In Libia in questo momento ci sono due governi. A Tobruk ha sede l' esecutivo, uscito dalle “elezioni” del 25 giugno 2014, (ha votato il 18% degli aventi diritto), sostenuto da Francia, Arabia saudita ed Egitto e, generalmente, riconosciuto all' estero come “il governo legittimo”. Ma a Tripoli c’è un altro esecutivo che controlla tutta la Tripolitania, frutto di una alleanza tra islamisti radicali del cartello “Alba libica”, islamisti moderati e le milizie di Misurata. Questo esecutivo è sostenuto da Qatar e Turchia; e l' Italia è l' unico paese occidentale ad avere ancora la sua ambasciata aperta a Tripoli. Gli interessi italiani, cioè le attività dell' Eni, sono localizzate in questa parte di Libia e, paradossalmente, nel 2014, anno in cui è esplosa la guerra tra i due “governi”, la produzione petrolifera libica è risalita da 2/300 mila barili di petrolio al giorno a 900 mila barili, avvicinandosi alle quantità che erano estratte prima della guerra del 2011.
La posizione italiana è indubbiamente delicata e i due grandi quotidiani della borghesia, “Sole24ore” e “Corriere della Sera”, hanno assunto sulla questione posizioni molto divergenti.
Alberto Negri sul Sole24ore, il 7 novembre, dopo aver descritto la situazione, sostiene che: “…Questo è un momento favorevole per cogliere alcune opportunità – ristabilire l' influenza italiana in almeno una parte della Libia- ma è pure una situazione carica di rischi. Qualunque posizione che appoggi Tobruk danneggia la nostra presenza in Tripolitania. Se però ci sbilanciamo troppo su Tripoli rischiamo di perdere la copertura internazionale”
Ma molto più preoccupato è un editoriale sul Corriere della Sera del 12 novembre, dove Franco Venturini si domanda: “E se un giorno ci svegliassimo con i tagliagole dell' Isis davanti alla porta di casa?” e descrivendo la situazione della Libia con tinte molto più forti di Negri, continua: “ E intanto gruppi legati all'Isis stabiliscono alleanze con settori dell' arco islamista “Alba libica”, si infiltrano in Ansa al Sharia per poi prenderne il posto come hanno imparato a fare in Siria,.. sono probabilmente all' origine delle notizie di decapitazioni che giungono dalla Cirenaica, preparano, insomma, una offensiva strisciante che porti a un Califfato mediterraneo.” Così descritto il quadro, Venturini prospetta, comunque, una via di uscita: ”La Libia, anche oggi, vive delle esportazioni di petrolio e di gas. E' quella la cassa attorno alla quale ci si massacra e anche l'Isis di certo non la trascura. Un embargo energetico della comunità internazionale potrebbe costringere le milizie alla ragione, per sopravvivere”. Nelle righe successive ammetteva quindi che il sacrificio maggiore sarebbe stato per l' Eni e l' Italia, ma concludeva che comunque potrebbe bastare la sola minaccia di embargo per risolvere la situazione, senza dover passare a mettere in pratica il boicottaggio.
Se è vero quanto ci raccontano Negri e Venturini, non è fantapolitica ipotizzare che l' Eni, per continuare la sua attività, debba avere rapporti, e forse finanziare, le milizie armate incrementando così la guerra civile libica e il terrorismo islamico più feroce; quello – per capirci – che oggi in Cirenaica taglia le teste e uccide le poche donne che osano fare attività politica. Tutto questo mentre l’Italia manda quattro Tornado (sono cacciabombardieri capaci di portare 9 tonnellate di proiettili, missili e altre munizioni, altro che “ricognitori”) in Kuwait. Per operazioni in Iraq contro l'isis. Per combattere il terrorismo islamico.
Ma, l’ENI chi finanzia?
Marco Palombo
L'Italia sarebbe in prima linea per un eventuale intervento militare in Libia. A confermarlo è oggi il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, intervistato da Repubblica, ha detto che in Libia l'Italia interverrebbe sicuramente in una missione di peacekeeping, ma “rigorosamente sotto l'egida dell'Onu”. “La Libia”, ha precisato Gentiloni, “rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile alla mediazione dell’Onu”. Nella regione mediorientale sottolinea il ministro degli esteri “Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente”.
