10 febbraio
Giorno del ricordo e speculazione antistorica
Ed eccoci, di nuovo, a pochi giorni dal “Giorno della memoria”, al “Giorno del ricordo”, istituito dal II Governo Berlusconi nel marzo 2004, e divenuto legge, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 13 aprile di quell’anno. Sebbene la legge parli, testualmente, di un giorno “in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati", nel discorso corrente si richiamano soltanto le foibe.
Quest’anno la notizia è doppia: la prima concerne Roma,dove, addirittura in anticipo rispetto alla ricorrenza, si è inaugurata una “Casa del Ricordo”, con grande solennità, alla presenza del presidente della Giunta Regionale, Nicola Zingaretti, e di due assessori dell’Amministrazione comunale, uno dei quali ha pure la delega del sindaco “alla Memoria”. La seconda notizia, più o meno di rito, è la circolare inviata dalla ministra dell’Istruzione Università e Ricerca, la signora Giannini (che ha appena lasciato il gruppo parlamentare di “Scelta civica”, dove pure occupava posizione eminente, addirittura di “portavoce”, per approdare al più promettente Gruppone del PD).
La circolare è un interessante documento di ignoranza della storia, un dato diffuso, come si sa, ma che suscita un moto di fastidio supplementare, provenendo da chi rappresenta istituzionalmente il dovere di “istruire” la popolazione. Tanto più che la signora Giannini risulta, professionalmente, essere una docente universitaria: è vero, la sua qualifica è professore (ordinario, naturalmente) di Glottologia e Linguistica e probabilmente non si ritiene tenuta alla conoscenza della storia, ma forse avrebbe potuto incaricare qualche suo collaboratore di un approfondimento, anche assai sommario, sui risultati recenti della ricerca sulle vicende accaduta nelle “terre orientali”, tra il 1943 e il 1947, e anche oltre. Avrebbe potuto e credo dovuto per evitare di riproporre luoghi comuni, rovesciamenti della verità storica, e cedimenti inquietanti al revisionismo: tutto ciò non in una chiacchiera da salotto, bensì in un documento ministeriale.
La ministra ha invitato tutti i dirigenti scolastici a ricordare, appunto, le vittime delle Foibe (scritto con la maiuscola), e “la tragedia dell’esodo che colpì più di 300mila persone”. Ma la ministra dimentica che quell’esodo faceva parte dei trattati di pace imposti a una nazione sconfitta, il cui onore era stato, in parte, salvato solo dai partigiani combattenti nella Resistenza. E dimentica altresì che la “vendetta” (se così vogliamo dire) esercitata dai soldati di Tito, in quella che viene chiamata “la tragedia delle foibe”, aveva un pregresso: la ferocia dell’occupazione italiana. Fa parte insomma di ciò che si etichetta a livello europeo, dopo la guerra, come “resa dei conti”.
Non dimentichiamo, inoltre, che secondo i canoni del razzismo fascista, gli slavi costituivano una sottoumanità, poco al di sopra degli ebrei, dei sinti e dei rom. E dunque ogni nefandezza era considerata lecita. E di nefandezze gli italiani in Jugoslavia ne commisero tante, suscitando un odio esteso e profondo, in una popolazione che pagò un prezzo di oltre un milione di morti alla guerra nazifascista. Quanto all’esodo, si tratta di una pagina evidentemente amarissima per quelle famiglie di connazionali, anche per la poco lieta accoglienza nella patria d’origine: l’Italia era stata ridotta dalla guerra di Mussolini a una situazione di tragico marasma e accogliere e sistemare 300/350.000 persone in quella circostanza non era cosa facile. Ma va di nuovo acceso un riflettore sul contesto. Gli esodi di massa furono la norma nel riassetto del Continente a partire dalla fine della guerra: solo in Germania dovettero sloggiare oltre dieci milioni di persone. Dunque quello dall’Istria e Dalmazia fu, in termini storici, un episodio modesto, che comunque rientrava negli assetti stabiliti dai trattati.
