Le parole di Nadia Fantini, figlia di " Sasso", sono state eloquenti sul non caso della non foiba di Rosazzo. Ha detto che tutta questa vicenda è una "grande porcheria" e che neanche dopo tutti questi anni lasciano in pace suo padre, che quando i fascisti, a guerra finita, misero le bombe dove loro vivevano, per farli andare via dall'Italia, Fantini disse che sarebbe rimasto in Italia perché ha combattuto per la libertà dell'Italia, del nostro Paese.
Jugoinfo
Judgement - Karadžić - 24 March 2016
https://blogs.mediapart.fr/daniel-salvatore-schiffer/blog/290316/criminels-de-guerre-en-ex-yougoslavie-la-justice-selective-du-tpiy
J'y reviens aussi sur l'actuel président du Kosovo, ancien chef de l'Armée de Libération du Kosovo, Hashim Taci, soupçonné, par l'ancienne procureur de ce même TPIY, Carla Del Ponte, et le président de la commission des droits de l'homme au Conseil de l'Europe, Dick Marty, de trafic en tous genres: drogues, armes, prostitution et, surtout, trafic d'organes humains prélevés sur des prisonniers serbes. Il serait en passe d'être inculpé par le TPIY!
J'ai mis, à ces différents sujets, les liens électroniques nécessaires.
Enfin, je termine ma tribune par une demande de remise en liberté de Florence Hartmann, aujourd'hui injustement arrêtée et arbitrairement détenue en prison par ce même TPIY!
Daniel Salvatore Schiffer >>
=== 1 ===
Mosca sulla condanna di Karadžič: “nessun pilota Nato sul banco degli accusati”
Il cosiddetto Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia ha condannato ieri il primo presidente della Repubblica serba di Bosnia, il 71enne Radovan Karadžič, a 40 anni di reclusione. Indicativo dell’intero corso della vicenda e del significato generale del Tribunale stesso è il momento della sentenza, nel giorno del 17° anniversario dell’inizio dei bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, che causarono 2000 vittime civili, tra cui più di 400 bambini. Il processo era iniziato nel 2009, un anno dopo l’arresto di Karadžič a Belgrado e la sua reclusione nel carcere olandese di Scheveningen.
Come “una beffa gesuitica”, scrive oggi Komsomolskaja Pravda “è risuonata nell’aula del tribunale la dichiarazione del giudice secondo cui potrà esser presentato ricorso contro il verdetto. I serbi condannati dal Tribunale conoscono bene il valore del ricorso. Il generale Stanislav Galič, condannato a 20 anni, dopo il tentativo di appello è stato condannato al carcere a vita. Il colonnello Veselin Šlivančin, in appello, invece degli originali 5 anni, ne ha avuti 17. Il croato Dražen Erdemovič, che aveva ammesso di aver personalmente fucilato più di 120 persone, aveva avuto appena 5 anni”. L’orientamento antiserbo del Tribunale, scrive ancora KP, è da tempo conosciuto da tutti gli esperti imparziali: 92 accusati su 142 sono serbi; di essi, solo due sono stati prosciolti, a differenza dei musulmani bosniaci (3 su 9) e degli albanesi (5 su 9), e 32 croati.
Accanto alle reazioni internazionali, in particolare della dirigenza serba, che chiama “tutti i serbi di Bosnia e Erzegovina a lottare per la propria repubblica e il proprio popolo, messi in forse dal verdetto”, a Mosca si parla di “piena illegalità”. Già nel tardo pomeriggio di ieri, la Tass riportava le parole del vice presidente della Commissione esteri della Duma, Leonid Kalašnikov, secondo cui “siamo in presenza di una condanna assolutamente infondata. Mentre il Tribunale già da tempo aveva cessato di essere in vita, hanno continuato per oltre sette anni a tenere Karadžič sotto custodia. Siamo in presenza di un approccio assolutamente unilaterale degli occidentali: i kosovari, di cui non avevano più bisogno, sono stati rilasciati da tempo, mentre ai serbi, di fatto, è stata negata una giustizia equa. Ecco, questo è un genocidio”.
A proposito di genocidio, tra le accuse principali mosse infatti a Karadžič, c’è quella per i fatti di Srebrenitsa, l’enclave musulmana in cui, secondo il Tribunale, nel 1995 i serbi di Bosnia avrebbero fucilato diverse migliaia di uomini musulmani. Esperti internazionali hanno da tempo dimostrato come, in base alle riesumazioni, i cadaveri presentassero per lo più ferite inferte in combattimento. Da allora, si è chiesto ripetutamente di indagare in modo approfondito sui massacri di civili serbi che, proprio nella regione di Srebrenitsa, erano stati perpetrati dalle milizie bosniache a partire dal 1992, allorché l’enclave era stata da esse occupata e utilizzata come testa di ponte (protetta dalle forze ONU, che avrebbero dovuto disarmare i musulmani) per i loro attacchi contro il territorio controllato dai serbi, con migliaia di civili uccisi e centinaia di villaggi serbi bruciati. Su Karadžič ricade anche l’accusa per le esplosioni al mercato di Sarajevo, di cui da tempo è noto che furono organizzati dai leader islamisti di Bosnia per giustificare l’appoggio clintoniano.
