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Come uccisero il Brasile d’Europa (parte 2)

9 maggio 2015

Mentre la Nazionale si prepara ai Mondiali, dal 1989 la Jugoslavia inizia ad essere scossa da liberismo e nazionalismo. Ad Italia ’90 andrà in scena l’ultimo atto del Brasile d’Europa

Di Carlo Perigli



Il calcio, almeno da parte di chi lo gioca, per il momento prova a rimanerne fuori. Se dal 1989 le sei Repubbliche accelerano il processo di allontanamento dalla Federazione, la Nazionale rimane coesa. Così, mentre sulla scena politica ed economica iniziano ad affacciarsi i partiti nazionalisti e l’economia liberista, la selezione che si appresta a viaggiare verso l’Italia rimane fedele alla sua identità jugoslava. I giovani sono cresciuti e ora affiancano senatori del calibro di Stojkovic, Savicevic e Katanec. La squadra è rodata, domina le qualificazioni senza perdere nemmeno una partita ed elimina la più blasonata Francia. Ma all’alba delle notti magiche una serie di episodi iniziano a scuotere il calcio jugoslavo, lastricandone la strada verso la distruzione.

Il primo, probabilmente anche il più famoso, racconta gli eventi che si svolsero al Maksimir di Zagabria il 13 maggio 1990, nella cornice dell’ormai noto, per quanto mai giocato, incontro tra Dinamo e Stella Rossa. A differenza del passato, questa volta gli scontri avvengono in una cornice politica totalmente inedita. L’8 aprile l’Hdz, il partito nazionalista guidato da Franjo Tudjman, ha vinto le prime elezioni multipartitiche in Croazia, della quale il 30 maggio diventerà poi Presidente. Sugli spalti compaiono le bandiere a scacchi, mentre i vessilli jugoslavi appaiono con un ampio buco al posto della stella rossa. L’ormai noto calcio volante, rifilato da Boban ad un poliziotto, divenne presto il simbolo del progressivo ma inevitabile allontanamento di Zagabria dal resto della Federazione. I nazionalisti si erano ormai affermati, e per nulla al mondo avrebbero rinunciato a sfruttare il calcio come infallibile strumento di propaganda.

Tuttavia, la prima vera scollatura tra la Nazionale jugoslava e il suo pubblico avviene circa venti giorni dopo. Il teatro è sempre il Maksimir, che stavolta ospital’amichevole tra Jugoslavia e Olanda, ultimo test prima della partenza per l’Italia. Lasciamo il racconto degli eventi alle parole di Dragan Stojkovic, capitano e leader di quella selezione:

«Facemmo la preparazione a Zagabria e giocammo un amichevole contro l’Olanda. I tifosi di casa iniziarono ad intonare cori contro di noi e a favore degli olandesi. Era molto strano da vedere e da sentire, e il ct dell’Olanda Leo Beenhakker in conferenza stampa dichiarò di non sapere che la sua nazionale avesse così tanti fan là. Più tardi qualcuno gli spiegò che [la situazione] era contro di noi. A quel punto capimmo che qualcosa sarebbe successo, ma in squadra non c’erano problemi. Avevamo Prosinecki dalla Croazia, Pancev dalla Macedonia, Susic dalla Bosnia, Katanec dalla Slovenia, io dalla Serbia e Savicevic dal Montenegro. Non abbiamo mai avuto questo genere di problemi e mai discutemmo o scherzammo su questo».

Nonostante le premesse però, in Italia la Jugoslavia conferma il suo talento, passa agevolmente il girone (sconfitta solo dalla Germania) e delizia il mondo contro la Spagna, grazie alle prodezze di un meraviglioso Dragan Stojkovic, autore di una straordinaria doppietta. Sugli spalti sventolano le bandiere con la stella rossa, il pubblico sostiene la sua Nazionale, ma un ulteriore episodio contribuirà nuovamente a destabilizzare l’ambiente sportivo. Poco prima della partita con l’Argentina, valida per i quarti di finale, Srecko Katanec, mediano e punto di riferimento della selezione, chiede al c.t. Ivica Osim di essere escluso dalla formazione titolare: «Per favore non mi  faccia giocare, ho ricevuto delle minacce nella mia città, sono preoccupato di giocare per la Nazionale». Osim capisce, la situazione sta diventando instabile e nemmeno la Nazionale ne è più immune.

Non è più una questione di bilanciamento tra le varie Repubbliche per le convocazioni, gli avversari di quella Nazionale ora si chiamano politica e criminalità, che incitano quelli che una volta erano i suoi tifosi. La Jugoslavia in campo resiste, perdendo solamente ai rigori nonostante l’inferiorità numerica per circa novanta minuti. L’errore decisivo, ironia della sorte, è proprio di capitan Stojkovic. I mondiali italiani confermano però la maturità del calcio jugoslavo, pronto a puntare i Campionati Europei del 1992. Nessuno poteva immaginare che quell’esplosione di talento avrebbe rappresentato il canto del cigno del promettente Brasile d’Europa.

(Segue...)




Come uccisero il Brasile d’Europa (parte 3)

16 maggio 2015

Dal 1990 al 1992 la Nazionale jugoslava viene coinvolta negli eventi storici e uccisa dal fax dell’Uefa, che la esilierà dal calcio fino al 1998

Di Carlo Perigli


(Segue da Parte 2http://popoffquotidiano.it/2015/05/09/come-uccisero-il-brasile-deuropa-parte-2/ )


Il 12 settembre 1990 la Jugoslavia inizia le qualificazioni agli Europei del 1992battendo l’Irlanda del Nord per 2-0. Quello degli slavi del sud è un cammino implacabile, che porterà la Nazionale a passare agevolmente il girone, vincendo 7 delle 8 partite, con 24 gol realizzati e solamente 4 subiti. Oltre a Davor Suker, la Jugoslavia inizierà ad amare anche Darko Pancev, implacabile attaccante che vincerà la classifica marcatori con 10 gol. Numeri impressionanti, stracciati da una storia fatta di nazionalismi, guerre e interventismo occidentale, che spazzeranno via ogni aspetto della società jugoslava, calcio compreso.

