Informazione

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Due iniziative segnalate

* Bruxelles 6/4: "Bosnie-Herzégovine, 25 ans après"
* Bologna 8/4: Incontro con Oleg Mandić, ultimo internato a lasciare il lager di Auschwitz-Birkenau


=== Bruxelles 6/4:

<< C’est Georges Berghezan, chercheur au GRIP et membre du CSO, qui présentera son nouveau rapport sur la Bosnie-Herzégovine.
Nous comptons sur la participation des amis du CSO. N’oubliez pas de vous inscrire.
Comité Surveillance Otan – info @ csotan.org >>


Déjeuner-Débat "Bosnie-Herzégovine, 25 ans après: mythes, réalités et perspectives de réconciliation" (6 avril - WBI)


Le GRIP et l’Association pour les Nations unies (APNU), avec le soutien de Wallonie-Bruxelles international (WBI), vous invitent le jeudi 6 avril 2017 de 12h à 14h à un déjeuner-débat pour mieux comprendre l'actualité, sur le thème :

Le 6 avril 1992, la guerre éclatait en Bosnie-Herzégovine. Pendant trois ans et demi, les combats firent rage, déplaçant deux millions de personnes et entraînant la mort d’environ cent mille autres. Vingt-cinq ans plus tard, les causes du déclenchement du conflit et les responsabilités pour sa longue durée sont beaucoup plus complexes que ce qui était avancé à l’époque par des médias et des gouvernements trop souvent manichéens.

Depuis, sous la supervision des États-Unis et de l’Union européenne, le pays est pacifié. Mais aucune réelle réconciliation intercommunautaire ne s’est encore produite, les réflexes identitaires continuant à primer sur les initiatives citoyennes. Aux aspirations centralisatrices des Bosniaques s’opposent les tendances centrifuges des Serbes et Croates bosniens. L’interminable mise sous protectorat du pays semble avoir entraîné une déresponsabilisation des acteurs locaux et aiguisé les rivalités à caractère ethnique. Plus grave encore, plusieurs anciens chefs de guerre appellent ouvertement à la guerre afin de régler les problèmes institutionnels, apparemment insolubles, découlant de l’accord de Dayton, ayant mis fin aux combats.

Pour parler et débattre du passé récent et de l’avenir de la Bosnie-Herzégovine, nous vous convions à ce déjeuner-débat, qui sera ouvert par des interventions de :

Où Wallonie Bruxelles International (place Sainctelette, 2 à 1080 Bruxelles - métro Yser / Plan d'accès)

Quand : jeudi 6 avril 2017 de 12h à 14h

Inscriptions : Entrée gratuite mais inscription nécessaire : via notre formulaire d'inscription en ligne ;  via l'adresse publications@... ou par sms au 0471/682.689

La conférence est organisée par l'Association pour les Nations unies (APNU) et le GRIP, avec le soutien de Wallonie-Bruxelles international (WBI).


Le GRIP bénéficie du soutien de la Fédération Wallonie-Bruxelles - Service Education permanente


LIENS:
Grip – GROUPE DE RECHERCHE ET D'INFORMATION SUR LA PAIX ET LA SECURITE: http://www.grip.org
Bosnie-Herzégovine, 25 ans plus tard - De la guerre à une difficile réconciliation (Georges Berghezan, 28 Mars 2017): http://www.grip.org/fr/node/2304


=== Bologna 8/4:

Bologna, sabato 8 aprile 2017 
alle ore 10 presso la Sala Farnese di Palazzo D’Accursio

Studenti e cittadini incontrano Oleg Mandić

Oleg Mandic, cittadino di Opatija (Croazia) fu arrestato dai nazifascisti all’età di 11 anni assieme alla madre e alla nonna e deportato ad Auschwitz come prigioniero politico italiano con il numero IT 189488. Riuscirono a sopravvivere e a liberazione avvenuta fu l’ultimo bambino ad uscire vivo dal campo di sterminio.

Proiezione del documentario
GLI ANNI DI FATIDICHE ESPERIENZE DELLA FAMIGLIA MANDIC CON IL FASCISMO E CON IL NAZISMO

In seguito l’autore sarà a disposizione per domande sulla sua esperienza di sopravvissuto al lager nazista di Auschwitz

organizza: ANED sezione di Bologna

--- fonti:
Oleg Mandić: Gli anni di fatidiche esperienze della Famiglia Mandic con il fascismo e nazismo

Auschwitz, Oleg Mandić: il bambino che ha chiuso il campo (di G. Faggionato, 27 gennaio 2014)

Oleg Mandic: L' ultimo bambino di Auschwitz
Pordenone: Biblioteca dell'Immagine, 2016







