Informazione
Stenografske beleške i dokumenta sa suđenja Dragoljubu-Draži Mihailoviću
original na čirilici: Beograd, Savez Udruzenja Novinara FNRJ-e 1946
prijepis originala na latinski: Zagreb, Zaklada "August Cesarec" 2011
ISBN 978-953-95475-3-8
na raspolaganju kod CNJ-onlus / copie disponibili presso CNJ-onlus
// Il traditore e criminale di guerra Draza Mihajlovic dinanzi alla Corte.
Trascrizioni stenografiche e documenti del processo a Dragoljub-Draža Mihailović //
15 euro + spese di spedizione. Per ordini: jugocoord @ tiscali.it
prevod na engleski:
THE TRIAL OF DRAGOLJUB-DRAŽA MIHAJLOVIĆA
Stenographic records
Belgrade: Union of the journalists' associations of the Federative People's Republic of Yugoslavia, 1946
(download: https://www.cnj.it/documentazione/varie_storia/Trial-indictment.pdf PDF, 9MB)
http://www.znaci.net/00001/114.htm
http://www.youtube.com/watch?v=RfHEpIAwCDE
ISTORIJU NE PIŠU POBEDNICI NITI KOMUNISTI VEĆ SAMI UČESNICI I NJIHOVI DOKUMENTI
http://www.znaci.net/00001/114_1.pdf
DOKUMENTI JUGOSLOVENSKE IZBEGLIČKE VLADE
http://www.znaci.net/00001/114_2.pdf
DOKUMENTI VELIKE BRITANIJE
http://www.znaci.net/00001/114_3.pdf
AMERIČKI DOKUMENTI
http://www.znaci.net/00001/114_4.pdf
DOKUMENTI NEMAČKOG RAJHA
http://www.znaci.net/00001/114_5.pdf
DOKUMENTI NDH O SARADNJI ČETNIKA I USTAŠA
http://www.znaci.net/00001/114_7.pdf
Dokumenti Kraljevine Italije
http://www.znaci.net/00001/114_6.pdf
Nacionalista ne samo da ne osudjuje zlocine koje je pocinila njegova strana, nego ima izvanrednu sposobnost da za njih cak ni ne cuje............
Svakog nacionalistu proganja ubedjenje da se proslost moze izmeniti. On provodi deo svog vremena u svetu maste gde se stvari desavaju onako kako je trebalo da se dese -- u kojoj je, na primer, spanska armada bila uspesna a ruska revolucija ugusena 1918. -- i prenece delice ovog sveta u istorijske udzbenike kad god je to moguce. Veliki deo propagandistickog pisanja u nase vreme svodi se na ciste izmisljotine. Materijalne cinjenice se zataskavaju, datumi menjaju, citati izvlace iz konteksta i krivotvore tako da im se menja znacenje. Izostavljaju se primeri koji, kako se smatra, nisu smeli da se dogode i na kraju se negiraju.
(Рехабилитација Драже Михаиловића – SUBNOR, 19. март 2012.)
Lettera di un veterano
12 maggio 2015
UNO SOLO E’ STATO IL MOVIMENTO ANTIFASCISTA
Nella rassegna stampa mattutina nel giorno della Vittoria, alla TV Pink, il Sig. Andjelković, tra l’ altro, ha detto: “possiamo essere fieri perchè la Serbia ha avuto due movimenti antifascisti”. Non citando nessun fatto storico a proposito. Ecco un altro tentativo di revisione della II Guerra Mondiale come ultimamente è sempre più frequente nell’ avvicinarsi della decisione sulla riabilitazione di Draža (Mihajlović).
Il succitato “analista politico” è completamente incompetente nel giudizio perchè non tiene conto dei fatti storici che sono stati definitivamente stabiliti 70 anni fa dai principali statisti e capi della coalizione antifascista, su chi è stato antifascista nel nostro paese e chi no. Draža non viene citato come antifascista nemmeno con una parola ed in nessuna enciclopedia nelle loro valutazioni su chi lo fosse e chi non lo fosse, nella II Guerra Mondiale. Le loro citazioni non possono essere accusate di essere di parte, di avere pregiudizi.
Voglio citare soltanto alcuni dei grandi (statisti e generali) che hanno formato la coalizione antifascista e che hanno potuto valutare meglio il contributo di Tito e del suo esercito alla vittoria sul mostro di Hitler:
Winston Churchill nell’ agosto del 1944 ha detto: “La ragione per cui abbiamo smesso di aiutare Mihajlović e i suoi cetnizi è semplice. Lui non lottava contro Hitler. Ci siamo schierati decisamente dalla parte di Tito, per la sua grande forza e coraggio contro l’ esercito tedesco... I partigiani sono ora i padroni della situazione e rappresentano il pericolo mortale per i tedeschi...”.
Rooswelt, presidente degli USA: “La deliberazione di Tito di lottare contro il nazismo è il punto di svolta nella storia della II G.M.”.
Stalin scrive: “La eroica lotta del fraterno popolo jugoslavo e del suo glorioso EPL contro l’ occupatore tedesco induce la profonda simpatia dell’ Unione Sovietica e serve come esempio che ispira tutti i popoli schiavizzati d’ Europa” (Mosca, 7 marzo 1944, riportato su “Nova Jugoslavija” il 15 marzo dello stesso anno).
De Gaulle scrive: “Tito è stato un combattente vittorioso, malgrado circostanze tra le più difficili. Tito è un eroe leggendario”.
George Patton, generale americano: “Il maresciallo Tito e i suoi partigiani hanno avuto il coraggio politico e militare di prendere le armi nel mezzo dell’ Europa occupata e quando le cose non andavano bene, per infliggere un inaspettato duro colpo morale a Hitler. E non soltanto morale ma anche un serio colpo militare, il che ha comportato l’ impiego di un gran numero di divisioni tedesche per il fronte jugoslavo che sono state così sottratte al fronte europeo sia orientale che occidentale...”.
Adolf Hitler nella lettera a Mussolini scrive: “Anche se siamo riusciti a sbaragliare una parte delle organizzazioni di Tito e ad infliggere grosse perdite umane e materiali, ci sorprende e preoccupa la misura in cui è avanzata l’ organizzazione dei ribelli. E’ il momento decisivo di sedare la rivolta, se non vogliamo esporci al rischio che al momento dello sbarco anglosassone nei Balcani prendiamo la coltellata alle spalle...”.
Putin, presidente della Federazione di Russia, il 16 ottobre 2014 disse: “L’ Unione Sovietica e la Jugoslavia insieme hanno condotto la lotta implacabile contro il nazismo... I partigiani tenevano impegnate 10 divisioni di Hitler. Essi non hanno concesso a queste divisioni di essere impiegate contro l’ Unione Sovietica e le sue città di Stalingrado e Kursk...” (su “Vojni veteran”, ottobre 2014)
Il premier serbo Vučić ha detto: “Siamo orgogliosi della lotta contro il fascismo e non nasconderemo né ci vergogneremo di fronte a nessuno per la vittoria riportata sul fascismo in Serbia. Di questo siamo stati sempre orgogliosi e sempre lo saremo”. Vučić anche quest’ anno, durante la celebrazione della Giornata della Vittoria a Belgrado, ha sottolineato che nella II Guerra Mondiale "il nostro paese ha sacrificato se stesso per una grande idea, l’ idea alla base dell’ Europa… Abbiamo dimostrato che abbiamo saputo scegliere sempre tra il bene e il male. I serbi sono antifascisti. Hanno lottato e lotteranno sempre contro il fascismo”. (“Politika”, 10 maggio 2015).
Per quanto riguarda la rivendicazione del succitato analista politico, che in Serbia sarebbero esistiti due movimenti antifascisti che hanno facilitato la nostra strada verso l’ Europa pur estendendo le vecchie divisioni nella nostra società, lascio ai lettori di valutare loro stessi.
Branko Gulan
pilota, capitano d’ aviazione, veterano della Guerra di Liberazione Popolare
Viši sud u Beogradu rehabilitovao je komandanta Kraljevske vojske u otadžbini generala Dragoljuba Dražu Mihailovića i vratio mu građanska prava koja su mu bila oduzeta u političko-ideološkom procesu komunističkog režima 1946. godine...
[segue la traduzione della notizia]:
“
Riabilitato Draza Mihailovic
La Corte Superiore di Belgrado ha riabilitato il comandante del Regio Esercito in Patria, generale Dragoljub Draza Mihailovic, e gli ha restituito i suoi diritti civili di cui era stato privato nel processo politico-ideologico del regime comunista nel 1946.
Il Giudice Aleksandar Trešnjev ha dichiarato che il tribunale ha accettato l’esposizione per la riabilitazione ed ha cancellato la condanna con cui Mihajlovic fu sentenziato a condanna di morte il 15 luglio 1946 e fucilato due giorni dopo.
Ai sensi della Legge sulle riabilitazioni, non è possibile presentare ricorso, vale a dire che questo verdetto è definitivo.
Il Giudice Trešnjev ha detto che la sentenza del Tribunale Supremo della FNRJ nella sua parte in cui si riferiva a Mihajlovic, ora si considera nulla e nulle sono le sue conseguenze giuridiche, così come quelle relative ai beni personali.
"Dragoljub Mihailović ora si considera una persona priva di condanne ", ha detto il Giudice Trešnjev, ricevendo in seguito il forte applauso e saluti dal pubblico in aula.
L’emanazione del verdetto è stata seguita da tanti media e del pubblico, per questo motivo la Sala grande del Palazzo della Giustizia era strapiena.
Diritti di esclusiva per filmare la dichiarazione del proscioglimento sono stati assegnati all’agenzia informativa Tanjug e alla Radio-televisione della Serbia.
Tra i presenti, tra gli altri, erano anche il Principe Aleksandar Karađorđević, il Presidente della Srpska radikalna stranka Vojislav Šešelj, appartenenti del Ravnogorski pokret, dell’Obraz, delle Žene u crnom ed altri interessati, tra cui anche le persone nei costumi etnici e quelli con insegne dei chetnitzi.
Il Tribunale ha stabilito che la sentenza in oggetto, fu emanata dopo un processo illecito, per motivi politici e ideologici.
La prima domanda per la riabilitazione era presentata da nipote di Mihailović, ovvero da Vojislav Mihailović nel 2006, a cui in seguito si sono riunite alcune associazione e partiti politici.
Nel 2006, alla proposta per la riabilitazione, ha aderito il partito di Srpska liberalna stranka di Kosta Čavoški, l’associazione Udruženje pripadnika Jugoslovenske vojske u otadžbini, l’associazione Udruženje političkih zatvorenika i žrtava komunističkog režima, la professoressa del diritto internazionale Smilja Avramov e altri.
Con questo verdetto del Tribunale, si confermano le affermazioni degli esponenti – proponenti della riabilitazione, che Mihailović non ebbe i diritti di difesa durante il processo, che non s’incontrò mai con suo avvocato prima dell’inizio del processo, che non ebbe diritto al processo imparziale, mentre l’imputazione gli fu notificata soltanto sette giorni prima del processo.
Egli non ebbe diritto di ricorso a quella condanna, e fu fucilato di nascosto, due giorni dopo.
Uno speciale Comitato sta stabilendo il posto esatto del luogo di fucilazione, poiché si presume che sue salme furono trasferite a un posto diverso.
Di Mihailović non esiste la tomba.
In mancanza di altre prove riguardo morte di Mihailović, in base alla Decisione del Primo tribunale ordinario di Belgrado del 2013, come data della morte è stato stabilito il 17 luglio 1946, poiché il tribunale ha stabilito che egli fu fucilato in quel giorno.
“
Di Carlo Perigli
14 maggio 2015
Cetnici e partigiani in Serbia sono uguali, ora più che mai. Questa, in estrema sintesi, la conclusione che si può trarre dal percorso iniziato dai primi anni del 2000, e che ha trovato un ulteriore tassello nella sentenza resa oggi dall’Alta Corte di Belgrado, che ha fondamentalmente riabilitato Dragoljub ‘Draza’ Mihailovic, comandante dell’esercito jugoslavo in patria durante la seconda guerra mondiale. Il tribunale ha difatti annullato la sentenza di condanna resa nei confronti del leader dei cetnici il 15 luglio 1945, con la quale Mihailovic veniva condannato a morte per i numerosi crimini di guerra commessi, adducendo come motivazione le interferenze politiche ed ideologiche rese all’epoca dal regime comunista.
Una sentenza che sembra inserirsi alla perfezione in un un percorso più ampio, volto all’equiparazione di cetnici e partigiani, entrambi inquadrati nella comune lotta al nazifascismo. Un periodo di revisionismo iniziato dopo il “colpo di Stato dal volto democratico” del 5 ottobre 2000, che aveva sancito la fine del governo Milosevic e l’insediamento della nuova classe politica, decisamente più vicina ai nazionalisti monarchici e meno invisa agli occhi di Washington. Così, nel 2004 il Parlamento di Belgrado approvò una legge che equipara i diritti dei cetnici a quelli dei partigiani, assegnando anche i primi alcune garanzie previdenziali oltre al certificato di ex combattenti. L’anno successivo l’incontro del movimento cetnico a Ravna Gora per la prima volta veniva finanziata attingendo al budget statale, attraverso una decisione dell’allora governo serbo, il cui ministro degli esteri era Vuk Draskovic, fondatore del Movimento del Rinnovamento Serbo e promotore della sopracitata legge. Un filone a cui hanno partecipato anche gli Stati Uniti, che il 9 maggio del 2005, proprio nella giornata mondiale della celebrazione per la vittoria sulle forze nazifasciste, consegnavano, nei locali dell’ambasciata di Belgrado, la medaglia al merito e la Legion of Merit – la più alta onorificenza prevista da Washinton – a Gordana Mhailovic, nipote di Dragoljub.
Soddisfazione è stata espressa da Oliver Antic, consigliere del Presidente della Repubblica Tomislav Nikolic, mentre Aleksandar Karadjordjevic, erede della stirpe che governò in Serbia, ha parlato di una sentenza che sana “un’ingiustizia non solo contro un patriota, ma contro il nostro Paese e la nostra gente”.
Una vulgata che contrasta nettamente con le ricostruzioni avanzate dagli storici nel corso degli anni, nelle quali i cetnici, dopo un primo periodo di avvicinamento alle forze anglo-americane, collaborarono strettamente con gli occupanti nazi-fascisti, in quella che da più parti è stata definita una “lotta senza quartiere” contro il movimento partigiano guidato da Tito. Nessuna lotta anti-fascista, nè tantomeno di liberazione nazionale, le posizioni dei cetnici sono sempre rimaste sulla linea del collaborazionismo con le forze occupanti.
“Con un tratto di penna del giudice – ha dichiarato la Federazione delle Associazioni dei Veterani della Guerra di Liberazione Popolare (Subnor)– la verità è stata drasticamente svenduta e, al tempo stesso, sono stati cancellati il contributo storico innegabile fornito dalla Serbia nella disfatta del fascismo e nell’insuperabile vittoria della coalizione anti-hitleriana di cui sono state degne partecipi le unità dell’esercito popolare partigiano. […] La riabilitazione equivale a spargere il sale su una ferita ancora fresca: essa è un dito infilato nell’occhio degli attuali vicini ma anche dell’intero mondo antifascista che guarda con rispetto al nostro popolo e alla terra innegabilmente gloriosa di combattenti esclusivamente partigiani nella storia del genere umano. Forse che adesso, dopo settanta anni, può un qualche pezzo di carta, alla ricerca di una verità già provata, giustificare chi ha mendicato sotto bandiera straniera, al termine di una guerra di quattro anni, avendo di fronte l’Armata Rossa e l’Esercito popolare di liberazione? Dov’era questo Draza con la sua camarilla al termine del percorso della Liberazione? Perché ha declinato pubblicamente, sia di fronte al governo in esilio che a Pietro II a Londra, all’ordine di unirsi ai partigiani, su cui concordavano ferventemente gli inglesi, gli americani, i francesi e i russi? [..] Sarà con questa triste deriva serba di dolore e incomprensibile indulgenza che si otterrà l’adesione all’Unione Europea, verso cui tendiamo e sappiamo che nella Seconda guerra mondiale ha avuto schiere di collaborazionisti? [...] Senza motivo o necessità si gettano semi di discordia e si indica alla comunità internazionale progressista che l’area dei Balcani è terreno in cui, secondo la propria volontà e arbitrio, senza elementi, si possono tagliare fuori la storia e la verità. E le conseguenze sono incalcolabili. Il SUBNOR di Serbia, con oltre 100.000 soci e una partecipazione attiva nelle organizzazioni internazionali, è molto preoccupato per la situazione. Ma è fermamente convinto che la riabilitazione è immotivata, legalmente infondata e scorretta (come, per esempio, che il condannato non abbia avuto alcun diritto di ricorso), e quindi insostenibile. Nell’interesse del popolo della Serbia e per la reputazione acquisita nella eliminazione del fascismo in Europa, soprattutto in occasione del 70° anniversario della Vittoria”.
Објављено под Актуелно | 14. мај 2015.
ПРСТ У ОКО И СЕМЕ РАЗДОРА
Потезом судског пера драстично је прекројена истина и, у исто време, избрисани историјски непорецив допринос Србије у сламању фашизма и ненадмашна победа антихитлеровске коалиције чији су достојан саборац биле јединице народне партизанске војске.
Рехабилитација челника групације која је од 1941. године, избегавајући и, по правилу, сарађујући са окупаторском солдатеском, палила читава села, силовала, пљачкала, камом убијала чак и дечицу у колевци, као казнена експедиција прокрстарила у мучком походу многе крајеве негдашње заједничке државе, представља и нову одмазду над стотинама хиљада жртава и њихових потомака.
Рехабилитација је посипање соли на увек свежу рану, прст у око садашњим суседима, али и читавом антифашистичком свету који са поштовањем гледа на наш народ и непорециво славно место искључиво партизанских бораца у историји човечанства.
Зар сада, после седам деценија, може некакав папир да потре доказану истину, оправда бег под туђим заставама, пред Црвеном армијом и Народноослободилачком војском, на крају четворогодишњег рата?
Где је тај Дража са својом камарилом био на крају победоносног пута ослободилаца, зашто га се одрекла јавно и избегличка влада и Петар II из Лондона и наредио да се прикључи партизанима, због чега су се и Енглези, Американци и Французи и Руси са тим здушно сагласили?
Пада ли некоме у свету и помисао да рехабилитује колаборанте, да ли то чине Французи са маршалом Петеном, Норвежани са премијером Квислингом и многи други?
Хоће ли овим отужним српским путем туге и несхватљивог опроста кренути чланство Европске уније, чијим редовима стремимо и знамо да је у Другом светском рату имало издашних колабораната? Чак и тамо где, баш у ово садашње време, ничу нови следбеници нацистичких фирера.
