.

La Murray ha effettivamente posto una domanda imbarazzante. La Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? “Il perdono è una scelta”, ha detto la Clinton, “per me è stata assolutamente la scelta giusta”. Ciò ha ricordato gli anni ’90 e gli anni dedicati allo “scandalo” Lewinsky. Il presidente Bill Clinton stava allora invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq. Stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni; l’Unicef ha riferito la morte di mezzo milione di bambini iracheni sotto i cinque anni in conseguenza dell’embargo guidato dagli USA e dalla Gran Bretagna.

I bambini erano mediaticamente non-persone, proprio come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni da lei appoggiate e promosse – Afghanistan, Iraq, Yemen, Somali – sono mediaticamente non-persone. La Murray non ha fatto alcun accenno a loro. Una sua fotografia con la sua distinta ospite, raggianti, compare sul sito della BBC.

In politica come nel giornalismo e nelle arti sembra che il dissenso un tempo tollerato nell’opinione corrente sia regredito a dissidenza: una metaforica clandestinità. Quando ho iniziato la mia carriera nella britannica Fleet Street negli anni ’60, era accettabile criticare la potenza occidentale come forza rapace. Leggete i celebrati articoli di James Cameron sull’esplosione della bomba all’idrogeno nell’atollo di Bikini, sulla barbara guerra di Corea e sui bombardamenti statunitensi del Vietnam del Nord. La grandiosa illusione odierna è di un’era dell’informazione quando, in realtà, viviamo in un’età mediatica in cui l’incessante propaganda dell’industria è insidiosa, contagiosa, efficace e liberale.

Nel suo saggio del 1859 ‘Sulla libertà’, al quale i liberali moderni rendono omaggio, John Stuart Mill scrisse: “Il dispotismo è una forma legittima di governo nel trattare con barbari, a condizione che il fine sia il loro miglioramento e i mezzi giustificati dall’effettivo conseguimento di tale fine”. I “barbari” I “barbari” erano vasti segmenti dell’umanità cui era prescritta l’”implicita obbedienza”. “E’ un mito bello e conveniente che i liberali siano pacificatori e i conservatori siano guerrafondai”, ha scritto nel 2001 lo storico Hywel Williams, “ma l’imperialismo della via liberale può essere più pericoloso a causa della sua natura illimitata, la sua convinzione di rappresentare una forma di vita superiore”. Egli aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di “riordinare il mondo attorno a noi” sulla base dei suoi “valori morali”.

Richard Falk, la rispettata autorità in tema di legge internazionale e Speciale Relatore dell’ONU sulla Palestina, ha descritto una volta “uno schermo farisaico morale-legale a senso unico [di] immagini positive di valori e innocenza occidentali presentato e minacciato a convalida di una campagna di smodata violenza politica”. E’ “accettato così diffusamente da essere virtualmente incontestabile”.

Carriera e appoggio ricompensano i guardiani. A Radio 4 della BBC Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la Premio Nobel afroamericana. La Morrisono si è chiesta perché la gente era “così arrabbiata” con Barack Obama che era “fantastico” e desiderava costruire un’ “economia e un’assistenza sanitaria forti”. La Morrison era orgogliosa di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata al suo insediamento.

Né lei né la sua intervistatrice hanno citato le sette guerre di Obama, inclusa la sua campagna terroristica con i droni, in cui intere famiglie, i loro soccorritori e le loro persone in lutto sono state assassinate. Quello che è sembrato contare è stato che un uomo di colore “dal linguaggio elegante” è salito alle vette di comando del potere. In ‘Dannati della terra’ Frantz Fanon scrisse che la “missione storica” dei colonizzati consisteva nel fare da “linea di trasmissione” per quelli che dominavano e opprimevano. Nell’era moderna è visto oggi come essenziale l’impiego della differenza etnica nei sistemi di potere e propaganda occidentali. Obama incarna questo, anche se il gabinetto di George W. Bush – la sua cricca guerrafondaia – è stato il più multirazziale della storia presidenziale.

