Informazione

(slovenščina / francais / italiano)

Wojtyla, Ratzinger, e i devoti criminali ustascia

0) Links / collegamenti sul pontificato di Karol Wojtyla

1) Santi cristiani (Fulvio Grimaldi)
2) [Tra un mese] Benedetto XVI a Zagabria pregherà per Stepinac [tanto per cambiare] (Stefano Giantin)
3) Sporno svetništvo Karola Wojtile (Iskraonline)
4) MADRE TERESA, GIOVANNI PAOLO II E LA FABBRICA DEI SANTI (Michael Parenti - estratto)
5) La morte del Papa. Note inattuali (Gino Candreva, 2005)


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LE RESPONSABILITA' VATICANE NEL CONFLITTO BALCANICO: ALCUNI ELEMENTI.
a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia (Roma 1999)

IL DEVOTO CRIMINALE USTASCIA.
Ante Gotovina bacia la mano a San Wojtyla
Vescovi croati e Vaticano offrono protezione ad Ante Gotovina
Ante Gotovina è condannato dal "Tribunale ad hoc" dell'Aia per le stragi commesse in gloria di Santa Romana Chiesa

I CRIMINI DEGLI USTASCIA (1941-1945)

SANTO? DUBITO. Una lettura critica del pontificato di Giovanni Paolo II
Anno per anno, nome per nome, tutti i dati e gli eventi, i fatti e i misfatti, le contraddizioni e le ombre di un pontificato controverso. Dalla repressione della Teologia della liberazione ai controversi rapporti con dittatori, Legionari di Cristo e Opus Dei, fino allo scandalo degli abusi sui minori. Tutto quello che non avete mai letto sui media cattolici (e nemmeno su quelli laici), ma che avreste voluto sapere su Wojtyla...

LE ARMI DELLA SANTITÀ
LE OFFERTE PER IL BEATO GIOVANNI PAOLO II SI FANNO PRESSO LE BANCHE ARMATE 
(ADISTA)

Giovanni Paolo II santo per miracolo
(ADISTA)

IL GIUBILEO DEI REPRESSI 
1978-2003 : i 25 ANNI DEL PONTIFICATO DI PAPA WOJTYLA VISTI DA UN’ALTRA PARTE
L'offensiva contro la Teologia della Liberazione in America Latina
(dossier ADISTA del 25.10. 2003)

LE VATICAN ET LA QUESTION « YOUGOSLAVE » DEPUIS LA FIN DU XIXÈME SIÈCLE : 
HAINE CONTRE LA SERBIE ET RECOURS AU BRAS SÉCULIER
par Annie Lacroix-Riz
https://www.cnj.it/documentazione/alr_vatican.htm

STEPINAC, SYMBOLE DE LA POLITIQUE À L’EST DU VATICAN
Annie Lacroix-Riz

L'altra faccia del Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II nei Balcani
Another Side of the Pope: John Paul II's Balkan Legacy
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4366
http://www.balkanalysis.com/modules.php?name=News&file=print&sid=523

Habemus Europam (sull'elezione di Ratzinger - aprile 2005)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4378

KAROL WOJTYLA: Tutte le guerre dell'ultimo papa
di TOMMASO DI FRANCESCO da "IL MANIFESTO" del 9 aprile 2005
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4424

Il Santo Guerriero - di Enzo Bettiza
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4364

Altri link sul Vaticano e la Croazia


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Santi cristiani

Frenesia mediatica di distrazione di massa, parallela a quella di distruzione di massa per la grande rivincita del colonialismo alla Graziani (un terzo dei libici gassati, sparati, impiccati), attorno alla beatificazione del peggiore degli ontologicamente pessimi papi e al matrimonio del gaglioffo anglomassonico William, collaudatosi degno erede al trono della sterminatrice Vittoria con con la partecipazione in ghingheri da guardia scozzese nel mattatoio Nato dell’Afghanistan. Soffermiamoci sulla prima, degna di collera quanto la seconda lo è di nausea. Anche perché a turlupinare, truffare, obnubilare e manipolare la gente sono stati quelli dei santi ad insegnarlo per primi, meglio di tutti e per duemila anni, alle cricche del dominio, dello sfruttamento e della morte. Vediamoli i meriti di Karol Woytila, papa nero e oscurantista peggio di Pio IX: distruzione manu militari della teologia della liberazione che affiancava gli esclusi nella ricerca della vita e della dignità; cospirazione in combutta con Cia, mafia, P2 e reazione mondiale contro la Polonia sovrana e socialista, alla cui sovversione offriva i denari sottrattici “per il sostegno della Chiesa e delle sue opere di carità”; riabilitazione e connubio con la setta fascista-vandeana di Lefevbre; assalto al Nicaragua rivoluzionario in combutta con i briganti “contras”; apparizione sul balcone accanto a Pinochet, a sostegno della più stragista delle dittature latinoamericane; fraterna solidarietà e incarichi di massimo livello (Propaganda Fide) al delinquente cardinale Pio Laghi, sodale dei generali argentini dei desaparecidos; intima collaborazione e status di braccio armato del papa per la mafia cattolica dell’Opus Dei, cane da guardia del potere finanziario e contro le eresie laiciste; lancio degli speculatori e trafficoni di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere alla conquista di mercati, servizi e della spoliazione dei beni pubblici in consorteria con il peggiore malaffare nazionale e internazionale; sostenitore dei nazisti “Legionari di Cristo, in spregio – o per merito – dei suoi sodalizi con la criminalità politica e di un superiore generale pedofilo; occultatore fuorilegge di tutti gli episodi di pedofilia che infestano ranghi bassi e alti dell’edificio ecclesiastico; padrino e patrono del criminale mafioso e piduista, probabile assassino di Papa Luciani, cardinale Marcinkus; beatificatore di serial killer come il vescovo croato Stepinac, stragista ustascia al servizio della Gestapo e due missionari battistrada del genocidio in Messico; cappellano militare dei fascisti croati responsabili del genocidio di serbi in Slavonia e nelle Krajine.
Beatificazione a furor di popolo decerebrato e di successore imperialista, con stile di marketing religioso finalizzato ad accreditarsi come partner politico, culturale e belligerante delle élites occidentali impegnate nella nuove crociate per lo sfoltimento dell’umanità e la dittatura sui sopravvissuti. Mentre il beatificatore non ha trovato, nei suoi perenni excursus nell’ipocrisia e nella farneticante superstizione, mezzo minuto per apostrofare i responsabili della strage degli innocenti in Libia nel giorno di Pasqua, troverà tempi e agi e piaceri da dedicare al presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, installato grazie ai golpisti attivati da Obama e protagonista quotidiano della repressione sanguinosa di un popolo, martire vero, ma dal lato sbagliato. Responsabile diretto di uccisioni, torture, sparizioni forzate, stupri, cacciata di contadini dalle loro terre a vantaggio di una banda di latifondisti e delle multinazionali, Lobo sarà ospite d’onore, insieme ad altri esponenti del crimine politico occidentale, alla beatificazione del passatista facinoroso. Tout se tien.

Fulvio Grimaldi
da Barbarie cristiane (28 aprile 2011 - www.fulviogrimaldicontroblog.info)


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Benedetto XVI a Zagabria pregherà per Stepinac 

Stefano Giantin
su Il Piccolo del 21/4/2011
 
TRIESTE Una preghiera sulla tomba del discusso cardinale Alojzije Stepinac e poi via, in aereo, verso Roma. Si concluderà così la visita di due giorni in terra croata di papa Benedetto XVI, atteso a Zagabria il 4 e 5 giugno prossimi.
Il primo giorno Ratzinger sarà ricevuto dal presidente Josipovic, dal premier Kosor e dal Gotha del mondo economico e culturale di Zagabria. Domenica 5, dopo la messa e il consueto bagno di folla, il Papa si congederà dai croati nella cattedrale di Zagabria, tempio che ospita le spoglie di Stepinac, arcivescovo della città durante il regime ustascia. Su Stepinac, beatificato da Giovanni Paolo II nel 1998, si continua a dibattere: salvatore di ebrei sotto Pavelic o collaborazionista? «Stepinac non era un criminale di guerra, aiutò gli ebrei croati a sopravvivere. Non aveva però quella forte personalità necessaria in un periodo così movimentato», spiega l’analista politico Davor Gjenero. «Stepinac si sforzò di salvare gli ebrei dei matrimoni misti e altre persone. A volte ci riuscì. Ma le sue proteste contro le leggi razziali furono deboli e tardive. E realizzò troppo tardi che l’indipendenza croata sotto l’influenza nazista e fascista non poteva portare a una vera autonomia e a uno stato di diritto», ribatte l’editore e scrittore Slavko Goldstein.
Più che al passato, il viaggio del Papa a Zagabria sembra però proiettato verso il futuro. Zagabria deve «proteggere il suo patrimonio cristiano mentre si avvicina all’entrata nell’Ue» e opporsi agli «ostacoli che si presenteranno sotto il pretesto di una libertà religiosa mal compresa, contrari al diritto naturale, alla famiglia e alla morale». Per il Vaticano, è fondamentale che la Croazia non abbia paura a chiedere a Bruxelles «rispetto per la sua storia e per la sua identità culturale e religiosa». Parole di Benedetto XVI affidate al nuovo ambasciatore croato presso la Santa Sede, Filip Vucak. La Croazia, ha aggiunto il Pontefice, va anche lodata «per il ruolo di promozione della pace nella regione e della reciproca comprensione tra popoli che vivono insieme da secoli in Bosnia».
Sul piano politico, la visita potrebbe aiutare a «sedare il nazionalismo, esacerbato dopo la condanna di Gotovina, delle strutture della Chiesa cattolica croata», si augura Gjenero. «Spero che accada quanto avvenne con la visita di Giovanni Paolo II a Zagabria durante la guerra: che il Papa plachi il nazionalismo nella Chiesa e nella società. Di questo – conclude l’analista – c’è ora particolarmente bisogno».

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FLASHBACK (dall'archivio di Radio Vaticana, tradotto dal portoghese. Ringraziamo Alberto Tarozzi per la segnalazione):

Il cardinale Joseph Ratzinger parlando di Stepinac lo considera ''un uomo di coscienza cristiana che si oppose ai totalitarismi. Al tempo della dittatura nazista divenne il difensore degli ebrei, degli ortodossi e di tutti i perseguitati. Più tardi, ai tempi del comunismo, fu il difensore dei fedeli e dei suoi sacerdoti assassinati e perseguitati. Però, soprattutto, divenne il difensore di Dio su questa terra, difendendo il diritto dell'uomo a vivere come Dio''.



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Sporno svetništvo Karola Wojtile

PRISPEVAL REDAKCIJA   
PONEDELJEK, 28 MAREC 2011 19:55

    Prvega maja bo katolièka cerkev v Rimu proglasila blaženost rajnega papeža Karola Wojtile - Janeza Pavla II. 

    To je prvi korak pred proglasitvijo za "svetnika", ki so jo romarji glasno zahtevali že na papeževem pogrebu, njegov naslednik Joseph Ratzinger - Benedikt XVI pa uresničil v čim krajšem roku. 
         Ni naša naloga, da sodimo o t.im. svetniških postopkih. Navsezadnje je to notranja stvar katoliške cerkve, ki je v svoji dvatisočletni zgodovini postorila marsikaj, čeprav naj bi bili "svetniki" nekakšni junaški zgledi za vernike. Nekaterih sploh ni bilo, drugi si očitno svetniške avreole niso zaslužili. Nekateri so postali svetniki potem ko so tvegali očitek krivoverstva, kot Frančišek Asiški. 
    Tisti, ki je svetništvu v RKC pravzaprav odvzel večji del veljave je prav papež Wojtila, saj jih je imenoval za cel bataljon, več kot jih je bilo imenovanih v celotni cerkveni zgodovini. Med njimi so bile tudi skrajno vprašljive osebnosti, kot zagrebški kardinal Alojzije Stepinac.
    Kot zunanji opazovalci in ocenjevalci stvarnosti, v kateri živimo, bomo o svetništvu Karola Wojtile povedali nekaj misli proti toku, ker menimo, da rajni papež vendarle ni zaslužil, da ga vernikom postavljajo za zgled junaštva. 
        Res je, da se je javno zavzemal za mir in bil priljubljen med množicami. Prav tako ima zasluge v boju proti komunizmu, čeprav niso tako velike, kot bi kdo mislil. Pripomogel je k hitrejšemu zrušenju socializma na Poljskem, pa še to z metodami, o katerih tudi cerkev nerada govori. Naprimer s financiranjem Solidarnosti z denarjem, ki ga je Vatikan pridobil pri zločinski mafijski tolpi iz rimske četrti Magliana. Njenega vodjo Renatina Pedinija so ubili, da ni bilo treba vračati posojila, truplo pa zakopali v baziliki sv. Apollinaira kot "dobrotnika krščanstva". 
    Povsem drugače se je Wojtila vedel z naprednimi tokovi v katoliških vrstah. Preganjal je teologijo osvobajanja v Latinski Ameriki, kjer so njene zagovornike v glavnem pobili, razen Leonarda Boffa, ki se je zatekel v Havano na varno. 
    Wojtila je znal biti pri tem zelo krut in neusmiljen, prav nič krščanski. Ugajali so mu fašistični diktatorji, kot čilski krvnik Pinochet, s katerim se je pojavil na balkonu predsedniške palače, v kateri je izdihnil zakonito izvoljeni socialistični predsednik Allende. Res je sicer, da je na stara leta šel na Kubo in se objemal s Castrom, ki je navsezadnje doštudiral v jezuitski šoli. Je pa sovražil nikaragujsko sandinistično revolucijo, v kateri so sodelovali tudi duhovniki. Nikaragujskega podpredsednika, jezuita in znanega pesnika Ernesta Cardenala je javno okrcal in mu odklonil roko v vdanostni poljub. Nahrulil je množico vernikov, ki so ga med mašo na prostem prosili, naj zmoli nekaj tudi za 24 učiteljev, ki so jih tiste dni pobili Reaganovi plačanci "contras". 
    Višek licermerja pa je dosegel v Salvadorju. Nadškof Arnulfo Romero je hotel Vatikan seznaniti z nasiljem "bataljonov smrti", a je par mesecev čakal na sprejem pri Wojtili, ki ga ni maral. Ko se je vrnil, so ga pred oltarjem ubili agenti desničarske "Arene", ki jo je vodil kapetan D'Abuisson. Slednji je pozneje postal "predsednik republike" in se je Wojtila z njim rokoval, nato odšel na Romerov grob in vzkliknil, da so ga ubili levičarski gverilci, kar je bila debela laž. Odveč je poudariti, da mučenik Romero ni nikoli postal ne blažen, ne svetnik. 
    Zgodbe še ni konec. Pozneje je Wojtila javno ožigosal jezuitske voditelje salvadorske univerze, da so "marksisti". Izjavo so objavili latinsko ameriški časopisi, kar je pomenilo zeleno luč za bataljone smrti. In res, v salvadorsko univerzo so vdrli oboroženci in pobili skupino jezuitov, profesorjev na univerzi, zraven pa še nekaj nun in postrežnic. Tudi zanje ni bilo predloga, da bi jih proglasili za mučenike... 
        S takim početjem si je poljski papež zagotovil spoštovanje in vdanost konzervativcev in desničarjev po vsem svetu, svetniške avreole pa najbrž ne. Vsaj po našem mnenju ne.


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also in english / aussi en francais: 


Revised and documented version, 27 October 2007




DI MICHAEL PARENTI
CommonDreams

Durante i 26 anni del suo papato, Giovanni Paolo II ha elevato a santità 483 persone, più santi di tutti i precedenti papi assieme, come viene riferito. 
Ci fu un personaggio che beatificò ma che non ebbe il tempo di canonizzare perché non visse abbastanza, cioè Madre Teresa, la suora cattolica di origini albanesi che sedeva a tavola con i ricchi e i famosi del mondo mentre veniva considerata una ardente difenditrice dei poveri. (...)

Gli “ospedali” di Madre Teresa per gli indigenti in India e altrove si rivelarono poco più che magazzini umani in cui persone seriamente ammalate giacevano su materassini, a volte cinquanta o sessanta persone in una stanza senza il beneficio di un'adeguata assistenza medica. Generalmente i loro malanni non venivano diagnosticati. Il cibo era nutrizionalmente insufficiente e le condizioni sanitarie deplorevoli. C'era poco personale medico sul posto, più spesso suore e preti impreparati.

Tuttavia, quando si occupava dei propri problemi di salute, Teresa si rivolgeva ad alcuni dei più costosi ospedali e reparti di cura del mondo per trattamenti allo stato dell'arte.

Teresa attraversò il globo per ingaggiare campagne contro il divorzio, l'aborto e il controllo delle nascite. Alla cerimonia per l'assegnazione del Nobel, dichiarò che “il più grande distruttore di pace è l'aborto”. Una volta ha anche insinuato che l'AIDS potrebbe essere solo una punizione per una condotta sessuale impropria.

Teresa alimentò un flusso costante di disinformazione promozionale su se stessa. Sosteneva che la sua missione a Calcutta sfamasse più di mille persone ogni giorno. In altre occasioni questo numero arrivava a 4000, 7000 o 9000. In realtà le sue mense per poveri sfamavano non più di 150 persone (sei giorni a settimana), compreso il suo seguito di suore, novizie e preti. Sosteneva che la sua scuola nei bassifondi di Calcutta ospitasse 5000 bambini quando gli effettivi iscritti erano meno di un centinaio.

(...) Durante una conferenza stampa a Washington DC, quando le venne domandato “Insegnate ai poveri a sopportare il proprio destino?” rispose “Penso che sia molto bello per i poveri accettare il loro destino, condividerlo con la passione di Cristo. Penso che il mondo tragga molto giovamento dalla sofferenza della povera gente”.

Ma lei stessa visse eccessivamente bene, godendo di lussuose sistemazioni nei suoi viaggi all'estero. Sembra che sia passato inosservato che come celebrità mondiale trascorreva la maggior parte del suo tempo lontano da Calcutta, con soggiorni prolungati presso opulente residenze in Europa e negli Stati Uniti, volando da Roma a Londra a New York su aerei privati.

Madre Teresa è il supremo esempio di quel tipo di icona accettabilmente conservatrice diffusa da una cultura dominata dalle élite, una “santa” che non ha espresso una parola critica contro le ingiustizie sociali, e che ha mantenuto comode relazioni con i ricchi, i corrotti e i potenti.

Ha dichiarato di essere al di sopra della politica quando era di fatto marcatamente ostile verso ogni tipo di riforma progressista. Teresa era amica di Ronald Reagan, e intima del conservatore magnate britannico dei media Malcolm Muggerridge. Era una gradita ospite del dittatore haitiano “Baby Doc” Duvalier, e aveva il supporto e l'ammirazione di una quantità di dittatori centro e sudamericani.
Teresa fu il modello di santo per Papa Giovanni Paolo II. Dopo la sua morte nel 1997, avviò il periodo di attesa quinquennale che si osserva prima di cominciare il processo di beatificazione che porta alla santificazione. Nel 2003, a tempo di record, Madre Teresa fu beatificata, il passo finale prima della canonizzazione. (...)

Un altro esempio di santificazione lampo, spinta da Papa Giovanni Paolo II, avvenne nel 1992 quando egli beatificò rapidamente il reazionario Mons. José María Escrivá de Balaguer, sostenitore dei regimi fascisti in Spagna e altrove, e fondatore dell'Opus Dei, un potente e riservato movimento ultra-conservatore “temuto da molti come una sinistra setta dentro la Chiesa Cattolica”. (...)

Il successore di Giovanni Paolo, Benedetto XVI, ha avviato il periodo di attesa quinquennale allo scopo di collocare istantaneamente lo stesso Giovanni Paolo II su una strada ultra-veloce per la canonizzazione, correndo fianco a fianco con Teresa. Già dal 2005 ci sono stati rapporti di possibili miracoli attribuiti al pontefice polacco recentemente scomparso.
Uno di tali resoconti è stato offerto dal Cardinale Francesco Marchisano. Mentre pranzava con Giovanni Paolo, il cardinale indicò che a causa di una malattia non poteva usare la propria voce. Il papa “accarezzò la mia gola, come un fratello, come il padre che era. Dopo di ciò mi sottoposi ad una terapia di sette mesi, e fui nuovamente capace di parlare”. Marchisano pensa che il pontefice potrebbe aver dato una mano nelle cure: “Potrebbe essere”, ha detto. Un miracolo! Viva il papa!


[Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di STIMIATO. Fonte: https://www.cnj.it/documentazione/parenti07.htm ]



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Santo Wojtyla

aprile 15th, 2011

In occasione della beatificazione di Wojtyla, pubblico un articolo scritto la notte stessa della scomparsa del coriaceo papa polacco. Naturalmente il punto di vista è quello dello storico e non del teologo.

