... dà fastidio anche a Diego Zandel e alla lobby europeista di Osservatorio Balcani Caucaso:
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Dubravka Ugresic
Europa in seppia
- traduzione: Olja Perišić Aršić, Silvia Minetti
- pagine: 352 - 14X20
- ISBN: 9788874525997
- Data Pubblicazione: 18/03/2016
- collana: cronache
Come si sopravvive in un mondo dove non esistono piú le cabine telefoniche, l’effigie di Tito è stampata su calzini-souvenir e si costruiscono musei sul domani per salvarsi dall’oggi? Dubravka Ugrešić ci mostra l’Europa del primo secolo del nuovo millennio attraverso una galleria di scatti, di foto d’epoca color seppia: raccontando che cosa è rimasto di un Est che, puntato sull’orologio socialista, ha creduto al progresso e ormai non ha piú neanche il tempo per sognare; e di un Ovest che, convinto di dettare il passo al futuro, moltiplica le connessioni e si barrica nei propri confini. Cartoline da aeroporti, alberghi, festival, istantanee di paure e ossessioni, una flotta di corrosivi messaggi in bottiglia lanciati da un’irriducibile contestataria.
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Una trappola chiamata jugonostalgia
di Dubravka Ugrešić, La Repubblica, 23 marzo 2016
Anticipiamo un brano dal nuovo libro della scrittrice croata Dubravka Ugrešic, Europa in seppia (nottetempo, pagg. 352, euro 18,50).
Un invito dell'Oberlin College in Ohio a tenere una lezione sul tema "Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia", aveva risollevato la mia ammaccata autostima di veterana, che quasi subito però si era sgonfiata. Dopo vent'anni a scavare fra le rovine, che cosa avrei potuto dire ancora sulla jugonostalgia?! Davanti a me si innalzava un'irriducibile mole di scritti e di testi non ancora scritti, poi libri, film, memorie, simboli e souvenir, insomma, un enorme ripostiglio, un archivio caotico in cui avevo accumulato roba di ogni genere; da fondamentali testi teorici (il libro di Svetlana Boym, "The Future of Nostalgia"), a film di successo ("Good Bye Lenin" del regista Wolfgang Becker), a progetti nostalgici di seconda
o di terza categoria, fino a oggetti smarriti che non sembravano avere alcuna attinenza con il resto. Ma chi sarà l'arbitro supremo capace di dire quali sono gli oggetti attinenti e quali quelli non attinenti? (...) C'è stato un tempo in cui internet non aveva ancora raggiunto un utilizzo di massa. Oggi ogni postjugoslavo ha modo di soddisfare il proprio appetito jugonostalgico: si trovano siti con vecchi film jugoslavi, le serie televisive più popolari, cantanti pop, vecchie pubblicità di prodotti jugoslavi, le sedie su cui ci sedevamo, le cucine in cui cucinavamo, le mode che seguivamo. Oggi vengono inaugurate mostre jugonostalgiche, si possono acquistare calzini-souvenir con l'effigie di Tito, libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. Oggi nei teatri si tengono rappresentazioni dal contenuto jugonostalgico, si girano documentari nei quali gli intervistati manifestano apertamente la propria pulsione jugonostalgica. Senonché la jugonostalgia ha perso la sua carica sovversiva, non è più un movimento di resistenza personale, è un prodotto di consumo: nel frattempo è diventata un supermercato mentale, un elenco di simboli morti, un semplice promemoria privo di immaginazione emozionale.
Oggi, cioè, il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione. E come?! Al posto di essere la chiave per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore - la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un'efficace strategia di conciliazione e oblio. Acquistando i calzini-souvenir di Tito, il postjugoslavo simbolicamente abbatte un divieto ventennale e cancella lo stigma del suo passato socialista. Qui la nostalgia muta radicalmente di significato e non sta più a indicare la protesta contro l'oblio, la polemica contro il sistema vigente o il desiderio di una vita passata (se mai ha avuto questo significato), ma un'accettazione senza riserve della situazione attuale.