La ministra, a quanto pare ignara di tutto ciò, nel clima culturale determinato da un pesante senso comune revisionistico o rovescistico, ritiene corretto presentare le cose nei medesimi termini in cui vengono presentate dalla destra revanscista, a cui, quasi sempre, le Associazioni di esuli (a cui fa esplicito riferimento, come bacino culturale per ricordare quegli avvenimenti, la ministra nella circolare), sono prossime.
E in effetti le manifestazioni di cui ho avuto notizia sembrano comprovare un orientamento ben poco attento alla storia, ma molto alla propaganda. Vengono invitati relatori di Casa Pound o anche quando si tratta di studiosi seri, si presentano i fatti in modo distorto, fornendo cifre a vanvera, e non si spiega che gli “infoibati” erano sovente persone decedute nei combattimenti, o fascisti militanti giustiziati.
Certamente ci furono abusi, eccessi, episodi di ferocia: il programma TV Mixer di Minoli che nel 1991 aveva “lanciato” il tema delle foibe, parlò di “decine di migliaia”, panzana ridimensionata in una più recente puntata dell’altro programma di Minoli, La storia siamo noi: in realtà si trattò complessivamente di qualche migliaio di individui, buona parte dei quali deceduti, e gettati in quelle cavità naturali del terreno, a guisa di tombe. Poco edificante, certo, anche se si trattava di morti; ma non sempre era possibile dare “cristiana sepoltura” a quei corpi. La loro memoria non viene certo onorata, con la turpe, macabra speculazione politica che ogni anno, in febbraio, puntualmente, si riaffaccia, resa legale da una legge dello Stato, e legittimata da interventi improvvidi e disinformati di qualche politico in cerca di consensi.
(10 febbraio 2015)
Foibe e “esodo” italiano: archetipi del “revisionismo storico” su Guerra e Resistenza
Come si chiamava quel contadino che mi accolse nella catapecchia ricostruita sempre più misera dopo che gli ustascia per sei volte l’avevano incendiata? Era un uomo, che parlava serbocroato. Fascisti che parlavano italiano gli avevano ucciso il fratello, trascinandolo legato per i piedi alla coda di un cavallo, sulla strada sassosa che avevo percorso poco prima. Per me, Italiano, lui che da mesi conosceva come unico cibo patate abbrustolite sulla brace e senza sale, trovò pane, latte e formaggio. E perché non toccavo il cibo offerto, pensando a suo fratello con il capo frantumato da gente della mia lingua, dopo ripetuti inviti, il contadino analfabeta di Kolaric lo disse semplicemente: mangia, compagno; quelli non erano italiani, erano fascisti. Tu sei Italiano, tu sei un nostro compagno.
Eros Sequi, combattente italiano nelle fila dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugloslavia
La questione delle Foibe, o per meglio dire degli “infoibati” e del cosiddetto “esodo” italiano post-bellico dalle terre balcaniche colonizzate dal regime fascista, sono vicende paradigmatiche per come sono state trattate negli ultimi decenni.
Queste infatti mostrano il tentativo di affermare una dimensione culturale confacente alle strategie di governance delle élites politico-economiche italiane, facendola discendere da una visione storica su eventi passati, “depurata” dalla sua facciata smaccatamente neo-fascista, ma chiaramente ispirata al razzismo anti-slavo e allo nazional-sciovinismo travestito da patriottismo.
“Decostruirle” non è solo un atto dovuto di verità storica, ma un fine politico in sé per chi vuole contrastare le ricadute sul fronte interno della tendenza alla guerra.
La punizione, nel caso degli “infoibati”, e l’allontanamento, nel caso degli “esuli”, sono le conseguenze della liberazione da un dominio coloniale in cui l’oppressione di classe, “razza” e genere si sono fusi in una realtà storica assolutamente non dissimile dagli altri colonialismi, nonostante il mito degli italiani brava gente venga ancora perpetrato nella cultura nazional-popolare.