Опасан, несхватљив преседан прави се у овој нама јединој отаџбини.
Сеје се без разлога и потребе семе раздора и указује слободарској међународној заједници да је Балкан подручје у којем се, по нечијој вољи и налогу, без доказа, могу прекрајати историја и истина. А последице су несагледиве.
СУБНОР Србије, са преко 100.000 агилних чланова и угледним учешћем у међународним ветеранским организацијама, веома је забринут због настале ситуације. Али и чврсто верује, да је рехабилитација без основа, правно неутемељена, чак и нетачна (као, на пример, да осуђени није имао право на жалбу) и због тога неодржива. У интересу народа Србије и стеченог угледа у сламању фашизма у Европи, посебно у години седме деценије победе.
РЕПУБЛИЧКИ ОДБОР СУБНОР-а СРБИЈЕ
Con un tratto di penna del giudice, la verità è stata drasticamente svenduta e, al tempo stesso, sono stati cancellati il contributo storico innegabile fornito dalla Serbia nella disfatta del fascismo e nella insuperabile vittoria della coalizione anti-hitleriana, di cui sono state degne partecipanti le unità dell'esercito popolare partigiano.
La riabilitazione del leader del gruppo che, dal 1941, mentre eludeva e di norma cooperava con le forze di occupazione, andava bruciando interi villaggi, violentando, saccheggiando, uccidendo a coltellate anche piccoli bambini nella culla, nel corso di spedizioni punitive durante la dura campagna in corso in molte parti dell'ex Stato comune, rappresenta una rivincita su centinaia di migliaia di vittime e sui loro discendenti.
La riabilitazione equivale a spargere il sale su una ferita ancora fresca; essa è un dito infilato nell'occhio degli attuali vicini ma anche dell'intero mondo antifascista che guarda con rispetto al nostro popolo e alla terra innegabilmente gloriosa di combattenti esclusivamente partigiani nella storia del genere umano.
Forse che adesso, dopo settanta anni, può un qualche pezzo di carta, alla ricerca di una verità già provata, giustificare chi ha mendicato sotto bandiera straniera, al termine di una guerra di quattro anni, avendo di fronte l'Armata Rossa e l'Esercito popolare di liberazione?
Dov'era questo Draza con la sua camarilla al termine del percorso della Liberazione? Perché ha declinato pubblicamente, sia di fronte al governo in esilio che a Pietro II a Londra, all'ordine di unirsi ai partigiani, su cui concordavano ferventemente gli inglesi, gli americani, i francesi e i russi?
Ritiene qualcuno al mondo o ha pensato di riabilitare i collaborazionisti? Forse lo fanno i francesi con il maresciallo Pétain, i norvegesi con il primo ministro Quisling, o tanti altri?
Sarà con questa triste deriva serba di dolore e incomprensibile indulgenza che si otterrà l'adesione all'Unione Europea, verso cui tendiamo e sappiamo che nella Seconda guerra mondiale ha avuto schiere di collaborazionisti? Addirittura, proprio in questo momento, con l'apertura a nuovi seguaci del Führer nazista.
Un pericoloso, incomprensibile precedente si verifica in questa che è per noi l'unica patria.
Senza motivo o necessità si gettano semi di discordia e si indica alla comunità internazionale progressista che l'area dei Balcani è terreno in cui, secondo la propria volontà e arbitrio, senza elementi, si possono tagliare fuori la storia e la verità. E le conseguenze sono incalcolabili.
Il SUBNOR di Serbia, con oltre 100.000 soci e una partecipazione attiva nelle organizzazioni internazionali, è molto preoccupato per la situazione. Ma è fermamente convinto che la riabilitazione è immotivata, legalmente infondata e scorretta (come, per esempio, che il condannato non abbia avuto alcun diritto di ricorso), e quindi insostenibile. Nell'interesse del popolo della Serbia e per la reputazione acquisita nella eliminazione del fascismo in Europa, soprattutto in occasione del 70.mo della Vittoria.
COMITATO REPUBBLICANO DEL SUBNOR DI SERBIA
IMMAGINI: La richiesta di perdono di Draza Mihailovic del 15 luglio 1946.
Sarebbe stato condannato per essersi addormentato in presenza di Kim Jong-un...
I servizi segreti sudcoreani hanno smentito la notizia secondo la quale la Corea del Nord avrebbe fatto uccidere il ministro della difesa, Hyon Yong-chol...
El ministro de Defensa de Corea de Norte, Hyon Yong-chol, ha aparecido en un programa de la televisión norcoreana después de que el Servicio Nacional de Inteligencia surcoreano declarara que había sido fusilado con un cañón antiaéreo, informa Yonhap...
3) LINKS: Prima / Durante / I primi report / Utili
– International appeal to lift the blockade & end hostilities in Donbass
– Statement: Support for and solidarity with the residents of Donbass
Carovana e Forum antifascista in Donbass, 6–10 maggio 2015
La Carovana, composta da più di cento antifascisti/e di numerosi paesi, è stata presa in consegna, al confine russo-ucraino, dalla scorta della Brigata Prizrak ("Fantasma"), che ha condotto il gruppo fino ad Alchevsk, dove è stata offerta ospitalità in un dormitorio militare.
Il giorno 7 maggio ad Alchevsk la Carovana ha consegnato gran parte dei materiali ed aiuti raccolti in Italia – vestiario, medicine, piccoli utensili, denaro, cibo – ai responsabili per le questioni umanitarie della Brigata. Il giorno stesso una parte della Carovana è stata condotta in visita presso un asilo e alla mensa delle persone disagiate, istituzioni destinatarie di gran parte degli aiuti umanitari.
In serata la Carovana si è recata a Stakanov, interessante città operaia dove sono forti ed evidenti le memorie del periodo sovietico. A fare gli onori di casa qui è stata l'unità militare dei Cosacchi, che ha messo a disposizione lo splendido teatro cittadino per una prima performance della Banda Bassotti; si è tuttavia preferito spostare l'esibizione all'aperto, nel parco pubblico cittadino, in un clima di festa popolare.
Il giorno 8 maggio, di nuovo ad Alchevsk, presso la Casa della Chimica, si è tenuto il Forum "Antifascismo, Internazionalismo e Solidarietà", organizzato congiuntamente dai Comunisti di Lugansk e dal Comitato per il Donbass Antinazista di Roma, sotto il patrocinio della Brigata Prizrak. Al Forum, che è durato dalle 11 alle 18 circa, sono intervenute non solo le numerose realtà partecipanti alla Carovana – incluso il nostro Coordinamento – ma anche svariate ulteriori delegazioni sopraggiunte successivamente, soprattutto dalla Russia, nonché lo stesso Alexey Mozgovoy (comandante della Brigata Prizrak), Alexey Markov (comandante dell'unità 404 interna alla stessa Brigata) ed altri esponenti delle autorità militari protagoniste della rivoluzione in atto nel Donbass.
Lo stesso giorno, la delegazione del Comitato Ucraina Antifascista di Bologna ha incontrato una referente del "Battaglione Umanitario" cui ha consegnato una parte della somma raccolta in Italia a scopi umanitari.
Il giorno 9 maggio, mentre la gran parte della Carovana partecipava alla sfilata per il Giorno della Vittoria organizzata a Alchevsk dalla "Prizrak" e la Banda Bassotti si esibiva con un concerto nella stessa città in un clima meraviglioso, la nostra delegazione era a Lugansk per incontrare altri destinatari degli aiuti raccolti. Abbiamo avuto così la possibilità di assistere alle grandi celebrazioni per il 70.mo della Vittoria organizzate dalle istituzioni della LNR, proseguire per tutto il giorno nel centro cittadino.
La nostra delegazione è rientrata a Rostov sul Don il giorno 10 maggio, dove in serata si è riunita al resto della Carovana, per scambiare le prime impressioni e calorosi saluti con il resto della Carovana in attesa di riprendere l'aereo per l'Italia. Anche a Rostov era palpabile il clima di festa e di orgoglio popolare per le celebrazioni del 70.mo della sconfitta del nazifascismo.
Su questa esperienza avremo tempo di comunicare ulteriori dettagli e pubblicare ancora foto e video nei prossimi giorni. Un primo bilancio sintetico è il seguente: gli obiettivi immediati della nostra missione sono stati tutti pienamente ottenuti; per dare continuità all'esperienza, che si è svolta in un contesto militare e politico instabile e in presenza di molteplici referenti, sarà necessario fare una riflessione più approfondita confrontandosi con le realtà omologhe alla nostra, partecipanti o meno alla Carovana.
NO PASARAN!
IL DONBASS SARA' LA TOMBA DEL FASCISMO!
dalle 20 apericena
VIDEO: http://youtu.be/7cuM5_92b2s (CASTELLANO / ENGLISH)
Antifaschistische Karavane: Bassotti geht im Mai in den Donbass
Banda-Bassotti bei der Rosa-Luxemburg-Konferenz 2015
https://www.youtube.com/watch?v=AXZyu6HjT_I
di Maksim Chalenko, primo segretario del comitato cittadino di Lugansk del Partito Comunista di Ucraina
La traduzione del comunicato è stata ripresa nel sito ufficiale dei comunisti di Lugansk https://vk.com/comfront
La caravana antifascista organizada por la banda italiana Banda Bassotti llegó a Donbass donde entregaron ayuda humanitaria. La agrupación realizará una actuación musical y un foro con diversos invitados internacionales para apoyar a esta región ucraniana. teleSUR.
Заявление группы #БАНДА "БАССОТТИ".
Нас сейчас около 100 человек . 100 добровольцев , которые принадлежат организациям коммунистов , #интернационалистов и антифашистов со всё Европы и России. Они примут участие в торжественной церемонии в честь #Дня Победы в народной республики Донбасс. Вероятно организации, присутствующие в караване дадут жизнь форуму, организованному совместно с представителями коммунистов народной республики Луганск .
Мы привезем солидарность антифашисткой #Европы, которая не поддается преобладающей слепоте.
Сейчас, когда Америка и Обама сбросили маски и открыто поставляют на территорию #Украины военный персонал и технику , мы должны приложить максимум усилий , чтобы наш голос пронизал тишину...
Pubblichiamo il diario dei nostri compagni del PRC e dei GC che stanno partecipando alla carovana antifascista con la Banda Bassotti nel Donbass
Italian anti-fascist punk band Banda Bassotti rocked Alchevsk in the Lugansk region, Friday, on the eve of World War II Victory Day celebrations...
…Торжественный парад в Алчевске, посвященный 70-летию Победы состоялся. Восхищает массовое посещение праздника – это доказывает, что память не уничтожить и историю не переписать. Каждый человек показал, что он помнит подвиг народа и чтит память наших героев. Помни павших, но не забывай живых...
Инициированный коммунистами Луганщины Международный форум солидарности с жителями Донбасса «Антифашизм. Интернационализм. Солидарность» состоялся 8 мая в Алчевске...
Il Donbass International Forum di Alchevsk è stato un momento importante di condivisione dove abbiamo avuto modo di conoscere le diverse realtà che come noi hanno deciso di supportare l'insurrezione del Donbass, ognuna con la propria storia e le proprie lezioni apprese dall'esempio novorusso. Durante lo svolgimento del forum abbiamo anche ricevuto la visita del Comandante Aleksey Borisovich Mozgovoy della Brigata Prizrak e del Commissario Alexey Markov dell'Unità 404 che ci hanno portato un importante saluto e contributo.
Il Commissario, da sempre refrattario a semplificazioni e comode illusioni, ha sottolineato la necessità di continuare questa lotta novorussa sul campo e nel cuore del nemico, l'Unione Europea, tenendo a mente che la situazione è lontana dall'essere monolitica: non ci sono solo nemici o solo amici, nella Russia e nell'occidente.
E' necessaria una ricomposizione delle forze, che possa servire in Donbass come altrove per la costituzione di una nuova concezione della società. Questo, d'altra parte, è stato il nostro obiettivo fin dall'inizio.
На форум прибыли 177 делегатов, представляющих 31 организацию из 13 стран мира (Беларуси, Великобритании, Германии, Греции, Испании, Италии, Польши, Российской Федерации, Страны Басков, Турции, Украины, Франции, Швеции). Более 20 организаций мира направили участникам Форума письма поддержки.
Участники Форума решительно осудили проявления фашизма в Украине, выражающиеся в политическом терроре, физических расправах и преследованиях инакомыслящих, запрете коммунистической идеологии.
Участники Форума поддержали жителей Донбасса в их стремлении к миру и борьбе с фашизмом.
Форум призвал правительства стран ЕС, США, депутатов Европейского парламента, представителей стран мира в ООН принять все возможные меры, включая экономические и политические санкции против государства Украина, с целью выполнения правительством Украины всех положений международных договоренностей, в том числе и Минских, направленных на прекращение войны и возрождение мирной жизни на Донбассе.
Участники форума приняли решение о создании Международного комитета солидарности с Донбассом «Антифашизм. Интернационализм. Солидарность», главной целью которого будет объединение политических партий, общественных организаций и движений, независимых активистов, готовых поддержать Донбасс на пути сохранения мира, противостояния фашизму и построения социально-справедливого общества.
Initiated by the Communists of Lugansk, an International Solidarity Forum with residents of Donbass, “Antifascism, Internationalism, Solidarity,” took place on May 8 in Alchevsk.
The Forum was attended by 177 delegates representing 31 organizations from 13 countries (Belarus, Great Britain, Germany, Greece, Spain, Italy, Poland, the Russian Federation, the Basque country, Turkey, Ukraine, France and Sweden). More than 20 organizations from around the world sent letters of support to the Forum.
The Forum strongly condemned manifestations of fascism in Ukraine, including political terror, massacres, persecution of dissidents, and the prohibition of Communist ideology.
Forum participants supported the residents of Donbass in their quest for peace and their struggle against fascism.
The Forum called on the EU governments, the United States, the deputies of the European Parliament, and representatives of the countries at the UN to take all possible measures, including economic and political sanctions, against the State of Ukraine and the Ukrainian Government to implement all the provisions of international agreements, including Minsk, aimed at ending the war and restoring peaceful life in the Donbass.
The Forum adopted a decision to establish an International Committee of Solidarity with the Donbass: "Antifascism, Internationalism, Solidarity,” whose main goal is united action by political parties, public organizations and movements, and independent activists to support the Donbass, preserve peace, oppose fascism and build a just society.
В Алчевске продолжает свою работу Международный форум солидарности с жителями Донбасса «Антифашизм. Интернационализм. Солидарность».
Международный форум, инициированный коммунистами, призван обсудить пути решения самых наболевших проблем региона.
Организаторы уверены, что участники Форума – представители политических партий, общественных организаций и независимые активисты смогут повлиять на правительства своих стран с целью оказания давления международной общественности на Киев. Только так можно остановить гражданскую войну на Донбассе, и дать людям шанс на послевоенное возрождение их региона.
#AISForum #Luhansk
May 8, 2015: In Alchevsk, the International Solidarity Forum with the residents of Donbass, 'Antifascism, Internationalism, Solidarity' is underway.
The international forum, initiated by the Communist Party - Lugansk Regional Committee, aims to discuss ways to solve the most urgent problems of the region.
The organizers are confident that the Forum participants -- representatives of political parties, public organizations and independent activists, can influence their governments and the international community to put pressure on Kiev.
The only way is to stop the civil war in the Donbass, and give people the chance for a post-war revival of the region.
PHOTOS: https://www.facebook.com/LuganskObkomKPU/posts/1605101276373530 / http://redstaroverdonbass.blogspot.it/2015/05/international-solidarity-forum-underway.html
maggio 9th, 2015
Il Forum Internazionale che si è tenuto ad Alcevsk, città della Repubblica Popolare di Lugansk, è stato un importante momento di confronto tra le differenti realtà che compongono la resistenza ucraina e novorossa con le realtà internazionali che ne sostengono la lotta.
Uno scambio politico che ha voluto andare oltre la fotografia dei rapporti di forza sul campo e al di là della necessità contingente ed ineludibile della lotta al risorgente fascismo, per cercare di delineare l’apertura di una prospettiva internazionalista e di classe.
In questo senso collocare la lotta del Donbass all’interno della più generale lotta anti-imperialista, che non si esaurisce dentro i confini della Novorossija, e ribadire la necessità della trasformazione politico-sociale sono stati alcuni dei punti fermi della lunga carrellata degli interventi.
La profondità strategica di chi in Donbass ed in Ucraina lotta in maniera indipendente non solo contro un’aggressione militare tout-court ed una feroce dittatura, ma contro un sistema oligarchico per l’affermazione di una società differente, non può che essere l’ampliamento e l’intensificazione delle relazioni con uno spettro di forze che – in un quadrante diverso – combattono lo stesso nemico e gli stessi “falsi amici”.
Ma quest’approdo a livello di condivisione di coscienza politica tra gli intervenuti al forum è una premessa per un’ assunzione di responsabilità comune che detta un’ agenda non poco impegnativa per il futuro, tra l’altro tutta da costruire e che, per così dire, “inchioda” ai nostri occhi – almeno in Italia – chi ha preso parola al forum ad un livello di iniziativa politica più elevato di quello fino ad ora conosciuto rispetto a questo “fronte”.
Questa impostazione internazionalista e di classe naturalmente è vista come fumo negli occhi da chi considera il conflitto solo all’interno del paradigma etno-linguistico, la Novorossjia come niente di più che un stato cuscinetto strategicamente importante a livello geo-politico e la sua popolazione una pedina sacrificabile sull’altare dell’accordo delle differenti oligarchie sia ucraine che russe.
Queste forze sono le vere “quinte colonne” della contro-rivoluzione preventiva, tesa a svuotare le giovani repubbliche popolari del loro contenuto progressista e ad impedire ulteriori sviluppi dei tratti più interessanti di queste esperienze, che di fatto vengono “rimosse” o addirittura “negate” anche in Italia da chi, seppure a parole si dica schierato con la Novorossjia, ne diviene affossatore.
Differenti interventi delle milizie, tra cui quello di Mozgovoi che ha “aperto” il forum, si sono alternati a quello delle organizzazioni politiche locali e a quelle provenienti da Germania, Grecia, penisola iberica, Turchia e ovviamente dall’Italia.
Le delegazioni erano composte sia da organizzazioni politiche vere e proprie, sia da comitati di appoggio locali specifici, mentre numerosi saluti sono giunti da coloro che non hanno potuto partecipare.
La traduzione costante dal russo all’inglese e viceversa ha permesso di seguire agevolmente la lunga sezione dei lavori, con la sala che ha visto un buon livello di partecipazione e di attenzione ed un ricambio fisiologico dei partecipanti.
Da segnalare anche la presenza dell’emittente televisiva sud-americana Telesur e dei media russi, oltre ad alcuni centri di informazione locali legati alle milizie, che permetteranno di dare a questo appuntamento la visibilità che merita.