La morte del Papa

Note inattuali

di Gino Candreva

Anche se non è possibile riassumere in un breve intervento il pontificato di Papa Wojtyla, uno dei papi più longevi della Storia, la cui elezione data dal 16 ottobre 1978, proviamo a trarre un sintetico bilancio.La difficoltà è accresciuta dal fatto che Wojtyla è stato davvero il “papa di tutti”, anche se non nel senso evangelico del termine. E’ stato il papa di Gianfranco Fini e di Walter Veltroni, concordi nel ringraziare il roccioso combattente reazionario polacco per aver dato la “spallata” decisiva a quello che ritengono di comune accordo il “male peggiore del secolo“ XX; è stato il papa di Gorbaciov, grato per avergli dato man forte nello sgretolamento dell’Unione Sovietica, e di Reagan; di Pinochet , di Somoza, della Junta golpista argentina; il Papa dei vescovi reazionari latinoamericani, riconoscenti per la repressione della “Teologia della liberazione”; il Papa della razzista Oriana Fallaci e del pacifista Bertinotti. Tutti chini, non per rispetto della parola di Gesù di Nazareth, ma delle proprie convinzioni e progetti politici. Il cinismo della comune commozione di fronte alla morte del Papa non ne è che l’ulteriore conferma.

Wojtyla è stato il primo papa non italiano dai tempi dell’olandese Adriano VI, morto nel 1523. Succeduto a papa Luciani, la cui morte dopo appena 33 giorni di pontificato è ancora avvolta nel mistero, si è imposto subito per la partecipazione alla guerra fredda contro l’Unione Sovietica. L’elezione del primo papa polacco non è stato un fulmine a ciel sereno, ma ampiamente sostenuta e probabilmente preparata dalla Cia e dall’Opus Dei. Il suo anticomunismo era ampiamente conosciuto, in Polonia e all’estero. Fin dal 1971 il futuro papa era noto per le prese di posizione contro il regime di Varsavia ed era stato molto attivo in Polonia nell’organizzare movimenti e associazioni di protesta. Le sue omelie vennero perfino incriminate in base all’articolo 194 della legislazione polacca dell’epoca. Sembrava dunque il candidato ideale ad aiutare l’imperialismo americano che aveva individuato nella Polonia il tallone d’Achille dell’”impero del male” sovietico. In cambio del suo sostegno l’Opus Dei venne emancipata dalla subordinazione ai Vescovi e divenne molto più importante nella gerarchia vaticana. Ne ha canonizzato il fondatore, il franchista Escrivà de Balaguer, morto solo nel 1975. Il 30 dicembre 1982 il Wall Street Journal scriveva: “L’alleanza è del tutto naturale perché l’Opus Dei e Giovanni Paolo II condividono tre preoccupazioni: un’opposizione fissata al comunismo; un forte desiderio di aumentare l’autorità del papa e un deciso impegno a preservare la dottrina ortodossa della Chiesa sull’aborto, la contraccezione, il celibato dei preti e su altre preoccupazioni tradizionali”. Il pontificato di Giovanni Paolo II si è svolto esattamente lungo queste tre direttrici. E grazie alla posizione conquistata sotto il pontificato di Wojtyla l’Opus Dei potrebbe giocare oggi un ruolo decisivo nella designazione del successore.

Ad appena tre giorni di distanza dal suo insediamento, in un rapporto del 19 ottobre 1978, la Cia considera l’elezione del nuovo papa polacco una pericolosa minaccia per la stessa Unione Sovietica. E nota che in Polonia, Bielorussia, Lituania e Ucraina, la Chiesa cattolica sta prendendo la testa del rinato nazionalismo anticomunista, mentre in Ungheria, Cecoslovacchia e Germania Est si assiste a un’accelerazione delle riforme e a una rinascita della Chiesa Protestante. L’elezione di Wojtyla, nota ancora il rapporto, contribuirà in maniera decisiva alla rottura del legame tra i Partiti comunisti dell’Europa occidentale e Mosca, già indeboliti dall’avvento dell’Eurocomunismo nel 1976. Si può dire che se dio è stato il primo a benedire l’avvento di Giovanni Paolo II la Cia non è stata meno rapida.

In seguito all’ascesa al soglio pontificio, il neo eletto papa intensificò tutto il suo attivismo ideologico nei confronti non solo della Polonia, ma di tutte le nazioni cattoliche del blocco sovietico, la Lituania, la Lettonia, l’Ucraina e la Bielorussia. Nel giugno del 1979, il viaggio in Polonia diventa l’occasione di una protesta di massa contro il regime stalinista di Varsavia, nella quale la Chiesa assume il ruolo centrale. L’occasione per tramutare l’offensiva ideologia in offensiva politica venne fornita dalla crisi polacca del 1980, con la nascita di Solidarnosc. Il contributo ideologico e politico del Vaticano alla nascita di Solidarnosc fu sostanziale. Quello economico ancora di più. Il finanziamento di Solidarnosc fu il risultato di complesse operazioni che ebbero come protagonisti il banchiere Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano, la Mafia e lo Ior (Istituto opere religiosa, la banca vaticana) diretta da monsignor Marcinkus. Lo stesso papa Wojtyla, vicino all’Opus Dei difenderà Marcinkus accusato di bancarotta fraudolenta per il Caso Ior-Banco Ambrosiano (e solo l’extraterritorialità del Vaticano ne ha impedito l’incarcerazione).

Ecco ciò che scriveva Tony Zermo sul giornale La Sicilia il 7 gennaio 2003:

“Diciamo che la storia comincia all’incirca negli anni ’70 quando Cosa Nostra prende a trafficare droga, a mettere su le raffinerie (molte in via Messina Marine a Palermo) e a far soldi a palate. Questa montagna di denaro dev’essere investita, una parte va nelle banche svizzere, un’altra ancora in Borsa e agli insediamenti turistici fuori dalla Sicilia, un’altra parte viene affidata al banchiere di Patti Michele Sindona. Quando fa bancarotta nonostante il tentativo di salvataggio di Andreotti, Sindona viene arrestato e poi ucciso nel supercarcere di Voghera con un caffè all’arsenico: come anni addietro all’Ucciardone era capitato a Gaspare Pisciotta, l’uccisore di Salvatore Giuliano.
Sparito dalla scena Sindona, Cosa Nostra era alla ricerca di un banchiere importante e più affidabile di Sindona che potesse investire bene il suo denaro, ed ecco spuntare Roberto Calvi che da semplice “ragiunatt” era diventato presidente del potente Banco Ambrosiano.
Calvi, il “banchiere dagli occhi di ghiaccio”, sembrava l’uomo giusto e i fiumi di denaro della droga finirono all’Ambrosiano. Del resto “pecunia non olet” e nessuno potrà mai provare con certezza che quel denaro affluito al vecchio Ambrosiano era di Cosa Nostra.
Ma Calvi era un ambizioso irrefrenabile, pensava che legandosi al Vaticano, ed esattamente allo Ior, l’istituto bancario della Santa Sede gestito da mons. Marcinkus, avrebbe avuto porte aperte in tutto il mondo e ottenere protezione dai partiti politici italiani. Fu così che centinaia e centinaia di miliardi passarono dall’Ambrosiano allo Ior: e in mezzo a questo denaro c’era anche quello sporco. Con questo denaro il Vaticano finanziò “Solidarnosc” di Walesa che alla lunga riuscì a porre fine al regime comunista in Polonia. Dopo la democratizzazione di questo Paese seguì a catena la caduta dei regimi degli altri Paesi satelliti dell’Urss.
Naturalmente tutto questo era avvenuto senza che Cosa Nostra ne sapesse niente: aveva affidato i suoi “risparmi” a Calvi perché li facesse fruttare, non perché li desse a Marcinkus e da lì a “Solidarnosc”. E fu così che anche Calvi fece la fine di Sindona e venne trovato penzolante da una corda sotto il ponte dei “Frati neri” sul Tamigi. A distanza di venti anni s’è capito che quello non era suicidio, bensì un delitto di mafia, forse affidato da Cosa Nostra siciliana alla camorra, e in particolare a quel Vincenzo Casillo che poi saltò in aria con la sua auto a Roma. Meglio togliere di mezzo testimoni pericolosi.
Al di sopra di questo sordido traffico sotterraneo di miliardi della mafia c’era però il più alto contesto politico, la Storia che cambiava. Che Papa Wojtyla volesse far cadere il regime comunista nella sua cattolicissima Polonia lo sapevano in molti, soprattutto i servizi segreti sovietici.”

Controllata dal Vaticano e dalla Cia, Solidarnosc divenne il cavallo di Troia dell’imperialismo nell’intero blocco sovietico. Un altro importante polacco, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora presidente americano Jimmy Carter, dichiarò “Mi sono trovato a mio agio con Casey [direttore della Cia]. E’ stato molto flessibile e poco burocratico. Ha cercato soluzioni inedite. Ha fatto tutto ciò che bisognava fare per appoggiare gli sforzi clandestini in termini di materiale, reti, ecc… ed è per questo che Solidarnosc non è stata schiacciata” (24 febbraio 1992). Ma è il successore di Carter, Ronald Reagan, a comprendere in maniera decisiva le potenzialità dell’alleanza tra il Vaticano e l’imperialismo americano. In un rapporto del 1982 la Cia assume decisamente la direzione politica dell’affare polacco, consigliando al Vaticano una strategia di piccoli passi, mentre Wojtyla rafforza le tendenze anticomuniste all’interno della Chiesa e interviene nella politica polacca tramite il cardinale Glemp. Tra la fine del 1982 e il 1983 avviene la svolta nel blocco sovietico; a Breznev succede Andropov, uno dei responsabili della repressione ungherese del 1956, ma ora “riformista”, Walesa riceve il Nobel per la pace e Reagan inaugura il progetto di “guerre stellari”. Il crollo del muro di Berlino nel 1989 e dell’intero blocco sovietico nel 1991 giunsero al culmine di questo processo inaugurato dall’elezione di Wojtyla.

Il Vaticano, i suoi partner finanziari e naturalmente il suo partner politico più importante, l’imperialismo Usa, non mostrarono in America Latina lo stesso zelo per i diritti umani. Anche in America centro-meridionale la politica del Vaticano ebbe come stella polare l’anticomunismo.Tuttavia l’America Latina non era governata da partiti stalinisti bensì da sanguinarie giunte di destra. Il Cardinal Sodano, nunzio apostolico in Cile, fu uno dei più ferventi sostenitori della dittatura del boia cileno Augusto Pinochet, mentre il nunzio apostolico in Argentina, mons. Laghi, benediceva la giunta militare e mons. Tortolo giungeva ad equiparare il golpe argentino del 1976 con la Resurrezione pasquale. I responsabili di queste relazioni sono stati tutti promossi ai posti più alti della gerarchia vaticana, compresa la segreteria di Stato. In particolare uomini dell’Opus Dei sono stati tra i più influenti consiglieri di Pinochet, come il ministro degli esteri Cubillos, o uno degli uomini più ricchi del Cile, Cruzat, il cui impero attorno alla Banca di Santiago consisteva di oltre 250 aziende. Cruzat pagava ogni anno all’Opus Dei milioni di dollari in sovvenzioni. Dopo aver incontrato e benedetto di persona il boia cileno, arriva il 18 febbraio 1993 il Papa invia la sua speciale benedizione su Augusto Pinochet e signora in occasione delle nozze d’oro. I “diritti umani” in America latina sono evidentemente meno importanti che in Europa, dove possono essere usati come parola in codice della guerra fredda.

Se da una parte il Vaticano promuoveva alle più alte cariche gli elementi particolarmente reazionari del clero sudamericano, dall’altra concentrava la repressione all’interno della Chiesa contro la cosiddetta “Teologia della liberazione”.

In occasione del suo viaggio in Nicaragua nel 1983 il Papa condannò energicamente il “falso ecumenismo” dei cattolici impegnati nel processo rivoluzionario sandinista e li invitò all’unità sotto la direzione del vescovo di Managua, il reazionario monsignor Miguel Obando y Bravo, nominato cardinale subito dopo il viaggio.

Nata in America Latina, ma diffusasi in altre parti del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, la Teologia della liberazione è una corrente che si propone la riflessione su dio, come tutte le teologie, ma la coniuga con le necessità sociali. Parla di liberazione dei poveri dalla fame, dall’oppressione e dallo sfruttamento, non semplicemente di liberazione dopo la morte. Il punto di partenza è dunque costituito dal tentativo di coniugare cristianesimo ed emancipazione sociale. I teologi della liberazione criticano soprattutto l’intreccio tra la Chiesa cattolica e i poteri forti, che nei paesi del terzo e quarto mondo, spesso sono rappresentati da dittature feroci. Questa tendenza appariva dunque pericolosa sia per le gerarchie ecclesiastiche che per i loro mentori politici locali e regionali. La reazione della Chiesa di Roma e in particolare del Papa è stata durissima. Il cardinal Ratzinger ha accusato questa corrente di marxismo e ateismo, ai teologi venne impedito di continuare il loro insegnamento, ai centri didattici legati alla Chiesa di parlare di questa dottrina. Lo stesso Wojtyla, in occasione di un viaggio in Nicaragua nel 1996, dichiarò che con la morte del comunismo anche questa corrente non aveva ragione di esistere. In questo modo si considerava la teologia della liberazione semplicemente una corrente subordinata al Vaticano, strumentale alla lotta al marxismo, che si proponeva cioè di strappare all’ideologia marxista l’egemonia sulle masse oppresse. Finito il marxismo, la teologia della liberazione aveva perso il suo ruolo di concorrente. La repressione di questa corrente si è inserita in un contesto di profonda restaurazione passatista. Il documento Dominus Jesus ha posto fine al tentativo di dialogo con le altre confessioni religiose, al di là delle esibizioni mediatiche degli incontri di Assisi. Sono stati sospesi e condannati i tentativi delle Chiese locali di adattare la liturgia alle varie culture, diversi teologi hanno subito la proibizione ad insegnare, mentre ad altri, autori di libri ritenuti non ortodossi, sulla verginità della Madonna o sull’origine del Purgatorio, per esempio, sono stati oggetto di scomunica o di pesanti condanne.

Caduto l’”impero del male” sovietico, la frenetica attività del papa si è rivolta alla nomina di centinaia di santi e beati della Chiesa. Alla fine il totale sforerà quota 1500, un record! L’iperattivismo di Wojtyla ha una ragione: la necessità di imporre la Chiesa di Roma al centro dell’attenzione. La beatificazione o la santificazione hanno costituito un potente segno del messaggio restauratore del Vaticano. Ogni cerimonia è finita col diventare un messaggio politico. Interi gruppi di “martiri” sono stati innalzati all’altare, dai sacerdoti bulgari, che hanno subito la pena capitale in seguito a un processo del 1952, a un gruppo di 31 martiri ucraini, a 25 vittime della guerra civile messicana degli anni Venti. 120 sono stati i martiri cinesi, dal 1600 agli anni Trenta.

E’ naturalmente impossibile ripercorrere tutte le fasi di una così frenetica attività beatificatoria. Particolarmente significative sono stati però tre episodi, indicativi delle preoccupazioni del Papa.

Il primo riguarda la beatificazione, avventa nel marzo del 2001, dei 233 preti e laici franchisti uccisi durante la Guerra civile spagnola dagli “anarco-comunisti”. Il clero spagnolo, durante la guerra civile del 1936-39, si spaccò tra leali al governo legittimo del “Fronte popolare” da una parte e ai golpisti di Francisco Franco, sostenuto da Hitler e Mussolini, dall’altra. Molti sacerdoti inoltre parteciparono alle brigate internazionali che accorrevano da più parti d’Europa in difesa della Repubblica. Dopo l’occupazione delle Asturie lo stesso Franco ordinò una feroce repressione e la messa a morte di quanti avevano combattuto tra le file repubblicane, tra cui qualche centinaio di sacerdoti. Queste vittime della repressione franchista-fascista non hanno però trovato ancora un papa che le beatifichi. Così come non l’hanno trovato le migliaia di sacerdoti copti massacrati dal fascismo in Etiopia per il solo sospetto di essere oppositori del colonialismo di Roma. La consacrazione selettiva delle “vittime dell’anarco-comunismo”, come si è espresso Giovanni Paolo II durante la celebrazione, costituisce da parte del Vaticano una rivalutazione postuma del Regime di Franco e un programma politico preciso.

Il secondo episodio riguarda la beatificazione di Alojzije Stepinac, avvenuta in Croazia nell’ottobre del 1998. Stepinac, considerato da Wojtyla una delle “prime vittime del comunismo”, in realtà è stato un fedele alleato del regime Ustascia di Ante Pavelic, che in quattro anni sterminò centinaia di migliaia di serbi, ebrei, zingari e altre minoranze in nome della “purezza etnica e religiosa della Croazia”, in quanto alleato subordinato di Hitler e Mussolini. Vari prelati sedevano nel governo di Ante Pavelic, alcune centinaia di religiosi parteciparono direttamente al massacro (v Marco Aurelio Rivelli: “L’arcivescovo Stepinac, altro che martire”, in il Manifesto, 3 ottobre 1998). Lo stesso Stepinac dispose la celebrazione del Te Deum all’atto dell’insediamento del governo Pavelic e in seguito, perfino quando i massacri e le deportazioni erano ben conosciute, in una lettera del 24 maggio 1943 al Cardinale Maglione, rassicura la gerarchia vaticana, che sollevava dubbi sul regime di Pavelic: “Dal detto segue che il Regime attuale in Croazia pare almeno di essere di buona volontà, la quale non può essere negata dalla Chiesa.” Lo stesso centro Simon Wiesenthal ha considerato la beatificazione di Stepinac “una provocazione”. La beatificazione di Stepinac giunge al culmine di un processo che ha visto il Papa impegnarsi in prima persona a favore della sanguinosa guerra che ha distrutto l’ex Jugoslavia. Il Vaticano (e la Germania) furono i primi a riconoscere la repubblica di Croazia, proclamata su basi etniche e religiose quando ancora esisteva la federazione jugoslava. La benedizione di Wojtyla al nazionalismo croato servì da miccia per l’esplosione della guerra serbo-croata, alimentò il nazionalismo, fece precipitare la crisi bosniaca. Col viaggio del 1994 e infine la canonizzazione di Stepinac, il Vaticano sosteneva apertamente Tudijman, il nuovo poglavnik (duce) della “cattolicissima” Croazia, che si presentava apertamente come l’erede di Pavelic. Come ricompensa al sostegno vaticano il governo di Zagabria restituiva alla Chiesa di Roma i beni confiscati dalla Repubblica federale jugoslava.

Dopo aver attaccato il comunismo, il Papa ha preso di mira la stessa ideologia della Rivoluzione francese, come paradigma di ogni idea di progresso. In un discorso pronunciato il 19 settembre 1996, in Vandea, così si rivolge il Papa ai fedeli di questa regione passata alla storia per essersi opposta alla Rivoluzione francese e aver scatenato il terrore bianco contro i rivoluzionari: “Voi siete gli eredi di uomini e di donne che hanno avuto il coraggio di rimanere fedeli alla Chiesa di Gesù Cristo, quando la sua libertà e la sua indipendenza erano minacciate”. Più che a Cristo il clero e i nobili della Vandea, regione a nord della Francia, furono fedeli al Re e a un sistema di privilegi che non volevano abbandonare. Nel 1789 organizzarono la resistenza alla Rivoluzione nel tentativo di restaurare l’Antico Regime. La rivolta vandeana giunse a spalancare i porti all’invasione inglese, che rischiava di travolgere il neonato potere rivoluzionario, già minacciato dalla reazione monarchica e dai suoi alleati austro-prussiani. Anche i “martiri” vandeani hanno avuto naturalmente la loro beatificazione.

Come se Wojtyla avesse voluto far girare all’indietro il film della storia e del progresso: dalle Repubbliche popolari nate nel dopoguerra, alla Rivoluzione russa, fino alla Rivoluzione francese; un filo percorre le scelte del pontificato di Wojtyla, che si sposa col cattolicesimo liberale moderato: l’idea delle masse come oggetto e non soggetto di trasformazione sociale. La stessa enciclica “Laborem exercens” del 1981, riprende il progetto del “cattolicesimo sociale” ponendosi in concorrenza con la teoria marxista sul terreno dell’egemonia sulla classe operaia. Le masse devono subire passivamente i processi sociali, determinati da un potere sul quale non hanno controllo, ma che deve paternalisticamente badare alle loro necessità. Quindi si criticano gli eccessi del liberismo e del capitalismo, ma l’essenza del socialismo. Il pericolo principale da scongiurare è la possibilità che il proletariato si emancipi istituendo un proprio sistema di potere da contrapporre al potere della borghesia. Dieci anni dopo la “Centesimus annus” travolge nella sua critica non solo il socialismo marxista ma lo stesso “razionalismo illuministico”.