Eppure, le profonde frustrazioni suscitate dal solo nominare la parola jugonostalgija (Jugoslavia, jugoslavo, socialismo, comunismo e cosi via), non sono ancora sopite, il che dimostra semplicemente che i cittadini della ex Jugoslavia - diventati croati, serbi, sloveni e via dicendo - non si sono emancipati dal passato jugoslavo. E di conseguenza, per esempio, i personaggi pubblici, che si tratti di politici, letterati, artisti, filosofi, accanto alla parola jugonostalgia aggiungono sempre una nota in calce per segnalare che il loro menzionare la Jugoslavia non significa che la rimpiangano, né per carità, che rimpiangano il comunismo. La mostra «Socialismo e modernità» a Zagabria, inaugurata alla fine del 2011, non fa che confermare e alimentare la frustrazione che in Croazia è stata latente per vent'anni.
Un visitatore può vedere esposta la prima automobile di produzione jugoslava, il primo apparecchio radiofonico, spezzoni di trasmissioni televisive, mobili, manifesti e progetti architettonici, ma il contesto storico è del tutto insignificante. La Jugoslavia, il comunismo o il socialismo vengono a malapena citati, quindi sembra quasi che la modernità degli anni '50 e '60 fosse esclusivamente croata e che avesse i colori della dissidenza, anche se risulta poco chiaro contro cosa il dissenso avrebbe dovuto rivolgersi. I curatori della mostra erano spaventati dal fatto che a quel tempo la Croazia fosse una repubblica jugoslava, come anche dal fatto che fosse stato il socialismo jugoslavo il motore della modernità. Il socialismo e la modernità a quel tempo procedevano di pari passo in un'armoniosa coppia ideologica.
Anche il capitalismo americano sfrutta la nostalgia, sebbene in modo più abile e attraente. L'esempio della campagna pubblicitaria della Levi's ( Go Forth; Go Work) mostra come il capitalismo realizzi un re- branding per difendere se stesso. Sfruttando l'estetica degli spazi postcapitalistici in rovina (capannoni di fabbriche abbandonate a Pittsburgh e Detroit) e servendosi di dilettanti invece che di modelli professionisti, le immagini della pubblicità della Levi's evocano la nostalgia per i valori di una volta, come l'individualismo, la forza, l'onestà, il lavoro, l'autostima, il coraggio, o, in altre parole, la nostalgia per i tempi dei pionieri americani. Ad accompagnare le immagini, frasi come per esempio Things got broken here assolvono da ogni responsabilità i veri colpevoli della crisi economica, equiparando così la crisi a una semplice calamità naturale, che colpisce tutti senza distinzione. La breve frase We need to fix it invita le persone, i lavoratori della classe operaia (!), a rimboccarsi le maniche, a prendere le cose nelle proprie mani e cambiare la propria vita ( Your life is your life!). E, ovviamente, a risolvere la propria vita nessuno ci va con il culo di fuori. Per questo è necessario un minimo investimento iniziale, un paio di Levi's.
o di terza categoria, fino a oggetti smarriti che non sembravano avere alcuna attinenza con il resto. Ma chi sarà l'arbitro supremo capace di dire quali sono gli oggetti attinenti e quali quelli non attinenti? (...) C'è stato un tempo in cui internet non aveva ancora raggiunto un utilizzo di massa. Oggi ogni postjugoslavo ha modo di soddisfare il proprio appetito jugonostalgico: si trovano siti con vecchi film jugoslavi, le serie televisive più popolari, cantanti pop, vecchie pubblicità di prodotti jugoslavi, le sedie su cui ci sedevamo, le cucine in cui cucinavamo, le mode che seguivamo. Oggi vengono inaugurate mostre jugonostalgiche, si possono acquistare calzini-souvenir con l'effigie di Tito, libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. Oggi nei teatri si tengono rappresentazioni dal contenuto jugonostalgico, si girano documentari nei quali gli intervistati manifestano apertamente la propria pulsione jugonostalgica. Senonché la jugonostalgia ha perso la sua carica sovversiva, non è più un movimento di resistenza personale, è un prodotto di consumo: nel frattempo è diventata un supermercato mentale, un elenco di simboli morti, un semplice promemoria privo di immaginazione emozionale.
Oggi, cioè, il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione. E come?! Al posto di essere la chiave per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore - la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un'efficace strategia di conciliazione e oblio. Acquistando i calzini-souvenir di Tito, il postjugoslavo simbolicamente abbatte un divieto ventennale e cancella lo stigma del suo passato socialista. Qui la nostalgia muta radicalmente di significato e non sta più a indicare la protesta contro l'oblio, la polemica contro il sistema vigente o il desiderio di una vita passata (se mai ha avuto questo significato), ma un'accettazione senza riserve della situazione attuale.