In questo report non vogliamo fare una ve
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Kriegshetze
Skandalöse Äußerungen Merkels in Moskau
Von Arnold SchölzelWas gehört dazu, sich als Repräsentantin eines deutschen Staates in Moskau 70 Jahre nach dem Zweiten Weltkrieg hinzustellen und von einer »verbrecherischen und völkerrechtswidrigen Annexion der Krim« zu sprechen? Antwort: Erstens das Fehlen jeglichen Funkens Anstand. Das war bereits klar, als der Boykott der russischen Feierlichkeiten zum 9. Mai angekündigt wurde – insofern war es eine Wiederholungstat. Zweitens das verordnete Vergessen dessen, was »verbrecherische Annexion« an solch einem Tag der Erinnerung an Vernichtung und Kolonisierung – auch der Krim – durch einen deutschen Staat bedeutet. Der keiner linken Neigung verdächtige Historiker Götz Aly wies in der Berliner Zeitung am vergangenen Dienstag auf den ersten Befehl des sowjetischen Stadtkommandanten Berlins Nikolai Bersarin vom 2. Mai 1945 hin, in dem von Wiederherstellung des Gesundheitswesens, von Lebensmittelversorgung und Hilfe für kranke Kinder die Rede war. Aly setzte hinzu: »Ersparen wir uns erste Wehrmachtsbefehle in Minsk, Kiew oder Smolensk«. Der Name von Bersarin sollte nach 1990 auf Betreiben der SPD aus dem Berliner Stadtbild verschwinden, um seine Ehrenbürgerschaft gab es eine lange Auseinandersetzung auf Frontstadtniveau. Das war ein Beispiel für die Staatspolitik, die Angela Merkel mit ihrem Vokabular würdig vertreten hat.
Diese zutiefst reaktionäre, ja revanchistische Haltung ist drittens auch Quelle jener Ignoranz, die die Regierungschefin eines Staates, der unter ihrer Führung an jeder staatsterroristischen Aktion des Westens in den vergangenen zehn Jahren teilgenommen hat, gegenüber Meinungen auch deutscher Völkerrechtler zur »Annexion« der Krim pflegt. Dort gab es keine Annexion, so argumentieren nicht wenige Juristen, sondern eine Sezession, die durch ein Referendum legitimiert wurde.
Der Affront übersteigt das gewohnte Maß auf dem diplomatischen Parkett des Kalten Krieges. Es handelt sich um Kriegshetze, wie sie ansonsten von den in Kiew durch die von den USA installierten Kreaturen à la Jazenjuk zu hören ist. Mit ihrer Wortwahl hat sich die Kanzlerin fest an die Seite der »Fuck the EU«-Strategen gestellt. Lügen und Russophobie sind wichtigste Bestandteile der dazugehörigen westlichen Propaganda.
Fest steht zugleich: Derzeit zeigen die USA und ihre bundesdeutsche Lobby Angela Merkel die Instrumente. Die Vorgänge um die BND- und NSA-Affäre haben dazu geführt, dass die SPD öffentlich auf Distanz zu ihr persönlich geht und von »Lügen« aus dem Kanzleramt spricht. Das besagt, dass der Druck aus Washington, schärfer gegenüber Moskau aufzutreten, zunimmt. Gleichzeitig lässt aber der Druck des deutschen Kapitals, wenigstens den Handel mit Russland nicht weiter einzuschränken, nicht nach. Merkels Worte sind insofern ein deutliches Signal: Sie hat sich für Eskalation, wenn nicht für Krieg entschieden.
Magnifique : Une centaine de généraux allemands appellent l’Otan à cesser ses actions antirusses... !
BREIZATAO – ETREBROADEL (09/05/2015) Près d’une centaine de généraux et d’officiers supérieurs ont signé une lettre ouverte intitulée « Soldats pour la paix », dans laquelle ils condamnent la politique des USA vis-à-vis de la Russie.
Selon les militaires, le remaniement du monde sous l’égide des USA et de leurs vassaux a conduit à de nombreuses guerres. Pourtant, l’histoire montre qu’il est préférable d’être ami avec les Russes plutôt que l’inverse. Cette lettre sera envoyée au Bundestag et aux ambassades des pays de l’OTAN.
Ces anciens militaires appellent les pays de l’OTAN à stopper l’hystérie militaire et la russophobie. La lettre « Soldats pour la paix » a été publiée sur le site du quotidien allemand Junge Welt.
« Nous savons bien ce qu’est la guerre, et nous prônons la paix », indique le message signé par les ex-ministres de la Défense de l’ex-RDA Heinz Kessler et Theodor Hoffmann, trois généraux de corps d’armée, 19 généraux de division, 61 généraux de brigade, dont le cosmonaute Sigmund Jähn, plusieurs amiraux, ainsi que des colonels et des capitaines.
« Le remaniement du monde sous l’égide des USA et de leurs alliés a conduit aux guerres en Yougoslavie, en Afghanistan, en Irak, au Yémen, au Soudan, en Libye et en Somalie », souligne la lettre.
Les militaires allemands indiquent que la stratégie américaine vise à éliminer la Russie en tant que concurrent et à affaiblir l’Union européenne. Et la tentative de faire de l’Ukraine un membre de l’UE et de l’OTAN, selon eux, est une aspiration à créer un « cordon sanitaire » de la région balte jusqu’à la mer Noire pour isoler la Russie du reste de l’Europe, ce qui rend impossible l’union entre la Russie et l’Allemagne.
Les signataires de cette lettre remarquent également une campagne sans précédent des médias, une atmosphère d’hystérie militaire et de russophobie. D’après eux, cette tendance va à l’encontre du rôle diplomatique que pourrait jouer l’Allemagne au regard de sa situation géopolitique, de son expérience historique et des intérêts objectifs du peuple.
« Nous n’avons pas besoin d’une campagne militaire contre la Russie, mais d’une entente mutuelle et d’une coexistence pacifique. Nous n’avons pas besoin d’une dépendance militaire des USA, mais de notre propre responsabilité pour la paix », écrivent les militaires.
« En tant que militaires, nous savons bien que la guerre ne doit pas être un outil de la politique. En s’appuyant sur notre expérience, nous pouvons évaluer les conséquences pour toute l’Europe », a déclaré dans une conférence de presse l’ex-ministre de la Défense de la RDA l’amiral Theodor Hoffmann. Selon ce dernier, plusieurs signataires de cette lettre ont été témoins de la Seconde Guerre mondiale. Il a souligné également que les problèmes clés de notre époque ne pouvaient être réglés qu’en coopération avec la Russie.
« L’expérience montre qu’il vaut mieux être ami qu’ennemi avec les Russes », conclut Hoffmann.
(source)
Generäle sagen nein
»Soldaten für den Frieden«: Die Führungsspitze der ehemaligen DDR-Streitkräfte warnt vor Krieg. Kooperation statt Konfrontation mit Russland
Von Peter WolterEtwa 100 Generäle der vor 25 Jahren aufgelösten Nationalen Volksarmee (NVA) der DDR haben sich angesichts der Ukraine-Krise mit einem Friedensappell an die Öffentlichkeit gewandt. Unmittelbarer Anlass sind die Feierlichkeiten zum 70. Jahrestag der Befreiung vom deutschen Faschismus. Zu den Unterzeichnern gehören zwei ehemalige Verteidigungsminister, drei Generaloberste, 19 Generalleutnante sowie 61 Generalmajore sowie etliche Admiräle.
»Die Mehrheit der Unterzeichner hat noch den Zweiten Weltkrieg an der Front erlebt«, erklärte der frühere DDR-Verteidigungsminister Theodor Hoffmann am Dienstag in Berlin bei der Vorstellung des Aufrufs »Soldaten für den Frieden«. »Wir Militärs wissen sehr gut, dass Krieg kein Mittel der Politik sein darf, von unserer Erfahrung her können wir sehr gut die Folgen für ganz Europa einschätzen.« Die militärische Stärke des Warschauer Vertrages habe mit dafür gesorgt, dass aus dem kalten Krieg kein heißer geworden sei. Seit der Auflösung des Bündnisses akzeptiere der Westen aber immer häufiger militärische Stärke als Mittel der Politik – Beispiele seien die diversen Kriege um den Irak, auf dem Balkan, in Afghanistan, Libyen und anderswo.
»In der einen oder anderen Form war auch die deutsche Bundeswehr an all diesen Kriegen beteiligt«, sagte Hoffmann, der zuletzt den Rang eines Admirals bekleidete. »Sie hat Aufklärungsaufgaben übernommen, Daten ausgetauscht und sogar bei der Luftbetankung von Kampfflugzeugen geholfen.« Das widerspreche der Vereinbarung des früheren Bundeskanzlers Helmut Kohl mit dem damaligen DDR-Staats-und Parteichef Erich Honecker, dass von deutschem Boden nie wieder Krieg ausgehen darf.
Angeführt von den USA seien die NATO-Länder jetzt zum kalten Krieg zurückgekehrt und begründeten dies mit der angeblichen Aggressivität Russlands, sagte Hoffmann weiter. Die meisten Unterzeichner des Aufrufs hätten allerdings ganz andere Erfahrungen mit diesem Land gemacht, etliche hätten auch dort studiert. »Die Erfahrung lehrt uns, dass es besser ist, die Russen zum Freund und nicht zum Feind zu haben.« Die wichtigsten Probleme der Gegenwart ließen sich auch nur in Zusammenarbeit mit Russland lösen.
Soldaten für den Frieden
Dokumentiert: Die Führungsspitze der ehemaligen DDR-Streitkräfte warnt vor Krieg und fordert Kooperation statt Konfrontation mit Russland
Als Militärs, die in der DDR in verantwortungsvollen Funktionen tätig waren, wenden wir uns in großer Sorge um die Erhaltung des Friedens und den Fortbestand der Zivilisation in Europa an die deutsche Öffentlichkeit.
In den Jahren des Kalten Krieges, in denen wir eine lange Periode der Militarisierung und Konfrontation unter der Schwelle eines offenen Konflikts erlebten, haben wir unser militärisches Wissen und Können für die Erhaltung des Friedens und den Schutz unseres sozialistischen Staates DDR eingesetzt. Die Nationale Volksarmee war keinen einzigen Tag an kriegerischen Auseinandersetzungen beteiligt, und sie hat bei den Ereignissen 1989/90 maßgeblich dafür gesorgt, dass keine Waffen zum Einsatz kamen. Frieden war immer die wichtigste Maxime unseres Handelns. Deshalb sind wir entschieden dagegen, dass der militärische Faktor erneut zum bestimmenden Instrument der Politik wird. Es ist eine gesicherte Erfahrung, dass die brennenden Fragen unserer Zeit mit militärischen Mitteln nicht zu lösen sind.
Es sei hier daran erinnert, dass die Sowjetarmee im Zweiten Weltkrieg die Hauptlast bei der Niederschlagung des Faschismus getragen hat. Allein 27 Millionen Bürger der Sowjetunion gaben ihr Leben für diesen historischen Sieg. Ihnen, wie auch den Alliierten, gilt am 70. Jahrestag der Befreiung unser Dank.
Jetzt konstatieren wir, dass der Krieg wieder zum ständigen Begleiter der Menschheit geworden ist. Die von den USA und ihren Verbündeten betriebene Neuordnung der Welt hat in den letzten Jahren zu Kriegen in Jugoslawien und Afghanistan, im Irak, Jemen und Sudan, in Libyen und Somalia geführt. Fast zwei Millionen Menschen wurden Opfer dieser Kriege, und Millionen sind auf der Flucht.
Nun hat das Kriegsgeschehen wiederum Europa erreicht. Offensichtlich zielt die Strategie der USA darauf ab, Russland als Konkurrenten auszuschalten und die Europäische Union zu schwächen. In den letzten Jahren ist die NATO immer näher an die Grenzen Russlands herangerückt. Mit dem Versuch, die Ukraine in die EU und in die NATO aufzunehmen, sollte der Cordon sanitaire von den baltischen Staaten bis zum Schwarzen Meer geschlossen werden, um Russland vom restlichen Europa zu isolieren. Nach amerikanischem Kalkül wäre dann auch eine deutsch-russische Verbindung erschwert oder verhindert.
Um die Öffentlichkeit in diesem Sinne zu beeinflussen, findet eine beispiellose Medienkampagne statt, in der unverbesserliche Politiker und korrumpierte Journalisten die Kriegstrommeln rühren. In dieser aufgeheizten Atmosphäre sollte die Bundesrepublik Deutschland eine den Frieden fördernde Rolle spielen. Das gebieten sowohl ihre geopolitische Lage als auch die geschichtlichen Erfahrungen Deutschlands und die objektiven Interessen seiner Menschen. Dem widersprechen die Forderungen des Bundespräsidenten nach mehr militärischer Verantwortung und die in den Medien geschürte Kriegshysterie und Russenphobie.
Die forcierte Militarisierung Osteuropas ist kein Spiel mit dem Feuer – es ist ein Spiel mit dem Krieg!
Im Wissen um die zerstörerischen Kräfte moderner Kriege und in Wahrnehmung unserer Verantwortung als Staatsbürger sagen wir in aller Deutlichkeit: Hier beginnt bereits ein Verbrechen an der Menschheit.
Sind die vielen Toten des Zweiten Weltkrieges, die riesigen Zerstörungen in ganz Europa, die Flüchtlingsströme und das unendliche Leid der Menschen schon wieder vergessen? Haben die jüngsten Kriege der USA und der NATO nicht bereits genug Elend gebracht und viele Menschenleben gefordert?
Begreift man nicht, was eine militärische Auseinandersetzung auf dem dichtbesiedelten europäischen Kontinent bedeuten würde?
Hunderte Kampfflugzeuge und bewaffnete Drohnen, bestückt mit Bomben und Raketen, Tausende Panzer und gepanzerte Fahrzeuge, Artilleriesysteme kämen zum Einsatz. In der Nord- und Ostsee, im Schwarzen Meer träfen modernste Kampfschiffe aufeinander und im Hintergrund ständen die Atomwaffen in Bereitschaft. Die Grenzen zwischen Front und Hinterland würden sich verwischen. Millionen Mütter und Kinder würden um ihre Männer, um ihre Väter und Brüder weinen. Millionen Opfer wären die Folge. Aus Europa würde eine zerstörte Wüstenlandschaft werden.
Darf es soweit kommen? Nein und nochmals Nein!
Deshalb wenden wir uns an die deutsche Öffentlichkeit:
Ein solches Szenario muss verhindert werden.
Wir brauchen keine Kriegsrhetorik, sondern Friedenspolemik.
Wir brauchen keine Auslandseinsätze der Bundeswehr und auch keine Armee der Europäischen Union.
Wir brauchen nicht mehr Mittel für militärische Zwecke, sondern mehr Mittel für humanitäre und soziale Erfordernisse.
Wir brauchen keine Kriegshetze gegen Russland, sondern mehr gegenseitiges Verständnis und ein friedliches Neben- und Miteinander.
Wir brauchen keine militärische Abhängigkeit von den USA, sondern die Eigenverantwortung für den Frieden. Statt einer »Schnellen Eingreiftruppe der NATO« an den Ostgrenzen brauchen wir mehr Tourismus, Jugendaustausch und Friedenstreffen mit unseren östlichen Nachbarn.
Wir brauchen ein friedliches Deutschland in einem friedlichen Europa.
Mögen sich unsere Kinder, Enkel und Urenkel in diesem Sinne an unsere Generation erinnern.
Weil wir sehr gut wissen, was Krieg bedeutet, erheben wir unsere Stimme gegen den Krieg, für den Frieden.
Armeegeneral a.D. Heinz Keßler
Admiral a.D. Theodor Hoffmann
Die Generaloberste a.D. Horst Stechbarth; Fritz Streletz; Fritz Peter
Die Generalleutnante a.D. Klaus Baarß; Ulrich Bethmann; Max Butzlaff; Manfred Gehmert; Manfred Grätz; Wolfgang Kaiser; Gerhard Kunze; Gerhard Link; Wolfgang Neidhardt; Walter Paduch; Werner Rothe; Artur Seefeldt; Horst Skerra; Wolfgang Steger; Horst Sylla; Ehrenfried Ullmann; Alfred Vogel; Manfred Volland; Horst Zander
Vizeadmiral a.D. Hans Hofmann
Ricostruire il movimento contro la guerra nella chiarezza e nell’indipendenza, fuori e contro logiche eurocentriche, subalterne e complici delle politiche aggressive del polo imperialista europeo.
Nel silenzio dei mass media, in questi mesi il Governo Renzi ha portato a compimento un progetto coltivato da tempo: il coinvolgimento diretto di strutture civili “di pace” all’interno delle future operazioni di guerra. Sul modello statunitense di inizi anni ’60 del secolo scorso, si rende sistematica quella integrazione alla quale hanno lavorato precedenti governi di centro – sinistra, con l’attiva collaborazione di Centri studi universitari, OnG, Associazioni, sindacati concertativi. A chiudere il cerchio dell’operazione, che non a caso cade in un momento di alta tensione nel Mediterraneo e nell’Est Europa, raccolte di firme e campagne “pacifiste” provenienti da quello stesso mondo che in questi anni ha collaborato attivamente con i Ministeri degli Esteri, ai margini delle operazioni di “peace keeping” e “peace building” in ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libano. Il grado di maturità di un polo imperialista si misura anche dalla capacità d’integrazione ideologica, politica e militare di settori della “società civile”, corpi intermedi inservibili per la mediazione sociale “in patria”, ma potenzialmente utili come nuovi “missionari” nelle avventure coloniali prossime venture.
Il 20 marzo 2003 il New York Times titolava in prima pagina: “La seconda potenza mondiale è scesa in piazza”. Così facendo, descriveva un grande movimento internazionale, che in oltre 600 città del mondo portò milioni di pacifisti in strada contro l’aggressione all’Iraq. Risolto il contenzioso storico con l’avversario sovietico, crollato su se stesso e sepolto sotto le macerie del muro di Berlino nel 1989, gli Stati Uniti d’America rilanciarono con forza la loro politica di potenza. Nel mondo dell’informazione, della cultura e dei movimenti altermondialisti si parlava di “Secolo americano”, di “fine della Storia”, di “moltitudini” in movimento.
Il Movimento pacifista, capace di mobilitare un così vasto numero di persone nel mondo, esprimeva e rappresentava un generalizzato senso di repulsa contro politiche aggressive che riportavano il mondo a epoche precedenti, quando il colonialismo occidentale imponeva, con le armi e l’occupazione fisica di grandi territori, la legge dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali e umane. Quel movimento trovò nel nostro paese terreno fertile, trasformandosi in un fenomeno politico di prima grandezza, che affondava le radici in una sinistra ancora vitale, reduce dalle precedenti mobilitazioni no global.