Predicando contro “il potere”, lo stesso Giovanni Paolo II è stato un uomo di potere. Ha utilizzato l’enorme apparato della Chiesa cattolica romana, le sue quasi sterminate risorse finanziarie, il rapporto privilegiato con l’imperialismo americano e un iperattivismo mediatico per rafforzare la gerarchia ecclesiastica e subordinarla all’autocrazia papale. Lo stesso principio di collegialità episcopale, diffuso dal Concilio Vaticano II, sotto Karol Wojtyla è andato disperso. Lo strumento privilegiato è stato il Servizio diplomatico e la Nunziatura, direttamente controllati dal Papa. Sotto Giovanni Paolo II la Chiesa ha rafforzato il peso dell’apparato, finendo per distruggere altre istanze e forze vive richiamando i fedeli, ma non solo, a una stretta ortodossia cattolica tradizionalista.

Nulla è rimasto inespresso nel pensiero di Giovanni Paolo II, dalle grandi questioni politiche alle questioni sociali quotidiane alle questioni morali. In particolare su queste ultime si è fondata l’edificio di una grande restaurazione dottrinale della Chiesa. Innumerevoli sono i documenti nei quali il Papa ha preso posizione. Perfino i villaggi vacanza, “luoghi di un turismo vuoto e superficiale”, sono caduti sotto la scure del pontefice. Ma è stata la famiglia il terreno privilegiato della restaurazione cattolica. Su questo aspetto il Vaticano è rimasto sordo a ogni richiesta di rinnovamento che provenisse dalla società civile. E cuore della famiglia sono i figli. Wojtyla ha ribadito più volte la concezione che scopo della famiglia è la procreazione. Ha quindi condannato senza mezzi termini qualsiasi controllo o pianificazione delle nascite. Perfino di fronte all’esplosione dell’epidemia di Aids in Africa il Papa ha condannato l’uso dei profilattici. Il che ha impedito che centinaia di migliaia di vite venissero salvate. L’omosessualità viene condannata come atto “contro natura” e il possibile riconoscimento legale, di qualsiasi tipo, delle coppie omosessuali ha incontrato sempre una netta chiusura negli ambienti vaticani. Il divorzio è nettamente condannato.

Ma dove il Vaticano ha insistito maggiormente, e in modo più intenso negli ultimi tempi, è nella netta opposizione all’aborto e nella difesa dell’embrione, definito “soggetto umano con una ben definita identità”. Nell’ Evangelium vitae” del 1995, accanto a una condanna senza mezzi termini della contraccezione o di qualsiasi controllo delle nascite, dell’eutanasia, ecc., si teorizza la disobbedienza alle leggi quando queste violino la morale cattolica: “L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza”. Nell’agosto del 2000 la Pontificia accademia pro vita, istituita da Wojtyla nel 1993, ha condannato la ricerca sulle cellule staminali e nel 2001 lo stesso Pontefice, rivolgendosi ai medici cattolici, ha ribadito le convinzioni morali della Chiesa, auspicando anche qui la necessità della cosiddetta “obiezione di coscienza”, ovvero la violazione delle leggi vigenti, per medici, ostetriche ecc.

L’enciclica “Evangelium vitae” tuttavia è importante anche per un altro aspetto. Essa contiene una casistica dettagliata sui doveri del cattolico che occupi posizioni istituzionali, di fronte a un dilemma di coscienza. Mira quindi al condizionamento religioso della vita politica del Paese. Un attacco alla laicità dello Stato che culmina in questi giorni con la pesante intromissione ecclesiastica nel referendum sulla procreazione assistita.

La visione del mondo che Wojtyla ha voluto diffondere è una visione ampiamente antimodernista. A questo scopo ha utilizzato tutti gli strumenti di forte impatto mediatico messi a disposizione dalla modernità. Si tratta di un utopico ritorno al Medioevo, quando l’Europa si chiamava Cristianità. Da qui l’insistenza al riconoscimento delle “radici cristiane” nella Costituzione Europea. Lo scopo è rendere la religione un “affare pubblico”, ovvero fondamento di diritto. In questo modo la legislazione europea si sarebbe dovuta piegare ed adeguare ai principi morali della Chiesa cattolica in tema di famiglia, aborto, omosessualità, ecc. Ma a ben guardare la logica della nominatio Dei nel preambolo costituzionale europeo andava oltre, fondava la “comunità europea” su basi religiose e non su basi politiche, stabilendo la superiorità del Dio dei cattolici sulla volontà popolare. E, implicitamente, la superiorità del suo rappresentante in terra, il Vescovo di Roma sulle istituzioni politiche.

La scena di un povero vecchio che muore, resaci incessantemente dalla pruderie necrofila dei mass media, non può oscurare l’essenza reazionaria del pontificato di Wojtyla e del suo grandioso progetto di restaurazione che cerca di fare piazza pulita di tre due secoli di progresso ed emancipazione. Né può farci dimenticare che l’emancipazione umana è, oltre che emancipazione sociale e politica, consiste nell’emancipazione della ragione dai dogmi ciechi della fede.

Gino Candreva

3 aprile 2005





Dichiarazione di PeaceLink

Bombardamenti italiani in Libia: nuovo strappo alla Costituzione


Grave l'appoggio di Napolitano, Berlusconi e PD a un'operazione che viola sia la risoluzione ONU sia l'articolo 11 della Costituzione Italiana
26 aprile 2011 - Alessandro Marescotti


Il 25 aprile Berlusconi non ha partecipato alle commemorazioni della Resistenza ma ha proclamato che occorreva passare dai sorvoli ai bombardamenti italiani in Libia.

Oggi a questa nuova opzione militare - sollecitata dall'amministrazione USA - si accodano Napolitano e il PD.

E' davvero incredibile come tali scelte, invece di esser condivise in ambito ONU, vengano decise in telefonate fra capi di governo, senza alcuna consultazione democratica.

Vengono esclusi quei popoli in nome dei quali l'ONU dichiarava - alla sua costituzione - di voler scongiurare il flagello della guerra.

E' incredibile leggere dichiarazioni come quella di Marina Sereni (PD): "La scelta annunciata dal Presidente del Consiglio di partecipare ai bombardamenti di obiettivi militari in Libia è la conseguenza obbligata della nostra appartenenza alla Nato ed è coerente con il ruolo geostrategico dell'Italia nell'area".

E' infatti assolutamente falso che l'appartenenza dell'Italia alla Nato preveda tale obbligo, che scatta solo se una nazione della Nato venisse attaccata militarmente.

Ed è grave che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dichiari: “L'ulteriore impegno dell’Italia in Libia costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta dall'Italia a marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio supremo di difesa da me presieduto e quindi confortata da ampio consenso in Parlamento”.

PeaceLink fa appello alla società civile: l'opinione pubblica può e deve dissociarsi dalle bombe e dalla guerra. Nessuna risoluzione ONU impone all'Italia di bombardare. La risoluzione ONU prevede solo la no-fly zone.

Ogni altra azione, oltre che provocare nuove possibili vittime, viola la nostra Costituzione che nell'articolo 11 "ripudia la guerra"; l'Italia prevede, nella seconda parte, delle "limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni"; prevede quindi la partecipazione ad organismo sovranazionali per scopi di pace, non certo per fare la guerra.

Scopo dell'ONU è quello di far cessare il fuoco, non far vincere una delle due parti in conflitto in Libia.

Grave è l'appoggio di Napolitano, Berlusconi e PD a un'operazione che viola sia la risoluzione ONU sia l'articolo 11 della Costituzione Italiana.

Spetta al popolo italiano, alla società civile, dissociarsi da questa manomissione dei cardini fondamentali dell'identità nazionale che dopo il 25 aprile 1945 furono fissati perché in Italia non risorgesse alcuna ambizione di ingerenza militare all'estero. Per decenni in Italia le forze politiche sono state concordi a tenere fuori l'Italia da ogni azione di bombardamento in teatri di guerra; oggi è in atto invece un grave strappo a quella tradizione costituzionale che fissò le basi della nostra democrazia e gli ideali della Repubblica.

E' nostro compito testimoniare e rivendicare quei valori di pace e democrazia per i quali è stata scritta la nostra Costituzione, oggi calpestata.


Note:

Risoluzione integrale n.1973 dell'ONU (sulla Libia) 
http://www.forumcivico.it/risoluzione-onu-nazioni-unite1973-2011-sulla-libia-358.html

Articolo 11 della Costituzione Italiana 
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.






PISA, 16 aprile 2011: Convegno nazionale NO ALL’HUB MILITARE  - NO ALLA GUERRA 

APPELLO FINALE ASSEMBLEA DEL 16 APRILE


Posted on 17/04/2011


A conclusione del Convegno Nazionale “NO all’Hub militare NO alla guerra” svoltosi a Pisa il 16 aprile 2011 i partecipanti concordano sulla necessità e sull’urgenza di rilanciare in Italia il Movimento Contro la Guerra. Ciò anche a seguito del drammatico attacco militare alla Libia (risoluzione ONU n.1973 che istituisce la No fly zone) da parte dell’alleanza USA-NATO che rischia di infuocare il Mediterraneo e in cui l’Italia è già pesantemente coinvolta sia con l’uso delle basi militari che col comando ad essa assegnato per il pattugliamento navale.

A questo proposito richiamano alla memoria la Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza antifascista e in particolare i seguenti articoli:
Art 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali; ……….”
Art. 78 “ Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.
Art.80 “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei Trattati Internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.
Questi articoli della Costituzione insieme a quello del diritto di asilo politico sono stati violati più volte dal dopoguerra in poi e oggi continuano palesemente a essere violati. L’Italia si è trovata molte volte a essere in stato di guerra senza che il parlamento avesse né discusso né votato alcuna risoluzione in tal senso e spesso le stesse missioni militari sono state approvate a posteriori.
Attraverso le violazioni dell’art. 80 non sono mai stati resi pubblici, perché coperti da segreto di Stato, gli accordi dei nostri governanti con il governo USA, in riferimento alla concessione di parti del territorio italiano per l’installazione di basi militari.

E’ evidente la difformità con altri paesi europei come per esempio la Germania che nonostante abbia perso la guerra ha già ricontrattato la presenza delle basi militari USA e NATO, anche a proposito dello stoccaggio di armi nucleari.
Tutto ciò è dimostrabile prendendo come modello – riproponibile per tutte le basi USA / NATO sparse per l’Italia – la storia di Camp Darby, la base logistica USA più grande d’Europa che ha svolto e svolge un ruolo strategico a livello planetario e in cui sono stoccate armi proibite come le cluster bomb, proiettili all’uranio impoverito e da dove con alta probabilità sono transitate anche armi nucleari.
Da questa base sono partiti mezzi e munizioni per tutti i teatri delle ultime guerre: Iraq, Afghanistan, ex-Jugoslavia ed oggi anche verso il nuovo teatro di guerra nel cuore del Mediterraneo: la Libia.

In questo quadro diventa ancora più preoccupante la decisione di realizzare nell’aeroporto militare di Pisa l’Hub Nazionale dell’aeronautica da dove partiranno le truppe e i mezzi per le cosiddette “missioni umanitarie”, cioè le guerre, in sinergia con la base militare USA di Camp Darby. La situazione del territorio tra Pisa e Livorno, già critica sul piano ambientale, sanitario, logistico ed economico si aggraverà, poiché l’inizio della guerra contro la Libia a seguito della Risoluzione ONU n. 1973 ci vede direttamente coinvolti come paese.

Non meno grave però sarà la situazione nelle aree in cui si trovano le altre basi o strutture militari di comando degli alleati, pensiamo a Napoli sede del Centro di Comando strategico della Nato, da cui si stanno coordinando le operazioni militari contro la Libia; alla Sicilia Trapani Birgi e Sigonella e il suo centro di ascolto radar e integrazione della rete di comunicazione Nato; alle basi di Aviano e Ghedi con la presenza di bombe nucleari; la base di Vicenza con il Dal Molin, a base di Solbiate Olona con il comando europeo di pronto intervento NATO a Cameri-Novara con gli F35; a Il salto di Quirra in Sardegna per l’addestramento e la formazione militare.
Tutto ciò, insieme a Camp Darby e ora all’Hub nazionale militare dell’aeronautica a Pisa, rappresenta il complesso strategico-operativo per la guerra globale, infinita e permanente a guida Usa-Nato. Anche l’U.E. e altri paesi utilizzano le basi militari presenti in Italia Se a ciò aggiungiamo l’incremento progressivo delle spese militari, l’ulteriore militarizzazione diffusa dei territori e le missioni militari all’estero, ci rendiamo conto di come l’Italia sia l’avamposto della guerra permanente.

Nel nostro paese il Movimento contro la guerra ha avuto in questi ultimi anni una battuta d’arresto, anche a causa delle nefaste scelte di rifinanziamento delle missioni all’estero e dell’aumento astronomico delle spese militari durante il precedente governo Prodi, che ha contribuito alla crescente delusione, con una progressiva smobilitazione delle coscienze dei cittadini e del “popolo della pace”, a una lacerazione nelle forze politiche anche di opposizione, tanto che oggi il PD si fa paladino dell’aggressione contro la Libia, votando in Parlamento con il PDL la guerra e la cosiddetta sinistra “radicale” appare confusa ed incapace di indicare una chiara strategia di contrasto al militarismo e alle guerre coloniali.

Il drammatico paradosso è che assistiamo a un a nuova guerra in pieno Mediterraneo, alle porte di casa, senza che vi sia ancora un movimento di opposizione forte, coordinato e permanente .
In nome dei diritti umani violati in Libia, si scatena una nuova guerra di aggressione da parte del neocolonialismo imperialistico, non perché si hanno a cuore le sorti del popolo libico, ma piuttosto in nome di una “santa alleanza” per l’accaparramento delle riserve di petrolio e gas di cui è ricco quel paese.
Le compagnie transnazionali, soprattutto francesi, ma anche inglesi e americane, non si stanno facendo quindi scrupoli nel sostenere e finanziarie con ogni mezzo i cosiddetti “ribelli” per sbarazzarsi la prima possibile di Gheddafi e avere così mano libera per privatizzare nuovamente i pozzi di petrolio e gas. E magari ripristinare le basi militari straniere che la precedente esperienza della Jamaijria (la repubblica popolare libica nata nel 1969 dopo la cacciata del Re Idris, fantoccio dell’imperialismo inglese) era riuscita a cacciare.

Il disegno del nuovo espansionismo neocoloniale – prevalentemente a guida europea con supervisione statunitense (i comandi NATO sono saldamente in mano al Pentagono) – è così evidente che non dobbiamo esitare nel contrastarlo con ogni mezzo informativo, ma anche di grande mobilitazione nazionale.
Ciò richiede l’urgente rilancio in Italia di un diffuso Movimento Contro la Guerra.

Ripartiamo da Pisa e da Napoli per lanciare il presente Appello per un Coordinamento Nazionale Contro la Guerra che, nel rispetto delle varie sensibilità, riunisca tutte le forze autenticamente pacifiste e contro la guerra, i movimenti contro le basi e le servitù militari, le Associazioni umanitarie e di solidarietà tra i popoli.
In Toscana, come Coordinamento nazionale contro la guerra ci impegniamo a promuovere a Pisa una mobilitazione costante contro l’Hub e la base militare Usa di Camp Darby, ormai evidenti strumenti funzionali alle strategie belliche della Santa Alleanza USA-Nato nell’area Mediterranea- Mediorientale.

Ancora una volta siamo davanti a un bivio storico in cui ciascuno di noi come singolo o movimento si trova di fronte alle proprie responsabilità nel difendere i valori fondanti della nostra Costituzione antifascista nata dalla Resistenza e dire un NO alla GUERRA chiaro e netto o accettare passivamente che si compia in Libia la tragedia già vista in Iraq, Jugoslavia, Afghanistan.
L’Italia rischia di pagare un prezzo altissimo con la partecipazione a questa guerra. Le conseguenze non saranno solo nell’immediato con l’ondata di profughi, ma anche in termini di economia, di approvvigionamento energetico, ambientali e morali. Si è scatenata una guerra contro i migranti, utilizzando mezzi e infrastrutture per impedire sbarchi, realizzare respingimenti o deportare uomini, donne, bambini nei centri – ghetto (spesso ex basi o caserme). Ciò favorisce ulteriori processi di militarizzazione, come le stazioni radar in Su d Italia acquistati dalla GdF con fondi UE.
Non esiste una guerra giusta anche se approvata con una risoluzione dell’ONU.
NO, in nostro nome la guerra non si farà! Non siamo disposti a mantenere in piedi un sistema mondiale consumistico, divoratore di materie prime e risorse energetiche che condanna a morte la maggioranza degli abitanti del pianeta.
Educhiamo alla pace e non educhiamo alla guerra. Chiediamo l’uscita dell’Italia dalla NATO e il ritiro di tutte le truppe italiane dai vari fronti di guerra.
L’unica medicina contro la guerra è: meno caserme, meno armi, più giustizia sociale, più scuole, più cultura, un nuovo modello sociale, basato sulla divisione equa delle ricchezze e non sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.

FIRMATARI

Coordinamento NO HUB Pisa-Livorno
Comitato NO Camp Darby
Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella
Rete nazionale Disarmiamoli
Comitato pace, disarmo e smilitarizzazione dei territori, Napoli
Assemblea No F35 Novara
Salento No War
Brigate di Solidarietà Popolare con l’America Latina
Comitato Internazionale di Educazione per la Pace
Gruppo No Hub No Guerra di Lucca


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Report dell'assemblea nazionale contro la guerra 
Napoli 17 aprile 2011

Scritto da Assemblea napoletana contro la guerra

Si è svolta a Napoli, nella mattinata di domenica 17 aprile, all’Università Orientale occupata, l’assemblea nazionale contro la guerra in Libia, primo momento di confronto all’interno del movimento. Più di 130 persone hanno partecipato all’iniziativa, decine e decine sono stati gli interventi di singoli e strutture, presenti compagni da circa 10 città, da Milano a Palermo. 

L’assemblea si è aperta ricordando il compagno ed attivista dell’ISM, Vittorio Arrigoni, rapito ed ucciso a Gaza nelle prime ore di venerdì. Fuori al Palazzo dell’Università è stato esposto uno striscione commemorativo, e sono state ammainate le bandiere dell’Unione Europea e dell’Italia e messe al loro posto quelle della Palestina. L’impegno di Vittorio, la sua umanità, la sua ironia anche nelle situazioni più tragiche, il calore e la gioia che ha saputo comunicare a chi lo aveva conosciuto rimarranno per sempre nei nostri cuori, e ci spingeranno ad un rinnovato impegno perché non vi siano più nel mondo oppressi ed oppressori.  

Gli organizzatori sono poi passati a fare un rapido bilancio della manifestazione nazionale del giorno prima. Una manifestazione che ha visto sfilare verso il comando NATO di Bagnoli oltre 3.000 persone, provenienti da diverse parti d’Italia, per contestare l’aggressione militare che da un mese sta insanguinando la Libia. La manifestazione, chiamata dall’Assemblea napoletana contro la guerra – un coordinamento di realtà autorganizzate, di collettivi studenteschi e territoriali – è stata giudicata pienamente riuscita. Nonostante il boicottaggio dei media ufficiali e l’indifferenza (se non il sabotaggio) di pezzi consistenti della sinistra “istituzionale” o di “movimento”, migliaia di persone, per lo più giovani, studenti medi e universitari, sono scesi in piazza per contestare la retorica delle “guerre umanitarie” e quella degli “interessi nazionali”. Nonostante tutte le difficoltà che i movimenti incontrano in questa fase, nonostante la confusione che questo intervento ha provocato nella sinistra, nonostante lo sbandamento di gran parte del movimento pacifista che nel 2003 era riuscito a esprimersi con forza, si è riusciti in sole due settimane a creare un appuntamento che superasse le piccole espressioni locali e individuali di contrarietà alla guerra. 
Senza indugiare in trionfalismi assolutamente fuori luogo – perché è innegabile che una contrarietà di massa alla guerra non si ancora espressa e che anzi le modalità di intervento bellico sono state in buona parte metabolizzate dal Paese – la lezione da trarre da questa manifestazione è evidente: se in poco tempo e con pochi mezzi alcuni collettivi di base sono riusciti a portare in piazza migliaia di persone, che cosa sarebbe successo se tutti i compagni, le realtà pacifiste etc avessero deciso di costruire anche loro questa mobilitazione? 
Il valore del corteo di sabato non è stato insomma solo nell’essere l’unica alternativa al silenzio ed alla complicità, o nell’essere coerente con le passate prese di posizione, ma nell’essere dimostrazione concreta che “si poteva fare”, che c’è un sentimento diffuso di contrarietà alla guerra e che se non lo si riesce a interpretare politicamente è anche per malafede, per un senso di sconfitta complessivo, per incapacità soggettive dei movimenti. 