Un aspetto poco conosciuto è lo scontro che si consumò in quelle terre tra “compatrioti” provenienti dall’ex impero zarista, un angolo visuale che da la cifra dell’asprezza del conflitto sul “confine orientale”, e ribadisce il carattere “internazionalista” della Resistenza.
Lo storico Mikhail Talalay, autore di: Dal Caucaso agli appennini. Gli azerbaigiani nella Resistenza italiana (Roma 2013), parlando di una trappola tesa da cosacchi collaborazionisti del generale Vlasov ad un combattente sovietico inquadrato nelle file dei partigiani come perlustratore, Taghi Alizade, compagno che venne torturato a morte vicino a Trieste nell’inutile tentativo di estorcergli notizie su suoi compagni, fa queste considerazioni illuminanti:
Simili episodi autorizzano a pensare che si stesse affacciando, dopo un quarto di secolo, una nuova fase della guerra civile imperversata in Russia negli anni 1917-1920: ancora gli anticomunisti, i bianchi, ora uniti con gli occupanti tedeschi, combattevano contro i comunisti, i rossi, ora uniti ai partigiani italiani. Gli scontri tra compatrioti furono contraddistinti da una particolare ferocia: sappiamo ad esempio che nella primavera del 1945 i soldati sovietici del battaglione Stalin in Friuli lapidarono i cosacchi prigionieri affermando che fosse un peccato sprecare i proiettili. Dall’altra parte, un gruppo di cosacchi, dopo avere ucciso dei legionari caucasici georgiani che si erano uniti ai partigiani, oltraggiarono i corpi disponendoli in figura di svastica.
Il contributo degli italiani nella resistenza titina, viene completamente rimosso, sempre per negare il carattere internazionalista della guerra partigiana al nazi-fascismo, e consolidare il paradigma nazionalista in cui si cerca di collocare questi fenomeni, rinfocolando ancora oggi pre-fabbricate e fascistissime inimicizie “etniche”, se si pensa che nell’ottocento le camicie rosse dell’esule di Caprera combatterono in Erzegovina.
Più di 40.000 italiani si batterono tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945 nei Balcani, dando vita a reparti di guerriglia nazionalmente riconosciuti dall’Esercito popolare di liberazione Jugoslavo, e più di 20.000 diedero la vita tra le fila delle più conosciute divisioni ‘Garibaldi’ in Montenegro, a quelle dei battaglioni ‘Matteotti’ e ‘Garibaldi’ , poi brigata ‘Italia’ in Dalmazia e in Bosnia, insieme a tante altre esperienze “minori”.
Furono Fratelli di sangue, come s’intitola il libro di Aldo Bressan e Luciano Giurin (Rijeka 1964), sul contributo degli Italiani alla guerra popolare di liberazione della Jugoslava in Venezia-Giulia Slovenia ed in Istria-Fiume, dall’introduzione del quale è presa la citazione iniziale.
Il tentativo compiuto con l’operazione foibe e esodo italiano, non completamente realizzato, ha voluto affermarsi attraverso la riabilitazione di alcuni aspetti centrali del fascismo storico (sia squadrista che di regime) e alcuni elementi identitari costitutivi della nascita del neo-fascismo nel dopoguerra. Ha sovrapposto le menzogne di guerra passate a quelle presenti funzionali alla distruzione della Jugoslavia. Tutto questo è stato fatto allora per legittimare la propria politica bellicista nei confronti dei Balcani, incominciando a “fare i conti” con i valori “progressisti” della Resistenza per attuarne una revisione radicale del portato, aspetti per cui non c’era più spazio nel nuovo corso politico-sociale, come la revisione dei dettami costituzionali ha poi clamorosamente mostrato.
Grazie alla tenace opera di un gruppo di agguerriti storici militanti e di una rete variegata e informale di militanti politici di base la questione legata prima al colonialismo italiano durante il periodo fascista nelle terre agognate dall’irredentismo, poi all’occupazione italiana dei Balcani e contestualmente alla lotta di liberazione in quelle terre e delle sue inevitabili conseguenze post-belliche, non è prevalso completamente un arrogante “revisionismo storico”.
