Fonte: pagina FB de La Nuova Alabarda, 7/2/2015
DELLA SERIE: IL COLPEVOLE TORNA SEMPRE SUL LUOGO DEL DELITTO
Il 10 febbraio alle 15 al Ridotto del Teatro Verdi incontro su ”Foibe ed esodo, settant'anni dopo: riflessioni, contributi ed idee per il consolidamento della memoria nazionale”, dialogo pubblico tra Gianfranco Fini e Luciano Violante.
http://archiviostorico.corriere.it/1998/marzo/15/Violante_Trieste_con_Fini_foibe_co_0_98031513668.shtml
Corriere della Sera, 15 marzo 1998 (Pagina 1)
IERI L' INCONTRO IN UNA CITTA' BLINDATA. DURE PROTESTE DI FORZA ITALIA E RIFONDAZIONE
Violante a Trieste con Fini: foibe dimenticate per convenienza
Ieri l'incontro in una citta' blindata. Dure proteste di Forza Italia e Rifondazione Violante a Trieste con Fini: foibe dimenticate per convenienza TRIESTE - Oltre "le ferite della storia". In una citta' presidiata dalle forze dell'ordine, Luciano Violante e Gianfranco Fini parlano due ore per ricucire "la memoria strappata" delle Foibe. Il presidente della Camera invita il Paese, e la sinistra, a rileggere "pagine non lette per convenienza, anche se non ci fanno piacere". Elenca "il dolore separato" e dimenticato vissuto da Trieste durante la guerra e il dopoguerra, riconosce le "responsabilita' gravi" dei comunisti negli eccidi. Il leader di An condanna "il razzismo strisciante". Dure contestazioni da Rifondazione e da Forza Italia. * A pagina 5 Alberti, Battistini Morelli
http://www.diecifebbraio.info/2014/07/ancora-polemiche-sul-numero-degli-infoibati-il-lapidario-di-gorizia/
ANCORA POLEMICHE SUL NUMERO DEGLI “INFOIBATI”: IL LAPIDARIO DI GORIZIA
“Sono 17 i deportati in Jugoslavia sopravvissuti”, titola il Piccolo, edizione di Gorizia, del 10/7/14, il che può indurre il lettore che non andrà ad approfondire l’articolo, a ritenere che delle migliaia di militari italiani internati in Jugoslavia alla fine del secondo conflitto mondiale solo 17 ne tornarono indietro.
In realtà i 17 sopravvissuti sono una parte del contingente di 28 finanzieri arrestati a Gorizia nel maggio 1945, e ciò viene chiarito nell’articolo, ma quello che il Piccolo non dice è che non furono gli unici sopravvissuti all’internamento nei campi jugoslavi. È vero che non si hanno cifre precise, ma se consideriamo che i ricercatori parlano di 6.000 internati (nella maggior parte militari, gli altri presunti collaborazionisti o criminali di guerra) e che dalle province di Trieste e Gorizia sparirono all’incirca un migliaio di persone (numero che comprende anche coloro che furono vittime di vendette personali, per i quali non si può attribuire alcuna responsabilità al governo jugoslavo), questo dato avrebbe dovuto essere riportato, ancorché col beneficio d’inventario, nell’articolo.
Ma tant’è. Il problema è che ciclicamente ritorna a galla la polemica sul numero degli “infoibati”, stavolta in riferimento ai deportati da Gorizia, in quanto, a seguito della pubblicazione del libro “Dal primo colpo all’ultima frontiera. La Guardia di finanza a Gorizia e provincia. Una storia lunga un secolo” di Federico Sancimino e Michele Di Bartolomeo (LEG 2014), viene reso noto che 17 dei 28 finanzieri indicati come “scomparsi” sul lapidario di Gorizia, sarebbero invece rientrati dalla prigionia in Jugoslavia.
Emblematica è la vicenda di questo monumento, unico nel suo genere. In esso sono stati inseriti 665 nomi di goriziani che sarebbero stati arrestati dagli Jugoslavi alla fine del conflitto, e scomparsi (“infoibati”, secondo la vulgata corrente o, come scrive il dottore in biologia Giorgio Rustia di Muggia, votatosi alla mistificazione storica, “massacrati dalle bande balcanico comuniste”). Negli anni ’90 l’allora vicepresidente dell’Anpi della provincia di Gorizia, Giuseppe Lorenzoni, prese in mano l’elenco e dopo un’accurata ricerca (pubblicata nel 1995) acclarò che 91 dei nomi erano “del tutto estranei alla circostanza” (caduti in guerra, partigiani, sopravvissuti…); e solo 314 erano residenti nella provincia di Gorizia. Ma già nel 1991 era stata pubblicata la foto di uno dei presunti “infoibati”, Ugo Scarpin, che indicava il proprio nominativo sul lapidario: in seguito a ciò, qualche tempo dopo il suo nominativo è stato tolto.