“Un tribunale filo-americano”, ha detto il vice speaker della Duma e vice presidente del PC russo, Ivan Melnikov. Riguardo alla consegna del leader serbo-bosniaco, da parte dell’allora dirigenza di Belgrado, Melnikov ha aggiunto che “a suo tempo il PC russo criticò la consegna di Karadžič a tale tribunale e oggi, allo stesso modo, critichiamo il verdetto; la ragione è la stessa: non è un tribunale, ma una farsa legale politicamente orientata pro-americana”. Il vice presidente della Commissione esteri del Consiglio federale (senato), Andrej Klimov, ha dichiarato alla Tass che la responsabilità per delitti contro l’umanità in Jugoslavia deve ricadere non solo sui serbi, ma anche sui rappresentanti delle altre etnie, così come sui piloti della Nato. Si sarebbero dovuti chiamare a rispondere anche quei piloti Nato che effettuarono i bombardamenti sulla Jugoslavia, uccidendo in massa la popolazione civile. Ma per qualche ragione non ho visto quei piloti sul banco degli imputati, sebbene la NATO non fosse stata invitata colà da nessuno e non ci fossero decisioni del Consiglio di Sicurezza ONU. Anche quelli erano crimini contro l’umanità, ma qualcuno ha visto in tribunale quei criminali?”, ha detto Klimov. La Tass ricordava anche come il Ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, già nel 2012 avesse accusato il Tribunale di pregiudizi politici e doppio standard nell’approccio ai casi in cui sono imputati i serbi bosniaci e i musulmani.
Nei giorni scorsi, Sovetskaja Rossija, dando notizia dei meeting anti-Nato svoltisi in varie città della Jugoslavia per l’anniversario dei bombardamenti Nato, scriveva che, purtroppo, i leader di Belgrado sembrano essersi dimenticati delle vittime di quegli attacchi e oggi, “su ordine di Bruxelles e per le promesse illusorie di entrare nella UE, abbandonano al loro destino i serbi del Kosovo, diminuiscono le pensioni, e le spese sociali, privatizzano ciò che rimane dell’industria serba, tradiscono la memoria delle vittime innocenti”. “Quanto accade a L’Aja con Radovan Karadžič”, ha dichiarato a SR il presidente della Repubblica serba in Bosnia-Erzegovina, Milorad Dodik “non ha niente a che fare con la ricerca della verità, ma è solo vendetta”. Le testimonianze udite a L’Aja, conclude SR, hanno distrutto ogni tassello delle “accuse contro Karadžič e Mladič per il genocidio dei musulmani di Bosnia e sfatano i miti con cui è stata impressa nell’opinione pubblica mondiale la cosiddetta satanizzazione dei serbi”.
Darja Aslamova, una delle più attenti corrispondenti di Komsomolskaja Pravda, ricordando alcuni suoi incontri a Pale con Radovan Karadžič, durante la guerra nei Balcani, sottolinea come “la guerra civile in Bosnia sia iniziata con il massacro a una cerimonia di nozze serba a Sarajevo. I musulmani bosniaci avevano l’appoggio dell’Occidente e del mondo musulmano; i serbi di nessuno. Anche la Russia, nonostante le alte dichiarazioni, rifiutò ogni aiuto in armi, mentre i musulmani bosniaci, in tre anni di guerra, ricevettero due miliardi di $ per acquistare armi. Nel paese giunsero Osama bin Laden e 4.500 combattenti di Al Qaeda. Ci sono le foto di come si tagliassero le teste dei serbi. Tutti gli assassini sono noti e, in giro per il mondo, reclutano oggi nuovi terroristi. Nessuno di loro è mai stato arrestato”. Aslamova racconta di come Karadžič le avesse detto, a proposito dell’isolamento in cui l’Occidente aveva costretto i serbi, che questo avrebbe aiutato “la loro maturazione. L’isolamento forzato di un popolo, come quello delle singole persone, lo distrugge, se è spiritualmente vuoto, o lo eleva, se lo merita. I serbi ora sono soli, ma questo darà loro maturità spirituale e saggezza. Dio sa che abbiamo ragione. Certe volte mi sembra che stesse parlando di noi, russi”, conclude Aslamova.