Eppure, le profonde frustrazioni suscitate dal solo nominare la parola jugonostalgija (Jugoslavia, jugoslavo, socialismo, comunismo e cosi via), non sono ancora sopite, il che dimostra semplicemente che i cittadini della ex Jugoslavia - diventati croati, serbi, sloveni e via dicendo - non si sono emancipati dal passato jugoslavo. E di conseguenza, per esempio, i personaggi pubblici, che si tratti di politici, letterati, artisti, filosofi, accanto alla parola jugonostalgia aggiungono sempre una nota in calce per segnalare che il loro menzionare la Jugoslavia non significa che la rimpiangano, né per carità, che rimpiangano il comunismo. La mostra «Socialismo e modernità» a Zagabria, inaugurata alla fine del 2011, non fa che confermare e alimentare la frustrazione che in Croazia è stata latente per vent'anni.
Un visitatore può vedere esposta la prima automobile di produzione jugoslava, il primo apparecchio radiofonico, spezzoni di trasmissioni televisive, mobili, manifesti e progetti architettonici, ma il contesto storico è del tutto insignificante. La Jugoslavia, il comunismo o il socialismo vengono a malapena citati, quindi sembra quasi che la modernità degli anni '50 e '60 fosse esclusivamente croata e che avesse i colori della dissidenza, anche se risulta poco chiaro contro cosa il dissenso avrebbe dovuto rivolgersi. I curatori della mostra erano spaventati dal fatto che a quel tempo la Croazia fosse una repubblica jugoslava, come anche dal fatto che fosse stato il socialismo jugoslavo il motore della modernità. Il socialismo e la modernità a quel tempo procedevano di pari passo in un'armoniosa coppia ideologica.
Anche il capitalismo americano sfrutta la nostalgia, sebbene in modo più abile e attraente. L'esempio della campagna pubblicitaria della Levi's ( Go Forth; Go Work) mostra come il capitalismo realizzi un re- branding per difendere se stesso. Sfruttando l'estetica degli spazi postcapitalistici in rovina (capannoni di fabbriche abbandonate a Pittsburgh e Detroit) e servendosi di dilettanti invece che di modelli professionisti, le immagini della pubblicità della Levi's evocano la nostalgia per i valori di una volta, come l'individualismo, la forza, l'onestà, il lavoro, l'autostima, il coraggio, o, in altre parole, la nostalgia per i tempi dei pionieri americani. Ad accompagnare le immagini, frasi come per esempio Things got broken here assolvono da ogni responsabilità i veri colpevoli della crisi economica, equiparando così la crisi a una semplice calamità naturale, che colpisce tutti senza distinzione. La breve frase We need to fix it invita le persone, i lavoratori della classe operaia (!), a rimboccarsi le maniche, a prendere le cose nelle proprie mani e cambiare la propria vita ( Your life is your life!). E, ovviamente, a risolvere la propria vita nessuno ci va con il culo di fuori. Per questo è necessario un minimo investimento iniziale, un paio di Levi's.
© nottetempo, 2016.
Traduzione di Olja Perišic Arsic e Silvia Minetti
Traduzione di Olja Perišic Arsic e Silvia Minetti
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“Caro vecchio Continente senza più un fremito morale”
La scrittrice croata Dubravka Ugrešic racconta in Europa in seppia la disillusione dell’Est dopo la sbornia iniziale di libertà e mercato
23.3.2016
MICHELA TAMBURRINO
ROMA
Il calzino-souvenir con l’effigie di Tito stampata sopra. Una cabina telefonica fuori uso. L’Europa che non ride più. Sono foto dell’anima che la scrittrice croata Dubravka Ugrešic si è trovata a scattare traendo luce dalle mancanze, aprendo il grandangolo del paradosso. Crudeli, ironiche, accorate.
Europa in seppia (Nottetempo, collana cronache) è un album di scatti raccontati, un mondo che non c’è più si impone, l’odierno, mentre esiste è già dimenticabile. Cartoline lanciate come messaggi in bottiglia, da alberghi, aeroporti, convegni. Rassicuranti non sono ma ci si ride sopra. E persino la solida nostalgia di cui la massiccia Dubravka si ciba con famelico altruismo è diventato prodotto usa e getta. La saggista e romanziera, amata per la sua mancanza di conformismo, tradotta in venti lingue, in esilio in Olanda, «mette in posa un’epoca per un impietoso selfie».
Lei scrive che l’Europa non ama più la vita.