Mentre cadeva in mano agli jihadisti dell’ISIS la città irachena di Mosul, Obama diceva: “Il popolo statunitense ha fatto enormi investimenti e sacrifici al fine di dare agli iracheni l’occasione di disegnarsi un destino migliore”. Quando “fantastica” è tale bugia? Quanto “elegantemente formulato” è stato il discorso di Obama il 28 maggio all’accademia militare di West Point? Tenendo il suo discorso sullo “stato del mondo” alla cerimonia di laurea di quelli che “assumeranno la guida statunitense” in tutto il mondo, Obama ha affermato: “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando i nostri interessi centrali lo richiederanno. L’opinione internazionale conta, ma gli Stati Uniti non chiederanno mai il permesso …”

Nel ripudiare la legge internazionale e i diritti di nazioni indipendenti, il presidente statunitense pretende una divinità basata sulla potenza della sua “nazione indispensabile”. E’ un familiare messaggio di impunità imperiale, anche se sempre stimolante da ascoltare. Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ’30 Obama ha detto: “Credo nell’eccezionalismo statunitense con ogni fibra del mio essere”. Lo storico Norman Pollack ha scritto: “Al posto del passo dell’oca mettere l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader ampolloso abbiamo il riformatore mancato, spensieratamente all’opera per pianificare ed eseguire assassinii, sorridendo tutto il tempo”.

In febbraio gli USA hanno montato uno dei loro colpi di stato “colorati” contro il governo eletto in Ucraina, sfruttando proteste genuine contro la corruzione di Kiev. Il Vicesegretario di Stato di Obama, Victoria Nuland, ha scelto personalmente il leader di un “governo provvisorio”. Gli ha attribuito il nomignolo di “Yats”. Il Vicepresidente Joe Biden si è recato a Kiev, così come il direttore della CIA John Brennan. Le truppe d’assalto del loro colpo di stato sono state fascisti ucraini.

Per la prima volta dal 1945 un partito neonazista, apertamente antisemita, controlla aree chiave del potere statale in una capitale europea. Nessun leader europeo occidentale ha condannato questa rinascita del fascismo nella zona di confine attraverso la quale i nazisti invasori di Hitler tolsero la vita a milioni di russi. Erano appoggiati dall’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), responsabile del massacro di ebrei e di russi che chiamavano “insetti parassiti”. L’UPA è l’ispiratore storico dell’odierno Partito Svoboda e del suo compagno di viaggio Settore Destro. Il leader di Svoboda, Oleh Tyahnybok ha sollecitato una pura della “mafia moscovito-ebraica” e di “altra feccia”, tra cui omosessuali, femministe e sinistra politica.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti hanno circondato la Russia di basi militari, aerei e missili nucleari come parte del Progetto di Allargamento della NATO. Rinnegando una promessa fatto al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov nel 1990 che la NATO non si sarebbe allargata di “un centimetro a est”, la NATO ha, in effetti, occupato l’Europa orientale. Nell’ex Caucaso sovietico l’espansione della NATO è il massimo crescendo militare dopo la seconda guerra mondiale.

Un Piano d’Azione d’Adesione alla NATO è il dono di Washington al regime golpista di Kiev. In agosto l’”Operazione Tridente Rapido” porterà truppe statunitense e britanniche sul confine russo dell’Ucraina e l’operazione “Brezza Marina” invierà navi da guerra statunitensi in vista dei porti russi. Si immagini la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, fossero attuati ai confini degli Stati Uniti.

Nel reclamare la Crimea – che Nikita Krusciov distaccò illegalmente dalla Russia nel 1954 – i russi hanno difeso sé stessi, come hanno fatto per quasi un secolo. Più del 90 per cento della popolazione della Crimea ha votato per il ritorno del territorio alla Russia. La Crimea è sede della Flotta del Mar Nero e la sua perdita sarebbe una questione di vita o di morte per la marina russa e una vittoria per la NATO. Confondendo le parti in guerra a Washington e Kiev, Vladimir Putin ha ritirato le truppe dal confine ucraino e ha sollecitato i russi etnici dell’Ucraina orientale a rinunciare al separatismo.

In stile orwelliano ciò è stato ribaltato in occidente come una “minaccia russa”. Hillary Clinton ha paragonato Putin a Hitler. Senza ironia, commentatori tedeschi di destra hanno detto la stessa cosa. Nei media i neonazisti ucraini sono ridefiniti “nazionalisti” o “ultranazionalisti”. Ciò che temono è che Putin stia abilmente ricercando una soluzione diplomatica e possa riuscirci. Il 27 giugno, reagendo all’ultimo accomodamento di Putin – la sua richiesta al parlamento russo di revocare la legge che gli dava il potere di intervenire nell’interesse dei russi etnici dell’Ucraina – il Segretario di Stato John Kerry ha diffuso un altro dei suoi ultimatum. La Russia deve “agire nel giro delle prossime ore, letteralmente” per por fine alla rivolta nell’Ucraina orientale. Nonostante che Kerry sia diffusamente riconosciuto come un pagliaccio, lo scopo serio di questi “avvertimenti” sta nel conferire alla Russia uno status di paria e nel cancellare le notizie della guerra del regime di Kiev contro il suo stesso popolo.

Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofono e bilingue. Ha ricercato a lungo una federazione democratica che riflettesse la diversità etnica dell’Ucraina e fosse sia autonoma sia indipendente da Mosca. Per la maggior parte non si tratta di “separatisti” o “ribelli”, bensì di cittadini che vogliono vivere sicuri nel proprio paese. Il separatismo è una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che ha forzato fino a 110.000 persone (stima dell’ONU) a fuggire in Russia attraversando il confine. Normalmente si tratta di donne e bambini traumatizzati.

Come i bambini dell’Iraq sottoposti a embargo e le donne e le ragazze dell’Afghanistan “liberate”, terrorizzate dai signori della guerra della CIA, questi cittadini etnici dell’Ucraina sono mediaticamente non-persone in occidente; le loro sofferenze e le atrocità commesse contro di loro sono minimizzate o cancellate. Nessuna sensazione della portata dell’assalto del regime è trasmessa di media occidentali convenzionali. Non è che manchino i precedenti. Leggendo nuovamente il magistrale ‘The First Casualty: the war correspondent as hero, propagandist and mythmaker’ [La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e costruttore di miti] di Phillip Knightley, ho rinnovato la mia ammirazione per Morgan Philips Price del Manchester Guardian, il solo giornalista occidentale rimasto in Russia durante la rivoluzione del 1917 a raccontare la verità sulla disastrosa invasione degli alleati occidentali. Imparziale e coraggioso, Philips Price turbò da solo quello che Knightley definisce un “oscuro silenzio” antirusso in occidente.

Il 2 maggio a Odessa 41 russi etnici sono stati bruciati vivi negli uffici della direzione del sindacato con la polizia che è rimasta a guardare. Esiste un’orrenda documentazione video. Il leader del Settore Destro, Dmytro Yarosh, ha salutato il massacro come “un altro giorno luminoso della nostra storia nazionale”. Dai media statunitensi e britannici è stato riferito come una “oscura tragedia”, conseguenza di “scontri” tra “nazionalisti” (neonazisti) e “separatisti” (persone che raccoglievano firme per un referendum su un’Ucraina federale). IlNew York Times ha insabbiato la cosa, avendo scartato come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi vassalli di Washington. Il Wall Street Journal ha condannato le vittime: “Mortale incendio in Ucraina probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. Obama si è congratulato con la giunta per la sua “moderazione”.

Il 28 giugno il Guardian ha dedicato la maggior parte di una pagina a dichiarazione del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. Di nuovo ha operato la regola di Orwell dell’inversione. Non c’è stato alcun colpo di stato; nessuna guerra contro la minoranza dell’Ucraina; i russi hanno avuto la colpa di tutto. “Vogliamo modernizzare il mio paese”, ha detto Poroshenko. “Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno noi per questo non piacciamo.”

In questo suo articolo il giornalista del Guardian, Luke Harding, non ha contestato queste affermazioni o citato l’atrocità di Odessa, gli attacchi aerei e di artiglieria del regime su aree residenziali, l’uccisione e il sequestro di giornalisti, le bombe incendiarie contro un giornale d’opposizione e la sua minaccia di “liberare l’Ucraina dalla sporcizia e dai parassiti”. I nemici sono “ribelli”, “militanti”, “insorti”, “terroristi” e fantocci del Cremlino. Sono evocati dalla storia i fantasmi di Vietnam, Cile, Timor Est, Africa meridionale, Iraq: si notino le stesse etichette. La Palestina è la calamita di tutto questo monotono inganno. L’11 luglio, dopo il più recente massacro israeliano a Gaza, con equipaggiamento statunitense – 80 morti tra cui sei bambini di una singola famiglia – un generale israeliano scrive sul Guardian sotto il titolo “Una necessaria dimostrazione di forza”.