25 marzo 2016
Da: Andrea Martocchia
Data: 28 marzo 2016 17:10:28 CEST
A: Alberto Negri
Oggetto: su Karadzic
Michel Collon
23 mars 2016
Hier, comme tant de Bruxellois, j’ai passé des heures à vérifier où se trouvaient mes proches. Qui, par malchance, aurait pu se trouver dans ce métro maudit, que j’emprunte moi aussi chaque fois que je me rends au bureau d’Investig’Action ? Qui, par malchance, aurait pu se trouver près du Starbucks de l’aéroport, où j’ai l’habitude de prendre un thé en attendant le vol ? Recherches d’autant plus angoissantes que le réseau était évidemment saturé.
Comme tant de Bruxellois, j’ai pleuré et j’avais envie de frapper les criminels qui s’en sont ainsi pris à tant d’innocents. Mais on ne naît pas criminel, on le devient. Et la question la plus importante est : comment en sont-ils arrivés là ? Nier à ce point la valeur de la vie de tant d’innocents ! Les faire souffrir et terroriser au lieu de se battre - avec ces innocents - contre l’injustice qui nous frappe tous ? Qui a intoxiqués ces jeunes, qui leur a montré l’exemple de la violence, qui les a plongés dans le désespoir et surtout qui les a armés ? Criminels, oui, mais ne sont-ils pas aussi victimes quelque part, même si ce terme peut choquer.
Alors, quand j’ai entendu notre premier ministre Charles Michel déclarer en conférence de presse que les Belges avaient besoin de s’unir, et qu’il évitait soigneusement la question centrale « Comment en est-on arrivé là, qui sont les responsables ? », alors je me suis mis en colère contre cet homme hypocrite qui nous propose simplement de continuer comme avant. Alors que la question des gens, c’est justement : « Comment éviter que ça recommence bientôt ? Quelle politique appliquer pour mettre fin à cet engrenage infernal ? »
Vous croyez vraiment que la surveillance et la répression empêcheront de nouveaux attentats ? Certains, oui, mais pas tous, c’est impossible. Pour cela il faut changer de politique. Votre politique.
Einstein disait « On ne résout pas un problème avec les modes de pensée qui l’ont engendré ». En effet, on n’empêchera pas le terrorisme tant qu’on n’aura pas débattu sur ses causes profondes. Afin de mettre en place une vraie prévention.
Monsieur le premier ministre Charles Michel, je ne vous remercie pas. Car vous avez refusé de poser les questions importantes : Les Saoud et le Qatar ont-ils financé les terroristes ? Oui, les rapports des services US le disent. Les Etats-Unis ont-ils créé Al-Qaida ? Oui, Hillary Clinton l’a reconnu. La CIA a-t-elle organisé un camp d’entraînement en Jordanie ? Oui, le célèbre journaliste US Hersh l’a prouvé. Fabius a-t-il encouragé le terrorisme en déclarant « Al-Qaida fait du bon boulot » ? Oui, regardez sa vidéo de Marrakech, décembre 2012.
Et d’une façon générale, les Etats-Unis ont-ils utilisé le terrorisme dit islamiste depuis Ben Laden en Afghanistan en 79 jusqu’à la Syrie aujourd’hui, en passant par la Bosnie, le Kosovo, le Caucase, l’Algérie, l’Irak, la Libye et d’autres pays encore ? Ne faut-il pas créer d’urgence une commission d’enquête sur les liens USA – terrorisme et sur les dessous stratégiques de tous ces drames ? Vous et l’Europe, allez-vous continuer de suivre Washington comme un petit chien ? Vous vous félicitez comme un petit garçon quand Obama vous téléphone. Mais pourquoi ne dénoncez-vous pas son hypocrisie derrière ces guerres ? Monsieur Michel, quand je pense à toutes ces souffrances qui auraient pu être évitées, je ne vous remercie pas.
Il est vrai que vous n’êtes pas le seul à pratiquer la langue de bois.
Monsieur le ministre des Affaires étrangères Didier Reynders, je ne vous remercie pas non plus. Vous avez déclaré hier que les terroristes s’en prennent à « notre mode de vie ». Exactement les paroles de George W. Bush le 11 septembre avant d’attaquer l’Irak et l’Afghanistan sous des prétextes mensongers. Monsieur Reynders, pourquoi n’avez-vous pas rappelé votre déclaration d’avril 2013 vantant « ces jeunes (à qui) on construira peut-être un monument comme héros d’une révolution » .