Sono quindi iniziati gli interventi delle diverse realtà politiche presenti, che sono entrati nel merito delle differenti analisi e valutazioni su quello che è successo nell’ultimo mese sia in Libia che in Italia. Rispetto alla specificità della situazione libica, si è ricordata l’importanza del petrolio e delle royalties delle multinazionali, così come il ruolo e gli interessi di lungo corso della Francia nell’espansione dell’UE verso Sud, mentre altri hanno sottolineato come l’intervento sia legato anche ad un’esigenza di controllo delle rivolte della primavera araba. Sul “fronte interno”, si è discusso della questione dei migranti e del loro “uso strumentale”, nonché del restringimento delle libertà democratiche anche in Parlamento, con interventi militari che ormai non sono oggetto né di un dibattito pubblico né di uno istituzionale, e delle ricadute delle spese militari sulle classi popolari. 
Ci si è quindi interrogati sul perché non si sia creato un sentimento di sdegno forte contro questa guerra, e questo è stato imputato innanzitutto alla persistenza dell’idea di un’Unione Europea “buona”, anche quando si lancia in avventure militari, di un antimperialismo che più spesso è rivolto solo contro gli Stati Uniti e – non ultimo – ad una sinistra di base che si è comportata come se stesse al “governo”. Molti interventi hanno insistito sulla necessità in questa fase storica di ragionare su scala internazionale, mettendosi quantomeno allo stesso livello politico in cui vengono prese la maggior parte delle decisioni, quello europeo.

Vista la ricchezza del dibattito, tutti hanno convenuto che bisogna continuare il confronto e l’analisi delle varie situazioni arabe e nord africane, che hanno profonde peculiarità e differenze. Anche perché l’assemblea deve segnare un punto di partenza ed una forma pur embrionale di scambio e di coordinamento, soprattutto dopo l’incoraggiante manifestazione di sabato. Secondo gli intervenuti, bisogna continuare il lavoro di controinformazione e demistificazione nei posti di lavoro, nelle scuole, in ogni ambito sociale. Si è infine letto l’appello scritto dai compagni di Pisa in lotta contro l’Hub militare, scaturito dalla loro assemblea antimilitarista del 16 aprile, e si è presa conoscenza con favore della loro lotta, che è parte integrante del movimento contro la guerra.

L’assemblea ha quindi deciso:

- di creare di una mailing list su cui possano viaggiare informazioni, iniziative, segnalazioni, comunicazioni. 
- di convertire il sito usato per la manifestazione napoletana www.stopwar.altervista.org in sito contro la guerra in Libia, per propagandare analisi, iniziative etc. I compagni che se ne occuperanno sono quelli del CAU, a cui però vanno segnalate eventuali iniziative, rassegna stampa, articoli di approfondimento…
- di rivedersi il 15 maggio a Roma, per un nuovo incontro sulla guerra in Libia, per fare il punto della situazione ed immaginare qualche nuova iniziativa coordinata. 

Nel frattempo, ogni realtà deciderà se e come partecipare alle seguenti date:

- Manifestazione nazionale di sostegno alla Freedom Flottilla, 14 maggio a Roma
- Giornata nazionale di lotta presso il campo di Manduria, intorno al 18-19 giugno

Per il momento l’invito a tutte e tutti è a far girare questo report, coinvolgere altre realtà, organizzare iniziative e tenere aggiornato il sito, per rivedersi ancora più numerosi il 15 a Roma.

per iscriversi alla mailing list dell'assemblea nazionale contro la guerra spedire una mail a assembleanowar.na@...



... Viva il 25 Aprile! ...

I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA

1) Storie e memorie di una vicenda ignorata (scheda del libro)

2) Presentazione del libro a Sarnano (MC) l'8 maggio, ed altre in programma



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I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata

di Andrea Martocchia
con contributi di Susanna Angeleri, Gaetano Colantuono, Ivan Pavičevac
Prefazione di Davide Conti
Introduzione di Giacomo Scotti

Roma : Odradek, 2011

pp.348 - euro 23,00 - ISBN 978-88-96487-13-6



Che ci facevano questi Jugoslavi in Italia? Da tale domanda, apparentemente ingenua e disarmante, prende le mosse una minuziosa ricostruzione delle attività militari accadute sull'Appennino e sul versante del basso-adriatico, grazie a testimonianze e documenti la cui dispersione ha accompagnato la rimozione dell'intera vicenda.
Non erano certo invasori. Questi jugoslavi erano i prigionieri rinchiusi nei quasi duecento campi di detenzione fascisti in Italia (Renicci, Colfiorito, Corropoli...) fino all’8 Settembre del 1943 e che, una volta liberatisi, dettero un contributo efficace e decisivo alla Resistenza antifascista e antinazista italiana, irradiandosi dalla Toscana, all'Umbria, alle Marche, all'Abruzzo fino alla Puglia.
La ricerca inoltre individua il ruolo strategico della Puglia come “duplice retrovia” anche in relazione alle parallele vicende belliche nei Balcani; ruolo finora noto solo a pochi specialisti e in modo frammentario. Infatti, mentre in Puglia si costituivano brigate dell’EPLJ - Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia -, gli evasi jugoslavi dai lager della penisola animavano la lotta di Liberazione proprio nelle sue prime fasi lungo la dorsale appenninica, con episodi rilevanti, soprattutto in Umbria e nelle Marche, lasciando sul campo più di mille tra morti e dispersi. (...)
Nella ricerca sono inoltre discusse le ragioni politico-storiografiche di questa rimozione, così da fornire un importante contributo al dibattito metodologico sulla storia della Resistenza poiché si oltrepassa la chiave di lettura nazionale, solitamente schiacciata sul rapporto CLN-monarchia-Alleati. (dalla quarta di copertina)


Le altre riflessioni che emergono dalla lettura del testo riguardano da un lato la questione della mancata punizione degli esponenti fascisti e dei vertici del regio esercito italiano responsabili di crimini di guerra contro le popolazioni civili occupate e dall’altro la completa assenza nella sfera pubblica nazionale di una lettura critica del passato, capace di fare i conti con le responsabilità dell’Italia rispetto agli eventi della seconda guerra mondiale.
Sul piano internazionale, la collocazione in campi geopolitici contrapposti di Italia e Jugoslavia consentì al governo di Roma, grazie al sostegno degli Alleati anglo-americani, di evitare la consegna dei principali criminali di guerra al governo di Tito, ma parallelamente offrì l’opportunità di non riconoscere il peso e la valenza storico-militare del contributo jugoslavo alla Resistenza antifascista nella Penisola. (dalla Prefazione di Davide Conti)


I dittatori possono seminare odio e guerre, divisioni, distruzioni, morte e dolori (ed altro non sanno fare), ma i popoli alla fine sanno riconoscersi fratelli ed operare insieme, anche combattendo, per abbattere le dittature, costruire la democrazia e la pace. Come fecero i combattenti accorsi in Spagna in difesa della Repubblica combattendo contro Franco, italiani e jugoslavi insieme in alcuni reparti comuni; come fecero circa quarantamila soldati italiani passati nelle file dell’Esercito popolare di Liberazione jugoslavo dopo il settembre del Quarantatre trasformandosi da occupatori in combattenti della libertà col nome di garibaldini; come fecero quasi tutti gli jugoslavi finiti nei campi di internamento creati dal “duce” dando vita ai primi reparti della Resistenza in Italia già nel settembre di quel Quarantatre della svolta. (dalla Introduzione di Giacomo Scotti)


Al sito http://www.partigianijugoslavi.it è possibile consultare ulteriore documentazione sui temi qui trattati: si tratta della documentazione che non è rientrata nella presente edizione, assieme agli aggiornamenti e alle integrazioni che lo sviluppo ulteriore della ricerca e i suggerimenti dei lettori potranno fornire. Per contatti e contributi invitiamo a scrivere all'indirizzo: partigiani7maggio@... .


Odradek edizioni
via san Quintino 35
00185 Roma
tel/fax 06 70451413
odradek@...
www.odradek.it
http://www.odradek.it/blogs/index.php



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domenica 8 maggio

Piobbico di Sarnano (MC)

PER NON DIMENTICARE

In un periodo storico in cui c'è gente che vuole rifondare il partito fascista;
in cui i revisionisti vogliono correggere i libri di storia;
in cui i mass media vengono utilizzati per far proganda al regime;
in cui la Costituzione viene messa a rischio ogni giorno;

NON POSSIAMO DIMENTICARE CHI HA COMBATTUTO PER LIBERARE IL NOSTRO PAESE DALL' OPPRESSORE

Ti aspettiamo Domenica 8 Maggio a Piobbico di Sarnano (MC)

Ore 09.00
Ritrovo all’Abbadia di Piobbico e partenza per la camminata lungo il sentiero partigiano
Ore 11.30
Arrivo dei camminanti e commemorazione presso l’ex scuola elementare di Piobbico
Ore 12.30
Rientro all’Abbadia e pasta offerta dall’organizzazione
Ore 14.30
Presentazione del libro
I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
"Storie e memorie di una vicenda ignorata”
incontro con gli autori Andrea Martocchia e Susanna Angeleri
ore 16.00
Concerto
GANG IN DUO
- i fratelli Severini -
Marino e Sandro - due sedie e due chitarre

organizza: ANPI Sarnano

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SONO IN CORSO DI ORGANIZZAZIONE ANCHE PRESENTAZIONI NELLE LOCALITA' SEGUENTI:

# Perugia, 13 maggio 2011
# Roma, 18 maggio 2011
# Arezzo, 20 maggio 2011
# Terni, 21 maggio 2011
# Bari, 27 maggio 2011
# Orvieto, Firenze, Teleambiente (emittente locale del Lazio), ...



(english / italiano / francais)

La tardiva condanna di Gotovina e Markac

Dopo quasi 20 anni dai fatti, quando oramai il "nuovo ordine" nazionalista e imperialista nei Balcani è stato realizzato, al "Tribunale ad hoc" dell'Aia è consentito di emettere una prima condanna per alcuni dei responsabili della pulizia etnica" delle Krajine e della Slavonia... E qualcuno accenna alle complicità degli USA e della Francia nei crimini commessi per imporre lo squartamento della Jugoslavia. Meglio tardi che mai: purché nessuno si illuda che questo ordine, basato stragi e ingiustizie, sia definitivo. (IS)

1) Croatian conviction casts light on US responsibility for war crimes
(Paul Mitchell / WSWS / 22 April 2011)

2) Gotovina Convicted of War Crimes
(Rachel Irwin / IWPR / 15 Apr 11)

3) 24 anni ad Ante Gotovina
(Luka Zanoni / OdB / 15 aprile 2011)


LINKS:

TPI : Ante Gotovina, criminel de guerre et « ami de la France »
Le général croate Ante Gotovina a été condamné le 15 avril 2011 à 24 années de prison par le TPIY pour crimes de guerre et crimes contre l’humanité. Il a commencé sa carrière militaire dans les rangs de Légion étrangère française. Après la quille, il a collé des affiches pour le Front national, joué les gros bras pour des agences de sécurité proche du SAC de Pasqua. Il a aussi dévalisé une bijouterie de la place Vendôme, à Paris... Mais il est toujours resté un « ami de la France », ce qui lui a valu la protection de la DGSE durant sa longue cavale. Au mépris de la collaboration pleine et entière des Balkans avec le TPIY exigée par l’UE...

I numerosi commenti alla notizia sul sito OdB

La scheda del caso Gotovina-Čermak-Markač sul sito del TPI

I video del processo sulla pagina Youtube del TPI


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Croatian conviction casts light on US responsibility for war crimes


By Paul Mitchell 
22 April 2011


Last week, the International Criminal Tribunal for Yugoslavia in the Hague found two Croatian military leaders, General Ante Gotovina and Assistant Interior Minister Mladen Markac, guilty of war crimes and sentenced them to 24 years and 18 years imprisonment, respectively. A third defendant, Ivan Cermak, was acquitted.

Gotovina and Marcak were accused of taking part in a “joint criminal enterprise”, the purpose of which was “the permanent removal” of the Serb population of the Krajina region of Croatia during the August 1995 Operation Storm military offensive, which broke a United Nations-monitored cease-fire.

Their crimes, involving “deportation and forcible transfer, plunder of public and private property, wanton destruction, murder, inhumane acts and cruel treatment”, led to the deaths of up to 2,200 people, half of them civilians, and the creation of 200,000 Serb refugees.

Tens of thousands have demonstrated in the Croatian capital Zagreb since Gotovina was convicted with banners proclaiming him a hero for his role in the “Homeland War”, which erupted soon after Croatia declared independence from Yugoslavia in June 1991. German imperialism, anxious to flex its political muscles after reunification, had promoted Croat secession and rushed to extend recognition. While both the US and the other Western European powers initially opposed recognition, they ultimately accepted Germany’s position.

Warnings that civil war would result were dismissed. Within months Serbs, who dominated the west of Croatia, declared an independent Serb Republic of Krajina (RSK), splitting the country in two. Operation Storm was designed to bring the region back under Croat control.

The conviction of Gotovina and Markac casts further light on the role of the US government in Operation Storm and its responsibility for what has been described as the biggest act of ethnic cleansing during the Balkan Wars.

During the trial, it became apparent that US officials were in constant contact with the Croatian government, encouraging the military offensive at a time when a UN cease-fire was in operation. They knew that war crimes were likely to be committed. The Clinton administration also approved the training of Croat forces, and provided intelligence and air support. No US official or politician has been placed on trial or is likely to be.

Peter Galbraith, a former senior adviser to the US Senate Foreign Relations Committee and US ambassador to Croatia from 1993 until 1998, was called at the trial as an “expert witness”. Asked to explain his comments at the time that Operation Storm could not be described as ethnic cleansing, he replied, “ethnic cleansing, as I considered it to be, involved actions to expel the population through military attacks, terror, mass rape, killings, to make sure that everybody who survived left, the burning of homes.

“Basically, ethnic cleansing was what the Serbs did. In my view, the Croatians—Croatia did not do this in Operation Storm, because when the Croatian forces arrived, the Serbs were already gone. [They had been warned to leave by the RSK government when it was clear an attack was imminent.] So you couldn’t ethnically cleanse somebody who was not there.”

He continued, “So that’s what I meant by that statement. I have to say that I, over the years, have regretted that I made it, because it was misunderstood and sort of seemed to be an apology for the Croatian military action, and that was not what was intended.”

Galbraith told the court that Croatian President Franjo Tudjman was obsessed with creating an ethnically homogeneous “Greater Croatia”. He believed the Serbs in the Krajina were too numerous and constituted a strategic threat to Croatia. Any who left (or were driven out) should not be allowed to return.

Tudjman had become the US’s closest ally in the Balkans. Galbraith said, “In the first two and a half years, I met with him very frequently; I would say several times a week, on some occasions several times a day.”

Other close contacts were Defence Minister Gojko Susak, “who I simply saw all the time”, and Foreign Minister Mate Granic, whom Galbraith saw “four or five times a week.” “We would speak on the phone all the time”, he explained.

Regular meetings were also held with Tudjman’s chief of staff, Hrvoje Sarinic, and Miro Tudjman, Tudjman’s son, who was head of the Croatian intelligence service.

Following the end of the Croat-Bosnian Muslim war in 1994, the US talked to Croatia “about becoming our partner in the peace process” and promised “the fastest possible integration into western political, economic, and security arrangements”, Galbraith explained.

In early 1995, the US was becoming exasperated with its European allies and the United Nations over their continued failure in Bosnia and perceived lack of resolve in confronting Slobodan Milosevic. Galbraith said, “I had strong disagreements with the United Nations and was very frustrated with how it was conducting itself…. [I]t was my conclusion that the UN troops there were not going to defend the [Bihac] pocket because, after all, the Dutch troops had not defended Srebrenica [leading to the massacre of 7,000 Bosnian Muslims], and the troops in Bihac were less capable.”

“If NATO wasn’t going to save Bihac, then—and Croatia was willing to undertake military action that we should not object to that military action…that was the position that my government took. As I wrote in messages, I was aware that Croatian military action to save Bihac would produce a humanitarian crisis with regard to the Krajina, but in what I called the hierarchy of evils—that humanitarian crisis clearly would rank lower than a situation in which the Bosnian Serbs took Bihac.”

The US agreed to Gotovina and the Croatian Army launching an attack along the Livno valley, knowing it was part of planned military takeover of the whole Krajina.

Galbraith said he told Tudjman that the US “was not approving of these operations in the sense of telling the Croatians to do this, but we were clearly not objecting, and in that context the fact that we were not objecting was highly significant because we and other countries had objected to any action that had expanded the war—that arguably would have expanded the war, including objecting to military action, November 10th, 1994, during a previous Bihac crisis.”

“We certainly didn’t say, don’t do it, and we didn’t say, do it,” Galbraith repeated elsewhere.

Susak told a meeting at the Ministry of Defence that included Gotovina, “The west has given a partial blessing.”

The US was giving a green light to Operation Storm, however much Galbraith tries to evade it, even though it knew that similar offensives including the Medak pocket in 1993 and in Western Slavonia in May 1995 had led to the expulsion of tens of thousands of Serbs and the indiscriminate killing of hundreds of others.

At the same time, Galbraith was meeting with Milan Babic to convince him to accept terms for peace, which he did on August 2. “I thought that there was some prospect that Babic would be able to get the parliament to agree to accept the deal that I worked out with him,” he related.

Negotiations between the two sides were also taking place in Geneva on August 3, the day before Operation Storm was launched. But it was clear from Galbraith’s testimony that the Croats were going to present an ultimatum the Serbs could not accept.

“As to the meetings in Geneva, they, the Croatians, used them as a vehicle to present their final ultimatum…. [I]t was clear to me, as it was to the other diplomats in Zagreb and I think to the broader international community, that the meeting in Geneva was just that, that it was pro forma, that it was a very dangerous situation, that Tudjman was going to outline demands that he had already stated, and that the Serbs were going to refuse them, and that that would provide the pretext for war.”

The next day, August 4, 1995, troops from Croatia and Bosnia-Herzegovina launched Operation Storm. Galbraith said he saw evidence of war crimes, the extensive and systematic destruction of Serb property and widespread killings. “I can think that they only happened because the Croatian state authorities, Tudjman and…the gang around him, wanted this to happen,” he said.

By the end of September, as the scale of the destruction and atrocities became apparent, pressure intensified for a cease-fire. However, the US continued to encourage the Croatians to advance.

Richard Holbrooke, Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs and architect of the Dayton Accords that ended the Bosnian war, warned Tudjman, “You may have a cease-fire within one week or less, and I would hope that you could take Sanski Most and Prijedor and Bosanski Nova if possible before a cease-fire…. [I]f you take those three towns before a cease-fire, we can have a successful negotiation on the map. In any case, officially, the United States always says no more military action, but privately, and I cannot be quoted on this, I would urge you to consider the fact that the pressure for a cease-fire within the next week is very, very high.”

Evidence has also emerged of the role of Military Professional Resources Inc. (MPRI). The private military contractor, licenced by the US, is run by retired US generals. It started work in Croatia in January 1995, in the run-up to Operation Storm. Galbraith only referred to MPRI briefly in his testimony, but their activities have been documented in the WSWS (see “An exchange on the break-up of Yugoslavia“).

Last year, a class action suit was brought in the US by Krajina Serbs claiming MPRI trained and equipped the Croatian military for Operation Storm and designed the battle plan. The action says MPRI sought to “procure through its contacts heavy military equipment including artillery batteries and import it into Croatia; [and] arrange for Croatia to receive real-time coded and pictorial information from US reconnaissance satellites over Krajina in order for the data to be used for accuracy targeting in artillery batteries.”

“It was evident that MPRI’s acts, especially including equipping and training military forces, would run counter to UN Security Council Resolution 713 [imposing a cease-fire and arms embargo]. But because MPRI is not a state, it is not legally bound by UN resolutions. Thus MPRI could do things that the United States could not do, such as importing weapons into Croatia….”

There was evident satisfaction in the US with the progress of Operation Storm according to Galbraith, who explained, “Many people in Washington welcomed Croatia’s actions, and it was certainly welcomed…by many in the Clinton Administration for the reason that I stated, which is that it began to change the situation in Bosnia” and led to the Dayton Accords.

“The Croatian army military campaign in Bosnia, along with the military campaign by the army of the government of Bosnia and Herzegovina, along with NATO air-strikes that began at the very end of August were the three elements—decisive elements that led to the end of the Bosnia war, and it would not have been—it would not have happened if it were not for the Croatian army’s military action,” Galbraith concluded.

Now that Gotovina and Markac have been convicted of war crimes, it begs the question as to why leading figures in the Clinton administration have not been similarly indicted for their intimate role in these terrible events.



=== 2 ===


Courtside

Gotovina Convicted of War Crimes

Former Croatian army general found guilty of eight out of nine charges against him.

Croatian army general Ante Gotovina was this week convicted at the Hague tribunal of ordering unlawful and indiscriminate attacks on Serb civilians during 1995’s Operation Storm offensive and sentenced to 24 years in prison, with credit for time served.

He was also found to be responsible for the deportation of at least 20,000 Serb civilians from the Krajina region of Croatia, as well as for the murder, persecution and cruel treatment of Serb civilians. In addition, he was convicted on counts of plunder and wanton destruction.

The only count that he was acquitted of, out of a total of nine, was forcible transfer.

As the verdict was read out on April 15, Gotovina, wearing a dark suit, sat back in his chair and appeared to be listening intently but displayed little emotion. When his prison sentence was announced, some of those seated in the public gallery cried out in shock.