Lo pseudo storico pordenonese Marco Pirina, passato alla storia per la sua capacità di moltiplicare il numero degli “infoibati” (aggiungendo alle vittime reali anche partigiani uccisi dai nazifascisti, militari caduti in combattimento anche da tutt’altra parte e deportati rientrati dalla prigionia) fa un elenco di 945 scomparsi da Gorizia. Dato che la sua percentuale di errore sui 1.458 “infoibati” attribuiti a Trieste è del 64%, probabilmente non vale neppure la pena di soffermarsi sul suo elenco.
Non dovrebbe peraltro essere difficile “quantificare” il numero degli scomparsi da Gorizia nel maggio ’45: il problema piuttosto sta nella confusione che viene fatta tra “provincia” di Gorizia e Gorizia città. Perché la provincia di Gorizia nel 1945 comprendeva un’ampia superficie di territorio ora facente parte della Slovenia, come la zona di Tolmino o la Selva di Tarnova, dove i combattimenti furono accaniti e continui e causarono moltissimi morti, e ad esempio i militari del Battaglione Mussolini, o quelli della Decima Mas, morti in combattimento o dopo essere stati fatti prigionieri, possono essere inseriti nel numero degli “infoibati” di Gorizia?
Volendo limitare l’analisi alla città di Gorizia ed alle altre cittadine della provincia ora italiane, abbiamo a disposizione gli elenchi pubblicati dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione nel 1986 (definito “fonte negazionista e giustificazionista” dall’ineffabile dottor Rustia), che segnalano 332 nominativi a Gorizia (di cui 182 civili), su 1.918 scomparsi a causa del conflitto.
Invece possiamo prendere in esame gli atti di un procedimento penale istruito dal Procuratore militare Sergio Dini di Padova, dove troviamo un “Elenco deportati” di 508 nomi, che presumiamo riprenda i nomi degli elenchi di denuncia degli scomparsi trasmessi all’ufficio anagrafico del Comune di Gorizia, il quale avrebbe risposto in data 21/3/02. Diciamo subito che, inspiegabilmente, in questo elenco non sono compresi nominativi che iniziano con le lettere dalla R alla Z (tranne 3 con la R e 1 con la V), quindi si tratta in ogni caso di un documento incompleto. Ma di questi 508 nomi, a fronte di 228 dichiarazioni di morte presunta indicativamente tra maggio 45 e febbraio 46, abbiamo 29 persone che sarebbero morte per fatti di guerra prima dell’arrivo dell’Esercito jugoslavo, 11 morti anche diversi anni dopo (a Gorizia) e 13 cancellati dall’anagrafe perché emigrati in altre città dopo l’estate del 1945. Se l’inghippo sta nel fatto che a volte i parenti denunciavano come “deportati” dagli Jugoslavi anche parenti dei quali non avevano nessuna notizia, bisognerebbe in ogni caso stigmatizzare che tali elenchi avrebbero potuto (e dovuto) essere aggiornati un po’ prima del 2002.
La maggior parte dei nominativi però sono indicati come “irreperibili” all’anagrafe, per cui si può ritenere possa trattarsi di militari che non avevano posto la residenza in città. In tal caso è più difficile riuscire a determinare se sono deceduti in prigionia o sono rientrati, anche perché all’epoca i rilasciati, se destinati ad altre regioni, venivano direttamente inviati dalla Jugoslavia ai porti italiani (soprattutto Ancona), e rientravano al proprio luogo di residenza.
Infine un cenno a quell’elenco redatto dalla studiosa slovena Nataša Nemec, che era stato reso noto dal Prefetto di Gorizia nel 2006 e presentato trionfalmente sulla stampa italiana come il definitivo elenco dei “deportati” da Gorizia, che comprendendo 1.048 nomi era stato anche indicato come la “prova” che la tragedia era stata ancora superiore ai 665 nomi indicati sul lapidario.
In realtà, come ha spiegato la storica dopo la pubblicazione della lista, non si tratta di un elenco definitivo, ma di un elenco ancora in fase di studio, da lei fornito come appunto al Ministero degli affari esteri e trasmesso alle autorità italiane che lo resero inopinatamente pubblico.