Pourquoi quand je vous ai invité, en juin 2013, à participer à un débat « Jeunes en Syrie, comment les empêcher de partir ? », avez-vous refusé ? Cela ne vous préoccupait pas ? Vous trouviez que pour « changer le régime » comme vous dites, tous les moyens étaient bons, même le terrorisme ? Vous n’avez pas pensé qu’encouragés à commettre ces actes là-bas, certains reviendraient faire pareil ici ? Monsieur Reynders, je ne vous remercie pas.
Madame Milquet, je ne vous remercie pas non plus. Vous étiez ministre de l’Intérieur à cette époque. Vous avez aussi refusé de participer à ce débat, malgré notre insistance, et en changeant sans cesse de prétexte ! Depuis, vous vous taisez. Gênée d’avoir fait la sourde oreille face aux cris de détresse des mamans angoissées de voir que leurs gosses – c’étaient vraiment des gosses de 16, 17, 18 ans – partaient là-bas vers l’enfer sans que la Belgique fasse rien pour les retenir ? Vous n’avez pas de remords en voyant la suite ? Madame Milquet, je ne vous remercie pas.
N’est-il pas temps d’ouvrir un grand débat sur les conséquences de la politique internationale menée par la Belgique depuis des années ?
1. L’Europe doit-elle continuer à suivre les Etats-Unis et leur politique qui met le Moyen-Orient à feu et à sang ?
2. La Belgique doit-elle continuer à soutenir la violence d’Israël, en refusant de faire respecter le droit international et en traitant d’ « antisémites » les jeunes qui veulent soutenir les droits des Palestiniens ?
3. La Belgique doit-elle continuer à se prosterner devant les pétro-dollars des Saud (volés aux peuples arabes au lieu d’utiliser l’argent du pétrole et du gaz pour combattre la pauvreté comme en Amérique latine) alors que tout le monde sait que ces mêmes Saud financent l’intoxication des jeunes esprits par une version empoisonnée et falsifiée de l’islam ?
4. Comment justifier le refus du droit d’asile aux victimes de « nos » guerres en Irak, Syrie, Afghanistan ?
5. Quand ouvrira-t-on enfin le dossier de l’intervention « humanitaire » en Libye, où l’Otan s’est allié à Al-Qaida pour renverser Kadhafi, en violant la Charte de l’ONU qui interdit ce genre de pratiques ? Avec la conséquence qu’on voit aujourd’hui : la Libye transformée en foyer du terrorisme international.
N’est-il pas temps d’ouvrir en même temps un grand débat sur les conséquences de la politique sociale, ou plutôt antisociale, menée par les gouvernements belges depuis des années ?
1. Pouvez-vous rogner sans cesse les budgets scolaires ? Fabriquant des écoles-parkings où les profs manquent de formation adéquate et de moyens pour faire face à tant de questions complexes sur le monde d’aujourd’hui ?
2. Pouvez-vous rogner sans cesse les budgets des prisons et de la réinsertion ? Avec pour conséquence que de petits délinquants deviennent de grands délinquants irrécupérables ?
3. Pouvez-vous rogner sans cesse les budgets des médias audiovisuels de service public ? avec pour conséquence que les journalistes n’ont plus le temps d’approfondir les sujets (confidences reçues de l’intérieur de la RTBF) et sont condamnés au règne du copié-collé et du fast info ? Poussant ainsi les jeunes rendus méfiants vers les théories du complot, ou pire encore vers les prêcheurs fanatiques et les recruteurs sans scrupules ?
4. Pouvez-vous continuer à faire des cadeaux aux banques et aux multinationales qui ne paient quasi plus d’impôts et reporter votre déficit notamment vers les communes, dont les responsables sont privés des moyens nécessaires pour aider les jeunes ? N’est-ce pas ainsi que vous produisez des communes du désespoir comme Molenbeek ? (Mais pas seulement, il y a aussi Vilvorde, Verviers, Anvers et n’oublions quand même pas que les « eurojihadistes » proviennent de nombreux pays européens)
5. Faut-il alors être surpris que tant de jeunes soient tombés entre les griffes de recruteurs professionnels ? D’autant plus que lorsqu’on les signalait à la police, pas toujours, mais bien souvent parents et éducateurs s’entendaient répondre : « Mais qu’ils partent seulement en Syrie, ce qu’on ne veut pas, c’est qu’ils reviennent ici ! »
6. Avez-vous vraiment le droit de vous dire surpris par les attentats de Paris et de Bruxelles alors que la sonnette d’alarme est tirée depuis des années et que vous tous avez refusé d’écouter les donneurs d’alerte ?
Hier, chaque parent a tremblé pour ses enfants. Aujourd’hui, chacun s’interroge sur l’éducation qu’il faut leur donner face à ce monde de plus en plus violent. Allons-nous pouvoir leur offrir une vraie éducation et un avenir ? Demain, quelle ville sera frappée ? La montée de la haine et de la peur, ciblant les musulmans, fait le jeu de l’extrême droite. C’est ça que vous voulez ?
