meraviglia non poco che famigliari e amici di Paride Mori, fascista combattente convinto e riconosciuto tale da loro stessi, insistano nel rivendicare per Mori una medaglia da parte della Repubblica italiana nata dalla Resistenza antifascista, che si prepara a celebrare il 70esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La contraddizione è stridente.
Famigliari e amici di Mori usano allora l’argomento dell’amor patrio profuso e dimostrato da Mori nel difendere l’Italia dalle “orde barbariche criminali dei partigiani comunisti slavi di Tito”. Ma nemmeno questo argomento regge.
Paride Mori fu combattente volontario, non più giovanissimo, col grado di capitano del Battaglione bersaglieri volontari «Mussolini» della R.S.I., la Repubblica Sociale Italiana di Salò guidata da Mussolini nata dopo l’8 settembre 1943 per iniziativa della Germania nazista e da questa sostenuta. I militari della RSI nelle zone del confine nordorientale con la Jugoslavia erano sotto il comando diretto dei Tedeschi. Non si può certo dire che combattere al servizio della Germania nazista sia una bella dimostrazione di amor patrio per l’Italia!
Gli jugoslavi di Tito, da parte loro, avevano tutte le ragioni per combattere contro l’Italia fascista che nell’aprile ’41 aveva aggredito e invaso, pochi giorni dopo la Germania nazista, la Jugoslavia senza che la stessa Jugoslavia avesse fatto alcun male all’Italia! Italia fascista che poi tenne occupati diversi territori della Jugoslavia e in modo feroce e crudele (p.e. Lubiana, città gemellata dal ’64 con la nostra Parma, dove nessuno parlava l’italiano, allora fu fatta provincia d’Italia e con uccisioni, massacri, campi di concentramento per tanti civili sloveni). Mentre la Resistenza jugoslava guidata da Tito divenne il più grande esercito popolare partigiano d’Europa, considerato e riconosciuto a livello internazionale innanzitutto dagli alleati inglesi, americani, sovietici, ecc.
“Italianità” e amor patrio per l’Italia, per l’Italia democratica antifascista che poi a guerra terminata scelse la Repubblica e scrisse la Costituzione del ’48, una delle più belle del mondo, semmai hanno dimostrato i quarantamila soldati italiani sul fronte jugoslavo che l’indomani dell’8 settembre ’43 decisero di combattere contro il nazifascismo come partigiani italiani, col tricolore italiano, al fianco dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, così riscattando l’Italia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata. Semmai a questi italiani, della “Divisione Italiana Partigiana Garibaldi” ecc., dovrebbero andare il ricordo e la riconoscenza della Repubblica nata dalla Resistenza.
Giovanni Caggiati
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Pagina FB de La Nuova Alabarda, 14/3/2015
Come NON si scrive la storia. La vicenda di Dario Pitacco nelle onorificenze agli infoibati
Nel 2009 fu conferita alla sorella di Dario Pitacco l’onorificenza prevista dalla legge sul Giorno del ricordo, con questa motivazione: "sorpreso dai titini nel maggio del ’45, mentre cercava di issare il tricolore sulla torre del Municipio, dopo la liberazione della città da parte del CLN, fu imprigionato e non si ebbero più notizie" (sul Piccolo del 11/2/09, episodio che si trasforma così, sul Piccolo del 17/12/08: “il ragazzo ucciso dalle truppe slovene il 1° maggio 1945 per avere issato la bandiera italiana”).
Partendo quindi dal presupposto che non si sa se il giovane Pitacco sia stato ucciso sul posto o deportato, andiamo a leggere, nel diario del tenente colonnello Antonio Fonda Savio (che era il comandante di piazza del CVL durante l'insurrezione di Trieste e dovrebbe quindi essere considerato fonte attendibile, quantomeno non tacciabile di "filo-slavocomunismo) la descrizione di quanto avvenne tra il 30 aprile ed il 2 maggio al Municipio di Trieste.