Ad ogni buon conto, ciò che la stampa non considerò all’epoca (e tuttora molti di coloro che si occupano di queste cose continuano a non tenerne conto, nonostante le precisazioni della professoressa Nemec) è che in questo elenco di 1.048 persone sono contenuti anche i nomi di 110 rientrati, di 149 persone morte prima dell’arrivo dell’Esercito jugoslavo e di 38 arrestati a Monfalcone. Che vi sono 34 nomi di militari internati (alcuni deceduti, altri non si sa) a Borovnica, ma provenienti anche da altre zone; e che l’elenco si conclude con una lista di 33 domobranci (collaborazionisti sloveni, non necessariamente goriziani) arrestati; ed infine che per alcuni di questi le note sono contraddittorie (vengono segnalati contemporaneamente come morti in una località e internati in un altro campo), a riprova che l’insieme non è un documento definitivo ma solo una serie di appunti di studio.
Si diceva prima che non è facile determinare la sorte dei militari arrestati che non avevano la residenza a Gorizia: gli storici però potrebbero effettuare un controllo presso i comuni di nascita o presso l’ufficio storico dell’Esercito, sarebbe un lavoro lungo ma non impossibile, che varrebbe la pena di fare anche per non dover più leggere interventi come quello del sunnominato dottor Rustia, il quale ritiene che, in base ad una sua personale (e fallace) interpretazione della “lista Nemec”, nonché dei risultati dell’inchiesta del dottor Dini, si dovrebbe “inserire nel monumento Lapidario il centinaio abbondante di nomi di trucidati ora mancanti” (lettera pubblicata sul “Piccolo”, edizione di Trieste, il 12/7/14).
Claudia Cernigoi, 25 luglio 2014
di Claudia CERNIGOI - Trieste, 2011
PDF: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/la-foiba-di-Basovizza.pdf
Il pozzo minerario “foiba” di Basovizza è realmente monumento nazionale? Nel 1945 si scriveva:" non ci sono salme"
La nuova Stampa del 15 agosto del 1945, in prima pagina, pubblicava la seguente notizia, del 14 agosto 1945: “ da notizie che un corrispondente dell'Ansa ha assunto da fonte attendibile, risultano infondate le voci sull'avvenuto ritrovamento di salme di civili e di militari italiani e neozelandesi in una o più foibe nei pressi di Basovizza ad una decina di Km dalla città, vittime dell'occupazione jugoslava”.
La nuova Stampa del 9 ottobre 1957, scriverà: "Non è svelato il mistero della foiba di Trieste", ove si ricorderà che “ gli alleati sospettando che anche dei loro militari potessero esservi stati buttati,tentarono il recupero delle salme e crearono un'apposita attrezzatura ma dopo poco abbandonarono l'impresa rivelatasi difficilissima e costosissima.Successivamente, in vari periodi, squadre di speleologi tentarono la stessa impresa seppur con mezzi di fortuna, calandosi nel pozzo profondo oltre duecento metri. Ma a distanza di tanti anni uno strato di materiale saponificato, oltre ai quintali di rifiuti e rottami di ogni genere riversati nel pozzo, ricopre con una impenetrabile crosta il fondo della miniera. Rivelatosi inutile ogni tentativo di recente il Comune di Trieste aveva deciso, in accordo con le autorità,di chiudere il pozzo mediante una soletta di calcestruzzo erigendovi sopra una croce a ricordo delle vittime".
