La prossima guerra di Libia

1) ENI in Libia. Chi finanzia? (di Marco Palombo, 19/11/2014)
2) L'Italia si prepara ad un intervento militare in Libia? Ce lo chiederà l'Europa! (di Sergio Cararo, 26/11/2014)
3) Sacrosanto ministro Gentiloni (di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci, 27.11.2014)


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http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2814

Eni in Libia. Chi finanzia?

19 NOVEMBRE 2014

In Libia in questo momento ci sono due governi. A Tobruk ha sede l' esecutivo, uscito dalle “elezioni” del 25 giugno 2014, (ha votato il 18% degli aventi diritto), sostenuto da Francia, Arabia saudita ed Egitto e, generalmente, riconosciuto all' estero come “il governo legittimo”. Ma a Tripoli c’è un altro esecutivo che controlla tutta la Tripolitania, frutto di una alleanza tra islamisti radicali del cartello “Alba libica”, islamisti moderati e le milizie di Misurata. Questo esecutivo è sostenuto da Qatar e Turchia; e l' Italia è l' unico paese occidentale ad avere ancora la sua ambasciata aperta a Tripoli. Gli interessi italiani, cioè le attività dell' Eni, sono localizzate in questa parte di Libia e, paradossalmente, nel 2014, anno in cui è esplosa la guerra tra i due “governi”, la produzione petrolifera libica è risalita da 2/300 mila barili di petrolio al giorno a 900 mila barili, avvicinandosi alle quantità che erano estratte prima della guerra del 2011.

La posizione italiana è indubbiamente delicata e i due grandi quotidiani della borghesia, “Sole24ore” e “Corriere della Sera”, hanno assunto sulla questione posizioni molto divergenti.

Alberto Negri sul Sole24ore, il 7 novembre, dopo aver descritto la situazione, sostiene che: “…Questo è un momento favorevole per cogliere alcune opportunità – ristabilire l' influenza italiana in almeno una parte della Libia- ma è pure una situazione carica di rischi. Qualunque posizione che appoggi Tobruk danneggia la nostra presenza in Tripolitania. Se però ci sbilanciamo troppo su Tripoli rischiamo di perdere la copertura internazionale

Ma molto più preoccupato è un editoriale sul Corriere della Sera del 12 novembre, dove Franco Venturini si domanda: “E se un giorno ci svegliassimo con i tagliagole dell' Isis davanti alla porta di casa?” e descrivendo la situazione della Libia con tinte molto più forti di Negri, continua: “ E intanto gruppi legati all'Isis stabiliscono alleanze con settori dell' arco islamista “Alba libica”, si infiltrano in Ansa al Sharia per poi prenderne il posto come hanno imparato a fare in Siria,.. sono probabilmente all' origine delle notizie di decapitazioni che giungono dalla Cirenaica, preparano, insomma, una offensiva strisciante che porti a un Califfato mediterraneo.” Così descritto il quadro, Venturini prospetta, comunque, una via di uscita: ”La Libia, anche oggi, vive delle esportazioni di petrolio e di gas. E' quella la cassa attorno alla quale ci si massacra e anche l'Isis di certo non la trascura. Un embargo energetico della comunità internazionale potrebbe costringere le milizie alla ragione, per sopravvivere”. Nelle righe successive ammetteva quindi che il sacrificio maggiore sarebbe stato per l' Eni e l' Italia, ma concludeva che comunque potrebbe bastare la sola minaccia di embargo per risolvere la situazione, senza dover passare a mettere in pratica il boicottaggio.

Se è vero quanto ci raccontano Negri e Venturini, non è fantapolitica ipotizzare che l' Eni, per continuare la sua attività, debba avere rapporti, e forse finanziare, le milizie armate incrementando così la guerra civile libica e il terrorismo islamico più feroce; quello – per capirci –  che oggi in Cirenaica taglia le teste e uccide le poche donne che osano fare attività politica. Tutto questo mentre l’Italia manda quattro Tornado (sono cacciabombardieri capaci di portare 9 tonnellate di proiettili, missili e altre munizioni, altro che “ricognitori”) in Kuwait. Per operazioni in Iraq contro l'isis. Per combattere il terrorismo islamico.