«L’Europa ha perso le coordinate, non funge più da concetto. L’unica cosa certa di ogni singolo Stato europeo è la moneta unica. Umberto Eco diceva che la cultura incontra un problema quando la si paragona alla valuta, in un mondo globale proprio la cultura dovrebbe garantire da difesa identitaria. Per me è un motivo di disperazione. Vedo l’Europa in una luce cupa, soffro la mancanza di un progetto morale per il futuro, non mi sento parte di una comunità, siamo testimoni del proliferare di tanti fascismi diversi, in tanti luoghi diversi, ma noi non li vediamo come tali. Colgo l’incapacità di leggere tanti segni e questo mi preoccupa».
Da qui la nostalgia per il suo mondo fatto a blocchi?
«La nostalgia in sé ha un grande potenziale di vendita e di guadagno. Oramai la maneggiano tutti, la usano i commercianti e i politici. Prolifera lì dove manca un progetto per il futuro, ma noi viviamo in un tempo in cui nessuno parla più del futuro. Io sono cresciuta in un’epoca di forte progettualità. Pensavo che avrei comprato un biglietto per la Luna. Nessuno lo dice più. La medicina e la tecnologia sono gli unici campi ad indicare il domani. Vivremo tutti una lunghissima vecchiaia contornati da macchine tutto fare. Nessuno però ci dice come staremo in questo mondo, sanissimi, vecchi e sostituiti dai robot. In tanta incertezza fiorisce la nostalgia cattiva ed ecco che allo stadio di Spalato tra il manto in erba, dal cielo si vede una svastica».
C’è anche tanta paura tra le pieghe del suo libro.
«Viviamo in un mondo che è stato allattato con la paura e la più grande è quella del cambiamento. Il regime comunista organizzava sogni e desideri. Miope pensare che il socialismo in Jugoslavia sia stato abbattuto per uccidere una figura materna. In realtà è stato sostituito da una figura ancora più materna: il nazionalismo. Peggiore perché mancante del piglio ideologico, criminale perché si basa sull’etnia e sul gruppo sanguigno».
Lei parla di Zagabria come farebbe un’amante tradita
«Ai Padiglioni della Fiera di Zagabria ho accompagnato un mio amico scivolato nella povertà a prendere pacchi destinati ai “casi sociali”. Vent’anni fa in un analogo padiglione vennero torturati i concittadini serbi».
Lei partecipa a molti festival letterari, eppure li descrive di grande pochezza.
«Il sistema letterario ha perso appeal. Sgretolato il sostegno dato dalle università e dalla critica, i festival sono entrati a far parte del mercato. L’idea guida è pubblicizzare pur non essendo certi della bontà del prodotto. C’è una manifestazione inglese nella quale si dava spazio agli scrittori. Oggi chiedono agli autori una performance, purché sia divertente. Finiremo tutti come Elena Ferrante e non ci mostreremo più».
Lei adora il Museo del Cinema di Torino (oggi sarà al Circolo dei Lettori nell’ambito del Festival Slavika) perché il cinema è il prodotto più potente ed emozionante della nostra epoca.
«Sì, è il posto più bello al mondo, sensuale, illuminato da energia onirica. Stesa su quelle poltrone ho visto scene di ballo tratte dai film. Ecco, il mio messaggio per il futuro sarebbe il ballo, gente normale che balla come stelle in cielo».
ROMA
Il calzino-souvenir con l’effigie di Tito stampata sopra. Una cabina telefonica fuori uso. L’Europa che non ride più. Sono foto dell’anima che la scrittrice croata Dubravka Ugrešic si è trovata a scattare traendo luce dalle mancanze, aprendo il grandangolo del paradosso. Crudeli, ironiche, accorate.
Europa in seppia (Nottetempo, collana cronache) è un album di scatti raccontati, un mondo che non c’è più si impone, l’odierno, mentre esiste è già dimenticabile. Cartoline lanciate come messaggi in bottiglia, da alberghi, aeroporti, convegni. Rassicuranti non sono ma ci si ride sopra. E persino la solida nostalgia di cui la massiccia Dubravka si ciba con famelico altruismo è diventato prodotto usa e getta. La saggista e romanziera, amata per la sua mancanza di conformismo, tradotta in venti lingue, in esilio in Olanda, «mette in posa un’epoca per un impietoso selfie».
Lei scrive che l’Europa non ama più la vita.