Ciò non toglie che il patrimonio classico del neo-fascismo durante la Prima Repubblica – riguardo alle foibe e all’ “esodo” – è stato fatto proprio dall’arsenale ideologico della sinistra istituzionale con responsabilità governative o ad essa subordinata, imponendo una narrazione storica egemone anche tra le file del “popolo della sinistra”.
Questa battaglia culturale, centrale nell’affermazione della “Seconda Repubblica” ha ben presto oltrepassato i perimetri del dibattito storiografico, ma è diventata una lotta a tutto campo, mirante a riabilitare di fatto aspetti tutt’altro che secondari del Ventennio Fascista, delegittimare una porzione importante della lotta al nazi-fascismo, scardinare le basi etico-politiche fondanti la Federazione Jugoslava e di riflesso puntare al superamento della dialettica fascismo-antifascismo nel dibattito e nella prassi politica italiana, di fatto sdoganando la feccia fascista.
LA NERA E LA VERA STORIA DELLE FOIBE
Con periodicità cronometrica ritorna il problema delle foibe e dei profughi istriani che fascisti e neofascisti hanno sempre impunemente agitato per fini demagogici nascondendo agli italiani la verità storica. Questa volta è il turno del neofascista Fini che a nome del governo italiano prende l’impegno solenne di ricordare quei profughi e insieme i caduti delle foibe, istituendo una giornata ufficiale di rimembranza (il 10 febbraio) in modo che questa tragedia, a suo dire, non si ripeta mai più. Così Fini, ignorando volutamente più di venti anni di orrori e massacri perpetrati dai fascisti e dai nazisti verso quelle popolazioni, si presenta lindo e pinto agli italiani di oggi e alle nuove generazioni che di quegli avvenimenti non hanno mai sentito parlare. Ma vediamo come sono andate le cose. Con la fine della prima guerra mondiale l’Italia ottenne con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, tutta l’Istria fino a Monte Nevoso, Zara e l’isola di Lagosta; mentre Fiume fu dichiarata città libera sia dall’Italia che dalla Jugoslavia. Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo, la popolazione dell’Istria, composta per circa il 65% da croati e sloveni in prevalenza contadini e operai, si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da Trieste dove si manifestò con particolare aggressività e ferocia.
Gli episodi del 13 luglio 1920 durante i quali gruppi di nazionalisti e fascisti, sostenuti e finanziati da armatori triestini, devastarono la tipografia del giornale “Edinost”, gli studi di numerosi professionisti sloveni le sedi della Banca Adriatica, della Banca di Credito di Lubiana, della Cooperativa per il Commercio e l’Industria e della Cassa di Risparmio Croata, segnarono l’inizio di una dura e violenta politica di oppressione e pulizia etnica che perseguì ininterrottamente per tutto il ventennio nei confronti delle popolazioni slave, slovene e croate. Fu l’inizio di un’opera di snazionalizzazione violenta e capillare di italianizzazione e di fascistizzazione della Venezia Giulia. Erano questi gli anni in cui lo “squadrismo nero” in Italia dilagava in tutta la sua efferatezza, appoggiato dalle forze di polizia e dalle Guardie Regie.
Nel solo primo semestre del 1921 furono operate, in Italia, dalle squadre fasciste più di 800 distruzioni: 119 Camere del Lavoro, 17 giornali e tipografie, 59 Case del Popolo, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 8 società di mutuo soccorso, 141 sezioni socialiste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche, 28 sindacati operai, ecc. Nella Venezia Giulia le aggressioni e gli assalti da parte di squadre fasciste contro sedi operaie e slave si moltiplicarono: dopo l’incendio del “Balkan”, venne devastato ed incendiato il “Norodni Dom” di Pola, vennero date alle fiamme le case dei villaggi di Krnica e di Mackolje. Nel complesso 134 furono gli edifici della Venezia Giulia distrutti fra il 1919 ed il 1920. Mussolini scriverà sul “Popolo d’Italia” del 24 settembre 1920: “in altre plaghe d’Italia i Fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica”. (Foibe e Deportazioni: Quaderni della Resistenza n 10 a cura del Comitato Regionale dell’Anpi del Friuli-Venezia Giulia). Dopo la presa del potere politico da parte di Mussolini i misfatti nell’Istria si intensificarono fini ad assumere la forma di un preciso programma “legale” di snazionalizzazione nei confronti dei circa 500.000 sloveni e croati che il suddetto Trattato aveva destinato a vivere dentro i confini dello Stato italiano.