Ma, l’ENI chi finanzia?

Marco Palombo




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L'Italia si prepara ad un intervento militare in Libia? Ce lo chiederà l'Europa!

di Sergio Cararo
Mercoledì, 26 Novembre 2014


L'Italia sarebbe in prima linea per un eventuale intervento militare in Libia. A confermarlo è oggi il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, intervistato da Repubblica, ha detto che in Libia l'Italia interverrebbe sicuramente in una missione di peacekeeping, ma “rigorosamente sotto l'egida dell'Onu”. “La Libia”, ha precisato Gentiloni, “rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile alla mediazione dell’Onu”. Nella regione mediorientale sottolinea il ministro degli esteri “Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente”.

Che i paesi della Nato – e soprattutto l'Italia e altri paesi europei – stiano preparando un intervento militare in Libia, era nell'aria da tempo. Il New York Times dell'11 novembre riporta che il professore Vandewalle, studioso statunitense noto anche in Italia per libro di storia della Libia, ha di recente proposto che l’Unione europea invii una forza militare in quel paese con il compito di proteggere le istituzioni legali uscite dalle elezioni del 25 giugno scorso, le infrastrutture e la produzione di petrolio così da rafforzare il governo e accendere una speranza di stabilità. Interessante e inquietante la motivazione secondo cui dovrebbero essere la Ue e non l'Onu a intervenire militarmente in Libia, Vandewalle indica infatti l’Unione Europea perché nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia certamente si opporrebbe. “I paesi dell’Ue potrebbero decidere di intervenire anche senza mandato, ma sempre sotto il crisma della legalità internazionale qualora percepissero l’urgente necessità di proteggere la popolazione libica e si inducessero perciò a esercitarne la relativa responsabilità.”

L'ultima newsletter di Affari Internazionali (molto vicina agli ambienti Nato) riferisce inoltre che la mediazione avviata dalle Nazioni Unite in Libia, basata sul riconoscimento delle istituzioni uscite dalle elezioni, è stata affondata dalla sentenza della Corte Suprema libica che le ha invalidate il 6 novembre scorso. Quindi non ci sarebbero alternative ad un “intervento stabilizzatore” degli stati occidentali. Il prof. Vandewalle sembra, tra l'altro, aver previsto ogni aspetto e ogni possibile contestazione a tale scenario, spiegando che “Se l’Unione Europea beneficiasse di una solidarietà di politica estera il modo di intervenire, anche senza un mandato dell’Onu, potrebbe essere quello di raccogliere la richiesta delle istituzioni libiche che hanno vinto le elezioni”.

A questo clima di crescente eccitazione interventista in Libia, non sembrano affatto estranei i doppi colloqui tra l'Italia di Renzi e l'Egitto di Al Sisi, prima al Cairo mesi fa e in questi giorni a Roma. La convergenza di interessi tra Roma e il Cairo per sostenere il “governo libico di Tobruk” (filo egiziano e filo occidentale) contro la fazione jihadista che controlla il resto del paese, potrebbe rientrare nella più vasta escalation contro l'Isis sulla quale l'Egitto conta molto. Anche nella visita di questi giorni in Italia, Al Sisi ha insistito che la lotta contro i Fratelli Musulmani e i gruppi jihadisti nel Sinai e la “stabilizzazione della Libia” sono parte integrante della campagna contro l'Isis. Su questo Egitto e Italia hanno un interesse strategico convergente e obiettivo. Non certo casualmente, Al Sisi dopo la visita in Italia è andato in Francia, altra potenza europea con enormi responsabilità e interessi su quanto è accaduto in Libia.