Grandi mobilitazioni che avvenivano però in un contesto di “smobilitazione ideologica”, di rifiuto pregiudiziale delle categorie interpretative che avevano guidato la sinistra di classe nella lettura della realtà e delle sue dinamiche. La lotta contro le aggressioni militari si traduceva così in un rifiuto generico e generale della violenza, a favore di un mondo senza guerre. Prevaleva cioè una visione etico/morale dell’agire individuale e collettivo, di genuino rigetto dei massacri che si stavano perpetrando, di pacifismo interclassista e non – violento, che non analizzava i processi materiali alla base della nuova spinta alla guerra, se non in termini di ingiusta rapina delle risorse di un Sud sfruttato da sempre da parte di un Occidente ricco e mal governato. Nel nostro paese quest’atteggiamento politico/culturale fu coltivato, esaltato e fomentato da una rappresentanza politica, sindacale, di “movimento” che si preparava a entrare nei governi Prodi e nei successivi esecutivi di centro sinistra, sino ad assumere ai giorni nostri ruoli di primo rilievo a livello nazionale ed europeo.
Una rappresentanza politica di “sinistra” sospinta in alto proprio da quei movimenti, che ha attraversato il decennio che abbiamo alle spalle con alterne vicende, fatte per alcuni di rovinose cadute, per altri di strepitosi successi personali oltre che politici: La sinistra “radicale” estromessa dal Parlamento nel 2008, alcune ex pacifiste proiettate ai massimi vertici del governo italiano e della UE.
Carriere costruite sul filo del rasoio, a cavallo tra guerra e pace, nel senso letterale del termine.
Negli anni del grande movimento pacifista d’inizio secolo, poco dopo l’esecutivo D’Alema (responsabile dei bombardamenti sulla Jugoslavia nel 1999) e prima dei governi di centro sinistra, agivano tra le fila dei pacifisti di professione personaggi allora sconosciuti, divenuti oggi figure di primo piano. Parliamo di Federica Mogherini, attivista ecoordinatrice del Social Forum di Firenze nel 2004, e di Roberta Pinotti boy scout e militante dei «Blocchi non violenti» genovesi. Tutte e due presenti alla kermesse no-global di Porto Alegre del 2001. Come sappiamo oggi la prima è Alto rappresentante della UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ex ministro degli Esteri del governo Renzi), la seconda è ministro della difesa nel Governo Renzi. Ci giunge notizia che l’ex nonviolenta genovese intende far partecipare l’Italia alla guerra dei droni: ha chiesto a Washington di poter armare gli MQ-9 Reaper, i droni killer Usa acquistati recentemente dall’Italia, di 14 missili «Fuoco dell’inferno»
Alla luce di questa brevissima ricostruzione storica, proprio per questo plasticamente esemplificativa della parabola di un intero ceto politico, c’è poco da sorprendersi per l’attuale disorientamento nelle aree socio/culturali che, nel decennio passato, espressero importanti livelli di mobilitazione sui temi della pace e della guerra.
Le responsabilità delle scelte politiche e personali appena ricordate non esauriscono però le ragioni dell’inabissamento e della scomparsa del movimento pacifista. Avversari altrettanto temibili hanno agito in questi anni.
Nel breve lasso di tempo di un decennio la Storia ha iniziato a correre grazie ad una crisi sistemica del capitalismo senza precedenti, accompagnata in questa volata verso l’abisso da una leadership politica, mediatica e militare impegnata a plasmare le opinioni pubbliche al nuovo corso, fatto di aggressioni militari sempre più devastanti, che stanno ridisegnando i rapporti di forza tra poli imperialisti e paesi una volta definiti “in via di sviluppo”, che oggi sono a capo di aree economiche (BRICS) capaci di competere - sul terreno delle regole di mercato - con i colossi d’Occidente.
In questi anni di grandi trasformazioni sono vorticosamente cambiate, e continuano a cambiare in corsa, alleanze e nemici da combattere. Da Al Qaeda si è passati all’ISIS, con un ritorno alla logica della “guerra di civiltà” e di religione che, nella propaganda, surclassa la campagna mediatica, repressiva e di guerra successiva all’attentato dell’11 settembre 2001 contro le torri gemelle.
Le recenti sollecitazioni di Papa Francesco alla “comunità internazionale” per fermare il genocidio di cristiani in Medio Oriente, le sue prese di posizione contro la Turchia nel centesimo anniversario dal massacro degli armeni, sono solo una delle cartine di tornasole che evidenzia il clima che si respira nel paese e a livello internazionale. Anche i terribili “effetti collaterali” delle aggressioni militari sono utilizzati cinicamente per mantenere alta la tensione in un’opinione pubblica già scossa dalle devastazioni economiche e sociali imposte dalla Troika europea. Parliamo degli attentati in Francia (Charlie Hebdo) e in Belgio, ma anche dei flussi migratori provenienti dalle coste libiche. Fenomeni diversi, ma con le stesse radici, usati ossessivamente dai mass media per legittimare presenti e future scelte repressive e di guerra.
In questo clima tornano a essere utili organizzazioni che hanno progressivamente adeguato la loro prassi alle esigenze d’intervento “umanitario” e di “peace keeeping” nelle innumerevoli “missioni di pace” promosse in questi anni (oltre 4.500 militari italiani impegnati in 28 operazioni internazionali). Adeguamento e “affiancamento” premiati con lauti finanziamenti, carriere politiche e parlamentari. Parliamo di OnG, sindacati concertativi, associazionismo laico e cattolico, impegnati da sempre a orientare la propria base di massa su terreni di compatibilità con lo stato di cose presenti, soprattutto quando alla guida del paese s’insediano governi di centro sinistra. Il governo Renzi, anche per la presenza in quell’esecutivo delle due “signore della pace” (Mogherini / Pinotti), è il migliore per l’incontro tra questo “consorzio” di realtà socio/culturali e le future proiezioni all’estero dell’esercito tricolore, specie in una fase nella quale si torna a parlare di “corridoi umanitari” per risolvere la crisi dei flussi migratori.
Vediamo come.
Il decreto attuativo inserito nell’ultima Legge di Stabilità apre la strada alla sperimentazione dei Corpi Civili di Pace Firmato dai Ministri Poletti e Gentiloni il 30 gennaio 2015 e presentato a Palazzo Chigi il 2 febbraio 2015, alla presenza del succitato Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Luigi Bobba (Sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con delega alle politiche giovanili e al servizio civile nazionale) e Mario Giro (Sottosegretario al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale). Un primo contingente di 500 volontari è già pronto per la sperimentazione, gestito dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale.
Un progetto che non parte da zero. Il primo importante momento di “promozione” di questo progetto fu nel 2007, quando durante il secondo governo Prodi l’allora viceministra degli Esteri Patrizia Sentinelli (PRC) convocò il Tavolo Interventi Civili di Pace (per vedere quali realtà fanno parte di questo Tavolo cliccate su http://www.interventicivilidipace.org/wp/tavolo-icp/ ).
In questi ultimi mesi abbiamo avuto modo di seguire la campagna “Un’altra Difesa è possibile!” (http://www.difesacivilenonviolenta.org/). Condita con la solita retorica non violenta, non armata e iper umanitarista, la campagna intende molto più prosaicamente connettersi con i su menzionati provvedimenti governativi. Basta andare alla proposta di legge http://www.difesacivilenonviolenta.org/la-proposta-di-legge/ per capire l’operazione. All’Art 1 – comma 1 immancabile il riferimenti all’articolo 11 della Costituzione, rafforzato però dal richiamo all’articolo 52, che parla invece dell’adempimento del dovere di “difesa della Patria”. Un accostamento che da solo rende l’idea del cambiamento di clima che s’intende interpretare e coadiuvare, anche se riflette una miopia politica evidente, data la subalternità delle “patrie” ai diktat dell’Unione Europea e della sua Troika.
Infine, basta scorrere di poche righe per trovare al comma 2 i “Corpi Civili di Pace”…! “la cui sperimentazione – prosegue il comma - è inserita nella Legge 27 dicembre 2013, n. 147 che prevede l’istituzione di un contingente da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto….
Per capire i legami tra questo mondo e i decreti attuativi dell’esecutivo Renzi occorre andare a vedere il video della firma del su citato decreto attuativo: https://www.youtube.com/watch?v=M_blvP2lGCo
Al minuto 3.55 del video, il Ministro Poletti dichiara che “La presidenza italiana durante il semestre europeo ha fortemente spinto l’idea del servizio civile europeo”, per cui è facile intendere come l’iniziativa che sta portando avanti la campagna sia in piena compatibilità con i Ministeri presenti in conferenza stampa, compreso quello degli Esteri e di tutto il Governo Renzi.
Al min. 39.16 del video, Luisa del Turco del Tavolo Interventi Civili di Pace (sopra citati), si felicita del risultato ottenuto grazie alla sinergia col Ministero degli Esteri, ricordando che le associazioni che si occupano di peace building (come appunto il Tavolo Interventi Civili di Pace), sono nate proprio da un’iniziativa del Ministero degli Esteri. Oggi questi progetti trovano una forma concreta all’interno della programmazione ministeriale, e un finanziamento di 9 milioni di euro nella Legge di Stabilità.
Ecco il testo della conferenza stampa tenutasi a Roma il 29 gennaio 2015 http://www.gioventuserviziocivilenazionale.gov.it/dgscn-news/2015/1/corpi-civili-di-pace.aspx)
Sappiamo che le basi associative di queste organizzazioni sono fatte da tante persone in buona fede, spinte da motivazioni più che encomiabili, così come è risaputo che in zone di guerra non ci si va senza la “protezione” dei militari, ultimo anello della catena di comando al vertice della quale ci sono le decisioni di politica estera del governo in carica. Una contraddizione che salta agli occhi, e che in questi mesi ha creato non pochi dubbi tra chi doveva andare a convincere il passante ad aderire e firmare per la campagna “un’altra difesa è possibile”.
Di ben altra pasta sono fatti i leader e i quadri intermedi di quel network di “professionisti della pace”, impegnati in questi giorni a far approvare ordini del giorno e delibere in vari consigli comunali a sostegno della loro campagna, trovando non a caso totale e incondizionata approvazione bipartisan tra i consiglieri comunali e le Giunte di centro – destra – “sinistra”.
L’operazione ci pare evidente: riempire di “contenuti” le leggi quadro del governo Renzi, con “decreti attuativi” in salsa pacifista, al fine di intruppare quel poco che rimane del movimento pacifista all’interno delle politiche estere di un esecutivo intento a trovare, in ambito europeo e NATO, la forma migliore per riprendersi le agognate coste libiche, evitando i quotidiani rischi corsi dai pozzi petroliferi in mano all’ENI.
Uno scenario complesso, quello libico, forse ancor più di altri, per la molteplicità d’interessi che si muovono dietro le quinte della rappresentazione fantastica raccontataci quotidianamente da mass media oramai totalmente al servizio delle strategie di guerra dei singoli paesi, delle multinazionali del petrolio, di alleanze politiche e economiche che aggregano interi continenti, Unione Europea in primis.
In quello scenario la funzione dei “corpi civili di pace” potrebbe essere molto importante, data la moltitudine di disperati che da quelle coste si muove per fuggire da rapine e guerre, a cercare miglior vita dopo aver superato la prova mortale del mare.
In questi mesi gli eventi bellici in corso hanno riacceso il dibattito all’interno di aree politiche da sempre sensibili alla lotta contro la guerra. La campagna No guerra No NATO e le iniziative “Guerra alla guerra” promosse dalla Rete dei Comunisti hanno destato l’interesse di migliaia di compagni, di organizzazioni politiche, sindacali, di movimento, intenzionate a riprendere la mobilitazione contro il bellicismo dei paesi imperialisti, che sta riportando l’umanità sull’orlo di esplosioni potenzialmente incontrollabili.
Occorre che nel lavoro di ricomposizione di un movimento contro la guerra all’altezza della sfida i militanti nowar abbiano chiaro, ancor più di ieri, di quali e quanti siano gli strumenti a disposizione dell’avversario, soprattutto nelle retrovie del conflitto, dove siamo chiamati a combattere. I “corpi civili di pace” sono parte integrante degli strumenti di guerra che l’imperialismo occidentale si è dato, a partire dai “peace corps” statunitensi istituiti dal democratico John F. Kennedy nel marzo 1961.
Oggi in Italia il progetto renziano dei “corpi civili di pace” impone alle aree socio/culturali di riferimento del PD un passaggio senza ritorno, che chiude una storia d’infiltrazione, condizionamento e paralisi nei movimenti determinatisi negli anni scorsi contro militarismo e guerra. I burocrati del pacifismo professionale s’intruppano così nelle carovane imperialiste e coloniali, pronte a muoversi di nuovo verso i territori di riconquista. Un passaggio delicato, che implica un altissimo livello di mistificazione ideologica, al fine di “conquistare i cuori e le menti” di tante persone disorientate dalla quotidiana guerra mediatica sui temi di politica estera.
Le caratteristiche della prossima guerra non sono le stesse di quella precedente.
Per combatterla occorre che i sinceri pacifisti, gli antimilitaristi, gli antimperialisti e i comunisti affinino le loro capacità di riconoscere e denunciare i “professionisti della pace”, ancora più pericolosi degli eserciti in armi, perché addestrati a parlare la “lingua dei giusti” in mezzo alla nostra gente.
Valter Lorenzi - Emanuela Grifoni (Rete dei Comunisti, Pisa)
Giovedì 14 aprile [data da confermare] h.21.00 Via Cesare Battisti 57 Cesena
http://it.sputniknews.com/mondo/20150504/342656.html
da: Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale vol. X, Teti Editore, Milano, 1975 – Capitolo XIV
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custfe06-016295.htm
Soltanto un europeo su otto sa del ruolo decisivo dell’Unione Sovietica nella liberazione dell’Europa durante la Seconda guerra mondiale.
Tre mila persone di differente età e sesso provenienti da diverse paesi hanno preso parte nei sondaggi. (1000 persone in ogni Paese).
Il 61% dei francesi e il 52% dei tedeschi hanno detto che furono gli Stati Uniti a liberare l'Europa. In Gran Bretagna questa variante è stata scelta dal 16%, mentre il 46% degli intervistati ha detto che le battaglie decisive furono vinte dai britannici.
Questi risultati sono una conseguenza diretta dei tentativi di riscrivere la storia.
Secondo le varie stime, l'Armata Rossa ha liberato quasi il 50% del territorio degli Stati che esistono oggi in Europa, senza considerare la parte europea della Russia. Il prezzo in vite umane, pagato dalla Russia, supera di alcune volte le perdite degli alleati. Nel territorio liberato dall'Armata Rossa, oggi diviso tra 16 Stati d'Europa, vivevano, complessivamente, più di 120 milioni di persone. Altri 6 paesi sono stati liberati dai sovietici insieme agli alleati.
http://it.sputniknews.com/mondo/20150430/323846.html
http://it.sputniknews.com/politica/20150428/316260.html
08.05.2015
Diplomazie internazionali imbarazzate: partecipare o non partecipare alle celebrazioni della vittoria della Russia sul nazismo nella Seconda Guerra Mondiale? Dinanzi all'insostenibilità della tesi, prevalente sino a non poco più di un mese fa, d'ignorare il ruolo politico e militare della Russia nella sconfitta del nazismo, che avrebbe aggravato la tensione che si respira nei rapporti diplomatici fra Europa e Russia, oggi le cancellerie europee più importanti, agendo a geometria variabile, senza un accordo comune, vanno a Mosca non a stringere la mano, bensì a portare un gesto di saluto, con una chiave di lettura distensiva, ma certamente non comune a tutta l'unione Europea.
L'Italia, come al solito, per non dispiacere nessuno, ha scelto la consueta via di mezzo. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a margine di un convegno dell'Ispi, così si è espresso:
"L'Italia, come la Francia e altri paesi europei parteciperà" alla cerimonia di deposizione dei fiori alla Tomba del Milite Ignoto — al Giardino Alezandrovskij — e all'incontro al Cremlino domani, in occasione delle celebrazioni che si terranno a Mosca, nella giornata commemorativa del 70esimo anniversario della vittoria russa nella Seconda Guerra Mondiale, "perchè è giusto ricordare l'enorme contributo che l'allora Unione Sovietica ha dato alla liberazione dell'Europa dal nazifascismo e le milioni di vittime russe".
L'Italia, però, prosegue Gentiloni, "non parteciperà alla parata militare — che aprirà le celebrazioni — perchè è altrettanto giusto dare un segnale di distinzione rispetto a quello che è successo nell'ultimo anno con l'annessione della Crimea e con le tensioni in corso a est dell'Ucraina".
Alla parata del 9 maggio, la più grande nella storia della Russia contemporanea, a cui prenderanno parte 15 mila soldati, 200 mezzi militari e 143 tra aerei ed elicotteri sarà presente con le stesse modalità del ministro Gentiloni, anche il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius.
Mentre la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, effettuerà una visita ufficiale a Mosca il giorno successivo, 10 maggio. Le commemorazioni della vittoria sovietica sulle truppe hitleriane hanno portato in Russia anche il Ministro degli esteri tedesco. Ricevuto dal suo omologo Lavrov, il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha reso omaggio a Volgograd, la Stalingrado di sovietica memoria, ai caduti dell'omonima battaglia che segnò le sorti del secondo conflitto mondiale, e ha espresso il cordoglio del popolo tedesco: "Chiedo perdono a nome della Germania per le incommensurabili sofferenze che i tedeschi portarono qui, in questa città e in tutta la Russia, in tutte quelle parti dell'ex Urss che oggi costituiscono l'Ucraina e la Bielorussia e in tutta l'Europa."
Alle celebrazioni nella capitale russa parteciperanno 30 capi di stato e di governo, come riferisce Dmitri Peskov, portavoce di Putin.
Tra essi spicca la presenza del presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, a conferma di un rapporto sempre più stretto fra Cina e Russia, ma anche la partecipazione di Raul Castro, presidente della Repubblica di Cuba.
Saranno presenti alla parata anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il presidente della Repubblica dell'India, Pranab Mukherjee, il presidente della Repubblica di Serbia, Tomislav Nikolic e il premier greco, Alexis Tsipras.
Cercare di riscrivere la storia per compiacere la congiuntura politica, di riabilitare i nazisti e i loro complici, è cinico e inammissibile, ha dichiarato Vladimir Putin nel suo messaggio di saluto, inviato ai partecipanti della prima Conferenza russo-cinese sul "Ruolo dell'URSS e della Cina nella disfatta del nazifascismo e del militarismo giapponese nella Seconda guerra mondiale".
Il messaggio del presidente è stato letto dal vice ministro degli Esteri russo Igor Morgulov.