<... incontro (pomeriggio del 30 aprile, n.d.r.) il maggiore Juraga della Guardia civica che con un piccolo reparto rientra dal Municipio. Egli mi riferisce che al palazzo municipale si erano presentate delle “stelle rosse” con l'intenzione di prenderne possesso, che egli ha discusso con loro e che dopo una breve permanenza esse se ne sono andate, ma che per evitare eventuali conflitti egli ha ritirato i suoi, lasciando a presidiare il Comune soltanto una decina di Vigili urbani. Poiché ritengo che il Municipio, per ragioni morali e materiali, debba essere tenuto più saldamente, ordino al maggiore Juraga di rioccupare il Municipio. Al caso le stelle rosse ritornassero, esse dovranno essere accolte cameratescamente quali collaboratori nella cacciata del tedesco. L’ordine viene eseguito immediatamente ed il reparto di patrioti assieme alle stelle rosse più tardi sopraggiunti, terrà fermamente il palazzo municipale fino alla sera del 2 maggio, difendendolo dai tedeschi e rispondendo fieramente al fuoco dei pontoni armati che dalle rive di piazza Unità lo bersagliano intensamente, arrecandovi non pochi danni>
(In A. Fonda Savio, "La resistenza italiana a Trieste e nella Venezia Giulia", a cura di R. Spazzali, Del Bianco 2006).
Sembra logico supporre che se un ragazzo del CVL fosse stato ucciso dai "titini" in quell'occasione, il comandante di piazza lo avrebbe annotato nel suo Diario. Non è forse più probabile che il giovane Pitacco sia stato ucciso dall'artiglieria tedesca che bersagliava il Municipio?
Le carte dall’Italia e dalla Jugoslavia
Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo.
Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini [ http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_16/bersagliere-rsi-che-combatteva-titini-governo-potrebbe-revocare-medaglia-giorno-ricordo-c70cfe9e-cc18-11e4-990c-2fbc94e76fc2.shtml, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano ] del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra [ http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_19/foibe-criminali-guerra-fascisti-300-combattenti-rsi-medaglie-ricevute-il-giorno-ricordo-49b164a6-ce59-11e4-b573-56a67cdde4d3.shtml). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare ] la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza.
Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori.
I 300 militi della Rsi
Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1.000 persone. Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani».
Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (sloveno residente a Trieste).
Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche« fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk (che è componente della commissione consultiva del Comune di Trieste per il Civico Museo della Risiera di San Sabba-Monumento nazionale) si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista».
Il carabiniere che rifiuta di consegnare le armi
L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli» [ http://newgdf.gdf.gov.it/chi-siamo/museo-storico/giorno-del-ricordo/conferimenti-onorificenza ]. Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».
@alefulloni
23 marzo 2015
La stampa e le Istituzioni parlano giustamente di 'sfregio' alla memoria, di 'offesa' alla città.
Ora chiedo polemicamente, a tutti gli antifascisti 'da cerimonia' , ma specialmente ai rappresentati delle Istituzioni, che si scandalizzano per questi fatti: chi cancellerà lo sfregio, l'offesa, rivolta a tutti i Partigiani Italiani, rappresentata dalle decine di riconoscimenti concessi dallo Stato a fascisti repubblichini comprovati e morti in guerra, ed in certi casi anche già condannati per crimini di guerra?
Giuliano Calisti
Vicepresidente CP ANPI Viterbo
http://www.ugoforno.it/storia.html
Mi si dirà: e tu perché non hai parlato? Sì, ho parlato prima e dopo la liberazione, in alto loco. Mi hanno solo risposto: scrivi. Ho scritto. La prima e lunga relazione l’ho stesa subito dopo i fatti, con Aramin. Morì sepolta”.
Così Amerigo Clocchiatti “Carlo” si espresse sulla mancata inchiesta giudiziaria per i fatti di Malga Silvagno. Per Giuseppe Crestani “Bepi”, Ferruccio Roiatti “Spartaco”, Tomaso Pontarollo “Masetti” e “Zorzi” (partigiano veneziano non identificato) non c’è stata giustizia. Ugo De Grandis, nel libro che ha dedicato a questa vicenda “maledetta” e ignorata per anni, ha descritto così le vere motivazioni di questo voluto oblio:
Non ci vuol molto ad individuare i motivi che bloccarono la prosecuzione dell’inchiesta nella nuova linea politica inaugurata da Togliatti già al suo rientro in Italia, nel marzo 1944, dopo un esilio durato quasi vent’anni. Con il cambio di prospettiva politica, passato alla storia come “svolta di Salerno”, il leader comunista decretò la necessità dell’unificazione delle forze antifasciste per superare il drammatico frangente della guerra civile, abbandonando la pregiudiziale antimonarchica per poter entrare nel governo Badoglio. Con questa concessione il PCI riuscì a scavalcare i repubblicani, che sulla questione monarchia/repubblica non erano, al contrario, inclini ad alcun compromesso.