Ricordando Sergio Manes

1) Addio al compagno Sergio Manes, instancabile militante e organizzatore di cultura (Alexander Höbel)
2) In memoria di Sergio Manes: il ricordo dei compagni de La Contraddizione
3) Il ricordo di Gianni Fresu
4) E' morto il compagno Sergio Manes, fautore della lotta ideologica attiva (Resistenze.org / Sergio Manes)


Sergio Manes, artefice delle Edizioni e del Centro Culturale Città del Sole, ci ha lasciati domenica 19 marzo.
Malato di tumore da tempo, era tuttavia sempre in prima linea con idee e proposte di iniziative – tra cui un progetto in fieri di convegno per il Centenario dell'Ottobre, che altri compagni seguiranno anche in sua memoria.
Con lui abbiamo realizzato importanti progetti, tra cui le pubblicazioni "Dossier Srebrenica", "Il corridoio" di JTMV e "Menzogne di guerra" di J. Elsässer, perle rare nel panorama editoriale fondamentalmente fascista dell'Italia all'inizio del XXI secolo.
Grande cuore napoletano, marxista-leninista intransigente, uno dei pochi italiani che negli anni Settanta poteva entrare in Albania senza il visto... Diceva di se stesso, citando una battuta del film di Sordi "Finché c'è guerra c'è speranza" che riguardava un personaggio suo omonimo, guerrigliero antimperialista: "Manes è dappertutto". Ed ora anche per sempre. 
(a cura di AM per Jugocoord Onlus)


Altri link:
Napoli, è morto il compagno Sergio Manes (di Redazione Napoli, 19 marzo 2017)
http://contropiano.org/news/politica-news/2017/03/19/napoli-morto-compagno-sergio-manes-090058
Intervista Sergio Manes "La Città del sole"- Napoli (NapoliUrbanBlog, 15 ago 2010)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=IWVvJSmt5yk


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24 mar 2017

Addio al compagno Sergio Manes, instancabile militante e organizzatore di cultura

Alexander Höbel

Il compagno Sergio Manes, fondatore e anima del Centro culturale e delle Edizioni La Città del Sole, ci ha lasciato poche ore fa, all’alba di questo 19 marzo grigio e triste. Sergio è stato un comunista fino alla fine: un comunista mai riconciliato col mondo ingiusto, grande e terribile; un comunista da tempo “senza partito”, critico sincero dei nostri limiti, delle nostre inadeguatezze. Le sue critiche però non erano quelle di un compagno che sta alla finestra o davanti a un computer, ma quelle di un militante costantemente impegnato, sul versante della battaglia culturale e della continua organizzazione di luoghi e momenti di aggregazione, mobilitazione, crescita politica.


Sergio Manes aveva iniziato la sua militanza nel 1960, e raccontava spesso del suo fermo nel corso delle manifestazioni antifasciste di quel luglio, che anche a Napoli segnarono la discesa in campo di una nuova generazione di antifascisti e di comunisti. Sergio aderì al Partito comunista italiano, da cui uscì pochi anni dopo, condividendo la critica che intanto andava emergendo alla strategia togliattiana e che si saldò presto con la contestazione della linea del partito sovietico operata sul piano internazionale dai comunisti cinesi. Entrò dunque a far parte del Pcd’I m-l, collaborando alla rivista “Nuova Cultura” e fondando assieme ad altri il quotidiano “Ottobre” (in entrambi i casi direttore responsabile era Mario Geymonat). Anche in quella esperienza Sergio portò la sua grande attenzione al versante culturale della lotta politica: una concezione che conservò anche quando si allontanò dalla militanza di partito.

Nel 1989-90, in opposizione frontale alla liquidazione del Pci promossa da Achille Occhetto e dal gruppo dirigente della Bolognina, il compagno Manes rientrò nel Partito comunista italiano per partecipare alla battaglia del “fronte del No”, anche lì dando vita a bollettini, giornali, pubblicazioni. È in quella fase che ebbi modo di conoscerlo. Aveva saputo che nella sezione “Che Guevara” del Pci, nello stesso quartiere di Napoli in cui abitava, c’era un gruppo di giovani decisi a impegnarsi per il No allo scioglimento, e fu lui dunque a contattarci, per chiedere, confrontarsi; ne venne fuori un’intervista per un foglio che, se ricordo bene, si chiamava “Rosso di Sera”.

Poi Sergio aderì, come molti di noi, a Rifondazione comunista. E si impegnò sia sul versante politico della dialettica interna, sia nel tentativo di avviare un’iniziativa culturale ed editoriale che fiancheggiasse l’attività del Partito: le “Edizioni di Rifondazione comunista” però non nacquero mai. L’unica pubblicazione fu quella parte dei Manoscritti economico-filosofici di Marx intitolata Proprietà privata e comunismo. Sergio diede vita allora alle edizioni Laboratorio politico, e con quel marchio avviò un’intensa attività editoriale.