Come noto e come ribadito anche dal ministro degli esteri italiano Gentiloni, la posta in gioco sulla sponda sud del Mediterraneo è sempre grossa. In Libia infatti, nonostante il caos e gli scontri, la produzione petrolifera – quella che interessa le multinazionali e gli Stati imperialisti – è tornata a crescere, con alti e bassi vorticosi ovviamente, ma è tornata a crescere. L' Aspo, associazione per lo studio del picco petrolifero, ha confermato l’ aumento della produzione libica nel 2014. Dopo il colpo di stato contro Gheddafi e la guerra civile nel 2011, c'era stato un crollo, nel 2013 la produzione era ritornata ad un milione di barili il giorno, c'era stato un nuovo crollo nel primo trimestre del 2014, scendendo a 200.000 barili/giornalieri, risalito poi gradualmente  fino a 900 mila b/g  proprio nei mesi del 2014 in cui lo scontro tra le due principali fazioni si radicalizzava. E' la conferma che la destabilizzazione e la disgregazione degli Stati produttori o esportatori di materie prime – sistematicamente perseguita dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea – porta sì alla dissoluzione degli Stati più deboli ma assicura il flusso delle risorse, facilitando la “contrattazione” con soggetti più divisi, deboli e con meno potere negoziale di uno Stato.

Ha un bel dire Roberto Aliboni, consigliere dell'Istituto Affari Internazionali, che un intervento militare sarebbe sconsigliato e sarebbe meglio privilegiare il terreno diplomatico. Le forze e gli interessi che spingono per un intervento militare europeo ed italiano di “stabilizzazione” della Libia, sembrano avere più carte da giocare. Prepariamoci al peggio. Ce lo chiede l'Europa.


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Sacrosanto ministro Gentiloni

di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci
su Il Manifesto del 27.11.2014

«L’Italia sta attrez­zan­dosi per fron­teg­giare la guerra che le si pre­senta alle porte?»: Gad Ler­ner è andato a chie­derlo al nuovo mini­stro degli esteri, Paolo Gen­ti­loni, «for­ma­tosi nella cul­tura del paci­fi­smo e del disarmo, oggi rimessa dram­ma­ti­ca­mente in discus­sione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare, a comin­ciare dalla vici­nis­sima Libia».

Nell’intervista (la Repub­blica, 26 novem­bre), che il mini­stero degli esteri riporta nel suo sito dan­dole carat­tere uffi­ciale, Gen­ti­loni riba­di­sce che, di fronte all’attuale crisi libica, «certo non rim­pian­giamo la caduta di Ghed­dafi: abbat­terlo era una causa sacro­santa». Spiega quindi che, poi­ché «la Libia rap­pre­senta per noi un inte­resse vitale per la sua vici­nanza, il dramma dei pro­fu­ghi, il rifor­ni­mento ener­ge­tico», il governo sta lavo­rando, manco a dirlo, per «un inter­vento di pea­ce­kee­ping, che vedrebbe l‘Italia impe­gnata in prima fila». E alla domanda di Ler­ner se «biso­gna rive­dere la stra­te­gia del disim­pe­gno occi­den­tale nella lotta con­tro l’Isis», risponde: «È un impe­gno che ricade natu­ral­mente anche sull’Italia, con i suoi otto­mila km di coste, ma tutta l’Europa è chia­mata a farsi carico di affron­tare que­sta minac­cia». E aggiunge che «abbiamo col­ti­vato l’illusione di un mondo futuro tran­quillo e paci­fi­cato, ma ora sap­piamo di non poter più dele­gare le nostre respon­sa­bi­lità agli ame­ri­cani, stra­te­gi­ca­mente meno inte­res­sati di noi alle sorti del Medio Oriente».

Que­sta in sin­tesi l’intervista che, se non fosse per la dram­ma­ti­cità dell’argomento, rischia di appa­rire come un tea­trino comico.

Paolo Gen­ti­loni (Pd), for­ma­tosi secondo Ler­ner nella «cul­tura del paci­fi­smo e del disarmo» — come si sa, in Ita­lia tutti sono stati da gio­vani con­tro la guerra, (per­fino Benito Mus­so­lini) — è però ora espo­nente di quello schie­ra­mento poli­tico bipar­ti­san che, strac­ciato l’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione (e l’allora trat­tato di ami­ci­zia italo-libico), ha messo a dispo­si­zione nel 2011 le basi e le forze aeree e navali dell’Italia per la guerra Usa/Nato alla Libia. In sette mesi i cac­cia­bom­bar­dieri, decol­lando per la mag­gior parte dall’Italia, effet­tua­vano 30mila mis­sioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili.