Per quanto riguarda il nostro racconto invece, la parola “fine” potrebbe riportare già una prima data il 16 maggio 1991, giorno in cui la Jugoslavia batte le Isole Far Oer per 7-0. Vittoria a parte, si tratta dell’ultima volta in cui la rappresentativa dei 6 Stati, 5 nazioni, 4 culture, 3 religioni e 2 alfabeti scende in campo. Dal giorno dopo i croati lasceranno lo spogliatoio, tra giugno e dicembre diventeranno stranieri. Per il calcio jugoslavo, inteso come la rappresentazione sportiva della patria di tutti gli slavi del sud, inizia un rapido declino. Un primo segnale si ha nella finale di Coppa di Jugoslavia, giocata l’8 maggio a Belgrado tra Stella Rossa e Hajduk di Spalato, a pochi giorni da uno dei violenti scontri a fuoco che imperversano a Borovo Selo, a pochi chilometri da Vukovar. Pensando alle due sfidanti, torna in mente la stessa partita giocata nel 1980, quando uno stadio intero piangeva la morte del Maresciallo Tito. No, questa volta l’atmosfera è decisamente diversa, e a spiegare come in 11 anni tutto fosse cambiato c’è il tristemente famoso “spero che i nostri ragazzi uccidano la tua famiglia a Borovo” sussurrato da Stimac a Mihajlovic, serbo – all’epoca jugoslavo – nato a Vukovar, parte di quel complesso rompicapo di etnie chiamato Jugoslavia, che solo uno squilibrato cercherebbe di risolvere tracciando linee nette.

Per assurdo, alla fine del mese il calcio jugoslavo conosce il momento più alto della sua storia. A Bari la Stella Rossa batte l’Olympique Marsiglia e alza per la prima volta la Coppa Campioni. In piccolo, quella squadra è una riproduzione della Nazionale jugoslava, dove il macedone Pancev segna a ripetizione, imbeccato dal montenegrino Savicevic, mentre il croato Prosinecki disegna geometrie impensabili aiutato dai serbi Mihajlovic e Jugovic. In difesa, il bosniaco Šabanadžović formava la cerniera di una squadra formidabile e multietnica. La notte del 29 maggio 1991 anche Bari divenne una piccola Jugoslavia. Tra musiche balcaniche e fiumi di rakija, va di scena una festa che non guarda differenze etniche di sorta, in un ballo che idealmente abbraccia ancora tutte e sei le Repubbliche.

Dall’altra parte dell’Adriatico invece, gli eventi ormai sono precipitati. Le squadre croate e slovene hanno lasciato la Prva Liga jugoslava, che nel 1992 smetterà di esistere per lasciare il passo al campionato della Repubblica Federale di Jugoslavia, alla quale partecipano le squadre serbe e montenegrine. La nazionale Jugoslavia esiste ancora, e a dispetto della politica vola in Danimarca per rappresentare tutte le nazionalità, croati esclusi. Ci sono sette giocatori serbi, sei montenegrini, due da Slovenia e Macedonia, uno dalla Bosnia. Vivono il ritiro tutti insieme, senza parlare di politica, nonostante la stampa non chieda altro, nonostante vengano ospitati in bungalow isolati e controllati da forze di polizia con unità cinofila al seguito, nonostante perfino i Primi Ministri delle selezioni avversarie non perdano occasione per delegittimare la loro presenza agli Europei. Finchè non arriva quel fax, con il quale il nostro racconto trova la sua conclusione definitiva, quando la politica riesce ad entrare a piedi pari sul calcio con la complicità di tutta la terna arbitrale. La Uefa esegue le disposizioni contenute nella Risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che decreta l’embargo per la Repubblica Federale di Jugoslavia prevedendo inoltre l’immediata sospensione degli scambi scientifici, tecnici e culturali, nonché l’esclusione da tutte le manifestazioni sportive. Innegabile, quello calcistico è decisamente il lato più trascurabile, ma allo stesso tempo è il dito nella piaga, lo schiaffo che umilia, il colpo di grazia che esilia la Jugoslavia fino ai Mondiali del 1998. Ecco come hanno ucciso il Brasile d’Europa.

Chiudiamo la terza ed ultima parte del racconto ricorrendo nuovamente alle parole di Dragan Stojkovic, che sintetizzano al meglio quanto il calcio fosse distante dalla politica, ma anche quanto quest’ultima si interessò anche ad un semplice pallone.

«È stato il giorno più brutto della mia vita, e la cosa peggiore è che non potevo spiegare ai giocatori il perché. Questo è sport, non politica, e le due cose non dovrebbero mai andare di pari passo. Stavano accadendo cose terribili nel mio Paese, delle quali mi vergogno profondamente. Ma quando vidi quei giocatori, vidi le loro espressioni distrutte quando gli diedi la notizia, volevo sapere perché la Uefa era arrivata a tal punto. Se avevano deciso di escluderci dalla competizione, perché non dircelo prima? Ci stavamo allenando, eravamo già in hotel in Svezia, e ora dovevamo andare a casa. Dovevamo tornare alla realtà. E ancora, nessuno mi spiegava il perchè».