Furono aboliti o distrutti tutti gli enti o sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata, sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo, con decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia, migliaia di persone finirono al confino ( Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, S. Stefano, Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.), la lingua croata e slovena fu proibita nei tribunali e negli uffici e perfino sulle lapidi sepolcrali.
Centinaia e centinaia di democratici italiani, di operai, di socialisti, di comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle popolazioni croate e slovene, subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Molti di loro scomparivano nel giro di una notte, probabilmente infoibati. Circa 60.000 slavi fuggirono dall’Istria la cui metà trovò rifugio nelle due Americhe. Nel tentativo di cancellare ogni identità culturale e linguistica di quelle popolazioni considerate senza storia e di razza inferiore, il fascismo ormai al potere iniziò l’opera di snazionalizzazione colpendo i quadri dirigenti e costringendo all’emigrazione funzionari pubblici, sacerdoti, maestri, intellettuali per eliminare ogni espressione di vita politica e culturale. “I maestri slavi, i preti, i circoli di cultura slavi, ecc. sono tali anacronismi e controsensi in una regione annessa da ben nove anni e dove non esiste una classe intellettuale slava, da indurre a porre un freno immediato alla nostra longanimità e tolleranza” (da “Il Popolo di Trieste” del 27 giugno 1927).
Portata a termine la distruzione di ogni vestigia della cultura e delle tradizioni slave, il fascismo si accinse ad attaccare il movimento cooperativo dei contadini. Iniziò così il programma della loro espulsione dalle campagne avvenuta mediante l’indebitamento degli stessi contadini verso alcuni Istituti finanziari italiani e in particolare con l’Istituto per il Risorgimento delle Tre Venezie. Tra il ’28 e il ’29 vennero sciolte le leghe delle cooperative di Gorizia, costituite da 170 cooperative di cui 70 di credito e quella di Trieste, costituita da 140 cooperative, di cui 86 di credito. Si moltiplicarono i pignoramenti e infine tutte le terre messe all’asta furono in parte rilevate dall’Ente per la Rinascita delle Tre Venezie, costituito “ad hoc” il 14 agosto 1931. In pochi anni tutti i contadini proprietari di appezzamenti di terra furono espropriati: una metà di tali appezzamenti a favore dell’Ente e l’altra metà a favore di tre agrari italiani (L. CERMELJ: L’Istria fra le due guerre. Contributi per una storia sociale, IRSML, Ediesse, Roma 1985). Infine un decreto del governo italiano (n. 82 del 07-01-1937) autorizzò l’Ente delle Tre Venezie ad espropriare qualsiasi proprietà agricola. Ma ormai la seconda guerra mondiale batteva alle porte, così che il programma di bonifica etnica rurale rimase incompiuto.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania. Il 28 ottobre 1940 l’attacco fascista alla Grecia si risolse in una completa sconfitta. Il 6 aprile del ’41, 56 divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare, attaccarono da ogni parte il Regno di Jugoslavia che crollò nel giro di venti giorni. La Jugoslavia venne smembrata: la Slovenia settentrionale, più industrializzata, fu presa dalla Germania, quella meridionale, agricola, venne annessa all’Italia. La città di Lubiana fu dichiarata una provincia italiana. Furono annesse all’Italia anche le province di Fiume, Zara e la parte centrale della Dalmazia con numerose isole adriatiche. Zara, Spalato e Cattaro costituirono il Governatorato della Dalmazia. La Croazia fu dichiarato stato indipendente e Aimone di Savoia ne fu proclamato re, mentre il governo fu affidato al boia fascista croato Ante Pavelic – rientrato in Jugoslavia al seguito delle truppe naziste – e agli ustascia che diedero subito sfogo ad ogni sorta di “pulizia etnica”. Il Montenegro divenne un Governatorato civile italiano, trasformato ben presto in Governatorato militare. Buona parte del Kossovo e della Macedonia fu invece annessa alla Grande Albania, già aggredita ed annessa all’Italia nell’aprile del ’39.