Ed il Parlamentare De Totto, aderente al MSI, non perderà tempo, nella seduta del 14 ottobre 1957, a dichiarare, in relazione a presunti ritrovamenti di resti umani nella foiba di Basovizza, quanto ora segue:
“Proprio in questi giorni, infatti, si è scoperta la tragica foiba di Basovizza, dove decine di metri di cadaveri stratificati dimostrano che le cosiddette deportazioni non furono altro che orrendi massacri. Ne abbiamo ora la prova materiale. E di fronte a questa tragica foiba, non può essere in noi solo il sentimento umanitario del recupero delle salme; ma deve in noi insorgere imperativo il sentimento collettivo di una nazione che, dopo tante mistificazioni, ha decisamente la prova atta a dimostrare da quale parte, nel corso della guerra 1940-43, sia stata la civiltà e da quale parte la barbarie. E' tempo oramai di parificare la Russia sovietica sovietica alla Jugoslavia di Tito, anche nel campo dei rapporti internazionali, perché nel nome del marxismo operante non ci sono differenze, né di mentalità né di metodo. Noi speriamo, tenacemente speriamo, non solo sulla scia del sentimento, ma soprattutto nel solco della tradizione irredentistica di tante generazioni, che il tricolore, attraverso una nuova politica di unione nazionale e di grande dignità, possa un giorno ritornare a garrire sugli italianissimi territori di Zara, Fiume e Pola”. Parole, che nel corso degli anni, specialmente dopo la caduta del Muro di Berlino, hanno trovato affermazione nella realtà. Equiparazione tra la Jugoslavia socialista e la Russia stalinista e questa con il nazismo, equiparazione tra le così dette foibe e le così dette Fosse Ardeatine e via discorrendo sino ad arrivare alla pretesa delle terre contese, che continua ancora oggi ad esistere e persistere. Eppure all'Italia di Trieste o di Fiume non è mai realmente importato nulla. Dopo una metodica e lunga ma anche violenta campagna di epurazione e pulizia etnica, deslavizzando il confine orientale, e saldando il concetto di italianità, anche con l'immigrazione di persone provenienti dall'Italia meridionale, il sistema Italia aveva un solo scopo da perseguire, sin dai tempi del fallito colonialismo. Dominare l'Adriatico e per fare ciò era necessario possedere il porto di Trieste e Fiume e per possedere il porto di Trieste e Fiume era necessario una mera operazione di persuasione e di legittimazione, di italianità di quelle terre. Quando Fiume passerà all'Italia, dopo il colpo militare eversivo ed antefascista di D'Annunzio e tramite l'operato del fascismo e di Mussolini, cadrà in miseria, stessa cosa accadrà a Trieste, che vivrà il suo declino proprio sotto l'amministrazione del sistema italiano. Correnti minoritarie diventeranno maggioritarie, quale l'irredentismo ad esempio, perché utili alla vera causa, condita da becero razzismo ed autoritarismo nei confronti di sloveni, croati, serbi,montenegrini. Di “foibe” si parlava e tanto sin dal 1945. Eppure sia Londra che Washington avevano riconosciuto e legittimato, proprio in quel periodo, proprio quando la così detta questione delle foibe era nota, talmente nota che la stampa nazionale più di una volta la denunciava anche in prima pagina, il governo di Tito. La questione foibe prima, esodo dopo, con la collaborazione attiva dei gladiatori, dell'organizzazione Gladio, poiché molte liste dei così detti infoibati, ad esempio, sono state fornite proprio dai gladiatori od ottenute con il loro aiuto, deve essere letta ed analizzata in modo compiuto e contestualizzando la verità storica, gli eventi e le cause. Ritornando sul caso pozzo minerario di Basovizza, chiamato in modo inappropriato, ma volutamente strumentale alla causa anticomunista ed anti jugoslava, foiba di Basovizza, nel sito della rete civica di Trieste si legge:
“Nell'estate-autunno del 1945 le autorità militari anglo-americane disposero alcuni sondaggi nella cavità, ma sospesero ben presto le operazioni. In anni successivi altre esplorazioni furono condotte da privati che constatarono come la voragine fosse stata ulteriormente riempita. Tra il 1953 e il 1954 la ditta Cavazzoni procedette al recupero di rottami metallici dal fondo senza imbattersi in resti umani. La cavità da allora rimase aperta e utilizzata come discarica fino al 1959, cioè fino alla prima sistemazione monumentale per opera della Commissariato generale per le Onoranze in Guerra del Ministero della Difesa”. Sul punto è intervenuta più di una volta la Claudia Cernigoi, questo il link dossier di cui suggerisco la lettura:http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/la-foiba-di-Basovizza.pdf
La domanda, per l'ennesima volta, è: come può un pozzo minerario, o meglio una cavità artificiale scavata nel primo decennio del XX secolo per la ricerca di carbone, diventato/a discarica nel corso del tempo, prima di essere definitivamente chiuso/a, essere ancora oggi monumento nazionale “simbolo per i familiari degli infoibati e dei deportati deceduti nei campi di concentramento in Jugoslavia e delle associazioni degli italiani esuli dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, che qui ricordano le vittime delle violenze del 1943-1945”? Ma anche sulla questione pozzo minerario, “foiba”di Basovizza, vi è un piccolo particolare. Risulterebbe che nel 22 febbraio 1980 sia stato emanato un decreto ministeriale, strumento certamente non idoneo a livello giuridico per definire il carattere di monumento nazionale di qualsiasi sito, in relazione alla “foiba” di Basovizza con la seguente motivazione: < l’immobile Foiba di Basovizza è dichiarato di interesse particolarmente importante ai sensi della legge 1.6.1939 perché testimonianza di tragiche vicende accadute alla fine del secondo conflitto mondiale, divenuta fossa comune di un numero rilevante di vittime, civili e militari, in maggioranza italiani, uccisi ed ivi fatti precipitare >. In base a quali dati si sia sostenuto ciò è tutto da capire. Altre fonti riportano addirittura che la “foiba” di Basovizza sarebbe stata dichiarata monumento nazionale con decreto del Presidente della Repubblica dell'11 settembre 1943(?), altre che sarebbe stata dichiarata monumento nazionale con DPR del giorno 11 settembre 1992. Ma facendo una ricerca nel siti istituzionali di riferimento, di questo DPR,quello del 1992, non vi è alcuna traccia. Forse perché mai emanato? Ma senza un DPR un sito non può essere definito e dichiarato monumento nazionale, ma potrebbe rientrare nel novero dei beni di interesse culturali da salvaguardare. Ma anche su questo punto, alla luce di tutte le considerazioni che emergono in merito al caso pozzo minerario di Basovizza, vi sarebbe molto da dire, perché rischia, a tutti gli effetti, di essere un clamoroso e pericoloso falso storico.