Concluons. Les attentats, ce n’est pas une fatalité, c’est le résultat d’une politique. Menée à Washington. Puis à Londres et Paris. Bruxelles suivant servilement. Messieurs les dirigeants, vous êtes donc co-responsables. Avons-nous le droit d’en débattre – en « démocratie » - ou bien allez-vous encore user de pressions pour que les médias se taisent ?
Bruxelles, 23 mars
POUR SUIVRE : Combien de morts faudra-t-il encore avant que les médias ouvrent enfin le vrai débat ?
alla conferenza stampa del 23 marzo 2016 a Udine
scarica in formato Pdf: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2016/03/LA-PROVENIENZA-DEL-DOCUMENTO-SULLA-FOIBA-DI-CORNO-DI-ROSAZZO..pdf
La storica Kersevan: dobbiamo considerare il teatro di guerra dell’epoca. Nel passato già svolte indagini «per criminalizzare la Resistenza»
23/03/16
I puntini sulle i sul (non) caso della non Foiba di Rosazzo ed il messaggio di Wu Ming
Le parole di Nadia Fantini, figlia di " Sasso", sono state eloquenti sul non caso della non foiba di Rosazzo. Ha detto che tutta questa vicenda è una "grande porcheria" e che neanche dopo tutti questi anni lasciano in pace suo padre, che quando i fascisti, a guerra finita, misero le bombe dove loro vivevano, per farli andare via dall'Italia, Fantini disse che sarebbe rimasto in Italia perché ha combattuto per la libertà dell'Italia, del nostro Paese.
La storia fatta coi piedi (mozzati), ovvero: 7 errori di metodo nella ricerca delle «nuove #foibe»
[Un piccolo vademecum per affrontare polemiche e campagne mediatiche a tema storico. Questo “eptalogo” è stato letto e distribuito oggi a Udine, durante la conferenza stampa di Resistenza Storica sulla presunta «foiba o fossa comune di Rosazzo» (l’ormai famigerata «foiba volante del Friuli orientale»). Sette punti che riteniamo utili anche al di là del caso specifico. Buona lettura.]
di Wu Ming
Tutti quelli che negli ultimi due mesi, nel territorio tra Udine e Gorizia, si sono riempiti la bocca con l’espressione «verità storica» o – peggio ancora – con «verità» senza aggettivi, dovrebbero leggere un libro, un saggio breve e di agile lettura considerato una pietra miliare della riflessione sulla ricerca storica. Si intitola Apologia della storia o Mestiere di storico, lo scrisse uno dei più grandi studiosi del Novecento, Marc Bloch.
Bloch era membro della Resistenza francese. Fu arrestato dalla Gestapo nella primavera del 1944, torturato e infine fucilato insieme ad altri 26 partigiani. Apologia della storiauscì postumo, nel 1949. In quel libro, Bloch parla del metodo critico, di come maneggiare i documenti storici e di come nascano i falsi e gli errori.
Tra i primi insegnamenti che si possono trarre leggendo Bloch, ci sono questi:
1. L’autenticità di un documento non implica l’autenticità del suo contenuto. Un foglio trovato in un archivio può essere autenticamente del 1945, e al tempo stesso essere pieno di asserzioni prive di riscontro e di basi fattuali. In una parola: di fandonie. Il passato non conferisce veridicità a un documento, una panzana non diventa vera solo perché “vintage”. Ripetere che un documento «è autentico» senza distinguere tra questi due aspetti, anzi, confondendoli sistematicamente, è roba da storico della domenica… oppure da mestatore.
2. Nemmeno l’archivio conferisce veridicità a un documento, come non gli conferisce autorevolezza: gli archivi raccolgono di tutto, se un documento viene trovato in un archivio rinomato, non per questo dice il vero, né il suo contenuto ha alcun “sigillo di garanzia”. Che un documento trovato negli archivi della Farnesina venga definito tout court come «un documento della Farnesina» è, nella migliore delle ipotesi, un errore marchiano; nella peggiore, un miserabile espediente.
3. Ancor più cautela richiedono le testimonianze orali basate su ricordi e sulla frase «Io c’ero». L’esserci stato non conferisce autorità a un testimone né veridicità al suo racconto: bisogna capire dove è stato, e come, in quale condizione d’animo e a quanti “gradi di separazione” dall’evento che racconta. Non è nemmeno necessario che un testimone sia mendace perché la sua testimonianza sia priva di riscontri: ogni storico serio sa che i ricordi si modificano nel tempo, e l’esperienza di un testimone è sempre soggettiva e parziale. Per questo le testimonianze non vanno prese come oro colato ma indagate, smontate, confrontate tra loro. Soprattutto quando si parla di guerre, di tragedie, di eventi osservati in momenti di «violento turbamento emotivo», spiega Bloch, l’attenzione dei testimoni è «incapace di concentrarsi con sufficiente intensità su punti ai quali lo storico giustamente [attribuirà] un interesse preponderante».