Alla spartizione militare della Jugoslavia, seguì subito quella economica e finanziaria. Il bottino maggiore toccò, naturalmente, ai tedeschi i quali si accaparrarono le migliori fonti di materie prime ed energetiche, le più grandi banche e tutte quelle zone che ritennero economicamente più importanti, secondo una proporzione che rispecchiava il grado di vassallaggio di Mussolini ad Hitler. Come era nell’aria già da parecchio tempo, nell’estate del ’41, in Croazia, esplosero nei modi più barbari e sanguinari, i massacri più efferati condotti dagli ustascia contro la popolazione serba, gli ortodossi, gli ebrei, i comunisti e gli avversari politici di tutti i tipi. Un campo di concentramento fu attrezzato a Jasenovac per la loro eliminazione fisica. Ebbe così inizio una crociata cattolica che nulla aveva da invidiare ai peggiori massacri del Medioevo. Duecentonovantanove chiese serboortodosse della “Croazia Indipendente” furono saccheggiate, annientate e molte furono trasformate in magazzini e stalle. Duecentoquarantamila serbi ortodossi furono costretti a convertirsi al cattolicesimo e circa 750.000 furono assassinati, fucilati a mucchi, colpiti con scure, gettati nei fiumi, nelle foibe e nel mare. Venivano massacrati nelle cosiddette “Case del Signore”, ad esempio duemila persone solo nella chiesa di Glina. Da vivi venivano loro strappati gli occhi, tagliate le orecchie e il naso, venivano sgozzati, decapitati o crocifissi. In un rapporto su “La situazione politica in Dalmazia”, a proposito delle stragi compiute da questi “barbari del novecento” in Bosnia, nella Dalmazia rimasta sotto Ante Pavelic, si parla di “intere popolazioni trucidate” e di “centinaia di bambini sgozzati in serie”. Anche le camicie nere, per ordine di Mussolini, si distinsero per la loro ferocia perpetrando ogni sorta di violenza. Decine di migliaia di civili furono deportati nei campi di concentramento disseminati dall’Albania all’Italia, dall’isola adriatica di Arbe fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie.
In un documento del 15 dicembre 1942 l’Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati “presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame”. Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: “Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato= individuo che sta tranquillo”. Nel marzo del ’42 il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia (Supersloda), diramò una circolare 3/C (un libretto di circa 200 pagine compilato dal comando Supersloda contenente, tra l’altro, il “trattamento da usare alle popolazioni e ai partigiani nel corso delle operazioni”) nella quale si legge: “Il da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente”. Queste parole certamente furono tenute presenti e durante l’eccidio di Gramozna in Slovenia e quando alcune migliaia di civili “ribelli” furono falciati dai plotoni di esecuzione italiani, senza processo, ma solo in seguito a semplici ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
In 29 mesi di occupazione italiana nella sola “provincia” di Lubiana vennero fucilati o come ostaggi o durante le operazioni di rastrellamento, circa 5.000 civili, ai quali vanno aggiunti i circa 200 bruciati o massacrati in modi diversi. Novecento, invece, i partigiani catturati e fucilati. A questi si devono aggiungere altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, morti nei campi di concentramento. Complessivamente oltre 13.000 persone, su 340.000 abitanti, il 2,6% della popolazione (opera citata: Quaderni della Resistenza n 10).
Nella zona nord-orientale dell’Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità militari italiane intrapresero, all’inizio del giugno ’42, un’azione terroristica contro le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto relativamente idoneo alle armi, sicchè era probabile ritenere che tale congiunto avesse raggiunto le file dei partigiani.