"Per noi sono assolutamente inammissibili i tentativi di riscrivere la storia per compiacere la congiuntura politica, di riabilitare i nazisti e i loro complici. Tali azioni sono non solo amorali, ma anche estremamente pericolose, in quanto spingono il mondo verso nuovi conflitti, verso la crudeltà e la violenza", — legge il messaggio di Putin.
Il presidente della Russia si è detto convinto che la conferenza "potrà favorire l'affermazione di una visione veritiera in merito agli eventi della guerra, aiuterà a immortalare le azioni eroiche dei nostri padri e nonni, e apporterà un importante contributo all'educazione delle giovani generazioni nello spirito del patriottismo, dell'umanesimo e dell'amicizia fra i popoli".
НАЦИЗАМ КАО ПОКРЕТАЧКА СНАГА ЕВРОАТЛАНСКИХ ИНТЕГРАЦИЈА
ПЕТАР ИСКЕНДЕРОВ:
Нацизам у Украјини може натерати владе суседних земаља ЕУ да се умешају у сукобе
Пораст нацизма у Европи, чији смо сведоци последњих година, као и активирање фашистичких групација и култивисање фашистичке идеологије на нивоу вођстава појединих држава, скрива иза себе дубоке узроке. Ова појава не може да се своди само на „несмотреност” западног јавног мњења и политичких елита и њихову неспособности да извлаче поуке из историје. Тежња западних граитеља Новог светског поретка да искористе савремени нацизам у својству европских интеграција (које су се већ практично слиле у евроатлантске интеграције) игра кључну улогу у овом процесу, који представља својеврсну ревизију резултата Другог светског рата и дезавуисање одлука Нирнбершког трибунала.
Ради се о тежњи да се, као прво, на подобан начин мобилише јавно мњење земаља и читавих региона под паролама евроатлантизма и русофобије, а, као друго, да се испровоцирају опоненти на одговарајућу реакцију како би са своје стране њих оптужили за дестабилизацију ситуације.
Поменути механизам први пут је испробан током деведесетих година на простору бивше Југославије. Тада је акценат стављен на националистичке и отворено фашистичке партије, покрете и организације, прво у Хрватској, потом у Босни и Херцеговини, а онда и у албанском табору на Косову и Метохији. Тим снагама је додељена улога катализатора антисрпског расположења на њиховим територијама у циљу стварања повољног сценарија за западно јавно мњење. Био је то први ниво коришћења нацизма и његових савремених носилаца. Други ниво је пуштен у погон после очекиване реакције Београда. Оваква реакција, независно од њене оправданости и конкретних пројава, проглашена је залагањем за великодржавље и покушај дестабилизације региона. То је омогућавало западној политици да се попне на трећи степен интервенције, стварајући неопходну пропагандистичку основу за оружане акције под окриљем УН (у Босни и Херцеговини) или чак и без њега (СР Југославија 1999. године). Поред тога, сличан приступ омогућио је да се развије широка обрада локалног јавног мњења, стављајући га пред дилему: или Србија… (Русија, Исток…) или Европска Унија (НАТО, западна цивилизација).
НАЦИСТИ БОРЦИ ЗА ЕВРОПСКЕ ВРЕДНОСТИ
Такав сценарио се у овом тренутку Запад реализује и у односу према Украјини. Било би наивно веровати да западни лидери, организације цивилног друштва и медији немају информације о деловању Десног сектора и других снага које су захватиле власт у Кијеву пре више од годину дана. Поготово што активност украјинских националиста представља директну претњу за опстанак и самог постојања многобројних етничких група које имају тесне везе са својим сународницима у Мађарској, Словачкој, Румунији, Грчкој и другим земљама-чланицама ЕУ. Међутим, западни сценарио захтева од ЕУ да затвори очи пред овом апсолутно очигледном опасношћу, како би искористила отворено националистичке и фашистичке снаге за максималну мобилизацију антиросијског и антируског фактора у Украјини, све под тим истим евроатлантистичким паролама. Овакав приступ предвиђа позиционирање савремених нациста у својству „бораца за демократију и европске вредности”, а њихових опонената у виду становника источне Украјине као присталица тоталитаризма, руске пете колоне и чак отворених терориста. Истовремено се апсолутно законита дејства Руске Федерације по питању пружања политичке и хуманитарне помоћи становништву Донбаса проглашавају за антиукрајинске акције и акт мешања у унутрашње послове суверене и притом демократске државе.
Сличан сценарио реализује се не само у Украјини него и на другим постсовјетским просторима. Од почетка деведесетих година вођство САД и ЕУ непрекидно жмуре пред акцијама фашистичких покрета и неонацистичких организација у прибалтичким земљама. А сваки покушај Русије да привуче пажњу светског јавног мњења и међународних организација на обнову нацизма и кршењу права рускојезичког становништва у прибалтичким земљама – квалификује се поново као руско „мешање у унутрашње послове”. Чак ни амерички конгресмен Дана Роранбахер, који је познат по доста уравнотеженој позицији, није се уздржао од сличне схеме у интервјуу који је дао руском часопису Коммерсант, позвавши Русију да се уздржи од „мешања у унутрашње послове балтичких држава”. [1]
Јасно је да је од Брисела и Вашингтона наивно очекивати да ће одустати од коришћења нацизма у својству покретачке силе и пропагандног обезбеђења евроинтеграцијских процеса у условима када идеје европских интеграција очигледно губе политичку, социјално-економску и финансијску привлачност, а у самој ЕУ се умножавају сукоби и правци унутрашњих раскола. Ипак, раст антибриселског расположења у земљама чланицама ЕУ сада приморава западне центре да почну са кориговањем својих позиција.
ЧЕШКО ДИСТАНЦИРАЊЕ
Други важан фактор је објективна способност фашистичких и неонацистичких снага да временом излазе изван контроле својих покровитеља и повереника. Чак и сада, поједини кораци власти у Кијеву почињу да изазивају забринутост у низу европских престоница. Поготово у Чешкој, која је већ затражила од украјинских власти објашњење у вези са прихватањем закона о хероизацији ОУН-УПА [2] од стране Врховне Раде, припретивши да у супротном она неће ратификовати споразум о асоцијацији Украјине са ЕУ.
Још пре самита у Риги у Праг је требало да слети украјински министар иностраних послова Климкин и објасни како стоје ствари са бандеровцима итд.”, изјавио је с тим у вези министар иностраних послова Чешке Љубомир Заоралек. [3]
Подразумева се да се од шефа ресора иностраних послова земље која је 1938. године постала жртва Минхенског договора Запада са Хитлером могла очекивати још жешћа формулација поводом догађаја у Украјини, поготово поводом одлука власти у Кијеву да изједначе Хитлерову Немачку са СССР. Ево како је то, на пример, описао шеф израелског Визентал центра Ефраим Зуроф: „Одлука да се забране нацизам и комунизам представља изједначавање најстрашнијег режима геноцида у историји људског рода са режимом који је ослободио Аушвиц и помогао да се оконча режим страха Трећег рајха”. [4]
Чак и у западним медијима већ се могу срести објективне оцене. Тако шведски часопис Aftonbladet подсећа да се „руководству и народу Совјетског Савеза не може порећи једно – жеља да се разбије Хитлеров режим… Ради тога је Црвена армија морала истерати Немце из окупираних земаља. Руси су чак морали освојити и саму Немачку. У том смислу Црвена армија се заиста реално борила за ослобођење источне Европе од фашизма”… [5]
Било како било, даље харање нацизма у Украјини прети да породи оружане сукобе не само на истоку него и на западу земље. А то са своје стране може натерати владе суседних земаља ЕУ да се умешају у сукобе. Наравно, под условом да су интереси сународника за њих важнији од наставка геополитичког играња са савременим нацистима у име евроантлантизма.
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Упутнице:
[1] Коммерсантъ, 27.04.2015
[2] ОУН-УПА – Украјинска устаничка армија и Организација украјинских националиста – две пронацистичке организације у Украјини из периода Другог светског рата (примедба преводиоца).
[3] http://www.fondsk.ru/news/2015/04/28/chehia-trebuet-razjasnenij-ot-ukrainy-po-povodu-zakona-o-geroizacii-oun-upa-33012.html
[4] The Jerusalem Post, 14.04.2015
[5] http://inosmi.ru/world/20150428/227758531.html#ixzz3Yg4ALiTZ
La tensione agonistica venne spazzata via dalla disperazione, mentre la rivalità e la paura dei disordini lasciarono il posto ad un unico coro, intonato da tutto lo stadio
È il pomeriggio del 4 maggio 1980, al Pojiud di Spalato va di scena una delle partite più importanti della Prva Liga. I padroni di casa dell’Hajduk stanno affrontando la Stella Rossa di Belgrado, una sfida particolarmente sentita da più punti di vista. I croati, campioni in carica, dopo una stagione altalenante cercano di qualificarsi per la Coppa Uefa, mentre i serbi inseguono lo scudetto dopo due anni di diugono. Croati contro serbi, all’epoca importava meno, a preoccupare più che altro è la Torcida, il gruppo ultras dell’Hajduk. È una delle prime realtà organizzate d’Europa, all’epoca l’unica dei Balcani, e già dagli anni ’50 si è resa protagonista di numerosi scontri in tutta la Jugoslavia, subendo a più riprese la repressione del governo. Ora, di fronte all’Hajduk c’è la Stella Rossa, tradizionalmente la squadra del Ministero degli Interni, della polizia e c’è il timore che possano ripetersi gli scontri che, solamente due anni prima, avevano caratterizzato l’incontro casalingo con il Partizan.
Fin da subito, la partita è particolarmente sentita e tesa. In campo si combatte senza esclusione di colpi, sugli spalti i tifosi ce la mettono tutta, mentre buona parte del Paese segue la partita tramite la tv nazionale jugoslava. Al 41’ minuto però, il pallone smette di rotolare e lo spettacolo agonistico si interrompe bruscamente. Tre uomini entrano in campo, indicando all’arbitro di sospendere la partita: c’è un annuncio da fare. I giocatori si avvicinano rapidamente, mentre sugli spalti regna il silenzio. Il presidente dell’Hajduk prende il microfono e rende pubblica la notizia che tutti aspettano da tempo, ma che nessuno avrebbe voluto sentire: «il compagno Tito è morto».
Ascesa e scomparsa di una delle Nazionali di calcio più spettacolari di tutti i tempi. La Jugoslavia era pronta a vincere tutto, finchè la politica non entrò a gamba tesa
Sguardi persi nel vuoto, molti piangono, qualcuno addirittura per il nervosismo rigetta la cena. É la sera del 1 giugno 1992, il Brasile d’Europa è stato appena ucciso da un fax proveniente da Berna. Brasile d’Europa, così veniva chiamata la Nazionale di calcio jugoslava verso la fine degli anni ’80, per via di quello straordinario catalogo di estro e fantasia con cui quella generazione faceva sognare un Paese intero, da Lubiana a Skopje.
Quel fax parte dalla sede dell’Uefa e arriva a Stoccolma, dove la Jugoslavia è in ritiro a otto giorni dall’inizio dei campionati europei di Svezia. C’è scritto che, in osservanza della Risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Jugoslavia non potrà essere accettata in alcuna competizione sportiva. È solamente il colpo di grazia al calcio jugoslavo, già duramente segnato da guerre e secessioni. In Svezia finisce una storia iniziata in tutt’altro modo, a cinque anni e migliaia di chilometri di distanza. Termina in lacrime ciò che nel 1987 era iniziato con i caroselli a Santiago de Chile, quando un gruppo di ragazzini terribili aveva inaspettatamente dominato e vinto il Mondiale Under 20.
Un vero e proprio fulmine a ciel sereno, tanto che nessuno credeva veramente in quella competizione. Sicuramente non la Federazione, che aveva deciso di risparmiare elementi di spicco come Boksic, Mihajlovic, Jugovic e Djordjevic, capitano della selezione. Tantomeno la stampa jugoslava, considerato che l’unico giornalista inviato in Cile, Torna Mihajlovic, lavorava per una rivista non sportiva, il settimanale “Arena”, ed era lì più che altro per preparare un reportage sulla comunità serba. Ciò che l’omonimo di Sinisa, come molti altri, non sapeva, è che la fascia da capitano Djordjevic l’aveva lasciata al diciottenne Robert Prosinecki, piede vellutato e temperamento da pub, che dì lì a poco sarebbe stato premiato come miglior giocatore della competizione, mentre Davor Suker arrivava secondo nella classifica marcatori.
La Jugoslavia si riscopre terreno fertile di campioni, si punta ad Italia ’90, questa selezione può eguagliare le gesta – per quanto in ultimo sfortunate – della Nazionale guidata da Dragan Dzajic negli anni ’60. A differenza di quegli anni però, sul Paese iniziano a spirare venti di guerra. Partono da lontano, la crisi economica pervade i Balcani, i diktat del Fondo Monetario internazionale preparano il terreno per una sorta di nazionalismo economico, che presto invaderà anche la scena politica. Il resto verrà da se.
(segue..)
La «guerra mondiale contro il terrorismo» ha ucciso almeno 1,3 milioni di civili. Traduciamo un articolo dal sito del quotidiano comunista francese L’Humanité . Nell’articolo si lamenta giustamente che l’informazione francofona ha ignorato questi dati impressionanti. Si può dire lo stesso per quella italiana.
Un rapporto pubblicato da un gruppo di medici insigniti del premio Nobel della pace rivela che quasi un milione di civili iracheni, 220.000 Afgani e 80.000 Pachistani sono morti, nel nome della battaglia condotta dall’Occidente contro «il terrore».
«Io credo che la percezione causata dalle perdite civili costituisca uno dei più pericolosi nemici con cui ci siamo confrontati», dichiarava nel giugno 2009 il generale statunitense Stanley McCrystal, durante il suo discorso inaugurale come comandate della Forza internazionale d’assistenza e sicurezza in Afghanistan (ISAF). Questa frase, messa in esergo al rapporto appena pubblicato dalla «Associazione internazionale dei medici per la prevenzione dalla guerra nucleare (IP-PNW), insignita del premio Nobel per la pace nel 1985, mostra l’importanza e l’impatto potenziale del lavoro effettuato da questa equipe di scienziati che tenta di stabilire un conto delle vittime civili della «guerra contro il terrorismo» in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan.
«I fatti sono cocciuti»
Per introdurre questo lavoro globalmente ignorato dai media francofoni, l’ex-coordinatore umanitario per l’ONU in Irak Hans von Sponeck scrive: «Le forze multinazionali dirette dagli Stati Uniti in Iraq, l’ISAF in Afghanistan (…) hanno metodicamente tenuto i conti delle proprie perdite. (…). Quelli che riguardano i combattenti nemici e i civili sono (al contrario) ufficialmente ignorati. Questo, certamente, non costituisce una sorpresa. Si tratta di un’omissione deliberata.» Contare questi morti avrebbe «distrutto gli argomenti secondo i quali la liberazione di un dittatore in Iraq per mezzo della forza militare, il fatto di cacciare Al Qaida dall’Afghanistan o di eliminare reparti terroristi nelle zone tribali del Pakistan, hanno permesso di impedire che il terrorismo attentasse al suolo statunitense, di migliorare la sicurezza globale, e permesso ai diritti umani di avanzare, il tutto con dei costi “difendibili”».
Ciononostante, «i fatti sono testardi», continua. «I governi e la società civile sanno che tutte queste frasi sono assurdamente false. Le battaglie militari sono state vinte in Iraq e in Afhanistan ma a dei costi enormi per la sicurezza degli uomini e la fiducia tra le nazioni.» Certo, la responsabilità dei morti civili incombe ugualmente sugli «squadroni della morte» e sul «settarismo» che portava i germi dell’attuale guerra sciito-sunnita, sottolinea l’ex segretario della Difesa Donald Rumsfeld nelle sue memorie («Know and Unknown», Penguin Books, 2011). Ma come ricorda il dottor Robert Gould (del Centro medico dell’università della California), uno degli autori del rapporto, «la volontà dei governi di nascondere il quadro completo degli interventi militari e delle guerra non ha nulla di nuovo. Riguarda gli Stati Uniti, la storia della guerra in Vietnam è emblematica. Il costo immenso per l’insieme dell’Asia del Sud-Est, che include la morte stimata di almeno 2 milioni di Vietnamiti non combattenti, e l’impatto a lungo termine sulla salute e l’ambiente degli erbicidi come l’agente arancio, non sono ancora pienamente riconosciuti dalla maggioranza del popolo americano». E Robert Gould stabilisce un altro parallelismo tra la crudeltà dei Khmer rossi, che emergono da una Cambogia devastata dai bombardanti, e la recente destabilizzazione «post-guerra» dell’Iraq e i suoi vicini, che ha reso possibile la crescita di forza del gruppo terroristico detto «Stato islamico».
TOTALE STIMATO A 3 MILIONI
Assai lontano dalle cifre fino a ora ammesse, come le 110000 morti ricordate da uno dei riferimenti in materia, l’«Iraq Body Count» (IBC) che include in un database i morti civili confermati da almeno due fonti giornalistiche, il rapporto conferma la tendenza stabilita dalla rivista medica «Lancet» la quale ha stimato il numero dei morti iracheni a 655.000 tra il 2003 e il 2006. Dopo lo scatenamento della guerra da parte di George W. Bush, lo studio del IPPN ha condotto alla cifra vertiginosa di 1 milione di morti civili in Iraq, 220.000 in Afghanistan e 80.000 in Pakistan. Se si aggiunge, per ciò che riguarda l’antica Mesopotamia, il bilancio della prima guerra del Golfo (200.000 morti) e quello del crudele embargo inflitto dagli Stati Uniti (tra i 500.000 e 1,7 milioni di morti), sono circa 3 milioni di morti che sono direttamente imputabili alle politiche occidentali, il tutto in nome dei diritti dell’uomo e della democrazia.