Marco Barone
Suggerisco anche la visione e l'ascolto dell'intervento di Alessandra Kersevan:
La "foiba" di Basovizza: un falso storico diventato monumento nazionale
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=A3mBwjz9KuE
Conoscevamo l'operato di Bellaspiga già dall'epoca del processo contro Oskar Piskulic, quando fu chiamata a testimoniare in merito al fatto di avere intervistato l'ex comandante partigiano ingiustamente accusato di essere un "infoibatore". La giornalista rese testimonianza in merito alla Corte romana, peccato che Piskulic abbia sempre negato di avere rilasciato l'intervista vantata da Bellaspiga. Dato che Piskulic, per principio, non rilasciava interviste a nessun giornalista italiano (e difatti Fausto Biloslavo, che pure aveva millantato un'intervista all'anziano ex combattente, fu sbugiardato dal fatto di avere dato come prova di averlo incontrato il fatto di averlo visto senza una gamba... quando Piskulic le gambe le aveva tutte e due), siamo propensi a credere più a lui che non alla signora Bellaspiga.
Che ha dato prova della sua estrema conoscenza della storia, oltre che del suo senso democratico, scrivendo in un articolo delI'Indipendente (1/3/96) una “lettera aperta” ai ministri sloveno e croato Thaler e Separovic “che negano l’eccidio di 20mila italiani perpetrato a guerra finita” (logico che lo neghino, visto che non c’è mai stato, n.d.r.). Bellaspiga se la prende con le affermazioni di Thaler riguardo ad un “Paese che non ha mai sollevato il problema dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in Slovenia durante l’occupazione fascista...” e scrive: “Lei parla di occupazione italiana in Slovenia e qui si sbaglia di grosso: dall’epoca dei romani quella è sempre stata terra italiana, con un breve intermezzo austroungarico. Voi siete proprio gli ultimi arrivati (e con metodi incivili)”. (Forse gioverebbe all'ineffabile Bellaspiga considerare che l'impero romano viene convenzionalmente ritenuto finito nel 476 d.c. e che dopo alcuni secoli di avvicendamenti tra amministrazioni barbariche, franche, aquileiesi ed altro, il "breve intermezzo austroungarico" è iniziato nel 1335 e finito nel 1918, quindi è durato quasi sei secoli, alla faccia della "brevità").
Di fronte a questa esibizione culturale non possiamo pertanto stupirci che nell'articolo da noi indicato in calce se la prenda con Alessandra Kersevan, "rea" di avere ribattuto in termini storiograficamente corretti alle menzogne diffuse da decenni, e le rinfacci la presenza di "centinaia di sacerdoti" gettati nelle foibe.
Dunque una giornalista può serenamente pubblicare una bufala di tale genere su un quotidiano nazionale, senza neppure fare i nomi di alcuni di tali sacerdoti "infoibati", ma se qualcun altro le fa presente, documenti alla mano, che i sacerdoti "infoibati" furono uno, ed uno solo, automaticamente è la seconda persona che diventa "negazionista", non la prima che viene considerata un'allevatrice di bufale.