Che i paesi della Nato – e soprattutto l'Italia e altri paesi europei – stiano preparando un intervento militare in Libia, era nell'aria da tempo. Il New York Times dell'11 novembre riporta che il professore Vandewalle, studioso statunitense noto anche in Italia per libro di storia della Libia, ha di recente proposto che l’Unione europea invii una forza militare in quel paese con il compito di proteggere le istituzioni legali uscite dalle elezioni del 25 giugno scorso, le infrastrutture e la produzione di petrolio così da rafforzare il governo e accendere una speranza di stabilità. Interessante e inquietante la motivazione secondo cui dovrebbero essere la Ue e non l'Onu a intervenire militarmente in Libia, Vandewalle indica infatti l’Unione Europea perché nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia certamente si opporrebbe. “I paesi dell’Ue potrebbero decidere di intervenire anche senza mandato, ma sempre sotto il crisma della legalità internazionale qualora percepissero l’urgente necessità di proteggere la popolazione libica e si inducessero perciò a esercitarne la relativa responsabilità.”
L'ultima newsletter di Affari Internazionali (molto vicina agli ambienti Nato) riferisce inoltre che la mediazione avviata dalle Nazioni Unite in Libia, basata sul riconoscimento delle istituzioni uscite dalle elezioni, è stata affondata dalla sentenza della Corte Suprema libica che le ha invalidate il 6 novembre scorso. Quindi non ci sarebbero alternative ad un “intervento stabilizzatore” degli stati occidentali. Il prof. Vandewalle sembra, tra l'altro, aver previsto ogni aspetto e ogni possibile contestazione a tale scenario, spiegando che “Se l’Unione Europea beneficiasse di una solidarietà di politica estera il modo di intervenire, anche senza un mandato dell’Onu, potrebbe essere quello di raccogliere la richiesta delle istituzioni libiche che hanno vinto le elezioni”.
A questo clima di crescente eccitazione interventista in Libia, non sembrano affatto estranei i doppi colloqui tra l'Italia di Renzi e l'Egitto di Al Sisi, prima al Cairo mesi fa e in questi giorni a Roma. La convergenza di interessi tra Roma e il Cairo per sostenere il “governo libico di Tobruk” (filo egiziano e filo occidentale) contro la fazione jihadista che controlla il resto del paese, potrebbe rientrare nella più vasta escalation contro l'Isis sulla quale l'Egitto conta molto. Anche nella visita di questi giorni in Italia, Al Sisi ha insistito che la lotta contro i Fratelli Musulmani e i gruppi jihadisti nel Sinai e la “stabilizzazione della Libia” sono parte integrante della campagna contro l'Isis. Su questo Egitto e Italia hanno un interesse strategico convergente e obiettivo. Non certo casualmente, Al Sisi dopo la visita in Italia è andato in Francia, altra potenza europea con enormi responsabilità e interessi su quanto è accaduto in Libia.
Come noto e come ribadito anche dal ministro degli esteri italiano Gentiloni, la posta in gioco sulla sponda sud del Mediterraneo è sempre grossa. In Libia infatti, nonostante il caos e gli scontri, la produzione petrolifera – quella che interessa le multinazionali e gli Stati imperialisti – è tornata a crescere, con alti e bassi vorticosi ovviamente, ma è tornata a crescere. L' Aspo, associazione per lo studio del picco petrolifero, ha confermato l’ aumento della produzione libica nel 2014. Dopo il colpo di stato contro Gheddafi e la guerra civile nel 2011, c'era stato un crollo, nel 2013 la produzione era ritornata ad un milione di barili il giorno, c'era stato un nuovo crollo nel primo trimestre del 2014, scendendo a 200.000 barili/giornalieri, risalito poi gradualmente fino a 900 mila b/g proprio nei mesi del 2014 in cui lo scontro tra le due principali fazioni si radicalizzava. E' la conferma che la destabilizzazione e la disgregazione degli Stati produttori o esportatori di materie prime – sistematicamente perseguita dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea – porta sì alla dissoluzione degli Stati più deboli ma assicura il flusso delle risorse, facilitando la “contrattazione” con soggetti più divisi, deboli e con meno potere negoziale di uno Stato.
Ha un bel dire Roberto Aliboni, consigliere dell'Istituto Affari Internazionali, che un intervento militare sarebbe sconsigliato e sarebbe meglio privilegiare il terreno diplomatico. Le forze e gli interessi che spingono per un intervento militare europeo ed italiano di “stabilizzazione” della Libia, sembrano avere più carte da giocare. Prepariamoci al peggio. Ce lo chiede l'Europa.