In conclusione al rapporto, gli autori citano il relatore speciale delle Nazioni Unite dal 2004 al 2010 sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrali: secondo Philip Alston, che si esprimeva nell’ottobre 2009, le indagini sulla realtà degli attacchi dei droni erano quasi impossibili da condurre, a causa dell’assenza totale di trasparenza e il rifiuto delle autorità statunitensi di cooperare. Poi, aggiungeva, dopo aver insistito sul carattere illegale in rapporto al diritto internazionale di questi omicidi mirati, che «la posizione degli Stati Uniti era insostenibile». Tre settimane più tardi, Barack Obama riceveva il premio Nobel alla pace…
DURANTE QUESTO TEMPO, IN IRAQ, IN AFGHANISTAN, IN PAKISTAN … Il 20 aprile scorso, la «coalizione antidjihadista» diretta dagli Stati Uniti indicava in un comunicato di aver condotto in 24 ore 36 raids aerei contro le posizioni del gruppo «Stato islamico», di cui 13 nella provicincia di Al-Anbar, a ovest di Bagdad. Quanti sono i «danni collaterali» civili in questa regione, una delle più colpite dalle violenze dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003? I comunicati militari restano sistematicamente muti su questa questione, quando più di 3200 «azioni» aeree, secondo la neolingua moderna, sono stati effettuate dal mese di agosto 2014 e la presa di Mossoul da parte dello «Stato islamico». Il 18 aprile, è un attentato suicida, «tecnica» di combattimento sconosciuta in Afghanistam prima del 11 settembre 2001, a fare 33 morti presso le frontiere pachistane. Alla fine del mese di marzo, le forze di sicurezza pachistane menzionavano 13 «jihadisti» legati ai talebani uccisi durante un attacco di droni statunitensi. Quasi 10.000 soldati americani sono ancora di stanza in Afghanistan.
traduzione di Stefano Acerbo
Un paio di anni fa, percorrendo il corteo alla ricerca della mia collocazione sotto le bandiere dell’Anpi, mi imbattei nel gruppo che rappresentava i combattenti della “brigata ebraica”, aggregata nel corso della seconda guerra mondiale alle truppe alleate del generale Alexander e impegnata nel conflitto contro le forze nazifasciste. Qualcuno dei componenti di quel drappello mi riconobbe e mi salutò cordialmente, ma uno di loro mi rivolse un invito sgradevole, mi disse: «Vieni qui con la tua gente». Io con un gesto gli feci capire che andavo più avanti a cercare le bandiere dell’Anpi che il 25 aprile è «la mia gente» perché io sono iscritto all’Anpi con il titolo di antifascista. Lui per tutta risposta mi apostrofò con queste parole: «Sì, sì, vai con i tuoi amici palestinesi».
Il tono sprezzante con cui pronunciò la parola palestinesi sottintendeva chiaramente «con i nemici del tuo popolo». Io gli risposi dandogli istintivamente del coglione e affrettai il passo lasciando che la sua risposta, sicuramente becera si disperdesse nell’allegro vociare dei manifestanti.
Questo episodio, apparentemente innocuo, mi fece scontrare con una realtà assai triste che si è insediata nelle comunità ebraiche.
I grandi valori universali dell’ebraismo sono stati progressivamente accantonati a favore di un nazionalismo israeliano acritico ed estremo. Un nazionalismo che identifica stato con governo.
Naturalmente non tutti gli ebrei delle comunità hanno imboccato questa deriva sciovinista, ma la parte maggioritaria, quella che alle elezioni conquista sempre il “governo” comunitario, fa dell’identificazione di ebrei e Israele il punto più qualificante del proprio programma al quale dedica la prevalenza delle sue energie.
Io ritengo inaccettabile questa ideologia nazionalista, in primis come essere umano perché il nazionalismo devasta il valore integro e universale della persona, poi come ebreo, perché nessun altro flagello ha provocato tanti lutti agli ebrei e alle minoranze in generale e da ultimo perché, come insegna il lascito morale di Vittorio Arrigoni, io non riconosco altra patria che non sia quella dei diseredati e dei giusti di tutta la terra.
L’ideologia nazionalista israeliana negli ultimi giorni ha fatto maturare uno dei suoi frutti tossici: la decisione presa dalla comunità ebraica di Roma, per il tramite del suo presidente Riccardo Pacifici, di non partecipare al corteo e alla manifestazione del prossimo 25 aprile. La ragione ufficiale è che nel corteo sfileranno bandiere palestinesi, vulnus inaccettabile per il presidente Pacifici, in quanto nel tempo della seconda guerra mondiale, il gran muftì di Gerusalemme Amin al Husseini, massima autorità religiosa sunnita in terra di Palestina fu alleato di Hitler, favorì la formazione di corpi paramilitari musulmani a fianco della Germania nazista e fu fiero oppositore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel territorio del mandato britannico. Mentre la brigata ebraica combatteva con gli alleati contro i nazifascisti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne destituito e arrestato: oggi vedendo una bandiera palestinese a chi viene in mente il gran muftì di allora? Praticamente a nessuno, se si eccettua qualche ultrà del sionismo più isterico o qualche fanatico modello Isis.
Oggi la bandiera palestinese parla a tutti i democratici di un popolo colonizzato, occupato, che subisce continue e incessanti vessazioni, che chiede di essere riconosciuto nella sua identità nazionale, che si batte per esistere contro la politica repressiva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più elementari ed essenziali. Un governo che lo umilia escogitando uno stillicidio di violenze psicologiche e fisiche e pseudo legali per rendere esausta e irrilevante la sua stessa esistenza.
Quella bandiera ha pieno diritto di sfilare il 25 aprile — com’è accaduto per decenni e senza polemica alcuna — e glielo garantisce il fatto di essere la bandiera di un popolo che chiede di essere riconosciuto, un popolo che lotta contro l’apartheid, contro l’oppressione, per liberarsi da un occupante, da una colonizzazione delle proprie legittime terre, legittime secondo la legalità internazionale, un popolo che vuole uscire di prigione o da una gabbia per garantire futuro ai propri figli e dignità alle proprie donne e ai propri vecchi, un popolo la cui gente muore combattendo armi alla mano contro i fanatici del sedicente Califfato islamico nel campo profughi di Yarmouk, nella martoriata Damasco.
E degli ebrei che si vogliono rappresentanti di quella brigata ebraica che combatté contro la barbarie nazifascista hanno problemi ad essere un corteo con quella bandiera? Allora siamo alla perversione del senso ultimo della Resistenza.
La verità è che quella del gran muftì di allora è solo un pretesto capzioso e strumentale. Il vero scopo del presidente Pacifici e di coloro che lo seguono — e addolora sapere che l’Aned condivide questa scelta -, è quello di servire pedissequamente la politica di Netanyahu, che consiste nello screditare chiunque sostenga le sacrosante rivendicazioni del popolo palestinese.
Per dare forza a questa propaganda è dunque necessario staccare la memoria della persecuzione antisemita dalle altre persecuzioni del nazifascismo e soprattutto dalla Resistenza espressa dalle forze della sinistra. È necessario discriminare fra vittima e vittima israelianizzando la Shoah e cortocircuitando la differenza fra ebreo d’Israele ed ebreo della Diaspora per proporre l’idea di un solo popolo non più tale per il suo legame libero e dialettico con la Torah, il Talmud e il pensiero ebraico, bensì un popolo tribalmente legato da una terra, da un governo e dalla forza militare.
Se come temo, questo è lo scopo ultimo dell’abbandono del fronte antifascista con il pretesto che accoglie la bandiera palestinese, la scelta non potrà che portare lacerazioni e sciagure, come è vocazione di ogni nazionalismo che non riconosce più il valore dell’altro, del tu, dello straniero come figura costitutiva dell’etica monoteista ma vede solo nemici da sottomettere con la forza.
Angelo d'Orsi
(10 aprile 2015)
Ad Auschwitz, uno dei monumenti più notevoli tra quelli dedicati alle varie comunità degli internati è il cosiddetto «Memoriale Italiano». Un paio di anni or sono le autorità polacche decisero di chiuderlo al pubblico, nel silenzio del governo italiano, e dell’Aned, in teoria proprietaria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrintendenza del campo, ormai museo, ha deciso di procedere alla rimozione del Memoriale. La sua colpa? Quella di ricordare che nei lager non furono soltanto deportati e sterminati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comunisti insieme a socialdemocratici e cattolici, gli omosessuali, i disabili. Quel Memoriale opera egregia, alla cui ideazione, su progetto dello studio BBPR (Banfi Belgiojoso Perussutti Rogers, il prestigioso collettivo milanese di cui faceva parte Ludovico Belgiojoso, già internato a Buchenwald) collaborarono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiuntivi, come l’accogliere fra le sue tante decorazioni e simbologie anche una falce e martello, e una immagine di Antonio Gramsci, icona di tutte le vittime del fascismo.
Ora, ai governanti polacchi, desiderosi di rimuovere il passato, disturbano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monumento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica relativa ad Auschwitz. Ed è grave che una città italiana, Firenze, si sia detta pronta ad accoglierlo. Contro questa scellerata iniziativa si sta tentando da tempo una mobilitazione culturale, che si spera possa avere un riscontro politico forte e oggi su questo si svolgerà nel Senato italiano una iniziativa di denuncia promossa da Gherush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spostare quel monumento dalla sua sede naturale, equivale a trasformarlo in mero oggetto decorativo, mentre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pensato, a ricordare, proprio là, dietro i cancelli del campo di sterminio, cosa fu il nazismo e il suo lucido progetto di annientamento, che, appunto, non concerneva solo gli ebrei, collocati in fondo alla gerarchia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giudicati essere «razze inferiori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comunisti in testa, o ancora gli «scarti» di umanità, secondo le oscene teorie degli «scienziati» di Hitler.
Insomma, la rimozione del Memoriale, è una rimozione della memoria e un’offesa alla storia. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comunità israelitiche italiane, che o hanno taciuto, o hanno approvato la rimozione del Memoriale (in attesa della sua sostituzione con un bel manufatto politicamente adattato ai tempi nuovi), appare grave.
E in qualche modo richiama le polemiche di questi giorni relative alla manifestazione romana del 25 aprile.
Premesso che la cosa «si svolgerà di sabato», e dunque, come ha pretestuosamente precisato il presidente della Comunità israelitica romana, gli ebrei non avrebbero comunque partecipato, la denuncia che «non si vogliono gli ebrei», è un rovesciamento della verità: non si vogliono i palestinesi. Ed è grave l’assenza annunciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è scatenata sull’assenza della «Brigata Ebraica». La quale ha le sue origini remote niente meno in Vladimir Jabotinsky, sionista estremista di destra con legami negli anni ’30 mai smentiti con Mussolini, che convinse le autorità britanniche, nella I guerra mondiale, a dar vita a una Legione ebraica.
Nel II conflitto mondiale, fu Churchill a lasciarsi convincere a organizzare un Jewish Brigade Group, inquadrato nell’esercito britannico: 5000 uomini che operarono in particolare nell’Italia centrale, contribuendo alla liberazione di Ravenna e di altri borghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glorie. Bene dunque celebrarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo eminente, come sembrerebbe a leggere certe dichiarazioni. Ma il fuoco mediatico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come storico ho il dovere di ricordarlo. Quei soldati divennero il nucleo iniziale delle milizie dell’Irgun e del Haganah — quelle che cacciarono i palestinesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neonato Stato di Israele, al quale offrirono anche la bandiera.
Si capisce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il martello. Ma quando leggo che il suo presidente afferma che «i palestinesi non c’entrano con lo spirito della manifestazione», mi vien voglia di chiedergli se gli amici di Netanyahu c’entrino di più. Altri hanno dichiarato in questi giorni che bisogna lasciar parlare solo chi ha fatto la guerra di liberazione; ma se così intanto andrebbero cacciati dai palchi tanti tromboni in cerca di applausi; e soprattutto se si adotta questa logica è evidente che tra poco non ci sarà più modo di festeggiare il 25 aprile, perché, ahimè, i partigiani saranno tutti scomparsi.
E allora — visto l’articolo 2 dello Statuto dell’Anpi che rivendica un profondo legame con i movimenti di liberazione nel mondo — come non dare spazio a chi oggi lotta per liberarsi da un regime oppressivo, discriminatorio come quello israeliano, rappresentato ora dal governo di destra di Netanyahu? Chi più dei palestinesi ha diritto oggi a reclamare la «liberazione»? E invece temo si vada verso questo (addirittura in queste ore in forse a Roma) e i prossimi 25 Aprile ingessati e reistituzionalizzati.
Andiamo per ordine.
Iniziamo col distinguere gli ebrei italiani che hanno partecipato alla guerra di liberazione nelle diverse formazioni partigiane sotto il Comitato di liberazione nazionale dagli ebrei arruolati nella brigata facente parte della 8° Armata britannica. Costoro provenivano tutti dalla Palestina mandataria britannica.
Un libro recente (La brigata ebraica, Soldiershop, novembre 2012) ripercorre nel dettaglio tutta la storia della brigata; uno degli autori, Samuel Rocca, ha prestato servizio nell’esercito israeliano. Il libro ricorda che nell’esercito britannico vi erano compagnie di arabi e di ebrei: miste nei Pionieri, divise nella Fanteria. Nel 1943 le compagnie formate da soli ebrei ottengono di potere usare la bandiera sionista, oltre quella della Palestina mandataria raffigurante al suo interno anche la bandiera inglese. La brigata ebraica che opera in Italia è costituita verso la fine della guerra, fine settembre 1944, e sino al marzo 1945 la sua attività si limita alla acquisizione di addestramento. Combatte tra marzo e aprile 1945 nelle zone di Ravenna e Brisighella. Viene smantellata nel 1946. Dal libro non emerge con chiarezza quale sia la sua bandiera ufficiale ed in particolare se la stella di Davide sia gialla come raffigurata in copertina o azzurra come sembrerebbe da un passo a pag. 50 ove si legge che : “ è l’attuale bandiera di Israele”.
A me sembra che poco importi il colore della stella e possiamo attenerci, per quel che qui interessa, alla definizione del libro che parla di “ bandiera sionista”.
In conclusione: la brigata ebraica usava la bandiera sionista e ha combattuto negli ultimi due mesi di guerra. Queste circostanze di fatto rendono plausibile una valutazione fatta in un altro libro ( “Relazioni pericolose”, di Faris Yahia, Città del sole), libro sui rapporti tra l’Agenzia ebraica, il nazismo e il fascismo. Afferma l’autore, pag. 84, che la brigata più che per combattere il nazifascismo fu costituita per supportare l’idea della entità nazionale ebraica ( quindi una operazione di propaganda) e per acquisire esperienza militare ( questo spiegherebbe la lunga fase di addestramento). Significativamente, finita la guerra e prima di essere smantellata, la brigata si occupò della organizzazione di flussi migratori verso la Palestina.
I membri della brigata andarono a formare il futuro esercito di Israele, unendosi ai colleghi provenienti dall’Haganà e dalle sue emanazioni: l’Irgun di Jabotinsky e poi di Begin e la banda Stern. Emanazioni queste piuttosto imbarazzanti: come è noto, le due organizzazioni sono responsabili di attacchi terroristici a obiettivi britannici, arabi ed…ebraici. Ricordiamo solo i più noti: l’esplosione sulla nave Patria nel 1940 ad opera dell’Haganà ( 202 ebrei uccisi); l’attentato all’hotel King David di Gerusalemme, sede del governo mandatario inglese, nel 1946 ad opera dell’Irgun con vittime inglesi, arabe ed ebree.
Per non dire della banda Stern, guidata dal fondatore Stern e poi da Shamir, banda che non ha disdegnato rapporti e accordi con i nazisti sino a giungere alla proposta di alleanza militare fatta all’Asse nel 1940/41.
La bandiera sionista ha quindi sempre sventolato senza soluzione di continuità dalla repressione ad opera di Haganà e britannici della rivolta araba del 1936/39, alla Nakba del 1947/48, alle guerre successive di Israele sino alle stragi di Gaza dei nostri giorni. Sventola sui carri armati mentre distruggono gli olivi, abbattono le case, occupano i campi profughi, affiancano i coloni; sventola sul muro di separazione e sui tetti delle colonie. Insomma, ha accompagnato e accompagna tutti i crimini sionisti.
Come possa, con queste credenziali, questa bandiera sventolare in un corteo antifascista col pretesto di un paio di mesi di operatività a fianco degli alleati non è dato capire.
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Restiamo nell’ambito della ricostruzione storica per parlare del Gran Muftì di Gerusalemme, evocato a pretesa dimostrazione della alleanza degli arabi con i nazisti.
Che cosa c’entra il Muftì ? all’evidenza nulla ma, si sa, quando scarseggiano gli argomenti ci si attacca a tutto. Come ha detto Moni Ovadia (Manifesto, 11/4): “ Richiamare il Gran Muftì è un pretesto capzioso e strumentale”. La propaganda e la mistificazione storica sionista ci hanno però abituato a tutto.
Il Muftì Amin Husseini cercava, comprensibilmente vista la situazione in Palestina, alleati contro i sionisti e i britannici. Scrive lo storico francese Henry Laurens, riportato da “Palestina”, AA.VV., Zambon ed.,pag.44: ” Husseini era convinto che il fine ( dei sionisti, NDR) fosse quello di espellere gli arabi dalla Palestina e impadronirsi della Spianata delle moschee per costruirvi il Terzo Tempio”. Non fu antisemita ma antisionista. Disse a Hitler che gli parlava del complotto giudaico mondiale e della necessità di combattere gli ebrei: “ Noi arabi pensiamo che è il sionismo all’origine di tutti questi sabotaggi e non gli ebrei”.
Col senno di poi, non si può dire che Husseini si sia sbagliato, né sulla volontà sionista di espellere tutti gli arabi né sui progetti per la Spianata. Certo, la frequentazione di Hitler non è commendevole ma da quale pulpito viene la predica, dopo quello che si è detto sulla banda Stern, con quello che si sa sulle simpatie di Jabotinsky e tutto quello che rivela il libro “ Relazioni pericolose”?
Vogliamo parlare dell’accordo della Ha’avarah per il trasferimento di capitali ebraici in Palestina nel 1933 o dell’accordo del 1938 sulla emigrazione ( ispirato a criteri non propriamente umanitari visto che l’Agenzia ebraica sceglieva gli ebrei da mandare in Palestina in base a censo, età e affidabilità ideologica)? O anche dello sterminio di migliaia di ebrei ungheresi nel 1944 in cambio della salvezza di 600 notabili sionisti ( accordo tra l’ebreo Kastner e il sig. Eichmann). O, per restare in casa nostra, che dire del gruppo fascista ebraico di Ettore Ovazza “ La nostra bandiera” nel 1935? ( per un approfondimento di questi temi, Yahia, op.cit.).
Almeno il Gran Muftì aveva le sue motivazioni politiche e religiose e seguiva la regola per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, regola discutibile ma ampiamente osservata soprattutto in quegli anni: si pensi ai Finlandesi pro-nazisti in funzione antisovietica o alle condoglianze espresse dal primo ministro irlandese all’ambasciata tedesca il giorno dopo la morte di Hitler in funzione antiinglese.
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Coloro che vorrebbero screditare i Palestinesi usando il Gran Muftì si guardano bene dal ricordare l’ampia partecipazione dei Palestinesi alla lotta al nazifascismo, arruolati anche loro come volontari nell’esercito inglese. Il Dossier del Colonial Office n.537/1819, in 34 pagine fornisce i dati relativi al reclutamento dei Palestinesi nelle Forze britanniche in Medio Oriente. Nelle pagine 13 e 14 si legge che l’epoca di arruolamento va dal 1° settembre 1939 al 31/12/1945; in questo periodo furono aggregati all’esercito inglese 12.446 Palestinesi di cui 148 donne; per l’esattezza 83 nella marina e gli altri nell’esercito. A pag. 16 si riportano le perdite: 701.