Signora giornalista Bellaspiga, considerando che oltretutto lei lavora per un quotidiano cattolico, le spiacerebbe, nel rispetto del comandamento che impone di non dire falsa testimonianza, fare i nomi delle "centinaia" di sacerdoti "infoibati" (tralasciando per piacere il nome di don Bonifacio, il cui corpo non è mai stato rinvenuto e quindi considerarlo "infoibato", abbiano pazienza assieme a lei anche le gerarchie ecclesiastiche che lo hanno beatificato, è un po' ardito). Li faccia, se vuole dimostrare che i "negazionisti" sono coloro che la smentiscono. Altrimenti va da sè che non siamo noi i negazionisti, ma lei una bugiarda.
Fu proprio il padre di Antonio Ballarin, Amleto (autore, nel dopoguerra, di una poesia inneggiante a Benito Mussolini, in arte “duce”), a contattare per la prima volta, nel 1994, la giornalista Bellaspiga, che allora scriveva per il Giornale nuovo, fornendole documenti e notizie sul maggiore dell’Esercito di liberazione jugoslavo Oskar Piškulić, che fu poi incriminato dal PM romano Giuseppe Pititto nell’ambito del cosiddetto “processo delle foibe” (che si concluse, dopo dieci anni, con la dichiarazione di incompetenza territoriale dell’Italia) per tre omicidi avvenuti a Fiume nei giorni della liberazione della città (5 maggio 1945).
Lucia Bellaspiga in seguito passò a scrivere per l’Indipendente, dove, il 1/3/96, pubblicò una “lettera aperta” ai ministri sloveno e croato Thaler e Separović, i quali, scrisse “negano l’eccidio di 20mila italiani perpetrato a guerra finita” (logico che lo neghino, visto che non c’è mai stato, n.d.r.), aggiungendo, rivolta a Thaler: “Lei parla di occupazione italiana in Slovenia e qui si sbaglia di grosso: dall’epoca dei romani quella è sempre stata terra italiana, con un breve intermezzo austroungarico. Voi siete proprio gli ultimi arrivati (e con metodi incivili)”.
Tralasciando il tono arrogante della lettera, ricordiamo che l’impero romano viene convenzionalmente ritenuto finito nel 476 d.c. e che dopo alcuni secoli di avvicendamenti tra amministrazioni barbariche, franche, aquileiesi ed altro, il “breve intermezzo austroungarico” è iniziato nel 1335 e finito nel 1918, quindi è durato quasi sei secoli, con buona pace delle convinzioni di Bellaspiga.
Ma oltre alla scarsa competenza storica, la giornalista Bellaspiga ha dato prova di un comportamento decisamente scorretto. Parliamo di quanto ha scritto in alcuni post sulla pagina del cantautore Simone Cristicchi, e cioè che in seguito alle sue interviste a Piškulić sarebbe partita l’inchiesta che lo vide imputato. E difatti in un articolo pubblicato su l’Avvenire del 17/2/99, la giornalista ha scritto di avere parlato personalmente con Piškulić c, che le avrebbe risposto “in un italiano quasi perfetto”.
Ora, noi abbiamo conosciuto personalmente Piškulić, avendo fatto parte dei consulenti della difesa, condotta dall’avvocato Livio Bernot di Gorizia, e possiamo dire innanzitutto che Piškulić ha negato di avere rilasciato interviste a qualsivoglia giornalista italiano, rifiutandosi per principio di rispondere a chi lo contattava. Ma che il racconto di Bellaspiga non sia attendibile, è dato dalla sua affermazione che Piškulić parlava un “italiano quasi perfetto”: avendo parlato con Piškulić possiamo dire che non parlava italiano, si esprimeva nel dialetto fiumano, con una forte inflessione croata.
Bellaspiga ha ripetuto anche davanti ai giudici di avere parlato con Piškulić. Come dobbiamo considerare queste sue affermazioni?
È questa la persona più adatta a parlare di problematiche delicate come quelle del confine orientale di fronte ai deputati ed al Capo dello Stato?
Permetteteci di dubitarne.
Da un commento sul blog di Wu Ming:
"Qualche mese fa ero alla coop a fare la spesa, e mi cade l’occhio su un libro esposto su uno scaffale (alla coop sono intellettuali, quindi vendono anche i libri). Si tratta di “Una grande tragedia dimenticata. La tragedia delle foibe” (che titolo originale) di tale Giuseppina Mellace. Mi colpisce la foto in copertina:
http://www.ansa.it/webimages/img_457x/2014/10/25/10ef3aa61b11d5d5d99d890e8db23734.jpg
Però cazzo. Quell’immagine mi ricorda qualcosa, sono sicuro di averla già vista. E non mi convince. Cerca che ti cerca, finalmente oggi ho trovato questo:
http://sh.wikipedia.org/wiki/Crne_trojke#mediaviewer/File:Crna_trojka_kolje.jpg
E ti credo che non mi convinceva! Quella foto non c’entra niente con le foibe. Infatti si tratta di tre cetnici che sgozzano un partigiano comunista a Belgrado. La foto proviene dagli atti del processo per collaborazionismo contro Draža Mihailović nel 1946."