4. Tutte queste trappole si fanno ancora più insidiose quando il ricordo dell’evento è in realtà ricordo del racconto dell’evento, cioè la testimonianza è di seconda mano, fornita dal figlio o dal nipote del presunto testimone diretto, o è ancor più lontana dai fatti. Per capirci: uno che dice «in paese si è sempre detto» o frasi simili, molto a fatica può essere definito un testimone. Se continuo a chiamarlo così, o sono disonesto o sono stolto… o entrambe le cose.
5. Senza questo approccio critico nei confronti delle testimonianze, si rimane al dettaglio che colpisce l’attenzione del profano, e si finisce per riportarlo senza filtri. Se un tale mi dice che sua sorella (nemmeno lui: sua sorella!), giocando su un prato quand’era ragazzina trovò un piede umano, io ho il dovere di chiedergli di approfondire: che anno era? Sua sorella chiamò i carabinieri? Fu perlustrata l’area? Si è poi scoperto di chi fosse quel piede? Non è altro che il vaglio giornalistico innescato dalla proverbiale “seconda domanda”. È l’ABC. Ma se non faccio la seconda domanda, quel piede resta un dettaglio macabro, morboso. Un dettaglio privo di contesto, insignificante e inutilizzabile a fini storiografici, ma molto buono per impressionare i lettori.
6. Una volta trovato un documento, per prima cosa devo chiedermi se sono il primo ad averlo trovato. Dopodiché, devo subito inserirlo nel contesto delle conoscenze e acquisizioni storiografiche sull’argomento. Solo a quel punto potrò divulgarlo e parlarne in modo serio e coerente. Se lo divulgo prima di ogni cosa, e in modo sensazionalistico, aggiungendoci gli errori trattati nei punti 1 e 2 e cercando pezze d’appoggio in testimonianze raccolte senza le cautele descritte ai punti 3, 4, 5, non può che innescarsi una catena di reazioni come quella a cui abbiamo assistito in Friuli-Venezia Giulia a partire dall’autunno 2015.
7. Un’altra cautela da osservare per riconoscere l’errore, evitando di maneggiare la storia in modo irresponsabile, è chiedersi se una storia è plausibile o semplicemente suona plausibile perché si accorda con dicerie, sentiti-dire e stereotipi diffusi. Bloch scrive: «Quasi sempre l’errore è orientato in anticipo. Soprattutto esso si diffonde e prende radici solo se si accorda con le convinzioni preconcette dell’opinione comune; diventa allora come lo specchio in cui la conoscenza collettiva contempla i propri lineamenti». E aggiunge: «Perché l’errore di un testimone divenga quello di molti uomini, perché una cattiva osservazione si trasformi in una voce falsa, occorre anche che lo stato della società favorisca questa diffusione».
Con le frottole circolate in questi mesi potremmo fare “ingegneria inversa”, e ci direbbero molto sulle idee correnti, su quel che si crede vero oggi in Friuli e lungo il confine orientale d’Italia. Bloch scrive che non vi sono solo individui mitomani, ma anche «epoche mitomani», nelle quali la maggior parte delle persone dà poca importanza ai fatti e molta a quel che piace sentire, a quello che conferma, rassicura e seduce. Noi viviamo in un’epoca mitomane. Smontare questi miti è certo più faticoso che adagiarsi e seguire la corrente, ma non dobbiamo rassegnarci.
Se ci sono ricercatori che in quest’epoca mitomane non si sono mai rassegnati, e hanno continuato a inchiodare quel che scrivevano ai fatti riscontrabili, sono quelli della collana Resistenza Storica delle edizioni KappaVu. Per la loro coerenza hanno subito attacchi e calunnie, e hanno sempre avuto la nostra solidarietà.
Di contro, chi commette o favorisce gli errori descritti sopra non è uno storico né capisce di ricerca storica, né probabilmente vuole capirne, e non può che avere la nostra disistima, e in certi casi il nostro aperto disprezzo.
http://www.secoloditalia.it/2016/03/massa-annullato-lincontro-storico-nega-tragedia-delle-foibe/
http://contropiano.org/news/politica-news/2016/03/24/foibe-un-professore-storia-nega-la-storia-077070
Foibe. Un professore di storia che nega la storia
Mercoledì 23 Marzo avrebbe dovuto svolgersi a Massa, presso le stanze del teatro comunale Guglielmi, una conferenza dal titolo “Foibe: smontare una narrazione tossica”, tenuta da Sandi Volk, storico triestino che, da anni, si occupa delle vicende storiche legate alle terre Dalmate e Giuliane.