Nell’intervista (la Repubblica, 26 novembre), che il ministero degli esteri riporta nel suo sito dandole carattere ufficiale, Gentiloni ribadisce che, di fronte all’attuale crisi libica, «certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi: abbatterlo era una causa sacrosanta». Spiega quindi che, poiché «la Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico», il governo sta lavorando, manco a dirlo, per «un intervento di peacekeeping, che vedrebbe l‘Italia impegnata in prima fila». E alla domanda di Lerner se «bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Isis», risponde: «È un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila km di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia». E aggiunge che «abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato, ma ora sappiamo di non poter più delegare le nostre responsabilità agli americani, strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente».
Questa in sintesi l’intervista che, se non fosse per la drammaticità dell’argomento, rischia di apparire come un teatrino comico.
Paolo Gentiloni (Pd), formatosi secondo Lerner nella «cultura del pacifismo e del disarmo» — come si sa, in Italia tutti sono stati da giovani contro la guerra, (perfino Benito Mussolini) — è però ora esponente di quello schieramento politico bipartisan che, stracciato l’articolo 11 della nostra Costituzione (e l’allora trattato di amicizia italo-libico), ha messo a disposizione nel 2011 le basi e le forze aeree e navali dell’Italia per la guerra Usa/Nato alla Libia. In sette mesi i cacciabombardieri, decollando per la maggior parte dall’Italia, effettuavano 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili.
Venivano allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani e occidentali. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi.
Tra questi, i primi nuclei del futuro Isis, frutto diretto della «sacrasonta», per Gentiloni, cacciata di Gheddafi — che, dopo aver contribuito a rovesciare il Colonnello libico, sono passati in Siria per rovesciare Assad.
Una domanda: ma se è sacrosanto l’abbattimento di Gheddafi perché non dovrebbe essere altrettanto «sacrosanto» l’Isis che è stato il prevedibile effetto collaterale di quella guerra voluta a tutti i costi dalla Nato?
Qui in Libia, a Bengasi l’11 settembre 2012, le milizie jihadiste si sono ribellate agli alleati e istruttori Usa assaltando il consolato americano e uccidendo l’ambasciatore Chris Stevens. Uno smacco per gli Usa. Si dimise il capo della Cia Petraeus e uscì di scena il segretario di Stato Hillary Clinton (è la spina nel fianco della sua candidatura presidenziale).
E in Siria, nel 2013, è nato l’Isis che ha ricevuto finanziamenti, armi e vie di transito dai più stretti alleati degli Usa (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania) in un piano coordinato da Washington (in barba al «disimpegno occidentale» di cui parla Lerner), lanciando poi l’offensiva in Iraq.
Ma a quanto pare per l’Italia è come se questo disastro non fosse mai accaduto. È la stessa Italia che ha contribuito ad appiccare «l’incendio» di cui parla Lerner, scaturito dalla demolizione dello Stato libico e dal tentativo, non riuscito, di demolire quello siriano in base agli interessi strategici degli Usa e delle maggiori potenze europee, provocando centinaia di migliaia di vittime (per la maggior parte civili) e milioni di profughi.
La battuta non-sense di Gentiloni che gli Usa sono «strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente» è un penoso tentativo di nascondere la realtà.
Il lancio in Libia di una operazione di «peacekeeping» (ossia di guerra, visto il caos militare libico), con l’Italia in prima fila, rientra nei piani di Washington che, non volendo impegnare truppe Usa in una operazione terrestre in Nordafrica (che nella strategia Usa è considerato un tutt’uno col Medio Oriente), cerca alleati disponibili a farlo e a pagarne costi e rischi.
Già nel giugno 2013, nell’incontro col premier Letta al G8, il presidente Obama chiese «una mano all’Italia per risolvere le tensioni in Libia». E Letta, da scolaro modello, portò il compito già fatto: «Un piano italiano per la Libia».
Quello che il premier Renzi ha copiato e ora ripropone per bocca del sacrosanto Gentiloni, promosso a ministro degli esteri anche per i meriti acquisiti quale presidente della sezione Italia-Stati Uniti dell’Unione Interparlamentare.