---
Giuseppina Mellace la Nuova Pirina
LA NUOVA PIRINA! (recensione di un libro sulle foibe di Giuseppina Mellace del quale per obiezione di coscienza non citiamo il titolo).
A tre anni di distanza dalla prematura dipartita del sedicente storico Marco Pirina, abbiamo avuto la gioia di conoscere Giuseppina Mellace, prof. di storia che non riesce a parlare in un italiano comprensibile e che sembra avere anche problemi con l’aritmetica. Mellace si è dimostrata nel corso della presentazione a Gorizia della sua risma di carta stampata in copertina dura (definirla “libro” sarebbe un po' azzardato) la vera, tangibile, coerente epigona del mai abbastanza compianto Pirina, riuscendo in alcuni punti persino a superare il maestro.
La prima cosa interessante che abbiamo appreso è che Mellace non voleva fare un libro sulle foibe, ma scrivere della “violenza delle donne” (dato che lo ha ripetuto sempre così, ci abbiamo messo un po’ a capire che intendeva dire “violenza sulle donne”), sia operata dai “titini” (sempre parlato di “titini” e di “slavi”, sia chiaro, per lei la Jugoslavia non è mai esistita), sia dagli altri. Che poi il libro si sottotitoli “la verità sulle foibe” è stata una scelta editoriale che lei non ha condiviso (anche se, da quanto è dato capire, ha firmato il contratto e il libro).
Quindi ha parlato delle violenze delle donne comprendendo anche le donne violentate ed uccise dai nazisti, ed anche dagli italiani. Ha anche parlato dell’uccisione di una bambina di 8 anni “che aveva l’unica colpa di voler espatriare”, che così come detta sembrava essere stata compiuta dai "titini", mentre nel libro si vede che la bambina è stata uccisa da militari italiani nella primavera del 1943.
Dati questi presupposti si potrebbe già parlare di frode in commercio (diamine, io compro un libro per saper la verità sulle foibe e devo trovare anche la descrizione delle violenze fatte sugli slavi che sono notoriamente un popolo inferiore? fossi un’acquirente, protesterei), ma alla fine il “lavoro” sembra l'ennesima ristampa delle opere di Rocchi e Pirina, con un pizzico di Papo e una spruzzata di La Perna, il tutto omogeneizzato con le teorie di Pupo, ma privo del benché minimo controllo critico.
Ad esempio, nell’elenco delle foibe, subito dopo la “foiba di Orle” (dalla quale non si sa quanti cadaveri sarebbero stati recuperati) si passa alla “foiba di Gropada presso Orle” con la storia di Dora Čok (che l’autrice ha pronunciato Schock, dimostrando una volta di più la sua professionalità e preparazione), come se non avesse capito che si tratta della stessa foiba.
E, a dis/onore dell'esimia prof., quando le ho detto in separata sede che si trattava della stessa foiba e quindi avrebbe potuto risparmiare qualche riga non citandole tutte e due (ciò perché si era lamentata che non poteva scrivere un'enciclopedia Treccani, aveva già scritto 500 pagine, e non poteva approfondire altre cose), mi ha risposto (testuale): “questa è una sua opinione, e come tale io mi tengo la mia”. Scusi, ho detto, se io dico che l’Italia è entrata in guerra il 15 maggio 1915 e lei mi corregge dicendo che era il 24 maggio, io le posso rispondere che si tratta di una sua opinione? esiste un catasto grotte, casomai lei non lo sapesse.
Ma non è solo questo quanto la prof. non sa. Ad esempio, pur citandomi come riduzionista se non proprio negazionista, mai una volta che abbia scritto il mio nome giusto: perché l'aveva visto citato così, ha detto. Ah, allora lei non ha letto nulla di quanto ho scritto e mi dà della riduzionista così tranquillamente? Lei che si permette di scrivere, non si sa citando quale fonte, che da Basovizza sono stati recuperati 1000 civili, 500 finanzieri e probabilmente 1000 tedeschi (dove il probabilmente è un po’ oscuro, o sono stati recuperati o no, se l'italiano non è un'opinione, ma pare che qua siano tutte opinioni), dove quintuplica il numero di finanzieri che la stessa Guardia di finanza dichiara come scomparsi e che oltretutto non sono stati infoibati a Basovizza, per non parlare dei mille civili, che proprio non ci sta, dopo questo ha il coraggio di dire che io sono una “riduzionista”? eh, certo, perché se qualcuno spara cifre enormi a casaccio senza cognizione di causa, mentre i numeri sono altri, e qualcun altro ripristina i dati storici (non opinioni, dati), il secondo diventa riduzionista e negazionista.