One of Gotovina’s co-defendants, special police commander General Mladen Markac was also convicted on eight out of the nine counts in the joint indictment. He was sentenced to 18 years in prison with credit for time served.

The third co-defendant, Knin garrison commander General Ivan Cermak, was acquitted of all charges.

Reading out the verdict to a packed courtroom and public gallery, Presiding Judge Alphons Orie noted that “the events in this case took place in the context of many years of tension between Serbs and Croats in the Krajina.

“In this regard, the parties agreed that a considerable number of crimes had been committed against Croats in the Krajina….However, this case was not about crimes happening before the indictment period.

“Nor was it about the lawfulness of resorting to and conducting war as such. This case was about whether Serb civilians in the Krajina were the targets of crimes, and whether the accused should be held criminally liable for these crimes.”

The indictment focused solely on the period before and after Operation Storm, an offensive launched by Croatian forces on August 4, 1995 to retake the Serb-controlled Krajina region.

Judge Orie said that during the offensive, Croatian forces fired “artillery projectiles” at the towns of Knin, Benkovac, Gracac and Obrovac.

“…The chamber concluded that the Croatian forces deliberately targeted in these towns not only previously identified military targets, but areas devoid of such military targets,” the judge said. “As such, the chamber found that the Croatian forces treated the towns themselves as targets for artillery fire.”

Thus, the shelling of these towns constituted an “indiscriminate…and unlawful attack on civilians and civilian objects”, he said.

The judge said that Serb civilians were already leaving these towns in large numbers by the time Serb Krajina president Milan Martic ordered an evacuation on August 4.

“The trial chamber concluded that the evacuation plans and orders of the Krajina Serb authorities had little or no influence on the departure of the Krajina Serbs,” Judge Orie said.

However, in the towns of Benkovac, Gracac, Knin and Obrovac, “the chamber concluded that the fear of violence and duress caused by the [Croatian] shelling created an environment in which those present there had no choice but to leave”.

Croatian military and special police forces also committed murder, plunder and other inhumane acts “which caused duress and fear of violence in their victims and those who witnessed them”, the judge said, adding, “These crimes added to the creation of an environment in which these persons had no choice but to leave.”

Of the Serbs who left the Krajina in August 1995, “the chamber concluded that at least 20,000 were deported”, he continued.

The judge also spoke of specific examples of murder and cruel treatment committed by Croatian forces, including one instance where they put some “textiles” under the feet of a Serb man who they had tied to a tree, and then set the material alight.

“In pain from the fire, the witness kicked the textiles away,” Judge Orie said.

In addition, he said there was evidence of a “large number” of incidents concerning plunder and destruction committed by Croatian military forces and special police.

Witnesses had testified about seeing burnt houses and also “military trucks loaded with electronic equipment and furniture leaving Knin on 6 August 1995 without being stopped at Croatian checkpoints”, the judge said.

As for Gotovina himself, judges determined he was part of a joint criminal enterprise, JCE, with other members of the Croatian political and military leadership. The aim of this JCE was the “permanent removal of the Serb civilian population from the Krajina by force or threat or force”.

On July 31, 1995, Gotovina attended a meeting with other high-ranking officials about the upcoming military operation. According to Judge Orie, during this meeting Gotovina said that a “large number of civilians are already evacuating Knin and heading towards Banja Luka and Belgrade. That means that if we continue this pressure, probably for some time to come, there won’t be so many civilians, just those who have to stay, who have no possibility of leaving”.

The judge said that the then Croatian president Franjo Tudjman “was a key member of the joint criminal enterprise.

“Tudjman intended to repopulate the Krajina with Croats and ensured that his ideas in this respect were transformed into policy and action though his powerful position as president and supreme commander of the armed forces,” Judge Orie said.

Gotovina contributed to the “planning and preparation” of Operation Storm, ordered unlawful attacks on the four previously mentioned towns, the judge said.

“Mr Gotovina failed to make a serious effort to prevent and follow up on crimes reported to have been committed by his subordinates against Krajina Serbs,” he continued.

Gotovina’s co-defendant Markac, who was in charge of the special police forces, was also found to have participated in the planning of Operation Storm and to have been a member of the JCE.

Judges found that members of the special police took part in the “destruction” of part of Gracac on August 5 and 6, and also in the looting of Krajina Serb property in Donji Lapac on August 7 and 8.

“The chamber found that Mr Markac knew about the involvement of his subordinates in the commission of these crimes, but that he did not take any steps to identify the perpetrators in order to take appropriate action against them, nor did he take any step to prevent the commission of further crimes,” Judge Orie said.

Markac also “advanced false stories” and “participated in the cover up” of crimes committed by his subordinates against Krajina Serb property.

As for Cermak, who was commander of the Knin garrison, judges found that “the evidence did not establish that Mr Cermak knew or intended that his activities contribute to any goal of populating the Krajina with Croat rather than Serbs”.

The judges found that the prosecution “did not prove its allegations that Mr Cermak permitted, minimised, denied or concealed crimes against Serbs, nor that he provided false, incomplete, or misleading information or false assurances to the international community”.

Cermak was found not guilt on all counts and will be released from the United Nations detention unit after necessary arrangements are made.

The trial began in March 2008 and heard a total of 145 witnesses. Closing arguments were held in late August 2010.

Rachel Irwin is an IWPR reporter in The Hague.


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24 anni ad Ante Gotovina


Il Tribunale internazionale dell'Aja ha condannato oggi a 24 anni di reclusione Ante Gotovina, il generale croato sotto processo per crimini perpetrati durante il conflitto in ex-Jugoslavia. 18 anni ad un altro generale croato, Mladen Markač
L’ex generale dell’esercito croato Ante Gotovina accusato di crimini di guerra compiuti durante e dopo la famosa Operazione Oluja (Tempesta) dell’agosto 1995, in cui furono cacciate decine di migliaia di cittadini di nazionalità serba dalla Croazia, di cui centinaia uccisi brutalmente, è stato condannato questa mattina dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPI) a 24 anni di carcere. L’accusa avevo chiesto una condanna per 27 anni. 
Ante Gotovina è stato riconosciuto parte di una associazione criminale e dichiarato colpevole di 8 capi di imputazione relativi a crimini contro l'umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra. Tra le accuse accolte dai giudici ci sono quelle di omicidio, persecuzione e deportazione. 
Il processo Gotovina era iniziato l’11 marzo 2008 ed è terminato nel settembre 2010. La sentenza di primo grado è stata letta questa mattina dal giudice Alphons Orie. Ante Gotovina era stato arrestato il 7 dicembre 2005 sull’isola di Tenerife (Canarie) dopo quattro anni di latitanza, l’accusa contro di lui era stata sollevata nel 2001 e rivista con aggiunte nel 2004.
Sul banco degli imputati sono comparsi insieme a Gotovina altri due ex generali croati Mladen Markač e Ivan Čermak. L’accusa aveva richiesto la condanna a 23 per Markač e 17 per Čermak. Quest’ultimo è stato assolto da tutti i capi d’accusa, mentre Mladen Markač è stato condannato a 18 anni di reclusione.
Questa sentenza avrà sicuramente riflessi sulla politica e sulla società croata. Se la maggior parte della popolazione croata sostiene i processi per crimini di guerra, la percentuale scende precipitosamente se in questione ci sono i cosiddetti eroi della “guerra patriottica” come viene definita in Croazia la guerra degli anni ‘90.
È difficile per una parte dell'opinione pubblica croata accettare il concetto di guerra patriottica e il fatto che nella stessa siano stati commessi crimini contro l’umanità. Questa sentenza potrebbe facilmente innescare un sentimento anti europeo, influendo sul referendum cui è chiamata la Croazia il prossimo autunno per decidere l’ingresso nell’Ue. Ma potrebbe avere ripercussioni anche sulla politica interna, penalizzando l’attuale leadership già traballante dopo le ripetute accuse di corruzione che hanno portato all’arresto dell’ex premier Ivo Sanader. Le elezioni sono vicine, al massimo verranno spostate ad inizio 2012, e la condanna di Gotovina potrebbe giocare un ruolo nel rafforzamento di formazioni politiche di estrema destra.




I Maggio a Trieste ed altre iniziative con i delegati Zastava

1) Delegati di Kragujevac in Friuli VG (aprile 2011)
2) Rientro da Kragujevac, relazione preliminare e un indirizzo youtube (marzo 2011)


=== 1 ===

Da:  Gilberto Vlaic <gilberto.vlaic @ elettra.trieste.it>
Oggetto: [CNJ] Delegati di Kragujevac in Friuli VG
Data: 20 aprile 2011 19.59.02 GMT+02.00

ONLUS Non bombe ma solo caramelle - Trieste

Care amiche, cari amici
e’ con grande piacere che vi informiamo che una folta delegazione di delegati sindacali dei lavoratori della Zastava di Kragujevac sara’ in Friuli Venezia Giulia la settimana prossima, per informarci sulla situazione REALE della fabbrica, della citta’ di Kragujevac e piu’ in generale sulle REALI condizioni della Serbia. In questo modo intendiamo anche rafforzare ed estendere la nostra piu’ che decennale campagna di solidarieta’ con questi lavoratori, le loro famiglie e con tutta la citta’.

Di seguito gli appuntamenti che abbiamo definito e ai quali siete caldamente invitati:

Giovedi’ 28 aprile, ore 18.00 a Udine, in sala Ajace
Incontro con la CGIL e la FIOM friulana; sara’ presente anche Giorgio Airaudo della FIOM di Torino.
Titolo dell’iniziativa:
Dalla fabbrica alla scuola, il modello Fiat, le alternative per uno sviluppo globale sostenibile.
Maggiori dettagli nel documento in attachment [ https://www.cnj.it/INIZIATIVE/volantini/Zastava_1maggio2011.pdf ].

Venerdi’ 29 aprile, ore 11 e 30 nella sede della Regione in Piazza Oberdan [Trieste]
Conferenza Stampa in modo da illustrare LA REALE SITUAZIONE della citta’ e della fabbrica, dopo le menzogne sparse a piene mani dalla stampa italiana sull’intervento della Fiat in Serbia

Venerdi’ 29 aprile, vari incontri a San Giorgio di Nogaro (UD), 
comunita’ che da molti anni e’  fortemente coinvolta nella nostra campagna di affidi a distanza e nello sviluppo di molti progetti nella citta’ di Kragujevac
Ore 17 Incontro con l’amministrazione comunale in sala consiliare
Ore 17.30 incontro con Daniela Corso Presidente della casa di riposo "Chiabà"
Ore 19.00 incontro con il Presidente Lorenzo Mattiussi e con i volontari della Misericordia della Bassa Friulana nella loro sede.

Domenica PRIMO MAGGIO mattina prenderanno parte con le loro bandiere al corteo sindacale a Trieste

Domenica Primo Maggio pomeriggio alle ore 17 
saranno presenti al tradizionale concerto del Coro Partigiano Triestino Pinko Tomazic a Opicina.

Vi ricordiamo ancora di sottoscrivere il 5 per mille per la nostra ONLUS
Il codice fiscale e’ 90019350488

Sperando di incontrarvi numerosi vi inviamo i piu’ cordiali saluti
Continuate a sostenerci!
Gilberto Vlaic
Non bombe ma solo caramelle ONLUS

Trieste, 20 aprile 2011


=== 2 ===

Da: Gilberto Vlaic <gilberto.vlaic @ elettra.trieste.it>

Oggetto: [CNJ] Rientro da Kragujevac, relazione preliminare e un indirizzo youtube

Data: 28 marzo 2011 13.58.45 GMT+02.00


Care amiche, cari amici,
siamo rientrati domenica 20 marzo 2011 dal periodico viaggio a Kragujevac.
La relazione completa del viaggio sara’ pronta entro entro il prossimo mese di aprile.

Vogliamo pero’ anticipare alcune cose.

Abbiamo trovato una situazione ancor piu’ precaria e degradata di quella incontrata nei viaggi di  precedenti: la cancellazione della Zastava Automobili, di proprieta’ pubblica, ha dato un duro colpo all’economia della citta’ e reso ancor piu’ difficili le condizioni di vita dei circa 1500 lavoratori che hanno perso non solo il salario ma le speranze di trovare un lavoro.

Questa nuova situazione ha colpito anche pesantemente l’ufficio relazioni internazionali ed adozioni a distanza, con il quale abbiamo condiviso queste esperienze degli affidi a distanza e dei tanti progetti che abbiamo portato avanti da piu’ di dieci anni.
La rete delle associazioni italiane che agiscono a Kragujevac ha deciso unanimemente di mantenere in piedi questo ufficio garantendo un sostegno economico a tre persone (Rajka, Dragan e Delko).

Abbiamo consegnato 153 quote di affido, quasi tutte trimestrali per un totale di 13260 euro.
Inoltre abbiamo consegnato 14 affidi annuali per conto della associazione ALJ di Bologna (4340 euro)

Abbiamo verificato con grande soddisfazione la conclusione dei lavori dei due progetti che erano ancora aperti:
- il restauro della sala del Parlamento degli studenti del Liceo di Kragujevac, che e’ stata chiamata SALA DELLA PACE E DELLA SOLIDARIETA’
- il completamento dei lavori edili della grande sala della Scuola primaria 19 ottobre che sara’ usata come palestra e come centro di aggregazione per tutto il quartiere di Marsic.

Per quanto riguarda nuovi progetti ci e’ stato proposto di partecipare al recupero degli edifici di un ex villaggio turistico utilizzato ormai da molti anni come campo profughi.
Si tratta di un insediamento molto degradato di dieci edifici in legno (piu’ tre edifici in muratura dove sono ubicati i servizi igienici e la cucina), ubicato fuori citta’, nel villaggio di Trmbas, dove abitano 280 profughi dal Kosovo. L’impegno necessario e’ assolutamente al di fuori delle nostre diponibilita’ e verificheremo se riusciremo a trovare altri che possano entrare in collaborazione con noi.

Infine abbiamo partecipato ad una affollatissima assemblea del sindacato Samostalni durante la quale sono stati eletti i nuovi dirigenti.

Durante questa assemblea e’ stato presentato un CD sulle attivita’ che le associazioni italiane hanno realizzato dal 1999 in poi. E’ molto interessante e ben fatto; malgrado sia in serbo ve ne consiglio la visione; lo trovate su youtube all’indirizzo:

http://www.youtube.com/watch?v=3Y0kLfFcP8U&feature=player_embedded

Per il momento e’ tutto.
Il prossimo viaggio si svolgera’ tra il 30 giugno e il 3 luglio prossimi.
Consegneremo una rata di affido trimestrale.

Il successivo sara’ intorno al 21 ottobre e consegneremo due trimestri di affido, in quanto non effettueremo viaggi a dicembre.

UN GRANDE GRAZIE A TUTTE/I VOI PER IL SOSTEGNO CHE DATE A QUESTA CAMPAGNA DI SOLIDARIETA’!!!

Vi ricordiamo ancora il 5 per mille...
codice fiscale della ONLUS 90019350488

Gilberto Vlaic
ONLUS Non bombe ma solo caramelle

Trieste 27 marzo 2011




LE VITTIME INNOCENTI DEL TERRORISMO IN BIELORUSSIA NON MERITANO NEPPURE UN TELEGRAMMA DI CORDOGLIO

su l'Ernesto Online del 21/04/2011

Per i governi occidentali le vittime innocenti del terrorismo in Bielorussia non meritano neppure un telegramma di cordoglio!

“Non capisco come paesi, che si proclamano democratici e civili, non abbiano sentito il dovere di esprimere le loro condoglianze con il popolo della Bielorussia, così gravemente colpito”, ha dichiarato il presidente Aleksander Lukashenko nel commentare la completa assenza di manifestazioni di cordoglio da parte di numerosi paesi occidentali, dopo il terribile attentato alla metropolitana di Minsk, a poca distanza dal palazzo di governo, che ha provocato la morte di 12 civili innocenti.

“Non hanno sentito il dovere di esprimere cordoglio neppure a un popolo, come il bielorusso, che, nella lotta coraggiosa contro il fascismo, ha avuto così tante sofferenze. Un popolo, senza il quale, la bestia del fascismo non sarebbe mai stata sconfitta”.

“Il comportamento di certi governi e ambasciatori di fronte ai tragici avvenimenti di Minsk è la cartina di tornasole dei loro reali sentimenti nei confronti della Bielorussia. Che vergogna!”, ha concluso Lukashenko.

[L'attentato stragista nella capitale bielorussa, a due passi dalla residenza del presidente Lukashenko, si è verificato lo scorso 11 aprile 2011.]


(francais / italiano)

Ah, questi sciocchini nostalgici

1) IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST
(R. Vassilev, Global Research 11/4/2011)
2) Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA
(P. Saint-Paul, Le Figaro, 30/06/2009)


=== 1 ===

The original text in english:
The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe
by Dr. Rossen Vassilev - Global Research, March 8, 2011
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IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST

Postato il Lunedì, 11 aprile @ 17:10:00 CDT di marcoc

DI ROSSEN VASSILEV
Global Research

Poco prima del giorno di natale dello scorso anno, un disperato ingegnere della TV pubblica che protestava per le controverse misure economiche prese dal governo, si è gettato dal balcone del parlamento rumeno durante un discorso del primo ministro. A quanto pare l’uomo, sopravvissuto al tentato suicidio, prima di buttarsi ha urlato: “Avete strappato il pane dalle bocche dei nostri bambini! Avete ucciso il loro futuro!” L’uomo, in seguito identificato come Adrian Sobaru di 41 anni, indossava una maglietta con la scritta: “Avete ucciso il nostro futuro” e il suo giovane figlio, autistico, ha recentemente perso ogni sussidio pubblico a causa dei recenti tagli al bilancio operati dal governo. Il tentativo di suicidio è stato trasmesso in diretta dalla TV pubblica rumena durante il discorso del primo ministro Emil Boc, in seguito a un fallito voto di sfiducia nei confronti del suo governo conservatore. Le misure di austerità fiscale e salariale per le quali il signor Sobaru protestava includevano tagli salariali del 25% nei confronti dei dipendenti pubblici e pesanti tagli ai sussidi pubblici per genitori con figli disabili, che lui aveva ricevuto fino a poco prima. 

Secondo la locale agenzia stampa Agerpres, le urla disperate dell’uomo nel parlamento ricordavano drammaticamente quelle sentite durante la rivoluzione anticomunista che fece crollare il regime autocratico e pro-occidentale di Nicolae Ceausescu.


Il caos economico 

Il tragico gesto del signor Sobaru, in seguito trasmesso su tutte le TV mondiali, ha mosso a compassione tanti rumeni che in esso hanno individuato il simbolo delle feroci ingiustizie e ineguaglianze dell’era post-comunista. La Romania è caduta in una pesante recessione e la sua disastrata economia dovrebbe perdere almeno il 2% nel 2010, dopo essersi ridotta del 7.1% l’anno precendente. Invece di cercare di sostenere i disoccupati e i più svantaggiati, il governo di Bucarest che secondo vari rapporti risulta essere caratterizzato da corruzione, favoritismi e nepotismo, ha tagliato il salario pubblico di un quarto e bloccato del tutto la spesa pubblica, il contributo per il riscaldamento per i poveri così come ogni benefit per disoccupazione, maternità e per i disabili. Allo stesso tempo, la tassa sul commercio è salita dal 19 al 24 per cento nel tentativo di abbassare il deficit pubblico sotto il 6.8%, per venire incontro alle rigide richieste fiscali della UE, di cui la Romania è entrata a far parte dal gennaio 2007.

Queste dure misure di austerità hanno indignato milioni di rumeni che appena riescono a finire il mese, in un paese nel quale lo stipendio mensile medio è di 400 euro. Manifestazioni rabbiose che hanno portato per le strade decine di migliaia di rumeni sono la prova della profonda indignazione per la povertà di massa e l’infinita crisi economica che ha portato la Romania sull’orlo della bancarotta. “Questo non è capitalismo, nei paesi capitalisti avete una classe media”, afferma una dirigente di un minimarket di Bucarest a un reporter della Associated Press. Ma la società rumena – si lamenta lei – è divisa tra una piccola minoranza di gente molto ricca e un diffuso sottoproletariato impoverito.[1]

Sebbene la tragedia umana vista nel parlamento rumeno quel giorno pre-natalizio sia abbastanza sintomatica della dilagante miseria e della fine della speranza per una vita migliore, tuttavia essa avrebbe potuto verificarsi facilmente in qualunque altro paese ex-comunista, dove si soffre lo stesso per la mancanza di impiego, povertà di massa, salari in declino, forti tagli alla spesa pubblica e declino dello standard di vita. Proprio mentre il signor Sobaru cercava di suicidarsi, molti dei 20.000 medici degli ospedali della Repubblica Ceca abbandonavano il loro lavoro per protestare in massa contro la decisione del primo ministro Petr Necas di tagliare tutte le spese pubbliche, inclusa la spesa sanitaria, di almeno il 10% per riuscire a tenere a galla la difficile situazione finanziaria del paese. Queste dimissioni di massa fanno parte della campagna “Grazie ma ce ne andiamo” lanciata dal personale paramedico in tutto il paese che intende fare pressione sulle autorità di Praga per un aumento salariale e per ottenere migliori condizioni lavorative di tutto il personale medico. Davanti alla peggior crisi del settore sanità nella storia del paese ex-comunista, che stava mettendo in pericolo la vita di molti pazienti, il governo ceco ha minacciato lo stato di emergenza che ha costretto i medici a tornare al lavoro per non andare incontro a pesanti conseguenze legali e finanziarie.