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Per quanto riguarda le bandiere palestinesi e la legittimazione della loro presenza nel corteo non occorrono molte parole. Basta rileggersi, come giustamente ricordato da Angelo D’Orsi ( Manifesto, 9/4), l’art. 2 dello Statuto dell’ANPI che prevede l’obbligo di appoggiare tutti coloro che si battono per la libertà e la democrazia. E quale movimento di liberazione e di resistenza ha oggi più legittimazione di quello palestinese sul piano giuridico, politico, storico ed etico?
E’ un caso che protagonisti della rivolta del ghetto di Varsavia si siano pronunciati contro l’occupazione ( ad esempio Chavka Fulman Raban) o addirittura abbiano espresso solidarietà ai combattenti palestinesi, come il vicecomandante Marek Edelman nella lettera alla Resistenza palestinese del 10/8/2002? Debbo ricordare che Stephane Hessel nel suo “Indignatevi” ha dedicato un intero capitolo proprio alla sua principale indignazione: l’occupazione della Palestina?
Non da ultimo, è anche il caso di ricordare il contributo di sangue palestinese versato nella guerra contro il nazifascismo, nonostante l’oppressione subita ad opera degli Inglesi nella fase mandataria.
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Ed allora? Sembra che il PD offra ospitalità alla brigata. Qualcuno si stupisce? Le simpatie sioniste del partito sono dichiarate. Ed è in buona compagnia: nel 2013 fu la destra a sfilare dietro la bandiera della brigata, si veda il “lamento” di Gad Lerner in “ Gli abusatori della brigata ebraica”. Chi oggi, in campo sionista, continua a parlare della soluzione “Due popoli due Stati” sa di essere favorevole in realtà alla soluzione di un unico Stato, non quello democratico binazionale, auspicato da una parte del movimento di solidarietà con la Palestina, ma quello di Israele, etnico, confessionale e razzista. Netanyahu ha detto chiaro ai primi di marzo: “ Non ci sarà mai uno stato palestinese”. Chi è così ingenuo da credere che la sua sia stata solo una boutade elettorale?
Che dire dell’ANED? A Roma ha chiesto l’allontanamento delle bandiere palestinesi e questo dopo avere assistito passivamente allo smantellamento del proprio memoriale ad Auschwitz, colpevole di raffigurare Gramsci e di ricordare anche le vittime diverse dagli ebrei.
Mi interessa di più l’ANPI. Nel 2006 l’ANPI ha aperto le iscrizioni agli antifascisti: forti della memoria, ci si apriva all’attualità, in linea col motto “Ora e sempre Resistenza”. Il Presidente Smuraglia nel 2012, rispondendo all’ennesimo appello di iscritti ANPI per una presa di posizione chiara sulla Palestina ha scritto:” La manifestazione del 25 Aprile non può che essere aperta a tutti e dunque non accoglie questo o quello ma si limita a prendere atto delle presenze, spesso assai variegate, ma che devono condividere i temi fondamentali del 25 Aprile.
Questo è il punto!! La condivisione dei valori della Resistenza. Quali?
- La pace e il ripudio della guerra, valore contraddetto dalla storia di Israele, dalle stragi periodiche a Gaza e dallo stillicidio di uccisi quotidiani nella West Bank
- La libertà, valore contraddetto dai milioni di profughi palestinesi, dalle migliaia di prigionieri, dal muro, dalle centinaia di check points, dalla realtà di Gaza
- L’uguaglianza, valore contraddetto dalla pretesa di Israele di essere uno stato etnico/confessionale riservato ai solo ebrei e dalle discriminazioni ai danni dei Palestinesi con cittadinanza israeliana
- La giustizia, valore contraddetto dalle continue violazioni delle risoluzioni dell’ONU, dalla indifferenza dinanzi alle denunce di crimini di guerra e crimini contro l’umanità della Corte di giustizia de L’Aja e della Commissione per i diritti umani dell’ONU; per non dire, a livello interno, dei processi farsa contro i Palestinesi e della impunità dei crimini di soldati e coloni
- Il valore della resistenza e della autodifesa, riconosciuto dallo Statuto dell’ONU e negato dalla pulizia etnica in corso.
Chi non riconosce questi valori non può stare nel corteo.
Per questi motivi noi nel corteo ci saremo, con le bandiere palestinesi e con lo striscione con la frase di Nelson Mandela che ricorda che non c’è libertà senza la libertà della Palestina; grideremo forte il nostro “NO” alla bandiera sionista che mortifica la manifestazione e i valori che il 25 Aprile rappresenta.
16 Aprile 2015
Ugo Giannangeli
di Andrea Catone – Editoriale per il nuovo numero della rivista MarxVentuno
http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/25451-a-70-anni-dalla-liberazione.html
MicroMega 3/2015 - Almanacco di storia: "Ora e sempre Resistenza" - Dal 23 aprile in edicola, libreria, ebook e iPad
Sergio Mattarella - La Resistenza rivolta morale, rivolta in armi contro il fascismo contro il conformismo
Il saluto e l’augurio del Presidente della Repubblica alla rivista e ai lettori per questo numero monografico dedicato a ‘Ora e sempre Resistenza’.
SAGGIO 1
Angelo d’Orsi - Mito e antimito della Resistenza
Dalle riletture storiografiche di De Felice al revisionismo più compiuto dei giorni d’oggi, assistiamo nel giudizio egemone corrente ad un vero e proprio rovesciamento della realtà a proposito della Resistenza, additata come un insieme di azioni inutili e controproducenti, e alla contemporanea riabilitazione del fascismo. Ma soltanto rispolverando lo spirito della Resistenza antifascista – come elemento basilare e irrinunciabile della identità italiana – possiamo difendere i diritti sociali e il valore della Costituzione repubblicana.
A PIÙ VOCI - Dieci risposte sulla Resistenza
card. Gualtiero Bassetti / Lorenza Carlassare / Gianroberto Casaleggio / Sandrone Dazieri / Giancarlo De Cataldo / Maurizio de Giovanni / Erri De Luca / Loriano Macchiavelli / Ezio Mauro / Moni Ovadia / Giovanni Ricciardi / Corrado Stajano / Valerio Varesi / Marco Vichi / Gustavo Zagrebelsky
Perché la Resistenza non è diventata l’unica possibile ‘memoria condivisa’ su cui costruire l’identità italiana? Come è possibile che la storiografia revisionista abbia avuto da noi tale diffusione? Qual è il lascito della Resistenza? Ha senso parlare di ‘tradimento’ della Resistenza? Sono alcune delle domande che a settant’anni dalla Liberazione MicroMega ha rivolto ad alcuni esponenti del mondo della cultura, della letteratura, della filosofia, del diritto, della religione.
ICEBERG 1 - storia e interpretazione
Franco Cordero - Etica d’una guerra partigiana
Fascismo e Resistenza non rappresentano solo due momenti storici, ma costituiscono due ‘antropologie’ radicalmente agli antipodi, divise da un’alterità incolmabile. Purtroppo, però, mentre l’antropologia fascista sembra parte integrante del corredo ‘genetico’ degli italiani, lo ‘spirito della Resistenza’ – che impone capacità critica, libertà di pensiero, autonomia – è stato un’anomalia per il nostro paese. Che non a caso, infatti, l’ha sostanzialmente lasciato cadere nell’oblio.
Luciano Canfora - Per una storia scientifica della ‘guerra di liberazione’
A partire almeno dal 1990 – quando Bobbio rilancia in un famoso articolo la tesi di Pavone sulle ‘tre guerre’ della Resistenza – si fa strada una vulgata secondo la quale durante la Resistenza i comunisti combattevano, oltre alla guerra di liberazione, anche una ‘guerra di classe’. Ma basta scorrere gli organi della stampa clandestina comunista di allora per rendersi conto che le cose stavano esattamente al contrario. Come dimostrano del resto anche gli aspri rapporti tra il Pci e alcune frange più estremiste, che quella ‘guerra di classe’ (che, se combattuta, avrebbe portato a una tragica soluzione ‘alla greca’) invece volevano scatenarla per davvero.
Marco Albeltaro - Resistenza e normalizzazione
Il processo di normalizzazione – teso a quietare sul nascere le spinte innovatrici incubate nella Resistenza – inizia subito dopo la Liberazione. Con la caduta del governo Parri, cade anche la speranza di un cambiamento profondo dell’Italia e inizia la retorica dell’unità nazionale, sfruttata per far passare in secondo piano le differenze non tanto politiche, ma esistenziali, fra fascismo e antifascismo.
Paolo Borgna - La ‘meglio gioventù’: la Resistenza degli ‘azionisti’
Leggendo i loro diari, le loro lettere, colpisce soprattutto la lucidità del loro sguardo, la capacità di vedere in anticipo le conseguenze della storia che si stava consumando davanti ai loro occhi. La lotta armata, alla quale molti aderenti al Partito d’Azione prendono poi parte, è l’esito di una preparazione morale, intellettuale, politica maturata negli anni, che attendeva solo il momento propizio per liberare l’Italia. Il futuro di minoritarismo a cui è destinato il Pd’A è inversamente proporzionale al prezioso contributo – di idee e di sangue – che i suoi aderenti diedero alla Resistenza italiana.
Valerio Romitelli - Partigiani e qualunquisti
La storia dell’Italia repubblicana è stata possibile esclusivamente grazie alla Resistenza. Questo semplice fatto dovrebbe bastare a fare dell’esperienza partigiana una premessa indiscussa e indiscutibile dell’attuale identità italiana. E invece fin dai primi anni del dopoguerra – con il successo del movimento qualunquista di Giannini – comincia a serpeggiare un atteggiamento scettico, quando non di aperta condanna. Atteggiamento che ha sempre trovato una sponda in quella ‘maggioranza silenziosa’ desiderosa solo di tornare al quieto vivere dopo le devastazioni della guerra.
Pierfranco Pellizzetti - La grande dissipazione del ’45
Di ‘Resistenza tradita’ si parla spesso in riferimento alla cosiddetta Prima repubblica. Ma è già con la ‘svolta di Salerno’ – aprile 1944 – che quel tradimento si consuma. Tradimento ai danni dei giovanissimi partigiani che combattevano sulle montagne – di molti dei quali non conosciamo neanche i nomi – che la nomenklatura dei partiti (Pci in testa) ha voluto subito normalizzare. Un tradimento dell’ethos resistenziale che costituisce il peccato originale su cui si costruirà la futura Repubblica.
Alberto Asor Rosa - Lo spirito della Resistenza nella Costituzione
La Resistenza fu in Italia allo stesso tempo lotta di liberazione nazionale contro l’occupante tedesco e lotta contro il regime fascista. Questa doppia natura la carica di valori fondativi della successiva Repubblica, aspetto che è difficile trovare altrove. Si tratta pertanto di un colossale spartiacque per la storia italiana. Purtroppo questa consapevolezza non è ancora diventata patrimonio universale. E di strada ne abbiamo ancora parecchia.
Alessandro Portelli - L’eroismo e l’eccidio
Una contronarrazione revisionista cerca da tempo di trasformare un atto eroico dei partigiani in un agguato terroristico, responsabile tra l’altro della successiva strage delle Fosse Ardeatine. Questo testo esamina le tante menzogne su via Rasella, ribadendo alcune inconfutabili verità storiche su quel che è stato un gesto compiuto per la libertà. Un attacco gappista che la stessa Cassazione ha considerato ‘legittima azione di guerra” contro gli occupanti nazisti.
SAGGIO 2
Roberto Scarpinato - Resistenza, Costituzione e identità nazionale: una storia di minoranze?
“La lezione della storia dimostra come le minoranze progressiste in Italia abbiano sempre avuto vita difficile. Condannate nel corso dei secoli al rogo, al carcere, all’abiura, all’esilio e, nel migliore dei casi, al silenzio e all’irrilevanza sociale, hanno svolto un ruolo spesso determinante per l’evoluzione del paese, ma solo grazie a temporanee crisi di potere delle maggioranze e a contingenti circostanze favorevoli”. Così è stato anche per la Resistenza, che ci ha lasciato una preziosissima eredità, la Costituzione, oggi più che mai sotto assedio.
ICEBERG 2 - storie resistenti
Andrea Martocchia - Il Territorio Libero di Cascia
Nella pubblicistica del partigianato e nella storiografia resistenziale viene generalmente omesso. Eppure il Territorio Libero di Cascia – esperienza sorta nella Valnerina umbra tra il febbraio e il marzo 1944 – merita un approfondimento. Oltre al fatto di essere precedente a molte altre esperienze di autogoverno dei partigiani, quella di Cascia ebbe infatti una rilevanza politico-sociale irripetibile, trattandosi di uno dei pochi casi in cui l’Italia rurale si incontrava con la componente operaia e quella straniera, rappresentata dai partigiani jugoslavi.
David Broder - I partigiani che volevano fare la rivoluzione
Nato a Roma nel 1942 come ‘La Scintilla’, il Movimento comunista d’Italia, meglio conosciuto col nome del suo giornale Bandiera Rossa, sarebbe diventato nei mesi dell’occupazione nazista della capitale la principale spina nel fianco di tedeschi e fascisti, militarmente superiore anche alle formazioni partigiane animate dal Pci. Proprio con quest’ultimo e con la sua linea politica di unità nazionale, tuttavia, il gruppo si sarebbe infine scontrato, dovendo rinunciare al proprio obiettivo di trasformare la Resistenza in rivoluzione sociale.
Mirco Dondi - Regolamenti di conti e violenze nel dopo Liberazione
I giorni successivi alla Liberazione sono caratterizzati, ovunque in Europa, da un desiderio di giustizia che si traduce spesso in violenze fuori controllo, perpetrate sia dalle formazioni partigiane sia, soprattutto, dai civili, la cui ira è più imprevedibile e difficilmente arginabile. Se non ci fosse stata la guerra fredda, la violenza successiva alla Liberazione sarebbe entrata nell’ordinaria tragicità di una guerra che si sconta, anche, nel dopoguerra. Con la guerra fredda invece cambia la percezione del fenomeno, che assume nuovi e distorti significati, tesi a delegittimare il nuovo nemico comunista.
Francesco Giliani - Cgl rossa e lotta di classe al Sud (1943-44)
La ‘Cgl rossa’, rinata a Napoli nell’ottobre del 1943 e diretta, fra gli altri, da comunisti ‘dissidenti’ come Enrico Russo e Nicola Di Bartolomeo, fu per alcuni mesi e fino allo scioglimento avvenuto nell’agosto del 1944 la principale confederazione sindacale nel Sud Italia liberato dagli alleati. Attestandosi però su una linea ‘classe contro classe’ ansiosa di trasformare la lotta partigiana in rivoluzione sociale, essa sarebbe presto entrata in rotta di collisione con il Pci togliattiano e con l’‘unità nazionale’ sancita dalla svolta di Salerno, perdendo infine la lotta per l’egemonia ingaggiata con la Cgil unitaria creata dal Patto di Roma.
Guido Caldiron - La mancata Norimberga italiana
Dopo il 25 aprile 1945 la gran parte dei criminali di guerra del nostro paese non pagò per le proprie responsabilità, mentre il fallimento dell’epurazione e le amnistie restituirono rapidamente potere e libertà ai protagonisti del Ventennio e ai repubblichini, aprendo la strada alla riorganizzazione politica degli sconfitti della seconda guerra mondiale. I casi emblematici di Graziani e Borghese.
MEMORIE
Boris Pahor - Il contributo della Resistenza slovena
Il regime fascista – odioso in ogni sua manifestazione – nelle regioni dell’Istria e della Dalmazia ha assunto anche il volto della violenta occupazione straniera che pretendeva di cancellare ogni traccia di culture e lingue con grandi tradizioni. Per questo in quei territori la liberazione dal nazifascismo è stata anche guerra di liberazione nazionale. Uno dei suoi protagonisti, esponente di spicco della cultura slovena, oggi alla soglia dei 102 anni, ricorda i momenti più significativi di quel periodo.
Tina Costa - Io, giovane staffetta partigiana
“Fin da piccola mi avevano abituato a non chinare la testa e a 7 anni feci la mia prima azione di rivolta contro il fascismo quando mi rifiutai di indossare la divisa da ‘figlie della Lupa’. A neanche 18 diventai una staffetta partigiana: con la mia bicicletta dovevo attraversare la Linea Gotica e consegnare delle borse ai combattenti che si trovavano nel territorio occupato dai nazisti. Rischiai anche la vita ma rifarei tutto”.
Bruno Segre - Io, avvocato, partigiano di ‘Giustizia e libertà’
Gli anni del carcere, le rocambolesche fughe, le amicizie, i due fortuiti incontri con Umberto di Savoia, le battaglie. Il ricordo degli anni dal ’42 al ’44 di un antifascista della prima ora, partigiano di Giustizia e libertà, e successivamente protagonista di tante battaglie per i diritti civili nell’Italia repubblicana – dall’obiezione di coscienza al servizio militare al divorzio. Che si dice convinto: “Lo spirito della Resistenza vive e vivrà sempre”.
Massimo Ottolenghi - Ricordi di un ‘gagno’ di ‘Giustizia e Libertà’
L’antifascismo di Massimo Ottolenghi, nato nel 1915, comincia in realtà ben prima della guerra. Dalla distribuzione dei volantini fatti pervenire a casa della nonna come involucri per il miele, passando per la diffusione della stampa proibita fra i professori universitari torinesi sul tram numero 1 di Torino, fino alla lotta partigiana vera e propria condotta nella Valle di Lanzo, un unico filo lega diverse avventure ed esperienze: il filo dell’impegno per la giustizia e la libertà. Raccontando qui quella esperienza, Ottolenghi considera la mancata epurazione incubatrice dell’evoluzione che ancora perdura.
Luigi Fiori - Fra Diavolo, partigiano borghese
Cresciuto nella bambagia, in una famiglia dell’alta borghesia, voleva fare lo scultore e mai si sarebbe sognato che sarebbe diventato uno dei simboli della Resistenza. È stato l’incontro con gli altri soldati al fronte che ha iniziato ad aprirgli gli occhi su un regime che fino ad allora aveva accettato, un po’ per inerzia e un po’ per ignoranza. E dopo l’8 settembre diventa il famoso Fra Diavolo, giungendo al comando di una brigata.