Veni­vano allo stesso tempo infil­trate in Libia forze spe­ciali, tra cui migliaia di com­man­dos qata­riani e occi­den­tali. Veni­vano finan­ziati e armati i set­tori tri­bali ostili al governo di Tri­poli e anche gruppi isla­mici fino a pochi mesi prima defi­niti terroristi.

Tra que­sti, i primi nuclei del futuro Isis, frutto diretto della «sacra­sonta», per Gen­ti­loni, cac­ciata di Ghed­dafi — che, dopo aver con­tri­buito a rove­sciare il Colon­nello libico, sono pas­sati in Siria per rove­sciare Assad.

Una domanda: ma se è sacro­santo l’abbattimento di Ghed­dafi per­ché non dovrebbe essere altret­tanto «sacro­santo» l’Isis che è stato il pre­ve­di­bile effetto col­la­te­rale di quella guerra voluta a tutti i costi dalla Nato?

Qui in Libia, a Ben­gasi l’11 set­tem­bre 2012, le mili­zie jiha­di­ste si sono ribel­late agli alleati e istrut­tori Usa assal­tando il con­so­lato ame­ri­cano e ucci­dendo l’ambasciatore Chris Ste­vens. Uno smacco per gli Usa. Si dimise il capo della Cia Petraeus e uscì di scena il segre­ta­rio di Stato Hil­lary Clin­ton (è la spina nel fianco della sua can­di­da­tura presidenziale).

E in Siria, nel 2013, è nato l’Isis che ha rice­vuto finan­zia­menti, armi e vie di tran­sito dai più stretti alleati degli Usa (Ara­bia Sau­dita, Qatar, Kuwait, Tur­chia, Gior­da­nia) in un piano coor­di­nato da Washing­ton (in barba al «disim­pe­gno occi­den­tale» di cui parla Ler­ner), lan­ciando poi l’offensiva in Iraq.

Ma a quanto pare per l’Italia è come se que­sto disa­stro non fosse mai acca­duto. È la stessa Ita­lia che ha con­tri­buito ad appic­care «l’incendio» di cui parla Ler­ner, sca­tu­rito dalla demo­li­zione dello Stato libico e dal ten­ta­tivo, non riu­scito, di demo­lire quello siriano in base agli inte­ressi stra­te­gici degli Usa e delle mag­giori potenze euro­pee, pro­vo­cando cen­ti­naia di migliaia di vit­time (per la mag­gior parte civili) e milioni di profughi.

La bat­tuta non-sense di Gen­ti­loni che gli Usa sono «stra­te­gi­ca­mente meno inte­res­sati di noi alle sorti del Medio Oriente» è un penoso ten­ta­tivo di nascon­dere la realtà.

Il lan­cio in Libia di una ope­ra­zione di «pea­ce­kee­ping» (ossia di guerra, visto il caos mili­tare libico), con l’Italia in prima fila, rien­tra nei piani di Washing­ton che, non volendo impe­gnare truppe Usa in una ope­ra­zione ter­re­stre in Nor­da­frica (che nella stra­te­gia Usa è con­si­de­rato un tutt’uno col Medio Oriente), cerca alleati dispo­ni­bili a farlo e a pagarne costi e rischi.

Già nel giu­gno 2013, nell’incontro col pre­mier Letta al G8, il pre­si­dente Obama chiese «una mano all’Italia per risol­vere le ten­sioni in Libia». E Letta, da sco­laro modello, portò il com­pito già fatto: «Un piano ita­liano per la Libia». 

Quello che il pre­mier Renzi ha copiato e ora ripro­pone per bocca del sacro­santo Gen­ti­loni, pro­mosso a mini­stro degli esteri anche per i meriti acqui­siti quale pre­si­dente della sezione Italia-Stati Uniti dell’Unione Interparlamentare.