«L’Europa ha perso le coordinate, non funge più da concetto. L’unica cosa certa di ogni singolo Stato europeo è la moneta unica. Umberto Eco diceva che la cultura incontra un problema quando la si paragona alla valuta, in un mondo globale proprio la cultura dovrebbe garantire da difesa identitaria. Per me è un motivo di disperazione. Vedo l’Europa in una luce cupa, soffro la mancanza di un progetto morale per il futuro, non mi sento parte di una comunità, siamo testimoni del proliferare di tanti fascismi diversi, in tanti luoghi diversi, ma noi non li vediamo come tali. Colgo l’incapacità di leggere tanti segni e questo mi preoccupa».
Da qui la nostalgia per il suo mondo fatto a blocchi?
«La nostalgia in sé ha un grande potenziale di vendita e di guadagno. Oramai la maneggiano tutti, la usano i commercianti e i politici. Prolifera lì dove manca un progetto per il futuro, ma noi viviamo in un tempo in cui nessuno parla più del futuro. Io sono cresciuta in un’epoca di forte progettualità. Pensavo che avrei comprato un biglietto per la Luna. Nessuno lo dice più. La medicina e la tecnologia sono gli unici campi ad indicare il domani. Vivremo tutti una lunghissima vecchiaia contornati da macchine tutto fare. Nessuno però ci dice come staremo in questo mondo, sanissimi, vecchi e sostituiti dai robot. In tanta incertezza fiorisce la nostalgia cattiva ed ecco che allo stadio di Spalato tra il manto in erba, dal cielo si vede una svastica».
C’è anche tanta paura tra le pieghe del suo libro.
«Viviamo in un mondo che è stato allattato con la paura e la più grande è quella del cambiamento. Il regime comunista organizzava sogni e desideri. Miope pensare che il socialismo in Jugoslavia sia stato abbattuto per uccidere una figura materna. In realtà è stato sostituito da una figura ancora più materna: il nazionalismo. Peggiore perché mancante del piglio ideologico, criminale perché si basa sull’etnia e sul gruppo sanguigno».
Lei parla di Zagabria come farebbe un’amante tradita
«Ai Padiglioni della Fiera di Zagabria ho accompagnato un mio amico scivolato nella povertà a prendere pacchi destinati ai “casi sociali”. Vent’anni fa in un analogo padiglione vennero torturati i concittadini serbi».
Lei partecipa a molti festival letterari, eppure li descrive di grande pochezza.
«Il sistema letterario ha perso appeal. Sgretolato il sostegno dato dalle università e dalla critica, i festival sono entrati a far parte del mercato. L’idea guida è pubblicizzare pur non essendo certi della bontà del prodotto. C’è una manifestazione inglese nella quale si dava spazio agli scrittori. Oggi chiedono agli autori una performance, purché sia divertente. Finiremo tutti come Elena Ferrante e non ci mostreremo più».
Lei adora il Museo del Cinema di Torino (oggi sarà al Circolo dei Lettori nell’ambito del Festival Slavika) perché il cinema è il prodotto più potente ed emozionante della nostra epoca.
«Sì, è il posto più bello al mondo, sensuale, illuminato da energia onirica. Stesa su quelle poltrone ho visto scene di ballo tratte dai film. Ecco, il mio messaggio per il futuro sarebbe il ballo, gente normale che balla come stelle in cielo».
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Europa in seppia
Diego Zandel, 20 giugno 2016
Diego Zandel, 20 giugno 2016
E' l'ultimo libro uscito in Italia per la casa editrice Nottetempo della scrittrice Dubravka Ugrešić. Una riflessione sull'Europa del Novecento, in particolare quella dell'est. Recensione
Dubravka Ugrešić è una delle scrittrici croate più tradotte in Italia. Nel tempo, Garzanti prima, quindi Bompiani ed ora Nottetempo hanno pubblicato i suoi libri più significativi. Eppure è, o meglio sarebbe dire, è stata una delle scrittrici più odiate in patria al tempo della cosiddetta “Guerra patriottica” e del regime di Tuđman, tanto da costringersi a una sorta di auto esilio, scegliendo poi di vivere in Olanda.