Il giorno prima della conferenza, l’amministrazione comunale di Massa, dopo aver concesso quasi da un mese i permessi per la sala, ha vietato lo svolgimento dell’iniziativa, definendo questa un evento “inopportuno” e che “per motivi di necessità” non poteva svolgersi in uno spazio comunale in centro città.
Riteniamo vergognoso questo divieto da parte dell’ amministrazione comunale, specialmente perché il sindaco di Massa, Alessandro Volpi, ricopre l’incarico di docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa. Non vogliamo entrare nell’ambito di un concetto ambiguo come quello della “libertà di parola”, vogliamo entrare nel merito della ricerca e della verità storica, che, in questo caso, un professore universitario è stato il primo a vietare.
Siamo stati abituati a vedere la figura dello storico, e dello studioso in generale, come una figura sempre pronta a mettere in discussione gli avvenimenti storici e ad analizzarli, non come una figura che si assoggetta al pensiero dominante accettando aprioristicamente ciò che viene imposto. Vietando una conferenza sul tema delle “foibe”, tema, tra l’altro, strumentalizzato per anni dalle varie organizzazioni di destra, che mirava a smontare, con tanto di prove documentate, un falso storico imposto nell’immaginario di gran parte della popolazione italiana, il sindaco Volpi e la sua giunta hanno dimostrato di essere perfettamente inchinati a una visione della storia di quei luoghi, che ha fatto propria la menzognera verità ufficiale.
Abbiamo deciso, come Centro Sociale Occupato “Casa Rossa”, di rilanciare l’iniziativa Mercoledì 30 Marzo in una piazza del centro di Massa, perfettamente consci che la conferenza potrebbe essere contrastata, oltre che dai quattro fascistelli locali, anche dalla stessa amministrazione comunale. E’ per questo che chiediamo la solidarietà a chi lavora all’interno del mondo della formazione, a chi, insomma, fa dell’ amore per la ricerca della verità e della conoscenza in generale il proprio mestiere, a tutti quei docenti che trovano inaccettabile il divieto perpetrato dal proprio collega.
“Il potere, lungi dall’ impedire il sapere, lo produce.” – M. Foucault
24 marzo 2016
Belgrado 1999, un calcio alla guerra
Il 7 aprile 1999, durante i bombardamenti Nato, a Belgrado si giocò un'amichevole contro la guerra tra Partizan e Aek Atene
La sveglia è all’alba. La squadra si raduna e insieme si va all’aeroporto di Atene-Eleftherios Venizelos. I sorrisi a favore di telecamera e gli sguardi solo all’apparenza distesi nascondono un’ingente carica di tensione. Alle porte per i giocatori dell’Aek Atene non c’è una partita di cartello, né un’importante sfida europea che deciderà la stagione dei gialloneri. Anzi, il campionato in Grecia è fermo per la Pasqua ortodossa, di solito un’occasione che i giocatori sfruttano per stare con le proprie famiglie, per staccare la spina per qualche giorno. Ma la posta in palio questa volta è troppo alta per restare a casa, e così, quando ai giocatori è stato chiesto di partire, nessuno si è tirato indietro. Insieme a loro si metteranno in viaggio anche i dirigenti del club e una folta rappresentanza del tifo organizzato, che ha deciso di seguire la squadra in una partita dall’immenso valore simbolico. Ci siamo. Belgrado, stiamo arrivando.
Non sarà un viaggio di piacere, e non sarà facile arrivare in Jugoslavia. Il volo da Atene atterrerà a Budapest, con il viaggio che proseguirà riscendendo in pullman verso sud, attraverso il confine che divide l’Ungheria dalla Vojvodina. È l’unico modo, il più sicuro, per entrare in Jugoslavia. Perchè oggi è il 7 aprile 1999, il quattordicesimo giorno da quando, lo scorso 24 marzo, la Nato ha iniziato i bombardamenti sull’intero territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia. Neanche Novi Sad, che della Vojvodina è il centro principale, è stata risparmiata dalle bombe. Ed è strano, perchè la città, distante quasi 100 chilometri da Belgrado e circa 500 dal Kosovo, ha sempre mantenuto intatto il suo carattere multiculturale, terra di frontiera e confronto tra la comunità serba e quella ungherese. E poi, se vogliamo dirla tutta, è gestita da una delle amministrazioni locali più ostili all’establishment del presidente jugoslavo Slobodan Milosevic.