A seguito di ciò un comunicato del generale Lorenzo Bravarone informò che erano state arrestate e deportate nei lager italiani 34 famiglie per un totale di 131 persone. I loro beni mobili furono confiscati e le loro case incendiate. Dodici di loro vennero passati per le armi senza alcun processo. Il 13 luglio del ’42 il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, ordinò una feroce rappresaglia come vendetta per l’uccisione di due maestri elementari fascisti mandati dal regime a Podhum per “italianizzare” i bambini croati. Reparti di camicie nere, insieme a reparti delle truppe regolari, appoggiati da numerosi giovani fascisti di Fiume, all’alba del 13 luglio entrarono nel villaggio di Podhum, rastrellarono l’intera popolazione che fu condotta in una cava di pietre presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva saccheggiato e incendiato.
Centinaia e centinaia di case furono distrutte, tutto il bestiame fu portato via e 889 persone di cui 412 bambini, 269 donne e 208 anziani finirono nei campi di concentramento italiani. Altri 91 uomini furono fucilati nella cava. Questo fu il vero volto del capitalismo italiano, monarchico e fascista, in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Tra la caduta del regime fascista, 25 luglio del ’43, e l’8 settembre del ’43, i poteri passarono dai gerarchi fascisti alle autorità militari le quali continuarono ad usare gli stessi strumenti di repressione usati dai fascisti, impiegando le truppe dislocate in Istria per la lotta contro i “ribelli” della Venezia Giulia. Con il crollo del regime fascista divampò la lotta di Resistenza – già da anni preparata – slovena e croata in Istria e nel Goriziano. Fin dal tardo pomeriggio dell’8 settembre nella penisola ci fu una generale rivolta popolare che coinvolse in egual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Le strutture militari dello Stato non opposero nessuna resistenza ( ad eccezione di Pola dove contro gli insorti e i partigiani fu aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione e si ebbero tre morti fra i civili ), sicchè nel giro di pochi giorni le armi dell’esercito e dei carabinieri passarono agli insorti. Nel clima esaltante della libertà riconquistata, accompagnato da manifestazioni di rivalsa sociale, prese corpo la volontà di una vera resa dei conti con gli italiani fascisti. Già il 13 settembre cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, dei podestà e di altri funzionari per ordine dei numerosi CPL. I primi massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona. Tra gli errestati, che nella stragrande maggioranza era composta da gerarchi fascisti, spie e collaborazionisti, capitarono anche impiegati comunali, notabili, commercianti ritenuti sfruttatori e fascisti che non avevano grandi colpe da espiare.Ma se l’equazione, diffusa in molte località dell’Istria, italiani=fascisti non fu giusta politicamente poiché accomunava il popolo italiano con il governo fascista, essa non fu certamente dettata dal CLN di Trieste che era il principale organo politico della Resistenza italiana nella Venezia Giulia. Il Comitato popolare di liberazione, nel settembre del ’43, anzi raccomandò che la punizione dei criminali fascisti avvenisse con regolari processi, impedendo nella maniera più energica procedimenti arbitrari e vendette.
Questi sono dunque gli avvenimenti più importanti che precedettero il 25 luglio e l’8 settembre del ’43 e sui quali regna il silenzio più assoluto. Essi ci dimostrano che ancor prima dell’8 settembre nelle foibe finirono, per opera dei fascisti di Mussolini, dei nazisti di Hitler e del fascista croato (sostenuto dalle gerarchie Vaticane e benedetto da Pio XII) Ante Pavelic, comunisti, socialisti, antifascisti e democratici, e, tra il 13 e il 25 settembre del ’43 e dopo l’aprile del ’45, ci finirono, giustamente, non solo gli sfruttatori e gli assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del popolo croato e sloveno, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l’espressione dell’odio popolare compresso in decenni di oppressione e sfruttamento che esplose con la caratteristica insurrezione popolare rivoluzionaria.
Piero De Sanctis (tratto dal numero 8 della rivista Gramsci - www.centrogramsci.it - del maggio 2003)