Giorgio Mori - Storia di un partigiano migrante. Dalle cave di Carrara alle miniere del Belgio alla delusione per l’Italia di oggi
Da soldato in Africa, dove ha incontrato per la prima volta la ferocia della guerra, a partigiano nelle cave di Carrara, dove ha sperimentato la durezza della Resistenza. E non meno difficile è stato per Giorgio Mori il dopoguerra: rimasto senza lavoro per via della sua attività sindacale, dovette emigrare in Belgio dove lavorò nelle miniere. Oggi la sua vita è dedicata a diffondere tra i giovani la conoscenza della guerra di liberazione e i valori a cui essa si ispirava.
Laura Seghettini - La maestra col fucile
Il ruolo delle donne nella Resistenza è stato spesso sottovalutato. Eppure le partigiane furono tante: molte facevano le staffette, portando viveri, armi e messaggi ai combattenti, altre hanno anche imbracciato il fucile, come racconta qui Laura Seghettini che si unì al battaglione Picelli. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente e che le ha insegnato i valori della democrazia e della socialità, ai quali ha improntato il resto della sua vita.
Giuliano Montaldo - Il mio cinema partigiano
Da "Achtung! Banditi!" con Carlo Lizzani a "L’Agnese va a morire" e "Il tiro al piccione", un grande Maestro del cinema italiano – che coi suoi film ha trasmesso quello “spirito della Resistenza che ancora mi appartiene” – racconta aneddoti e storie della sua vita: “La Dc osteggiò i miei lavori e l’egemonia della leadership nella Resistenza, tutta nordica, escluse il Sud”.
Enzo Pellegrin
16/04/2015
"Quanto compiuto dalle forze dell' ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 «deve essere qualificato come tortura». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. In particolare è stato violato l'articolo 3 su «divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti». Il dispositivo è impietoso: «Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata». E ancora: «La polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura» (Corriere della Sera, cronache, 15 aprile 2007, www.corriere.it)
Nel pur drogato mondo dell'informazione italiana, col passare del tempo e dei processi, il massacro della Scuola Diaz a Genova 2001 è assurto a simbolo dell'abuso delle Forze dell'Ordine. Diaz in Italia come Rodney King negli USA. Sebbene la burocratica ed autoreferenziale giustizia italiana abbia irrogato nei confronti del potere pene tutt'altro che adeguate alla gravità dei fatti, condanne ce ne sono state. Tuttavia, da ultimo ci si è messa anche la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, la quale ha sciorinato il tagliente, ma adeguato, giudizio sopra descritto.
Di diversa opinione il Sig. Fabio Tortosa, polizotto, dipendente del Ministero degli Interni, il quale ha commentato la pronuncia di Strasburgo sul social network Facebook affermando in un "post" di essere stato un componente dell'80mo nucleo attivo quella notte nella scuola genovese e che alla Diaz ancora oggi "ci rientrerebbe mille e mille volte". Nelle diverse pagine di conversazioni e commenti, il poliziotto si esprime definendo i manifestanti "zecche" e chiarendo la sua opinione su Carlo Giuliani, manifestante ucciso durante gli scontri di Piazza Alimonda: "Non ci sono mezze misure. O si sta con quella merda di Giuliani, o si sta con quelli che a Giuliani gli fanno saltare la testa..."
Di fronte alle gravi accuse di aver permesso fatti di tortura e di aver ostacolato l'identificazione dei responsabili, un governo che in qualche modo debba fronteggiare il consenso dell'opnione pubblica non può non avere un nervo scoperto su questo tema. Se un dipendente del Ministero degli Interni come Fabio Tortosa commette l'errore di scoprire le carte e rivendicare pubblicamente con orgoglio le malefatte della Scuola Diaz, non possono non fioccare provvedimenti, quantomeno per l'imbarazzo che il maldestro dipendente ha creato.
Purtuttavia, un serio esecutivo che si volesse ispirato dai minimi valori democratici dimenticati nel sepolcro cartaceo della Costituzione, non si sarebbe limitato ad un banale provvedimento di sospensione, ma avrebbe recapitato l'immediato e meritato licenziamento in tronco al Sig. Fabio Tortosa, spiegandogli che nelle forze dell'ordine non può aver cittadinanza chi pensa che l'oppositore è un nemico da uccidere, una "zecca" da eliminare.
Un governo con la serietà di cui sopra avrebbe commissionato una seria inchiesta interna per scoprire quanti Fabio Tortosa albergano nelle questure, nei commissariati e nelle caserme italiane. A volte basta farsi un giro negli uffici e notare se sulle pareti sono appesi quei calendarietti con l'immagine del maestro di Predappio.
Un governo serio e costituzionale non ammette nelle forze dello stato soggetti ispirati dalla violazione dei principi costituzionali ed in particolare dal fare carta straccia della XII disposizione transitoria.
Stiamo parlando però del governo che lascia al vertice di Finmeccanica De Gennaro e gli "conferma piena fiducia". Lo stesso De Gennaro - imputato uscito indenne dai processi genovesi, ma comunque capo della polizia ai tempi della Diaz - che in Finmeccanica stipula un lauto contratto di consulente della sicurezza a Gennaro Caldarozzi, ex capo, ai tempi di Genova 2001 - come ricorda il Secolo XIX - dello SCO (Servizio Centrale Operativo), condannato e interdetto per cinque anni dai pubblici uffici dopo il processo sull'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001.
Questo il governo che avremo in carica il prossimo 25 aprile, i cui rappresentanti vorranno forse intervenire alle commemorazioni della Resistenza.
Eppure, merita ricordare che l'inclusione nelle forze dell'ordine dello Stato di elementi che non hanno mai condiviso nè i valori resistenziali, nè quelli democratici, è iniziata fn dai primissimi giorni dopo la liberazione e si è protratta anche dopo la nascita della Carta Costituzionale Repubblicana.
Sin dai primi momenti successivi all'insurrezione partigiana nel nord Italia e alla liberazione, l'Italia divenne per gli "alleati" americani terra di conquista e di grande attività per i loro servizi segreti, all'epoca denominati OSS (1).
Questa organizzazione "agì in tutti i settori per agglomerare forze anticomuniste"(2), a cominciare da quegli industriali che lucrarono ingenti profitti proprio grazie al regime fascista: il 16 e 17 giugno 1945 si riuniscono a Torino sotto la guida di Piero Pirelli, Rocco, Armando ed Enrico Piaggio, Costa, Falck e Valletta per programmare una "accelerazione della lotta al comunismo" anche con l'organizzazione di gruppi armati (3).
L'OSS si adoperò inoltre per creare una rete di organizzazioni politiche di ispirazione nettamente fascista sotto le sigle più disparate, come Fronte Moderato, Giovine Italia, Partito Nazionale Popolare ed altri, proprio con lo scopo di "arginare la demoralizzazione che la sconfitta aveva generato nei ranghi dei sostenitori del fascismo e di riflesso rincuorare la piccola e media borghesia italiana", fondamentale si rivelava però l'attenzione a "preservare gli ambienti militari italiani da contaminazioni democraticistiche" (4) inglobando all'interno di forze armate, apparati statali, polizia soggetti che avevano avuto ruoli di primo piano all'interno del regime, soprattutto quando la loro futura azione avrebbe potuto tornare utile e conicidere con gli interessi americani.
Per esempio, quando, alla fine del secondo conflitto mondiale, la Jugoslavia venne a trovarsi al centro degli interessi militari e strategici americani, ostili alla rivoluzione di Tito, i servizi USA manovrarono gli apparati nella nascente democrazia italiana nuovamente in funzione e direzione anti-jugoslava. Per far ciò, sentirono la necessità di impiegare quelli che furono attori di primo piano nella politica di conquista del fascismo verso i balcani: "già nel settembre 1945, cinque mesi soltanto dopo la fine della guerra, una circolare del comando italiano raccomandava che gli elementi di «provati sentimenti antislavi», anche se fascisti, fossero mantenuti o riammessi in servizio" (5).
Un esempio fulgido di questa politica fu il ripescaggio del generale Giuseppe Pieche, rimasto in Croazia a fianco di Ante Pavelic fino al crollo del regime il 25 luglio 1943. Alla fine della guerra fu assunto al Ministero degli Interni come "direttore del servizio antincendi". Da quell'ufficio di copertura, in coordinamento con i servizi segreti statunitensi, organizzò clandestinamente gruppi terroristici neofascisti ed altri gruppi armati neri come il Movimento Anticomunista per la Ricostruzione Italiana, il Gruppo d'azione Fascista, il Fronte Antibolscevico, le Squadre d'Azione Mussolini, i Cadetti della Violenza ed altri gruppi similari che ponevano in essere azioni di provocazione secondo le direttive dei servizi segreti americani (6).
Dagli albori del 1945 ad oggi, le strutture dello Stato sono passate attraverso i sentieri dell'organizzazione Gladio, dei vari tentativi di colpo di stato che hanno visto coinvolti appartenenti alle forze armate, delle azioni di depistaggio condotte in relazione ad atti di strage, eventi storici sui quali si sono scritti fiumi di parole.
La questione della democrazia all'interno delle Forze dell'Ordine come degli apparati militari è pertanto dipendente dai rapporti di forza dello scenario geopolitico, più che dal maggiore o minore zelo costituzionale dei governi. De Gennaro saldo in poltrona a fianco del Tortosa sospeso sono la cartina di tornasole degli stessi rapporti. La campagna di ritorsione e pulizia condotta a margine dello sciagurato intervento di Tortosa contro tutti i piccoli pesci dello stagno poliziesco che hanno osato mettere un "mi piace" sulla conversazione "facebook" avrà un'inevitabile argine in quegli stessi rapporti di forza. Quei rapporti di forza che hanno permesso, negli anni repubblicani, di svuotare, procrastinare, cancellare l'applicazione dei principi di progresso contenuti nella Carta Costituzionale della Penisola, sino a farla diventare oggi una vuota crisalide, sino ad imporre il giogo del pareggio di bilancio come diga all'attuazione dei diritti sociali scomodi ai monopoli finanziari ed industriali.
A noi resta il bisogno di macerarci nei fatti del presente, oltre che in quelli del passato. Il prossimo 25 aprile è quindi bene ricordare cosa fa il governo e cosa fanno i rapporti di forza. La Resistenza, attaccata, svillaneggiata e tradita, sopravvive forte lontano dal potere, nei luoghi in cui ogni proletario soffre e subisce sfruttamento, vive nei cuori di migliaia di Giovani e di Lavoratori che mantengono salda e continua la loro lotta, ora, come allora, ed in tutti quei momenti della nostra storia repubblicana, in cui lo stivale borghese o quello dei suoi servi si sono calati sul popolo.
La Resistenza vive nei figli e nipoti della stessa rabbia. E' bene ricordarlo, il 25 aprile.
Note:
1. L'Office of Strategic Services (OSS) era un servizio segreto statunitense operante nel periodo della seconda guerra mondiale. Fu il precursore della Central Intelligence Agency (CIA). Fu istituito nel giugno 1942 con lo scopo di coordinare la gestione della raccolta di intelligence militare a livello centrale, assumendo in ciò un ruolo sovraordinato ad ogni altra analoga struttura già esistente nelle forze armate americane (ogni forza aveva infatti, e tuttora possiede, un proprio servizio di intelligence), in particolare per quanto concerneva le operazioni oltre le linee nemiche, venendo poi sciolto nel 1945 (Wikipedia, voce OSS)
2. F. GAJA, Il secolo corto, la filosofia del bombardamento, la storia da riscrivere, Maquis, Milano, 1994, p. 167.
2. R. FAENZA e M. FINI, Gli americani in Italia, Milano, 1976, p. 147 cit. in F. GAJA, op. cit., p. 167.
3. F. GAJA, op. cit., p. 167.
4. F. GAJA, op. cit., p. 168.
5. R. FAENZA e M. FINI, op cit., p. 168,169.
Fonte: pagina FB "Con l'Ucraina antifascista", 8/12/2014
https://www.facebook.com/ucrainaantifascista/photos/np.102833405.1137191587/736141343133789/
Dal Ministero della Propaganda di goebbelsiana memoria al "Ministero delle Politiche dell'Informazione" creato da Poroshenko.
Poco si sa di questo nuovo organo: è noto che si tratta di una sorta di "one man Ministry", affidato da Poroshenko al giornalista-politico Juryj Stets (5 Canale, Poroshenko è il padrino di battesimo di suo figlio) e che lo scopo è "contrastare la propaganda russa" - cosa non difficile, visto che la giunta blocca la tv russa, ha chiuso una ventina di testate giornalistiche ucraine, chiude i siti web d'opposizione e fa arrestare blogger e giornalisti.
https://www.facebook.com/ucrainaantifascista/photos/np.105372834.1137191587/764491110298812/
Il Servizio di Sicurezza d'Ucraina ha espulso dal paese 88 giornalisti russi. Lo ha reso noto oggi il portavoce Markiyan Lubkovskij.
"88 di quelli (propagandisti) sono stati cacciati, fino a oggi, dall'Ucraina", ha affermato Lubkovsky al canale televisivo Channel 5 (emittente controllata da holding facente capo a Poroshenko).
Otto invece ci risultano essere i giornalisti russi ammazzati in Ucraina nel 2014. Come scrisse Poroshenko su twitter il 9 gennaio, prima di partire alla volta di Parigi, "We must say YES to freedom".
Source: http://itar-tass.com/en/world/773110
Il giornalista ucraino Anatoly Sharij, che attualmente è un rifugiato politico in Europa, rischia di perdere questo status semplicemente per aver osato criticare il governo ucraino...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=G32e6El3mSA
https://www.facebook.com/ucrainaantifascista/posts/813177205430202
Ucciso a Kiev lo scrittore e giornalista Oles Buzina, nato nella capitale ucraina nel 1969.
Già candidato alcuni anni fa alla Rada per il Blocco Russo, lo scrittore era noto per le sue posizioni filorusse. Sostenitore della federalizzazione del paese, non aveva appoggiato la costituzione delle Repubbliche Popolari continuando a sostenere una maggiore vicinanza dell'Ucraina con la Russia.
Buzina aveva deciso di restare a Kiev, nonostante una lunga campagna diffamatoria, durante la quale era finito nel mirino del gruppo "Femen", e le minacce.
Nella sua ultima intervista, concessa ieri alla radio VESTI e successivamente ripresa dai media, Buzina aveva parlato dell'élite filo-occidentale del paese, su cui hanno investito gli occidentali per organizzare il majdan, e della necessità della normalizzazione dei rapporti con la Russia la quale non è, come sostengono i media, un aggressore. Il conflitto semmai, sosteneva Buzina, è tra Occidente e Russia, l'Ucraina è il terreno dello scontro. A proposito degli oligarchi che comandano nel paese, lo scrittore aveva dichiarato: "Per i ladri che governano l'Ucraina è molto semplice dare la colpa di tutto a Putin".
http://contropiano.org/internazionale/item/30260-squadroni-della-morte-a-kiev-assassinati-tre-politici-e-giornalisti-dell-opposizione
Persino il quotidiano russofobo ed europeista "La Repubblica" fornisce notizie sugli omicidi politici nella vezzeggiata Ucraina:
http://www.repubblica.it/esteri/2015/04/16/news/ucraina_ucciso_giornalista_filorusso_a_kiev_e_il_terzo_omicidio_politico_in_24_ore_lo_sdegno_di_putin-112106358/
http://euro-dreams.blogspot.ru/2015/04/four-political-murders-during-day.html
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Ukraine : trois journalistes tués en un jour, rien dans les médias !
KIEV 15 Avril
Oleg Kalashnikov, l’ancien député parlementaire du Parti des Régions, a été tué a Kiev, comme le service de presse du Ministère de L’Interieur Ukrainien l’a confirmé ce mercredi.
Il avait appelé à de larges commémorations du 70ème anniversaire de la victoire dans la Grande Guerre Patriotique. Kalashnikov était connu pour ses positions anti-Maidan. Il organisait également des rassemblements contre les autorités en Ukraine.
KIEV 16 Avril
Un journaliste Ukrainien bien connu, Sergey Sukhobok, a été tué a Kiev. Sukhobok, un natif du Donbass, en Ukraine de L’Est, région en guerre, avait travaillé comme journaliste depuis 1998. Il était auparavant un analyste de l’hebdomadaire Delovoy Donbass (Finance Donbass). Il avait récemment travaillé en tant que journaliste freelance. L’Ukrainskiye Novosti (Nouvelles Ukrainiennes), révèle que Kalashnikov avait reçu des menaces de mort peu de temps avant d’être tué.
KIEV 16 Avril
Olga Moroz, la rédactrice en chef du journal local, a été tuée en Ukraine. Son corps a été trouve avec des traces d’une mort violente.
KIEV 16 Avril
Un journaliste renommée, Oles Buzina, a été tué ce jeudi a Kiev, la capitale du pays. Dans sa dernière interview accordé à Radio Vesti, il avait accusé les autorités nationales d’avoir abandonné de façon inconditionnelle les intérêts de L’Ukraine.
“Les formations politiques qui ont pris le pouvoir en Ukraine comme la conséquence d’un coup d’État ont choisi une voie strictement pro-Occidentale", avait affirmé Buzina.
’Naturellement, tous nos liens de coopération avec la Russie dans la construction navale, l’aviation et la construction industrielle, furent instantanément démantelés. Aujourd’hui le pays est en proie au chômage et beaucoup de gens n’ont plus d’argent. Toutes les promesses de Maidan se sont avérées être de la pure fiction. Cette partie de l’élite ukrainienne qui s’appelle pro-occidentale abandonne tout simplement les intérêts nationaux de L’Ukraine”.
Buzina, un journaliste reconnu, écrivain et présentateur TV, a été tué par balle près de sa maison a Kiev depuis une Ford Focus bleu foncé avec des plaques d’immatriculation étrangères. Il était l’auteur de deux ouvrages, incluant “Taras Shevchenko le Vampire” et “L’union de la Charrue et du Trident”. Buzina était le rédacteur en chef du journal Segodnya mais avait quitté son poste au mois de mars dernier en raison de la censure.
Source : http://euro-dreams.blogspot.ru/2015/04/four-political-murders-during-day.html
Traduction : Collectif Investig’Action
Alcuni aggiornamento sull'arresto e la detenzione del giornalista Ruslan Kotsaba.
Kotsaba è accusato di spionaggio e tradimento.
Per quanto riguarda la prima accusa, ci viene segnalato che per il codice ucraino, lo spionaggio viene compiuto solo da cittadini stranieri, Kotsaba è sempre stato cittadino ucraino.
Per quanto riguarda la seconda accusa, contro di lui ci sono il celebre video (https://www.youtube.com/watch?v=Ve_AJRn-HJA) in cui dichiarava di non volersi arruolare per non andare ad ammazzare altri ucraini nella guerra civile, e una intervista con un canale della tv russa.
Per questo, nell'EuroUcraina, Ruslan Kotsaba rischia 15 anni di carcere.
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