Quattro raid, ai quali presto ne seguiranno altri, in pochi giorni hanno devastato le principali infrastrutture della città che ha dato i natali a Vujadin Boskov, all’epoca allenatore del Perugia. È stato lo stesso Boskov, in un colloquio telefonico con Miodrag Lekic, l’ambasciatore jugolavo in Italia, a comunicare l’intenzione di continuare a giocare, manifestata dai giocatori jugoslavi impegnati in Serie A. Alla fine, l’idea di rifiutarsi di scendere in campo nei Paesi membri della Nato, avanzata tra gli altri da Savicevic – che da gennaio è tornato a giocare nella Stella Rossa – e Mihajlovic, non è stata ritenuta realistica. Sono professionisti legati al proprio club da regolare contratto. Giocheranno si, ma non perderanno occasione di manifestare il proprio dissenso verso questa guerra assurda.
Un bersaglio disegnato, una scritta, un’intervista che esplicitamente metta l’opinione pubblica a conoscenza di quanto siano illegali e immorali quelle bombe che dalla notte del 24 marzo cadono incessantemente sulla Jugoslavia. Affinché tutti possano avere anche solo la minima percezione di cosa significhi ritrovarsi a convivere con il terrore. Di cosa significhi avere la quotidianità violentata dagli urli delle sirene, dall’ansia, dalle corse nei rifugi o negli scantinati dei palazzi. Una volta, poi un’altra e un’altra ancora. Giorno dopo giorno.
Per questo l’Aek Atene ha deciso di sfidare l’embargo e recarsi a Belgrado per giocare un’amichevole contro il Partizan, il cui ricavato andrà per intero alle associazioni umanitarie jugoslave. Il tratto in pullman, l’ultima tappa del viaggio, non è privo di tensione. Il giorno prima la Nato ha scatenato uno dei bombardamenti più duri dall’inizio dell’aggressione militare, colpendo, nella notte tra il 5 e il 6 aprile il quartiere operaio della città di Aleksinac, mentre da poche ore è arrivata la notizia secondo cui l’Alleanza ha rifiutato il “cessate il fuoco” proposto da Belgrado.
Con uno stato d’animo difficilmente immaginabile, la carovana proveniente da Atene entra finalmente in città, accolta dagli edifici anneriti e dalle macerie del palazzo che ospita il Ministero degli Interni a Kneza Milosa, colpito nella notte tra il 2 e il 3 aprile, con le fiamme che si sono estese danneggiando anche il vicino ospedale psichiatrico “Laza Lazarevic” e l’unità di ostetricia e psicologia. Lo Stadion Partizan, quel giorno, è probabilmente l’unico luogo di Belgrado in cui regna una seppur superficiale ed effimera serenità. Le tribune sono piene, bandiere greche e jugoslave si mescolano con gli striscioni del Partizan e dell’Aek, unite da quei bersagli che ormai tutto il mondo ha imparato a conoscere.
Sono i simboli di un’opposizione internazionale alla guerra, gli stessi che atleti sparsi in tutto il mondo indossano ogni domenica sotto le magliette, gli stessi che la gente comune espone notte dopo notte, quando sceglie di aspettare sui ponti di Belgrado l’arrivo dei caccia bombardieri della Nato. Dai ponti allo stadio, la paura è forte, ma la voglia di contrastare la guerra lo è di più. Così il tabellone luminoso, inquadrato dalla tv jugoslava, ripete il messaggio a chiare lettere prima della partita, «Stop the war, stop the bombing», trovando l’eco da parte dello striscione che i giocatori di entrambe le squadre srotolano in campo.
La partita finisce 1-1, ma il risultato è di certo la parte meno interessante della giornata. È più importante sapere che la partita non termina al 90′, perchè a undici minuti dall’inizio della ripresa l’arbitrio fischia tre volte, permettendo ai tifosi di entrambe le squadre di correre in campo. Un’invasione, questa sì, pacifica, un abbraccio collettivo in quel valzer di bandiere che per un pomeriggio ha colorato Belgrado. Ma il momento scelto per interrompere la partita non è casuale, lo sanno tutti, in campo come sugli spalti.
Vorremmo far dipendere la decisione da una chiara scelta in favore della solidarietà, ma non è così. All’undicesimo della ripresa la partita viene interrotta per permettere agli ospiti di rimettersi in viaggio e lasciare la Jugoslavia con la luce del giorno. Perchè poi, appena la notte tornerà ad occupare il suo posto nel cielo, torneranno loro. I boati assordanti, le sirene e i loro canti di morte. Stasera su Belgrado tornerà la guerra.
A Milica Rakic