Sarebbe necessario ricordare anche le largamente ignorate rivolte contro la fame avvenute nel 2009 in Lettonia, il tanto lodato ‘miracolo baltico’ così caro ai maggiori media occidentali, dove il primo ministro in carica Valdis Dombrovskis è stato rieletto ne 2010 nonostante i suoi pesanti tagli nel settore pubblico e i già miseri standard di vita dei lettoni ( la campagna elettorale si era concentrata sullo scontro tra i nazionalisti lettoni e la numerosa e irrequieta minoranza di lingua russa presente nel paese). Secondo il dottor Michael Hudson, professore di Economia presso la University of Missouri, a causa dei profondi tagli governativi al welfare, all’istruzione, salute, trasporto pubblico e ad altre spese di infrastrutture sociali che minacciano di colpire la sicurezza economica, lo sviluppo sul lungo termine e la stabilità politica di tutti i paesi del blocco ex-sovietico, i giovani stanno emigrando in massa per migliorare le loro vite invece di soffrire per un’economia senza opportunità lavorative. Per esempio, più del 12% della popolazione lettone (e una percentuale molto più ampia della sua forza lavoro) ora vive e lavora all’estero.

Quando la ‘bolla neoliberista’ è scoppiata nel 2008, scrive il professor Hudson, il governo conservatore lettone ha ottenuto ingenti prestiti dalla UE e dal FMI a condizioni così svantaggiose che le durissime misure di austerità che ne sono conseguite hanno ridotto l’economia lettone del 25% (le vicine Estonia e Lituania hanno vissuto un declino economico simile) e la disoccupazione, in questo momento al 22%, continua ad aumentare. Con ben oltre il 10% della propria popolazione che lavora fuori dai confini nazionali, i lettoni all’estero inviano a casa loro qualunque cosa per aiutare a sopravvivere le loro disagiate famiglie. I bambini lettoni (pochi, infatti i matrimoni e la natalità in questo paese baltico sono crollati) in questo modo vengono lasciati ‘come orfani’, e gli esperti in materie sociali si chiedono come potrà questo paese di 2.3 milioni di abitanti a sopravvivere in senso demografico.[2] Questi sono i risultati delle misure di austerità del post-comunismo che hanno tagliato le gambe alla popolazione e salvato i creditori internazionali e le banche locali.

La diffusione del populismo di destra 

La profonda crisi economica e la diffusa disoccupazione lungo il mondo ex-comunista ha portato al potere alcuni partiti radicali e politici che hanno abbracciato il nazionalismo populista di destra. Il Fidesz ungherese (Unione Civica Ungherese), uno spregiudicato partito nazionalista di destra, ha vinto le elezioni parlamentari in aprile del 2010 col 52.73% dei voti. Jobbik (Movimento per un’Ungheria Migliore), partito xenofobo di estrema destra, è arrivato terzo col 16.67% dei voti. In mezzo a una disastrosa depressione economica, la destra nazionalista ha vinto la maggior parte del voto popolare riportando in vita il tradizionale capro espiatorio ungherese delle minoranze etniche e accusando in particolar modo ebrei e zingari per la diffusa mancanza di lavoro e povertà del paese. Un membro eletto al parlamento del Fidesz, Oszkár Molnár, ha proclamato: “Amo l’Ungheria, amo gli ungheresi e preferisco gli interessi ungheresi rispetto a quelli del capitale finanziario globale o del capitale ebraico che vuole divorare il nostro mondo e in particolare l’Ungheria. Nessun suo collega di partito lo ha contestato, nemmeno in pubblico.

Nel dicembre 2010, con una maggioranza parlamentare di due terzi, il Fidesz ha permesso l’approvazione di una misura draconiana sui media, che ha dato al governo la libertà di esercitare un rigido controllo sui media privati. Questa controversa nuova legge ha spinto manifestanti a scendere per le strade di Budapest con cartelloni pubblicitari in bianco per protestare contro la censura proposta dal governo. La legge ha anche attirato le critiche della UE (di cui l’Ungheria è membro dal maggio 2004) che vede la proposta come una ‘minaccia alla libertà di stampa’ e ‘una seria minaccia alla democrazia’ dal momento che prevede pesanti multe e altre penalità per chi pubblica o trasmette attraverso media e internet informazione ‘sbilanciata’ o ‘immorale’, in particolar modo se critica del governo, in un paese dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. I critici lamentano che la legge più restrittiva d’Europa sui media soffocherà il pluralismo e porterà indietro le lancette della democrazia in questo paese dal passato comunista.

La stampa tedesca in particolare ha accusato il primo ministro ungherese Viktor Orbán per aver non solo messo la museruola ai media locali, ma anche perché vuole far comandare il Fidesz in maniera esclusiva, portando l’Ungheria verso un ‘Führerstaat’ totalitario (in modo simile, gli opinionisti ungheresi lamentano la strisciante ‘Orbánizzazione’ del loro paese). Károly Vörös, editore del quotidiano ungherese Népszabadság, protesta perché la nuova legge sui media vuole ‘istillare un sentimento di paura nei giornalisti’ e perché ‘l’intero stato ungherese si sta dissolvendo in modo sistematico’.[3] Ma il populista di tipo berlusconiano Orbán ha percepito il profondo malessere dell’ungherese medio, intrappolato nel vortice della globalizzazione, nei confronti del capitalismo, della UE e degli Stati Uniti e ora ha assunto un atteggiamento di sfida, così come aveva già fatto in passato, avvertendo la UE di non intromettersi negli affari interni dell’Ungheria: “ È la UE che dovrebbe adattarsi all’Ungheria e non viceversa..” (L’Ungheria è dal 1 gennaio scorso presidente di turno della UE, carica che dura 6 mesi). In verità, molti ungheresi sospettano che la nuova legge sui mezzi di comunicazione sia solo un diversivo per distrarre l’attenzione pubblica dai laceranti problemi economici del paese.

Un’altra figura autocratica, Boyko Borisov, un tempo capo della ex-polizia nazionale dall’oscuro passato comunista e, a quanto si dice, con legami con il sottobosco criminale locale, governa la Bulgaria, diventata membro della UE a gennaio del 2007 nonostante fosse lo stato col più alto indice di corruzione e criminalità del blocco di paesi ex-sovietici, a parte il Kosovo, stato guidato dalla mafia (altro candidato membro della UE, forse già per il 2015). Il successo alle elezioni del luglio 2009 dell’uomo forte di stampo mussoliniano Borisov e del suo partito di destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) non deve sosrprendere in un paese la cui difficile situazione è diventata la più emblematica della traiettoria aberrante e dell’ondata di malcontento del post-comunismo. Secondo quasi ogni indicatore macroeconomico, l’attuale condizione della Bulgaria è peggiore rispetto a quella del suo passato comunista.

Le statistiche ufficiali mostrano che sia il PIL che il reddito pro-capite della popolazione sono crollati, la rete di sicurezza sociale è stata disintegrata e anche la sopravvivenza fisica di tanti bulgari impoveriti è a rischio. L’effetto immediato delle ‘riforme’ orientate al mercato è stato la distruzione dell’industria e dell’agricoltura bulgare, disoccupazione, inflazione, drammatica disuguaglianza dei salari, povertà schiacciante e anche malnutrizione. Il crimine organizzato e la corruzione endemica sotto forma di nepotismo e favoritismi, concussione, peculato, corruzione, clientelismo, contrabbando, racket, scommesse illegali, prostituzione e pornografia hanno imposto un severo dazio sugli standard di vita e sui mezzi di sussistenza dell’era post-comunista. Un altro sciagurato effetto consiste nella diffusa trascuratezza dei diritti sociali ed economici dei bulgari medi, per i quali la giornata lavorativa di 8 ore non è altro che un ricordo.

La disastrata condizione economica, in cambio, ha generato un clima politico piuttosto mutevole e imprevedibile. Nessuno dei governi eletti nel tormentato periodo post-comunista è riuscito a sopravvivere per più di un mandato (spesso non sono riusciti a concluderlo). Questa mutevolezza dimostra che la natura instabile della politica in Bulgaria è dovuta alla catastrofe della situazione economica e alla chiara incapacità dei dirigenti dei partiti esistenti di offrire una soluzione credibile. Stanchi del declino economico, del disinteresse del governo, della malversazione estrema, del crimine crescente e della corruzione, i bulgari danno sempre un voto di protesta contro la presa di potere di gruppi di politici incompetenti, autoreferenziali, corrotti e criminali che cercano solo il proprio profitto. Ma la fine di questa miseria sembra essere lontana, specialmente perché il governo di Borisov ha imposto un draconiano bilancio di austerità, tagliando almeno il 20% della spesa pubblica.

Allo stesso tempo, la politica è diventata di gran lunga il business più proficuo e anche meno rischioso di qualunque attività imprenditoriale. Così i partiti politici sono diventati come avide corporazioni e ben organizzate cricche prive di ogni scrupolo in cerca di lucro, che cercano di arrivare al potere per arricchirsi sfruttando la letargia della popolazione addomesticata e saccheggiando le risorse del paese, specialmente ora che il paese conta con notevoli quantità di fondi di aiuto straniero e di investimenti dalle UE. Potenti interessi di origine spesso criminale organizzano e finanziano tutti i maggiori partiti politici, aggiungendo in questo modo elementi fortemente plutocratici a una oligarchia sostanzialmente cleptocratica e di stampo mafioso. Ecco perché la gente comune non vede alcuna differenza tra il loro corrotto governo e i ben organizzati consorzi criminali. Quindi non sorprende sentire i bulgari riferirsi al proprio paese come uno ‘stato mafioso’, ‘repubblica delle banane’, ‘circo’ e ‘Absurd-istan’. Stanno ancora aspettando l’arrivo, a lungo promesso, del capitalismo ‘normale’ e di una democrazia ‘normale’ dove la sicurezza economica personale, stipendi sufficienti e decenti standard di vita sostituiranno la mancanza di lavoro, la povertà estrema, la condizione dei senzatetto e lo scoraggiamento sociale. Circa 1.2 milioni di bulgari (il 16% della popolazione), per lo più giovani, hanno espresso il loro voto andando all’estero in cerca di migliori condizioni (l’emigrazione dei poveri ha contribuito a ridurre la popolazione bulgara dai quasi 9 milioni del 1989 a circa 7 milioni di oggi).

Crollo del sostegno popolare 

Subito dopo il crollo del comunismo, i paesi del passato blocco sovietico e altri stati ex-comunisti della regione sono diventati neoliberisti ( e un discreto numero di essi sono anche stati smembrati a livello territoriale) e, ad eccezione delle piccole élite locali pro-occidentali che si comportano da criminali, le loro popolazioni hanno raggiunto una povertà da terzo mondo. Quasi tutti questi 28 paesi eurasiatici hanno sperimentato un declino economico su lungo termine di dimensioni catastrofiche (solo la Polonia è riuscita a sorpassare il PIL che aveva durante il comunismo). Pesanti ricadute economiche, corruzione radicata, e diffuso senso di frustrazione nella popolazione, insieme alle privazioni e sofferenze dell’apparentemente infinita transizione post-comunista, stanno minando il prestigio delle nuove autorità e anche la fiducia della popolazione nella democrazia occidentale e nel capitalismo basato sul mercato. Una nuova generazione di plutocrati rapaci e insensibili, affamati di ricchezza e potere, ha saccheggiato – attraverso un ingiusto e corrotto processo di privatizzazione – i beni dell’economia di stato dei regimi passati e ha ricreato in casa i peggiori eccessi del capitalismo dickensiano del secolo XIX, come se il progresso del secolo XX non fosse mai esistito. In mezzo alla diffusa mancanza di lavoro, all’indigenza, malnutrizione e anche fame, sono sorte in tutte le città grandi ville private di lusso estremo come sontuosi simboli di guadagni illeciti e di ricchezze impensabili per la gente comune che lotta per trovare un lavoro, pagare le bollette e trovare case a prezzi decenti. Questa ‘nuova classe’ di nouveau riche dagli agganci giusti a livello politico, che vive una lussuosa Dolce Vita, sembra essere pronta a commettere qualunque crimine per ottenere profitti e per arricchirsi facilmente, agisce secondo il principio di Luigi XV ‘Après moi, le déluge’ e distrugge le speranze di chiunque per aumentare il proprio profitto e modernizzare il proprio paese secondo lo stile di una nazione ‘civilizzata’. Gli unici affari fiorenti in molte delle ‘economie emergenti’ sembrano derivare dal crimine organizzato, di solito gestito dai cleptocrati presenti nei circoli di potere.

Mentre questo gruppo parassitario di ‘nuovi ricchi’ si arricchisce – in parte evadendo le tasse grazie al nuovo sistema di leggi retrograde di ‘aliquota unica’ – i cittadini dei paesi ex-comunisti ora devono pagare l’assistenza medica, una volta governativa e gratuita, anche se devono pagare imposte salariali, sui mutui e sulle vendite – cose che non dovevano pagare sotto i regimi comunisti. C'è anche la monetizzazione e/o privatizzazione dell’educazione che prima era gratuita, in particolar modo delle superiori e la novità di collegi, scuole e università privati dove gli studenti devono pagare la formazione, incluse le rette per gli esami di ammissione e altri esami obbligatori richiesti ad ogni livello del percorso educativo. I sussidi del governo per la sanità, l’educazione, il supporto legale per ottenere una casa, l’accesso all’elettricità e il trasporto pubblico stanno scomparendo nella corsa al taglio della spesa sociale e al deficit di bilancio, rendendo molto difficile la lotta per la sopravvivenza a molta gente. La regione è diventata una sorta di banco di prova per verificare fino a che livello si può privare la popolazione dei propri diritti sociali ed economici, come quello al salario minimo, vacanze pagate, accesso libero e gratuito al servizio sanitario, all’educazione e alle spese legali, alla pensione all’età di 60 anni per gli uomini e di 55 per le donne e infine al diritto a unirsi ai sindacati. Ma, nonostante i crescenti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, la ferrea disciplina del mercato e la mancanza di social welfare o anche di un benché minimo sostegno sociale, l’antico detto dell’era comunista ‘Loro (i padroni) fanno finta di pagarci, noi (i lavoratori) facciamo finta di lavorare’ sembra essere molto più veritiero oggi di quanto lo sia mai stato durante il comunismo. Perché oggi nessuno vuole lavorare sodo per i nuovi datori di lavoro privati e spesso stranieri che sembrano essere interessati solo a spremere quanto più possibile i lavoratori in cambio del minimo. Allo stesso tempo, l’educazione pubblica e le scienze, così come gli istituti di cultura, vengono colpiti in nome del risparmio dei ‘soldi dei contribuenti’ (per esempio l’Accademia nazionale delle scienze è già stata chiusa o sta per esserlo in un certo numero di questi paesi).

In questi paesi schiacciati dalla crisi dove gli standard di vita si sono deteriorati con l’aumento della disoccupazione, povertà e pauperismo, criminalità, così come l’abuso di alcol e droga, insieme a prezzi inaccessibili di cibo, casa e carburante, il consenso pubblico nei confronti dell’operato dei governi è pressoché minimo ovunque. E i paesi in cui questa discrepanza tra le aspettative della popolazione e l’operato dei governi diventa molto ampia, ovvero in quasi tutti i paesi ex-comunisti, l’adesione ai principi democratici si indebolisce sempre di più. I regimi che non rispettano le promesse fatte, a lungo andare perdono la legittimità, rischiando crisi sistemiche (per esempio il paradigmatico caso della Germania di Weimar). Date le terribili condizioni di vita e lavorative, molti cittadini dei paesi ex-comunisti stanno perdendo la fiducia nel credo del capitalismo e della democrazia liberale. Tanti rigettano l’idea che i loro paesi siano di fatto democratici. La percezione negativa della popolazione non può che colpire l’attitudine democratica (cioè la percezione del valore della democrazia) e quindi il cosiddetto ‘deficit democratico’ è statisticamente piuttosto diffuso lungo l’intera regione. Le élite locali che governano stanno lentamente perdendo la loro legittimità.

Di conseguenza, proteste pubbliche e disordini sociali sono diffusi, inclusa la dozzina di controverse rivoluzioni ‘colorate’, che hanno avuto successo o meno a seconda di quanto l’Occidente ha garantito il proprio appoggio contro governi legittimamente eletti ma diventati estremamente impopolari. Nel gennaio 2011, per esempio, sono stati uccisi molti manifestanti e 150 sono rimasti feriti durante una manifestazione contro il governo a Tirana, capitale dell’Albania. Il primo ministro albanese Sali Berisha ha giurato che non avrebbe permesso l’abbattimento del suo governo, ma l’opposizione ha organizzato altre manifestazioni a Tirana e in altre città albanesi e ha promesso di organizzarne altre in futuro. I sostenitori del partito socialista, all’opposizione, accusano le autorità per la cattiva gestione finanziaria, la criminalità e la corruzione pandemiche, il crollo dell’economia e per la mancanza di servizi di pubblica utilità. Chiedono anche nuove elezioni, sostengono infatti che il governo ha falsato il voto delle elezioni vinte con minimo margine dai democratici di Berisha nel 2009. Le tensioni sono aumentate per l’accusa di Berisha nei confronti dei socialisti di aver tentato ‘una rivolta simile a quella tunisina’, riferendosi alla sanguinosa rivolta in Tunisia dove sono state uccise decine di persone. Simili proteste antigovernative si tengono regolarmente nella Georgia post-sovietica, nonostante i tentativi delle autorità ‘democratiche’di schiacciare il dissenso. L’opposizione contesta a Mikheil Saakashvili, l’uomo forte della Georgia, la disastrosa guerra con la Russia e il collasso del paese. ‘La stragrande maggioranza del paese è sull’orlo della povertà. Niente funziona in Georgia tranne lo stato di polizia’, ha detto Lasha Chkhartishvili del partito conservatore all’opposizione, ai giornalisti stranieri nel mese di febbraio durante le manifestazioni contro Saakashvili tenute intorno al palazzo del parlamento nella capitale georgiana, Tbilisi. “Il regime dittatoriale di Saakashvili presto cadrà perché la pazienza della popolazione ha un limite’[4]

Al momento, l’attenzione di tutti è diretta al mondo musulmano e al tentativo delle nazioni arabe a favore della democrazia di trasformare la politica lungo il Grande Medioriente. Ma il germe di queste sorprendenti rivolte esiste quasi dappertutto, specialmente nelle aree del post-comunismo. Provocare disordini per contestare la povertà, la mancanza di lavoro e il ladrocinio endemico da parte delle autorità dopo oltre 20 anni di dominio post-comunista incompetente, corrotto e disonesto – in combinazione con il disastroso esperimento di laissez faire dell’intero blocco ex sovietico –, ha prodotto una profonda instabilità regionale per cui la sopravvivenza di alcuni regimi sostenuti dall’Occidente sembra essere a rischio. Questo dato è confermato da una speculazione senza precedenti che ricorda fortemente il periodo subito anteriore alla caduta del comunismo – come i commenti di molti lettori sui forum dei media locali – sull’instabilità e reversibilità del nuovo ordine post- comunista e la sua possibile sostituzione con la ‘democrazia rivoluzionaria’ di certi paesi latinoamericani. Questo senso di insicurezza e di fragilità è stato rafforzato dall’ondata di nostalgia per il comunismo che attraversa i paesi ex-comunisti.

La nostalgia del comunismo 

C'è una grande delusione per le mancate promesse dalle rivoluzioni del 1989, che hanno portato a un rapido declino degli standard di vita dei cittadini una volta comunisti. La diffusa esasperazione per l’impoverimento, la corruzione, la piccola criminalità e per il generale caos sociale che hanno caratterizzato la transizione al capitalismo e alla democrazia di stampo occidentale, ha prodotto una crescente nostalgia per il passato comunista tra la gente comune (quella che non fa parte dell’ élite cittadina e pro-occidentale di questi paesi), che guarda con simpatia ai ‘bei vecchi tempi’ del comunismo, una inquietante tendenza diffusa nella regione e conosciuta come ‘Soviet chic’.