D’altra parte, essendo la presentazione avvenuta nei giorni di Carnevale, come al solito Arlecchino si svela ridendo. Intanto, abbiamo appreso che la fonte della prof. (pressoché unica) è Marino Micich con l’Istituto di studi fiumani. Mellace ha detto di essere anche venuta a Trieste, ma non ha capito dove, perché ha parlato di un “istituto di storia contemporanea, quello sulla salita"...; cara prof., quasi tutto è sulle salite qua a Trieste, ma l’istituto di storia contemporanea (quello universitario) sta nella pianeggiante zona vicino alle rive. Forse si riferiva all'istituto di storia del movimento di liberazione? ma quando una persona non sa neppure dov’è andata a cercare informazioni, l’affidabilità delle sue “ricerche” è quantomeno dubbia.
È stato però quando ha parlato della politica di italianizzazione del fascismo (condotta dal fascismo, sarebbe più giusto dire, ma noi citiamo pedissequamente) che l’autrice ha svelato il suo pensiero interiore. È vero, ha detto, che sono stati un po’ duri ed hanno voluto fare troppo in fretta, perché non hanno considerato che solo sul litorale le città erano interamente italiane, ed avrebbero dovuto agire con più calma... (l’elogio della pulizia etnica soft?) e questo ha indotto negli “slavi” l’equazione italiano = fascista, per il quale motivo poi si sono vendicati orribilmente con le maestre, “appese per i capelli” (ma dove e quando, di grazia, che questa storia neppure su Pirina l’avevamo letta?), che a volte per insegnare l’italiano a chi non lo aveva mai parlato forse esageravano (sì, in effetti, punizioni corporali sui bambini che non sapevano esprimersi in italiano possono essere considerate “esagerazioni”, sarebbe interessante conoscere le metodologie didattiche di cotanta prof.).
Per essere brevi, aggiungiamo soltanto che grazie a Mellace per la prima volta abbiamo appreso che Tito voleva fare il comunismo non solo in Jugoslavia ma in tutti i Balcani ed esportarlo anche in Grecia (anche se a noi risulta che la Grecia aveva già i suoi gruppi comunisti armati che combattevano per conto proprio) e che era per realizzare questo progetto che aveva bisogno di cacciare tutti gli italiani in modo da creare una Jugoslavia unita.
Infine è riuscita a superare Pirina compilando un elenco di 400 donne da lei definite “infoibate” ma tra le quali risultano non solo molte che furono invece deportate dai nazisti o uccise dai fascisti, e tantissimi nomi privi di ogni altra indicazione, di nascita e di luogo, data, modalità della “scomparsa”: dopo questa pirinata, ha fatto di più: ha inserito tra i nomi delle donne “infoibate, deportate, scomparse...” anche (attenzione, perché i titini sapevano essere davvero feroci) molte donne che per avere fatto attività antistatale sono state punite con una ... MULTA! (noi che viviamo in democrazia sappiamo bene come nelle patrie galere stiano, in attesa di processo, diversi attivisti Notav che non hanno fatto altro che esprimere il loro dissenso a quell’opera).
Chiudiamo con una nota di colore: come Cristicchi nel suo spettacolo Magazzino 18 fa pronunciare al suo protagonista Persichetti la parola esodo con l’accento sulla “o” (esòdo) perché “di queste cose non si è mai parlato” (ma visto che l’esodo, prima di essere quello istriano, era anche quello che ha dato il nome ad un libro della Bibbia, viene da chiedersi cosa abbiano studiato a scuola questi intellettuali), così il giornalista Covach che ha presentato il libro ha detto che in Italia si sente ancora dire foìbe (con l’accento sulla “i”) invece di foibe, a riprova che l’argomento non è conosciuto. Ora, nella nostra lunga carriera di foibologi non abbiamo mai sentito pronunciare foìbe da nessuna parte, ma tant’è, forse si confondono con quelli che ancora pronunciano Frìuli invece di Friùli…
marzo 2014