La “svolta” segnò il passaggio dalla fase rivoluzionaria a quella legalitaria del PCI che aspirava, grazie al suo contributo fondamentale all’abbattimento del fascismo, a diventare un partito di governo. Prevalse, quindi, la volontà di fornire un’immagine compatta della Resistenza, esente da contrasti e divisioni interne, un movimento corale dal quale sarebbero usciti i quadri dirigenti della nuova società italiana che stava sorgendo dalle ceneri del fascismo. La volontà di non rimanere esclusi dalla vita politica nazionale giunse ad imporre scelte non condivisibili dalla maggioranza dei militanti, se non impopolari, quali la mano tesa ai “fascisti rossi”, ai “compagni in camicia nera”, in altre parole ai reduci che avevano abbracciato la RSI attirati dal suo programma di riforme sociali: un serbatoio di voti che anche gli altri partiti tentarono di accaparrarsi.
Poco più di un anno dopo la Liberazione, il 22 giugno 1946, mentre in tutta Europa le Corti d’Assise condannavano a pene severe, molto spesso capitali, gli accusati di collaborazionismo con i nazisti e pareggiavano in un bagno di sangue i conti col passato, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Togliatti emanò il provvedimento di amnistia che, aprendo le porte delle celle a migliaia di esponenti del passato regime in nome della pacificazione nazionale, contribuì di fatto a restaurare la magistratura e i corpi di polizia dell’ancien regime.
Il risultato tangibile fu l’avvio di un’offensiva antipartigiana che condusse in carcere migliaia di ex combattenti della libertà, mentre altri cercarono rifugio alla persecuzione e alla negazione di un meritato posto di lavoro in una lunga e travagliata emigrazione in paesi lontani.
La volontà di gettare alle ortiche anche gli ultimi ardori rivoluzionari motivò, infine, il voto favorevole dei comunisti all’Articolo 7 della Costituzione, che ribadiva l’indipendenza tra Stato e Chiesa già sancita dai fascistissimi Patti Lateranensi del febbraio 1929. Una decisione che spiazzò gli stessi democristiani. La parola d’ordine allora era: pacificazione, non solo tra fascisti ed antifascisti, ma anche e soprattutto tra le diverse forze politiche che avevano partecipato alla sconfitta del fascismo. Il dissidio durato in Italia ben 23 anni, gli ultimi due dei quali di vera e propria guerra civile, doveva essere quanto prima accantonato per ricostruire insieme la martoriata nazione. Sarebbe stato mai possibile, in un clima politico siffatto, portare in un’aula di tribunale un fatto di sangue tra partigiani?
Questo non fu, tuttavia, l’unico motivo del silenzio: da parte dei comunisti si registrò un invalicabile imbarazzo nel trattare un episodio che aveva rivelato profonde crepe nell’organizzazione del primo periodo di lotta partigiana. L’eccidio di Malga Silvagno era la cartina al tornasole di una concezione ingenua della guerriglia, rivelava l’impreparazione e la superficialità di chi aveva abbandonato a se stessi quattro militanti comunisti in mezzo ad un gruppo di una ventina di resistenti apolitici, manovrati da elementi di dubbia fede antifascista e con i quali si erano manifestate sin dall’inizio profonde incomprensioni che avrebbero dovuto far prevedere, prima o poi, il tragico epilogo.
Tutte le foto e il testo sono tratti da “Malga Silvagno – Il giorno nero della Resistenza vicentina” di Ugo De Grandis
Comunicato Stampa - Albano, cittadini rinviati a giudizio per manifestazione contro Priebke. "Segnali inquietanti, le istituzioni correggano una palese ingiustizia"
Ad Albano cittadini rinviati a giudizio per aver manifestato contro Priebke.
Anpi Roma: "Segnali inquietanti, fidiamo nel buon senso delle istituzioni per correggere una palese ingiustizia"
La cittadinanza onoraria a Cristicchi per Magazzino 18 a Trieste? Anche no
Ma così non è stato in una città che non ha neanche una via dedicata al primo maggio.
Dunque la cittadinanza onoraria a Cristicchi in Trieste? Anche no.