Secondo l’Indagine Strategica e di Valutazione della Romania, recentemente pubblicata, il 45% dei rumeni ritiene che sarebbe stato meglio se non ci fosse stata la rivoluzione anti-comunista. Il 61% degli intervistati ha dichiarato di vivere in condizioni molto peggiori rispetto al periodo di Ceausescu, solo il 24% dichiara di vivere meglio ora. Se i risultati di questa inchiesta sono credibili (è stata condotta verso la fine del 2010 su un campione di 1476 adulti e può avere un margine di errore del più o meno 2.7%), allora Ceausescu ha assunto il valore di martire presso i rumeni. Almeno l’84% crede che è stato sbagliato giustiziarlo senza un processo equo e il 60% si dispiace della sua morte.[5] Secondo un’altra indagine recente, il 59% dei rumeni considera il comunismo una buona idea. Circa il 44% degli intervistati pensa che è stata una buona idea ma applicata male, mentre solo il 15% ritiene che sia stato ben realizzato. Appena il 29% dei rumeni vede il comunismo come una cattiva idea. Non ci sono differenze significative tra uomini e donne su questa domanda, ma le opinioni sul comunismo cambiano a seconda di età e luogo di residenza. La maggioranza di chi ha più di 40 anni vede nel comunismo una buona idea ( il 74% di questi ha più di 60 anni e il 64% è di età compresa tra i 40 e i 59 anni). Ma solo una minoranza delle nuove generazioni, che non hanno conosciuto il regime di Ceausescu, la pensa allo stesso modo (il 49% in età compresa tra 20 e 39 anni e solo il 31% di chi ha meno di 20 anni). Gli interpellati che vivono in zone rurali hanno una visione più positiva – solo il 21% di loro considera il comunismo una cattiva idea, rispetto al 34% di chi abita in zone urbane.[6] E molti rumeni ricordano con nostalgia i giorni felici di quando la maggioranza di loro avevano un lavoro stabile, case date dallo stato a prezzi popolari, salute pubblica, e vacanze pagate dal governo sul Mar nero. “Rimpiango la fine del comunismo – non per me, ma lo penso quando vedo i miei figli e nipoti lottare così tanto” racconta un meccanico in pensione di 68 anni. “Avevamo lavori sicuri e salari decenti sotto il comunismo. Avevamo abbastanza da mangiare e andavamo in vacanza con i bambini.”[7]

Il ‘Soviet chic’ è particolarmente popolare tra gli abitanti della ex Germania dell’est dove si parla di ‘Ostalgia’.[8] Secondo Der Spiegel, una rivista tedesca di orientamento conservatore, “a due decenni dal crollo del muro di Berlino, la glorificazione della Repubblica Democratica Tedesca è in crescita. I giovani e i benestanti sono tra coloro che legittimano la Repubblica Democratica Tedesca (RDT). “La RDT aveva più aspetti positivi che negativi. C’erano problemi ma si viveva bene”, sostiene il 49% degli intervistati. L’otto per cento dei tedeschi dell’est non ammette critiche nei confronti della loro ex patria o è d’accordo con l’affermazione secondo cui “la RDT aveva aspetti per lo più positivi. SI viveva più felici e meglio che nella Germania riunificata..” I risultati di questa inchiesta sono stati pubblicati per il ventesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino e rivelano la profonda nostalgia della ex Repubblica Democratica da parte di molti tedeschi dell’est. E non da parte di persone anziane. “È nata una nuova forma di Ostalgia” ha affermato lo storico Stefan Wolle. “Il desiderio di vivere in una dittatura idealizzata va oltre l’idealizzazione dei dirigenti governativi” si lamente Wolle. “Anche i giovani che non hanno vissuto durante la RDT la idealizzano”.

“Meno della metà dei giovani nella Germania est descrive la RDT come una dittatura, e la maggior parte sostiene che la Stasi era un normale servizio di intelligence.” Questa è la conclusione sui giovani della Germania est cui è arrivato il politologo Klaus Schroeder, direttore di un istituto di ricerca alla Libera Università di Berlino che studia il passato stato comunista. Questi giovani non possono - e di fatto non vogliono – riconoscere i lati oscuri della RDT”. La ricerca di Schroeder fornisce una prospettiva scioccante sui delusi cittadini della ex RDT. “Oggi molti pensano di aver perso il paradiso quando cadde il muro” dice un abitante della Germania est, un altro uomo di 38 anni ringrazia dio per aver vissuto durante la RDT, perché solo dopo la sua fine ha visto gente senza un tetto, mendicanti e poveri che temono per la propria sopravvivenza. Oggi la Germania, così la descrivono in molti, è uno ‘stato schiavo’ e una ‘dittatura capitalista’, alcuni rifiutano del tutto la riunificazione perché la Germania appare essere troppo dittatioriale e capitalista, certamente non democratica. Queste opinioni, secondo Schroeder, sono allarmanti: “Temo che la maggioranza dei tedeschi dell’est non si riconoscano con l’attuale sistema sociopolitico”. Un altro cittadino dell’est sostiene nell’articolo dello Spiegel che “nel passato la gente si divertiva e godeva della propria libertà anche in un campeggio”. Ciò che più gli manca è “quella sensazione di amicizia e solidarietà”. Il suo verdetto sulla RDT è chiaro: “Per quanto mi riguarda, in quei tempi non vivevamo in una dittatura come quella di oggi”. Non solo vuole vedere di nuovo la parità salariale e pensionistica ma si lamenta del fatto che la gente ricorre all’inganno e alle menzogne dappertutto nella Germania riunificata. Le ingiustizie oggi vengono perpetrate in modo più ambiguo rispetto al passato, quando i salari da fame e la microcriminalità erano fenomeni del tutto sconosciuti.[10]

In risposta allo spirito nostalgico del comunismo, ampiamente diffuso nell’intera regione, e al radicale cambio d’opinione secondo cui l’ultimo leader della Polonia comunista, il generale Wojciech Jaruzelski, è molto più popolare del prima riverito ma ora marginalizzato Lech Walesa, ex leader del sindacato Solidarnosc, Nobel per la pace ed ex presidente della Polonia e icona dell’anticomunismo, i ferventi anti- comunisti polacchi hanno rivisto il codice penale e vi hanno incluso la proibizione di qualunque simbolo del comunismo. Sotto questa nuova legge degna dell’Inquisizione cattolica medievale, i polacchi possono essere multati e messi in prigione se trovati a cantare l’Internazionale, o se portano una bandiera rossa, una stella rossa o l’insegna della falce e il martello e altri simboli dell’era comunista, o se indossano una maglietta del Che Guevara. Allo stesso modo, il governo conservatore della Repubblica Ceca sta cercando di mettere fuorilegge il partito comunista delle regioni della Boemia e Moravia (anche se nell’ultima ha ottenuto l’undici per cento alle ultime elezioni tenute in maggio 2010 ed è rappresentato in entrambe le camere del parlamento) apparentemente perché la dirigenza si rifiuta di eliminare la sacrilega parola “Comunista” dal nome del partito. Molti paesi ex-comunisti membri della UE hanno chiesto a Bruxelles di far pressione affinché fosse proibito in tutta la comunità europea negare i crimini dei vecchi regimi comunisti. “Il principio della giustizia dovrebbe garantire un giusto trattamento per le vittime di tutti i regimi totalitari”, hanno scritto in una lettera indirizzata alla Commissione europea di giustizia i ministri degli esteri della Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Romania, e hanno insistito sul fatto che “ il perdono pubblico, la negazione e la trivializzazione grossolana dei crimini dei regimi totalitari” dovrebbero essere criminalizzati in tutti i paesi membri della UE. Il parlamento europeo, dietro istigazione di deputati anti-comunisti provenienti da paesi post-comunisti, ha già approvato una controversa risoluzione sul “totalitarismo” che equipara il comunismo con il nazismo e fascismo. Ma queste misure punitive non hanno minimamente intaccato l’epidemia della nostalgia per il comunismo: la maglietta più in voga tra i berlinesi dell’est in questo momento riporta la seguente frase: “Ridatemi il mio muro. E questa volta fatelo due metri più alto!”

È il turno dei paesi ex-comunisti? 

Con l’attenzione dei governi occidentali rivolta alle tensioni e ai conflitti del mondo arabo, si tende ad ignorare o dimenticare le crisi che attanagliano le nazioni ex-comuniste. Date le dilaganti diseguaglianze, la miseria, la corruzione dei governi e la criminalità organizzata che hanno caratterizzato l’ordine post-comunista, la situazione in queste terre non è meno incendiaria di quella del Nord Africa e del Medioriente e presto potrebbe diventare più agitata di quel che si può immaginare ora. È possibile tracciare uno scenario futuro simile a quello della Tunisia, Egitto e addirittura della Libia?

Per ora, i pazienti cittadini di questi paesi dopo aver sofferto già tanto, stanno stringendo i denti nella speranza che le prossime elezioni portino al potere un messianico salvatore su un cavallo bianco che – assistito dalla generosa assistenza dell’Occidente dalle tasche apparentemente mai vuote – alla fine possa liberare le loro società, colpite dal collasso economico e dalla povertà, dall’abisso in cui sono precipitate. La gente comune che vive in quei paesi crede che le rivoluzioni democratiche e le grandi aspettative siano state tradite, sequestrate o rubate da varie ‘forze oscure’, dall’élite ex-comunista che ha rimpiazzato il passato potere politico con quello economico, alla corrotta alleanza (agli occhi della popolazione di sinistra) tra gli ambiziosi pseudo democratici locali e gli avidi capitalisti occidentali, e infine, a una insidiosa cospirazione che coinvolge l’FMI, la Banca Mondiale, la Soros Foundation e la ‘finanza ebraica internazionale’ (di solito, secondo gli estremisti della destra nazionalista). Si può dire, insieme a Sir Robert Chiltern della commedia di Wilde Un marito Ideale, che “Quando gli dei vogliono punirci esaudiscono le nostre preghiere”.

Solo il tempo può dire se le preghiere esaudite dei paesi ex-comunisti saranno state una punizione del cielo. D’altro canto, potrebbero sorgere nuove idee su come resistere al potere schiacciante delle banche internazionali e delle corporazioni con l’adozione di riforme di tipo progressista con l’obiettivo di creare un ordine mondiale democratico libero dai signori della globalizzazione e dall’élite compradora locale ad essi asservita.

Note

[1] George Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism,” Washington Post, 11 gennaio, 2011.
[2] Michael Hudson e Jeffrey Sommers, “Latvia Provides No Magic Solution for Indebted Economies,” Guardian.co.uk, 20 dicembre, 2010.
[3] “There’s More at Stake than Just Freedom of the Press,” Der Spiegel International, 19 gennaio, 2011. 
[4] “Saakashvili Has Turned Georgia into A Police State,” Interfax, 11 febbraio, 2011.
[5] “45% of Romanians Say ‘Ceauşescu, Please Forgive Us for Being Drunk in December (1989)’,” Bucharest Herald, 29 dicembre, 2010.
[6] I risultati di questa indagine condotta tra un campione rappresentativo di rumeni tra il 22 ottobre e il 1 novembre 2010 sono stati pubblicati dall’Istituto per lo Studio dei Crimini del Comunismo e per la Memoria degli Esiliati Rumeni, questo il link: http://www.crimelecomunismului.ro/en/about_iiccr
[7] Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism.”
[8] ‘Ostalgia’ deriva dalla parola in tedesco Ost (est) e Nostalgie (nostalgia) e si riferisce al diffuso senso di appartenenza a molti aspetti della vita della RDT.
[9] Julia Bonstein, “Majority of East Germans Feel Life Better under Communism,” Der Spiegel International, 3 luglio, 2009. 
[10] Ibid. In un articolo scritto sul Guardian in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, un’accademica della ex-Germania dell’est lamenta il crollo della RDT che offriva “eguaglianza sociale e di genere, piena occupazione e la mancanza di paure esistenziali, e sosteneva le rendite”. Secondo lei l’unificazione ha “portato divisione sociali, disoccupazione diffusa, ricatti, un crasso materialismo dove si va avanti sgomitando”. Bruni de la Motte, “East Germans Lost Much in 1989: For Many in the GDR the Fall of the Berlin Wall and Unification Meant the Loss of Jobs, Homes, Security and Equality,” Guardian.co.uk, 8 novembre, 2009.
Titolo originale: "The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe"

Fonte: http://www.globalresearch.ca
Link
08.03.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RENATO MONTINI


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Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA


Patrick Saint-Paul, correspondant à Berlin
30/06/2009 | Mise à jour : 11:05

Oubliés les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager : la moitié des Ossies regrettent le régime communiste.

Près de vingt ans après la chute du mur de Berlin, de nombreux Allemands de l'Est continuent à cultiver une nostalgie pour leur pays disparu. Au regard de la crise économique, qui frappe durement l'Allemagne, certains d'entre eux n'hésitent plus à comparer la RDA à une sorte de «paradis social», où régnait la sécurité de l'emploi. Selon un sondage publié lundi, près d'un Allemand sur cinq originaire d'ex-RDA est nostalgique du mur de Berlin et du régime communiste est-allemand.

Selon ce sondage réalisé par un institut de Leipzig et publié dans le magazine culte de l'Est Super Illu, 17 % des Allemands de l'Est approuvent la phrase : «Il aurait mieux valu que le Mur ne tombe pas. Avec le recul, la RDA était avec son socialisme un meilleur État.» Parmi les chômeurs, «l'Ostalgie» - la nostalgie envers l'Est - atteint des proportions records : 44 % des chômeurs souhaiteraient le retour du régime communiste, qui fournissait un travail et un logement à tous.

Plus de la moitié des Ossies (Allemands de l'Est) se considèrent comme des «citoyens de seconde zone», alors que 41 % s'estiment au contraire traités sur un pied d'égalité avec les Allemands de l'Ouest. Depuis la réunification en 1990, l'ex-RDA a bénéficié d'investissements publics massifs mais n'a jamais rattrapé le niveau de vie de l'Ouest. Les salaires et les retraites restent inférieurs à l'Est, où le taux de chômage est en moyenne deux fois plus élevé qu'à l'Ouest.

Selon une autre étude, dont les résultats ont été publiés dans le dernier numéro de l'hebdomadaire Der Spiegel, 57 % des Allemands de l'Est n'hésitent pas à défendre en public l'ancien régime du parti unique (SED). Et 49 % approuvent la phrase : «La RDA avait davantage de bons côtés que de mauvais côtés. Il y avait quelques problèmes, mais on pouvait y vivre bien.» Certains ont totalement oublié les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager à l'étranger et l'étroite surveillance de la Stasi, la police secrète. Ainsi, ils sont 8 % à juger que «l'on vivait mieux et plus heureux en RDA qu'aujourd'hui».


Le danger de la banalisation


Pour l'historien Stefan Wolle, une nouvelle forme d'Ostalgie a vue le jour. «La nostalgie de la dictature dépasse de loin le cadre des anciens fonctionnaires du régime», explique-t-il. Certains jeunes issus de l'Allemagne de l'Est n'hésiteraient pas à idéaliser la RDA, bien qu'ils ne l'aient pas connue. Ceux-là ont fait de la défense du pays de leurs parents une question de fierté. Une inquiétante étude publiée l'année dernière avait souligné le manque d'information de la jeunesse est-allemande concernant la dictature communiste de RDA et pointé les défaillances du système éducatif sur cette page de l'histoire allemande.

Une majorité de jeunes Allemands de l'Est ignorait qui avait construit le mur de Berlin et pensait que le dictateur Erich Honecker, secrétaire général du SED, avait été élu démocratiquement, ou encore que l'environnement était mieux protégé en RDA qu'à l'Ouest.

Klaus Schroeder, le politologue qui avait mené l'étude, met en garde contre la banalisation de l'ancienne dictature communiste par une jeunesse qui n'a pas connu la RDA et qui tient son savoir de discussions familiales et non de l'enseignement dispensé à l'école. «Les jeunes Allemands de l'Est ne sont même pas une moitié à dépeindre la RDA comme une dictature et une majorité d'entre eux considèrent la Stasi comme un service secret normal», déplore Schroeder. Spécialisé dans les recherches sur la RDA à la Freie Universität de Berlin, Schroeder affirme que «beaucoup d'Allemands de l'Est considèrent la moindre critique de l'ancien système comme une agression personnelle». Cependant, selon l'étude publiée par Super Illu, ils sont aussi une écrasante majorité à ne pas souhaiter de retour en arrière. Près des trois quarts des Ossies (72 %) se disent «heureux de vivre dans l'Allemagne réunifiée avec son économie sociale de marché, malgré tous les problèmes de la reconstruction à l'Est».





Restiamo umani. L' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni

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Il blog di Vittorio Arrigoni:

Sullo strano rapimento e l' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni si vedano anche i link:

http://www.infopal.it/leggi.php?id=18080 
http://www.gennarocarotenuto.it/5396-uccidete-vittorio-arrigoni/
http://www.indika.it/?p=481
http://italy2.copyleft.no/node/12443
http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=193&Itemid=9

A proposito della "Freedom Flottilla II" e delle intimidazioni cui l'iniziativa è sottoposta si veda invece:


VERSO LA MANIFESTAZIONE DEL 14 MAGGIO. Con la Freedom Flotilla per la fine dell'assedio di Gaza

Le minacce di Berlusconi

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Da: Yousef Salman <y_salman@...>

Oggetto: Addio caro Vittorio

Data: 15 aprile 2011 08.53.46 GMT+02.00


CARO  VITTORIO,

Di sicuro i tuoi assassini  conoscevano chi eri e cosa rappresentavi. Non è importante chi erano gli assassini e cosa rappresentano, ma alla fine dei conti, hanno commesso un delitto e un brutale odioso assassinio.
Hanno ucciso un uomo libero, un amante della libertà e della giustizia, un amico della pace e del popolo palestinese, che tu ha difeso, hai amato e che hai fatto della sua causa una ragione di esistenza e di vita.
Non so chi sono e cosa rappresentano, ma so che NON sono palestinesi, che sono un pericolo serio e costante per i palestinesi e che sono degli assassini della Palestina, della sua causa, del suo popolo e dei suoi veri e sinceri amici. Sono nemici dell'umanità che Vittorio ha sempre cercato di difendere  e fare vincere in Palestina.
Vittorio potevi rimanere in Italia a fare la bella vita e so che tu appartiene a una grande famiglia, benestante e ricca di grandi valori, hai  lasciato il tuo benessere per venire a vivere fra i più poveri e sfortunati  della terra, nell'inferno di Gaza e hai voluto sposare la giusta causa del popolo più disgraziato e sfortunato al mondo.
La morte drammatica tua, Vittorio non è diversa ed è simile con quella del grande artista palestinese ebreo, Juliano Mer Khamis, ucciso una settimana prima nel Campo profughi di Jenin.
Lo so che il destino dei liberi sognatori, dei veri rivoluzionari, degli onesti idealisti è in contrasto con ed in scontro continuo contro il mondo dell'ignoranza, dell'estremismo, della prepotenza, della pazzia e della repressione e della brutalità
dell'occupazione israelo-sionista alla Palestina. Lo so e lo sappiamo che l'arma dell'ignoranza e dell'estremismo è  la pallottola, la violenza e l'odio ed in pochi attimi può sterminare una vita buona ed innocente  dedicata
a favore e al  servizio della causa palestinese e del suo popolo.
Di sicuro chi ti ha ucciso, sa chi sei e cosa rappresenti, la carica ideale, i valori che porti e che difendi e di sicuro è riuscito a fare e realizzare ciò che non è riuscito a fare e realizzare da tempo  il nemico comune: l'occupante israeliano.
E' l'occupazione israeliana è l'unica parte vantaggiato dalla tua scomparsa,  grande e caro amico Vittorio.
Vittorio ti sei innamorato della Palestina e di Gaza in particolare ma anche i palestinesi e particolarmente quelli di Gaza, si sono innamorati di te, Vittorio e della tua bella Italia.
Vittorio sarai sempre nei nostri cuori e viverai sempre nella nostre lotte, per una Palestina libera, laica e democratica.
ADDIO CARO FRATELLO E RESTIAMO ANCORA UMANI..

Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
http:/www.palestinercs.org


(english / italiano)

La situazione sociale in Serbia e dintorni

1) Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà
2) Disoccupazione e povertà in Serbia
3) Rising social protests in the Balkans


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fonte: Notiziario Vie dell' Est - http://www.viedellest.eu/

06 aprile 2011 - Serbia

Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà

In Serbia 700mila persone, pari a circa il 10% dell’intera popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà. Ciò vuol dire, come ha detto alla tivù B92 il ministro del Lavoro, Rasim Ljajic, che tali famiglie più bisognose (in media di tre persone) hanno un reddito mensile inferiore a 18.500 dinari (circa 181 euro), parecchio al di sotto del paniere minimo di consumi stimato in 23mila dinari (225 euro).
“La Serbia non è Belgrado, dove si vive mediamente bene, e a 30 chilometri a nord e a sud della capitale la situazione è ben diversa”, ha ammesso Ljajic. Secondo il ministro, la popolazione in queste aree “è in una situazione catastrofica, conseguenza delle privatizzazioni sbagliate e dei mancati progressi nel processo di transizione”. La gente, ha concluso, “in queste aree vive ancora negli anni Novanta”.
Sempre in tema di povertà, a Veliki Trnovac, isola interamente albanese nel sud povero della Serbia, la popolazione ha un’unica speranza: quella di ricongiungersi un giorno con il vicino Kosovo. I quasi diecimila abitanti del paesino presso Bujanovac (l’unico della Serbia a non avere un solo abitante di etnia serba), scrive l’agenzia Ansa, vivono in una condizione di arretratezza e miseria estreme che alimentano la voglia di secessione e le critiche al governo centrale di Belgrado.