Negli anni ’70 ho incontrato Leni Riefenstahl e le ho chiesto dei suoi film che glorificavano i nazisti. Utilizzando tecniche di ripresa e d’illuminazione rivoluzionarie ella produsse una forma documentaria che affascinò i tedeschi; fu il suo ‘Trionfo della volontà’ che si afferma abbia diffuso il maleficio di Hitler. Le chiesi della propaganda in società che si considerano superiori. Lei rispose che i “messaggi” nei suoi film dipendevano non da “ordini dall’alto” ma da un “vuoto condiscendente” nella popolazione tedesca. “Compresa la borghesia liberale istruita?” chiesi. “Tutti”, rispose. “E naturalmente l’intellighenzia”

Scritto per teleSUR English che partirà il 24 luglio

 

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/the-return-of-george-orwell-and-big-brothers-war-on-palestine-ukraine-and-truth-2/

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0



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La permanenza della guerra

Tommaso Di Francesco
 su il manifesto del 19 Luglio 2014

Guerre umanitarie. La barbarie temuta è arrivata. Di fronte alla permanenza dei conflitti, di quale equidistanza si può parlare?

 
Alla fine, dodici anni dopo, ecco il risul­tato della scon­fitta del più grande movi­mento con­tro la guerra, nella fat­ti­spe­cie in Iraq, che scese in piazza con cento milioni di per­sone e che venne defi­nito «la nuova potenza mon­diale». Hanno vinto i neo­con della destra ame­ri­cana e quei governo di cen­tro­si­ni­stra che in Occi­dente hanno spo­sato la causa del «mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio» che ha pro­fu­mato di buono le stragi della nostra epoca: la guerra è diven­tata per­ma­nente e dilaga.

E torna ovun­que e all’improvviso. All’improvviso? La sua san­gui­nosa attua­lità è tra­gi­ca­mente pre­sente ogni giorno nono­stante il silen­zio dei governi com­plici e spesso dei media, come Repub­blica e Cor­riere della Sera, che sono arri­vati a can­cel­lare le stragi di Gaza dalla prima pagina. Spesso anche a sini­stra la guerra è l’ultimo dei pro­blemi, da aggiun­gere all’ultimo momento in un docu­mento, o in una presa di posi­zione, nell’incapacità di inter­pre­tare le cor­re­la­zioni che legano, in un filo d’orrore, i diversi con­flitti della terra ai cam­bia­menti poli­tici per cui si lotta. Ma il pre­ci­pi­tare degli eventi rende evi­dente la gene­rale mio­pia che attra­versa la cul­tura occi­den­tale. Che pro­mette e annun­cia cre­scita eco­no­mica ma nasconde la vio­lenza che altrove si eser­cita per otte­nerla a qual­siasi costo, taci­tando il peri­colo e otte­nendo con­senso e potere. Così la per­ma­nenza della guerra resta e rie­merge, ria­prendo ferite mala­mente sutu­rate e abil­mente occultate.

Lo Stato d’Israele, che non cono­sce altro che la legge dei carri armati, muove i tank per rioc­cu­pare la Stri­scia di Gaza e lo fa per­ché ha «diritto a difen­dersi», fa sapere lo stesso Obama che nel discorso del Cairo del 2009 dichia­rava di sen­tire «il dolore del popolo pale­sti­nese, senza terra e senza patria». Sono pas­sati cin­que anni dall’inizio della sua Ammi­ni­stra­zione e la crisi medio­rien­tale vede non solo sem­pre un popolo senza terra né patria, ma la crisi è peg­gio­rata per­ché la colo­niz­za­zione è stata estesa, i Muri di divi­sione sono rad­dop­piati e, scrive l’editorialista di Haa­retz Gideon Levy, «Israele non vuole la pace, chi estende le colo­nie raf­forza l’occupazione e chi raf­forza l’occupazione non vuole la pace». I razzi di Hamas sono il fumo, certo distrut­tivo e mici­diale, che nasconde que­sta verità: lo Stato di Pale­stina, ridotto ad una alveare di inse­dia­menti, non ha più alcuna con­ti­nuità ter­ri­to­riale e non potrà esi­stere più.

Sono 270 le vit­time dei bom­bar­da­menti aerei israe­liani, in gran parte civili com­prese decine di bam­bini. Pen­sate solo a quanto odio è stato semi­nato dai bom­bar­dieri in que­sti giorni. E di che equi­di­stanza stiamo par­lando? C’è uno Stato, quello d’Israele che occupa le terre di un altro popolo che, anche secondo la Carta dell’Onu ha il diritto a ribel­larsi. Qual­cuno dica a che cosa hanno por­tato finora i finti nego­ziati di pace, con un governo israe­liano sordo ad ogni richie­sta di ritiro secondo due sto­ri­che Riso­lu­zioni dell’Onu o di blocco delle colo­nie e rab­bioso — Neta­nyahu è let­te­ral­mente fuori di sé — per la nuova unità nazio­nale pale­sti­nese Fatah-Hamas. Ma, certo, Israele ha diritto alla sua sicu­rezza. E i pale­sti­nesi, che non si danno per vinti, a che cosa hanno diritto?