L’ultimo ad essere pubblicato in Italia da Nottetempo, ed è ben il terzo libro per i tipi di questa bella casa editrice, è una raccolta di articoli e saggi di attualità, piuttosto recenti, dal titolo “Europa in seppia” (pag,349, €. 18,50, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti). Perché in seppia? Perché guarda a quell’Europa del Novecento che non c’è più. O, meglio, c’è, ma è l’Europa di oggi, in particolare quella dell’est, che si volta indietro e scopre un continente invecchiato nei suoi miti, ridotti per lo più a icone consumistiche. L’esempio più significativo per una croata, spesso accusata di jugonostalgia, è quello di Tito, la cui immagine, che un tempo si vedeva esposta in ogni luogo pubblico, si ritrova stampata su calzini-souvenir oppure, con la memoria del fatto che era un bon viveur, in libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. La Ugrešić, proprio con riferimento alla jugonostalgia, critica severamente questo atteggiamento come una resa al capitalismo: “Oggi, cioè” scrive “il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione.”
Può sembrare una critica alla jugonostalgia, ma in realtà il suo è un fastidio per una storia, la storia del paese sotto il quale è nata e cresciuta, ridotta a questi espedienti consumistici che ne riducono l’importanza e allontanano da una vera riflessione su ciò che è stata la Jugoslavia di Tito. Scrive infatti l’autrice che questo tipo di jugonostalgia: “al posto di essere la chiave per un’indagine seria, per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore, la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un’efficace strategia di conciliazione e oblio”.
Con ciò, però, secondo me, confermando la tesi di chi sostiene il suo essere jugonostalgica, di una Jugoslavia però vista con altri occhi, quelli di un rimpianto per un paese che non c’è più e che, se non portato alla distruzione, avrebbe potuto essere. Una posizione, la sua, che per altro ben emerge soprattutto nel suo romanzo “Il ministero del dolore”, edito in Italia da Garzanti in cui racconta la storia di una insegnante di serbo-croato autoesiliatasi da Zagabria, come la Ugrešić, che insegna letteratura a giovani ex jugoslavi, ora croati, serbi, bosniaci, montenegrini, figli o parenti di criminali di guerra alla sbarra al tribunale dell’Aia. Con essi nasce un gioco della memoria: cercare di ricordare tutto ciò che era riconducibile alla ex Jugoslavia, compresa la lingua, della quale la protagonista sottolinea l’assurda distinzione tra serbo e croato che conta su una diversità di non più di 50 parole. L’intento, quello di alimentare nei giovani allievi una comune identità jugoslava che cancelli i nazionalismi esacerbati dalla guerra interetnica, che era poi il motivo profondo del romanzo stesso.
Questa visione, che è quella di una donna di cuore comunista, rappresenta un po’ tutta la chiave degli articoli e dei saggi raccolti in “Europa in seppia”, in particolare quando l’autrice, ospite in questo o quel paese europeo soprattutto per convegni e presentazioni, si trova in quelli dell’est, ex comunisti, dove non manca di criticare la volontà dei nuovi governi di cancellare, fin nei nomi, i retaggi nel passato comunista. Gran parte del libro è assorbito da questa discussione e non a caso il libro si apre con il ricordo di quando Dubravka Ugrešić fu invitata all’Oberlin College, nell’Ohio, che aveva organizzato una serie di lezioni sul tema Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia, che è poi il tema di questo libro, scritto con acume e un po’ di acredine.
E’ pur vero che il libro non parla solo di questo, pur ritornandoci spesso, ed è interessante il punto di vista dell’autrice anche su altri aspetti della realtà europea, che lei vive ormai anche come cittadina olandese e viaggiatrice culturale per essere spesso chiamata a festival, rassegne, conferenze, eventi culturali (è stata anche a Torino e Roma, per presentare questo ultimo libro). Il timore però è che l’invito sia rivolto alla dissidente più che alla brava scrittrice che la Ugrešić è, facendole ricoprire un ruolo che ormai dovrebbe scrollarsi di dosso, credo con una profonda riflessione sui passi in avanti compiuti dalla Repubblica di Croazia dai tempi di Tuđman che, perseguitando lei ed altri scrittori critici, mostrava il volto becero di un regime. Magari partendo dalla semplice considerazione che l’attuale Repubblica di Croazia non solo contribuisce economicamente, attraverso il ministero della Cultura, alla traduzione dei suoi libri all’estero, ma anche a qualcuno dei suoi viaggi di lavoro come, ad esempio, l’ultimo nel nostro paese per la presentazione proprio di questo libro a Torino e a Roma.
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Altri link consigliati:
Quando l'esilio è una scelta di vita, una conversazione con Dubravka Ugreŝić (Pagina 99, sezione Arti, pag. 39 - 30 aprile 2016 - di Gabriele Santoro)