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Disoccupazione e povertà in Serbia


Mangiano male e sono sovrappeso, fumano e bevono troppo, lo stipendio non basta per coprire i bisogni più essenziali e soprattutto molti non hanno lavoro. Da una serie di indagini rese pubbliche in questi mesi in Serbia emerge una società in forte crisi

Come  dimostra una recente indagine dell’Istituto nazionale per le statistiche, il numero dei disoccupati in Serbia è salito dall’ottobre del 2008 all’ottobre del 2010 da 457.205 a 565.880 unità. L'indagine - commissionata dall’Agenzia internazionale per il lavoro e dall’Agenzia della comunità europea per la statistica, Eurostat - mostra come il tasso di disoccupazione sia aumentato in due anni dal 14% al 20%. Per gli uomini è cresciuto dal 12,1% al 19% mentre per le donne dal 16,5% al 21,2%.


Dati diversi dall’Ufficio nazionale di collocamento

L’Ufficio nazionale di collocamento offre dati che mostrano un’immagine ancora peggiore. Secondo le loro informazioni, in Serbia vi sarebbero circa 730.000 disoccupati. Ma molti media nel Paese affermano che il loro numero si attesterebbe sul milione di persone.
All’Ufficio nazionale di collocamento intanto c’è grande aspettativa per i nuovi programmi statali messi in campo per creare nuovi posti di lavoro, per i quali si è passati da un budget di 36 milioni di euro del 2010 a 54 milioni per il 2011. Dejan Jovanović, direttore dell’Ufficio nazionale di collocamento, si augura che almeno 60.000 persone quest’anno otterranno un nuovo impiego, grazie ai programmi finanziati col budget statale.
È già stato avviato un programma orientato ai giovani, chiamato “La prima occasione”, che dovrebbe garantire loro un primo impiego e molte agevolazioni alle aziende che li assumono. All'inizio del 2011 è stato introdotto anche un nuovo programma chiamato “Pratica professionale” (Stručna praksa) rivolto a 5.000 giovani di età inferiore ai 30 anni nel quale, oltre alle aziende del settore privato, saranno incluse anche quelle statali.
Jovanović sostiene che ci saranno inoltre risorse speciali messe a disposizione dei giovani imprenditori. “Noi vogliamo sostenere la piccola imprenditoria in Serbia e per questo programma spenderemo 300 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) – spiega Jovanović – prevediamo l’apertura di 2.000 negozi da parte di persone iscritte sulla nostra lista di collocamento. Siamo in grado di garantire 160.000 dinari a tutti quelli che avranno voglia di avviare un’impresa ma prima li dobbiamo istruire per farlo. Una delle idee di questa agenzia è anche di aiutare i comuni poco sviluppati dove il datore di lavoro riceverà tra i 300.000 (circa 3.000 euro) e i 400.000 dinari (circa 3800 euro) per ogni nuovo dipendente assunto”.
Al programma ha preso parte un’azienda tedesca a Vranje, Serbia meridionale, presso la quale entro la fine del 2011 400 persone otterranno un nuovo posto di lavoro. “È molto importante che in questa parte del Paese si offrano nuovi posti di lavoro perché è sottosviluppata", ha dichiarato il premier Mirko Cvetković. Ma per il presidente dell’Associazione delle piccole e medie imprese, Milan Knežević, questi programmi sono solo parziali e non rappresentano una vera soluzione ai problemi. La sfida per il Paese a suo avviso è piuttosto quella di creare l’ambiente dove gli investitori esteri ma anche locali possano creare nuovi posti di lavoro. “Le misure a breve termine non potranno mai dare risultati soddisfacenti. Si tratta solo di improvvisazione e spesso questo serve per affermare la forza politica, l’abuso di potere, il guadagno e la promozione personale”, ha aggiunto Knežević.


Un potere d’acquisto quasi inesistente

Dai dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come il potere d’acquisto dei cittadini serbi, nel 2010, è notevolmente diminuito: i prezzi per il cibo sono saliti del 20%, l’abbigliamento aumentato del 6% e il prezzo della benzina del 10%. E le buste paga sono rimaste “magre”.
Saša Đogović, economista dell’Istituto per le indagini di mercato (IZIT), spiega che i cittadini serbi spendono più della metà del proprio per il cibo e la casa. “Circa il 56% dello stipendio se ne va per i bisogni essenziali, solo per il cibo spendono il 41%. In Bulgaria per esempio la cifra è minore, è circa del 34,7% e questo mostra che la Serbia, rispetto agli altri paesi balcanici, si trova in una pessima posizione”,  afferma Đogović.
I dati dell'Istituto per le indagini di mercato dimostrano che per comprare cibo al supermercato all’inizio del 2010 servivano circa 4.500 dinari a settimana (44 euro circa), mentre adesso la cifra è aumentata a 6.000 dinari (circa 58 euro).
Negli ultimi due anni a Belgrado (che ha un livello di vita più alto delle altre città) sono aumentate le cucine popolari dove mangiano 10.185 belgradesi. Il segretario per la protezione sociale della città di Belgrado, Vladan Ðukić, ammette che le cucine popolari sono ormai 46, raddoppiate rispetto all’anno scorso. “Nelle città europee le persone muoiono di fame per la strada, da noi ancora non è successo”, tiene però a precisare.
Non si prevede, tra l'altro, che l'attuale tasso di inflazione, pari al 10,3%, diminuirà nei prossimi 6 mesi. In queste condizioni non sono solo i disoccupati in difficoltà, ma anche chi lavora, per non parlare dei pensionati, non può permettersi che acquistare generi di prima necessità. Il portale B92 ha intervistato alcuni cittadini di Belgrado che hanno detto che non comprano assolutamente nulla. Altri affermano: “Spendo per i figli e basta. Spendo solo per il cibo, se dovessi aver bisogno di qualcos’altro dovrei chiedere il mutuo o un prestito”. Che non rimane davvero niente per il resto lo dimostrano anche i dati statistici forniti dalla stessa emittente: solo lo 0,7% del reddito va per l’educazione e il 4,5% per la salute. E se si pensa che lo stipendio medio in Serbia è di 34.444 (335 euro circa) dinari è fuori di dubbio che resta molto poco per gli extra.


Gli unici non in crisi sono i matrimoni

I cittadini della Serbia, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nel 2010 si sposavano come nel 2009 ma sono calati il numero dei divorzi. Questo non vuol dire che i serbi abbiano imparato ad apprezzare di più la famiglia ma si tratta della sicurezza economica che è più stabile in due. Come afferma il sociologo Ognjen Radonjić della Facoltà di filosofia, è normale che la crisi matrimoniale sia maggiore nei Paesi più ricchi e quindi non è strano che da noi i matrimoni resistano. “La pessima situazione economica influenza le persone che non decidono così facilmente di divorziare”, dice Radonjić. “In generale, la mancanza di soldi influenza tutti gli aspetti della vita. C’è troppa differenza tra i ricchi e i poveri e la povertà spesso è seguita dalla criminalità e dalla mancanza di valori. E non c’è neanche la solidarietà tra le generazioni, perché col passare degli anni siamo sempre più tirchi ed egoisti”.


La salute peggiora, troppa preoccupazione

L’anno scorso lo stress era la diagnosi più diffusa in Serbia e un quarto dei cittadini abusavano di alcool. “La causa del peggioramento della salute è sicuramente l’alcool e il cibo pesante e unto – sostiene il dottor Petar Božović dell’Istituto per la salute pubblica Dr Milan Jovanović Batut - molte più persone soffrono di malattie al fegato ma almeno, con la legge che proibisce il fumo nei luoghi pubblici si spera che diminuirà il numero delle persone che fumano. Sulla tavola si trovano cibi di poca qualità, non c’è frutta e verdura, tutto è troppo grasso e condito. Quindi non sorprende che le persone siano sovrappeso e che le malattie come il diabete siano in aumento.”


Debiti fino al collo e aiuti statali

E se non ci sono soldi, ci si indebita. Da dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come i serbi si stanno indebitando, nel 2011, del 29% in più rispetto all’anno precedente ed ora il debito complessivo con le banche ammonta a oltre 5 miliardi di euro.
Lo Stato aiuta quotidianamente circa 800.000 persone con vari mezzi: denaro, pasti caldi, servizi vari. A gennaio di quest’anno il numero delle famiglie che hanno ricevuto aiuto per i propri figli  è cresciuto del 5% rispetto alla media dell’anno scorso. Ed anche se questi 2.034 dinari (circa 20 euro) al mese, stanziati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, non sembrano una cifra significativa, ad essi non rinunciano i genitori di 395.000 bambini della Serbia.
“Le cifre stanziate in aiuto di famiglie con figli sono davvero una cosa simbolica ma sono comunque rilevanti per il nostro budget”, ha dichiarato Zoran Martinović, segretario di Stato per il ministero del Lavoro e le Politiche sociali. “Vista la situazione non è immaginabile aumentare questa cifra nei prossimi mesi”, ha concluso.
Emblematica la chiosa di un recente articolo pubblicato da B92: “Neanche quest’anno è successo il miracolo, siamo ancora la nazione più vecchia, non abbiamo avuto un grande numero di nascite dei bambini e le previsioni di sociologi, medici ed economisti non sono rosee. Dicono che quest’anno sarà ugualmente brutto come quello precedente.”

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Rising social protests in the Balkans


By Markus Salzmann 
15 April 2011


Political and social unrest has increased in the Balkan region during the past weeks and months. Young people in particular have protested against the corrupt elite layers in the former Yugoslavian federal republic which, at the behest of the International Monetary Fund and the European Union, have enforced drastic austerity programs with calamitous consequences for the population.

In Croatia, protests continue against the administration of Jadranka Kosor, but currently with significantly less participation. While 10,000 demonstrated last month, the current protests involve just a few hundred.

The main reason for this development is the lack of perspective of the protests, whose only formulated goal is new elections—despite the sobering experiences with all the established political camps since Croatia’s independence.

Particularly those under the age of 30 are affected by unemployment, whose official level is almost 20 per cent. A further ten percent of Croats work but do not receive any wage or receive payment only sporadically. The few remaining social benefits are so low that they do not permit a normal life, with basic prices increasing rapidly. Fuel prices alone have risen by more than 30 percent within two weeks.

Prime Minister Kosor has lost a massive amount of support since last year’s election. In her party, the right-wing conservative HDZ (Croatian Democratic Union), several factions are fighting fiercely. Kosor hardly gives any press conferences and at public appearances she is often seen fighting back tears.

The social democratic opposition is unable to benefit from the government crisis. Its leader, Zoran Milanovic, is visibly cautious in criticizing Kosor and, according to polls, his SDP is hardly winning any support. Like the HDZ, the SDP is torn by political infighting and corruption scandals.

In the absence of a genuine political alternative, right-wing forces have been increasingly able to dominate the protests. Ivan Pernar, a 25-year-old nurse who helped organize the protests in the Croatian capital via Facebook, openly states his right-wing, nationalist views. He has founded the so-called “Alliance for Reforms” and hopes to enter parliament in the event of early new elections.

According to Pernar, the demand for a “new system” especially affects the “monetary sovereignty” of Croatia. In defence of the latter, Pernar not only rails against the European Union bureaucrats sitting in Brussels, but also against all those who strive for a reconciliation with the neighboring state of Serbia. At demonstrations he demands “more capitalism” together with “nationalization of banks”.

Pernar was an activist for the Green Party for some time before becoming an admirer of the Dutch racist and Islamophobe Geert Wilders. With such forces leading protests, it is no surprise that ultra-right groups are trying to use the protests to their advantage.

Alongside right-wing peasant associations and violent hooligans from the Dinamo Zagreb soccer club, known as the “Bad Blue Boys”, the protest movement is dominated by war veterans. These veteran associations are openly fascist organizations and consider themselves the heirs of Ustasha, the fascist movement of the 1920s and 30s.

These right-wing forces are supported by the ruling powers. The initial protests were announced through Facebook but now that participation has shrunk and is dominated by right-wing groups, all of the country’s major newspapers are printing the dates and places of new planned protests.

In Montenegro several thousand people also protested every week against political corruption and social decline. They followed an appeal on the internet network Facebook, calling for a peaceful demonstration “against the mafia” in front of the parliament building in the capital city of Podgorica.

The state situated on the Adriatic Sea is stuck in a massive economic crisis. Serbia has currently halted all exports of wheat and flour in order to combat growing domestic prices and the growing protests by poorer social layers. This means that Montenegro now has to cover 90 per cent of its demand for wheat from other sources—an impossible task for the destitute country, given current market prices. This will further increase social tensions.

The Serbian government itself is confronted with growing popular unrest. In late March more than 10,000 public servants protested in the capital of Belgrade against low wages and miserable working conditions. Doctors, policemen and other public servants joined with protesting teachers who have been struggling to obtain pay raises since January. The teachers’ protests were supported by many of their students.

The teachers are demanding the payment of unpaid wages and a change in education laws which de facto excludes poorer layers of rural youth from higher education. In 2011, the wage increases for the educational sector were set at three per cent, but the teachers’ union is demanding 20 per cent. Education minister Obradovic has bluntly refused the union’s demands, referring to the government’s austerity policy.

In the wake of the financial crisis, the Serbian government of Premier Mirko Cvetkovic reduced public spending and suspended wage increases. The government and the IMF agreed to lower the budget deficit from 4.8 percent to 4 percent.

The wages of employees in the private sector are even lower than those in the public sector. Average incomes in Serbia are around 35,000 Dinar per month (app. € 350). Officially, the country has between 700,000 and one million unemployed.

Ultra-right forces in Belgrade are also seeking to exploit disillusionment and distrust of the government to their own advantage. On 5 February, the Progress Party (SNS), which is the biggest opposition party in the Serbian parliament, organized a mass demonstration attended by approximately 55,000 people.

The protests in Belgrade were directed against Cvetkovic’s government. Under the slogans “Wake up, Serbia” and “Fight for change”, the SNS demanded early new elections and threatened an “ongoing blockade” of Belgrade if their demands were not met. The organisation has announced another demonstration in Belgrade on 16 April.

According to new surveys, the SNS would emerge as the clear winner in a fresh election, with far more votes than Cvetkovic’s EU-oriented government coalition. The SNS and their smaller partners are estimated to have the support of around 42 per cent of the electorate; the Democratic Party, the mainstay of the government coalition, has just 24 percent.

The SNS is a spin-off party from the ultranationalist Radical Party (SRS) led by Vojslav Seselj, who is charged with war crimes by the International Criminal Tribunal for former Yugoslavia. The SNS was founded by Tomislav Nikolic, former vice president of the SRS. Nikolic voted for the association agreement of Serbia with the European Union, while party chairman Seselj rejected it. In response, Nikolic founded a new faction in September 2008, which combined support for entry into the EU with nationalism and hatred towards Croatia.

It comes as no surprise that all of the major parties of Serbia, including the nationalist SNS, are striving for entry into the EU. They represent a small elite which hopes to gain access to the international financial markets and enrichment through the EU while the working class foots the bill.

The powerful EU member states are observing this process with alarm. Last year, Klaus Mangold, chairman of the Eastern Europe Commission of the German Economy, said that Serbia was a mainstay for German companies in this region. By signing numerous other free-trade agreements, including with Russia and Turkey, the country would open new markets of great interest for German companies.

Germany is Serbia’s most important trade partner, and the fourth largest direct investor. In 2009, Serbia’s imports from Germany amounted to more than €1.3 billion. Its exports amounted to almost €600 million. While German direct investments in 2004 were just €278 million, they already amounted to €1.2 billion in 2010. Thus, they have increased fourfold within a few years.

In Serbia, just a small layer benefits from these trading relations, along with European banks and big companies. For broad masses of the population, entry into the EU will only mean price increases and massive social cuts.

After the worldwide financial crisis, in which the Serbian Dinar lost a quarter of its value, Serbia received a credit worth €3 billion from the IMF in 2009, to allow the country to refinance its debts with foreign private banks. To obtain credit from these banks, the government drastically cut spending in all areas.

For this reason the Serbian population is widely hostile to the EU. According to a survey from the start of 2011, more than 60 per cent are opposed to entry to the EU, with less than 30 percent in favour.

The policies of the European elites, which only mean poverty and social misery for the broad mass of the population, must be rejected by the workers and youth of the region, along with the nationalist positions which have driven former Yugoslavia into years of civil war. The only progressive alternative is the turn towards a socialist and international perspective, by establishing a Socialist Balkan Federation in the context of the United Socialist States of Europe.




Torino, 19 aprile 2011

presso il Cine Teatro Baretti
Via Baretti 4
Tel./Fax 011 655187 www.cineteatrobaretti.it - info@...

nell'ambito della rassegna PORTOFRANCO - IL CINEMA INVISIBILE AL BARETTI


martedi 19 aprile - ore 21.00

OCCUPAZIONE IN 26 QUADRI

Regia di Lordan Zafranovic
Jugoslavia • 1978 • 112'
E' prevista la presenza in sala del regista Lordan Zafranovic e dello storico Eric Gobetti

Grande successo della cinematografia est-europea, l'occupazione in 26 quadri è il capolavoro di Lordan Zafranovic, uno degli autori più anticonformisti della Jugoslavia di Tito. Un grande affresco, drammatico e grottesco, l'occupazione italiana a Dubrovnik durante la seconda guerra mondiale. Un film per guardare in faccia un pezzo della nostra storia, per confrontarsi con la memoria che l'Italia fascista ha lasciato oltre Adriatico.


LA SCHEDA DEL FILM: 

IL PROFILO DEL REGISTA E LE PASSATE INIZIATIVE CON E SU LORDAN ZAFRANOVIC:




(Le terribili violazioni dei diritti umani negli USA sono denunciate dal "Quotidiano del Popolo" di Pechino; sulla drammatica situazione dei diritti umani in Italia forse c'è invece ancora troppa indulgenza, anche a Pechino. Italo Slavo)


08:53, April 11, 2011

US has serious human rights abuses: China

The United States, the world's richest state, is beset by rampant gun violence, serious racism, and an increasing portion of its population have become poorer, a report released yesterday by China on U.S. human rights said. 

The U.S., under siege with all its human rights problems, is in no position to criticize other countries' human rights, the report released by the State Council's Information Office said.

Washington has taken human rights as a "political instrument to defame other governments' image and seek its own strategic interests", Beijing said. 

In breakdown, the report lists high incidence of gun-related bloodshed crimes in the U.S. resulting from its outrageous gun ownership policy. It has 12,000 registered gun murder cases a year, and tens of hundreds people are shot to death or get injured in gunfights, the highest in the world. 

In the U.S. the violation of citizens' civil and political rights by the government is severe, the report said. Between October 2008 to June 2010, more than 6,600 travelers were subject to electronic device searches, half of them are American citizens. 

And, abuse of force and violence, and torturing suspects in order to get their confession is serious in the U.S. law enforcement, the report said.

The US regards itself as "the beacon of democracy." However, its democracy is largely based on money, the report writes. According to a report from The Washington Post on October 26, 2010, U.S. House and Senate candidates shattered fundraising records for a midterm election, taking in more than $1.5 billion. The midterm election, held in November, cost $3.98 billion, the most expensive political rally in the US history. Various interest groups have actively spent on the event, the report said.

While advocating Internet freedom, the US in fact imposes strict restriction on cyberspace. On June 24, 2010, the US Senate Committee on Homeland Security and Governmental Affairs approved the Protecting Cyberspace as a National Asset Act, which will give the American federal government "absolute power" to shut down the Internet under a declared national emergency rule.

Economically, unemployment rate in the United States has been stubbornly high. Proportion of Americans living in poverty has risen to a new high. The US Census Bureau reported in September that a total of 44 million Americans found themselves in poverty. The share of residents in poverty climbed to 14.3 percent in 2009, the report said.

Also, Americans living in hunger and starvation increased sharply. A report issued by the U.S. Department of Agriculture in November showed that 14.7 percent of US households were food insecure in 2009. And, the number of families in homeless shelters increased 7 percent to more than 170, 000, it said. 

On the global stage, the U.S. has a "notorious record of international human rights violations", said the report. The U.S.-led wars in Iraq and Afghanistan have already caused huge civilian casualties.

Prior to Beijing's releasing the human rights report, a U.S. State Department report on global human rights released on Friday said that Beijing had stepped up restrictions on activists, lawyers and online bloggers, and tightened controls on civil society to maintain stability.

A Chinese Foreign Ministry spokesman dismissed the U.S. report as meddling in China's internal affairs. Two days later, Beijing released its own report on U.S. human rights problems.

"The United States ignores its own severe human rights problems, ardently promoting its so-called ‘human rights diplomacy', treating human rights as a political tool to vilify other countries and to advance its own strategic interests," Beijing report said. 

"The United States is the world's worst country for violent crimes," it said. "Citizens' lives, property and personal safety do not receive the protection they should."

By People's Daily Online