E pro­prio men­tre dilaga la nuova guerra medio­rien­tale, l’abbattimento cri­mi­nale di un aereo di linea malese sui cieli tra Ucraina e Rus­sia, con quasi 300 vit­time – già con rim­pallo di respon­sa­bi­lità — obbliga a vol­gere lo sguardo in Europa. Già nei giorni scorsi erano decine i morti nell’est dell’Ucraina, negli scon­tri tra mili­zie sepa­ra­ti­ste e nazio­na­li­ste filo­russe nate nel Don­bass in con­trap­po­si­zione al nazio­na­li­smo ucraino anti­russo del movi­mento di Maj­dan ormai al potere a Kiev, soste­nuto dal’Ue e soprat­tutto dalla Nato che porta avanti l’indiscussa e indi­scu­ti­bile stra­te­gia dell’allargamento della sua stra­te­gia mili­tare a est, pro­prio alla fron­tiera russa. Una volontà che è all’origine, non a con­clu­sione, delle ten­sioni e del con­flitto in corso.

E appena si volge lo sguardo dall’est euro­peo all’altra sponda del Medi­ter­ra­neo, l’instabilità della Libia – san­tua­rio mili­tare di ogni sol­le­va­zione jiha­di­sta nell’area — diventa macro­sco­pica. Siamo a soli tre anni dall’abbattimento del regime di Ghed­dafi gra­zie all’intervento degli aerei della Nato diven­tati l’aviazione degli insorti jiha­di­sti in guerra con­tro il raìs. Gui­dava allora la nuova coa­li­zione bel­lica occidental-umanitaria, con l’Italia pro­ta­go­ni­sta, il «disin­te­res­sato» Sar­kozy. Che riu­scì a con­vin­cere un ini­ziale recal­ci­trante Obama che poi, con Hil­lary Clin­ton, ha pagato il prezzo di que­sta avven­tura con i fatti di Ben­gasi dell’11 set­tem­bre 2012.

Gio­vedì le mili­zie isla­mi­ste di Misurata, le più armate e radi­cali, hanno occu­pato Tri­poli, dove un ille­git­timo e impro­ba­bile governo chiede l’intervento inter­na­zio­nale. Intanto si com­batte in Siria e le mili­zie qae­di­ste dello Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante avan­zano in ter­ri­to­rio ira­cheno, men­tre in Afgha­ni­stan le ultime ele­zioni pre­si­den­ziali sono accu­sate di bro­gli e le truppe Usa e Isaf/Nato reste­ranno ancora per altri due anni.
Non c’è pace. È un disa­stro. Per­mane solo la bar­ba­rie che teme­vamo sarebbe arri­vata se non si fosse costruita una alter­na­tiva di valori e di sistema. In que­sti giorni noi ci rivol­tiamo al dis­sen­nato ten­ta­tivo del pre­si­dente Renzi di mani­po­lare la nostra Costi­tu­zione con la can­cel­la­zione della eleg­gi­bi­lità diretta e demo­cra­tica del Senato. Riflet­tiamo allora per un attimo sul fatto che per ognuna delle guerre che abbiamo elen­cato l’Italia è stata o è pro­ta­go­ni­sta e ha un ruolo militare.

Non solo in Iraq ma anche in Medio oriente dove par­te­cipa ad un Trat­tato mili­tare con Israele, nono­stante sia un paese in guerra per­ma­nente; in Libia ha bom­bar­dato dopo avere applau­dito al regime dell’ex raìs, in Siria è ancora nella fami­ge­rata coa­li­zione degli «Amici della Siria» che ha ali­men­tato il con­flitto; men­tre in Ucraina l’Italia sostiene, senza che se ne discuta, l’Alleanza atlan­tica che peri­co­lo­sa­mente alle­sti­sce da anni la sua nuova, pro­vo­ca­to­ria, cor­tina mili­tare alla fron­tiera russa come se fosse la nuova Guerra fredda. Riflet­tiamo allora su quanto sia stato deva­stato l’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione che ban­di­sce la guerra come mezzo di riso­lu­zione dei con­flitti inter­na­zio­nali. E ribel­lia­moci. Can­cel­lano il Senato per­ché, dicono, «pro­duce ceto poli­tico». Men­tre cre­sce solo la guerra, can­cel­lano l’articolo 11 per pro­durre ceto mili­tare e nuovi conflitti.