Poco dopo diede vita all’Associazione comunista “L’Internazionale”, e le nostre strade si incrociarono di nuovo. Sergio coglieva l’esigenza di noi compagni più giovani di imparare, discutere, approfondire, impegnarci nella battaglia delle idee. E per alcuni anni quella associazione, nella sede magnifica di Palazzo Spinelli, fu un punto di rifermento per tanti giovani e per i comunisti napoletani in generale: quelli che continuavano a militare nel Prc, ma anche tutti gli altri. Non mancarono gli scontri, anche forti, l’Associazione entrò in crisi. Poco dopo il compagno Manes abbandonò anche il Prc, per dedicarsi completamente alla battaglia culturale: una battaglia, però, sempre finalizzata alla politica, ossia alla trasformazione del mondo.

E proprio il suo impegno costante su questo versante ci portò di nuovo a incontrarci. Sergio intanto aveva dato vita a una nuova casa editrice, La Città del Sole, collaborando tra l’altro strettamente con l’Istituto italiano per gli studi filosofici, e negli anni Duemila promosse altre interessanti esperienze, quella del Centro studi sui problemi della transizione al socialismo (notevole il convegno di Napoli del novembre 2003, dal quale venne fuori il libro Problemi della transizione al socialismo in URSS) e quella dell’Archivio storico del movimento operaio napoletano, mentre il Centro culturale La Città del Sole costituiva una Biblioteca di grande interesse. Nuove generazioni di militanti, che si avvicinavano alla politica, trovavano in quelle strutture possibilità di formazione, dibattito, crescita. Intanto Sergio trovava il tempo anche per tornare a riflettere sul ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, sintetizzando le sue valutazioni nel libro Senza testa. Limiti e insegnamenti delle lotte degli anni ’60 e ’70, uno dei pochissimi suoi titoli pubblicati dalla sua casa editrice, che intanto arricchiva il suo catalogo di autori e testi di rilievo non solo nazionale.

La Città del Sole si è impegnata anche nel proseguire la pubblicazione delle Opere complete di Marx ed Engels nella loro traduzione italiana (importante, tra le altre, l’uscita nel 2012 di una nuova edizione del I Libro del Capitale, a cura di Roberto Fineschi), ma ha dovuto affrontare problemi sempre maggiori, di tipo logistico ed economico, incontrando una scarsa capacità di ascolto e di valorizzazione, a Napoli e sul piano nazionale, fino allo scontro col Comune per la sede concessa al Centro culturale, che proprio nelle scorse settimane è parso finalmente avviarsi a una soluzione.

Mi rendo conto di aver parlato tanto dell’attività di Sergio, e poco di lui. Forse perché proprio nella sua instancabile attività e capacità d’iniziativa e di lavoro Sergio metteva tanta parte di sé e ha messo tanta parte della sua vita. Ma non voglio che questo impedisca di dire qualcosa su di lui come persona: della sua schietta umanità, della grande ironia, del suo spirito profondamente napoletano, dell’intelligenza vivacissima, del “brutto carattere” che era poi una intransigenza assoluta verso opportunismi e pressapochismi, del suo essere sempre proiettato verso il futuro. Anche in questi mesi, quando, pur sapendo del male grave che lo aveva colpito, non si è stancato di proporre, incalzare, stimolare, per il futuro del Centro culturale e della Casa editrice, e intanto per quanto occorreva mettere in campo per il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre (e su questo terreno un importante percorso unitario, di cui questo sito è uno dei primi frutti, è stato avviato).

Fino alla fine Sergio ci ha spronato, proposto, consigliato, spinto ad andare avanti. E ancora avanti cercheremo di andare, coi nostri limiti, anche nel suo ricordo, cercando di fare la nostra parte perché il suo grande lavoro sia ulteriormente sviluppato.

Alla sua famiglia, a sua moglie Liliana, ai figli Emiliano e Giordano, va intanto il nostro abbraccio commosso.



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In memoria di Sergio Manes 
Il ricordo dei compagni de La Contraddizione per La Città Futura.

di La Contraddizione  25/03/2017

Difficile parlare di una persona conosciuta da sempre. Non c’è memoria distinta, infatti, del primo incontro, come del primo impegno culturale, politico, della prima militanza, dei primi pensieri tendenti al comunismo, del primo accesso ai livelli scientifici della transizione socialista, come dire insomma della teoria della rivoluzione iniziatasi più di cento anni fa. È come se Sergio fosse da sempre compresente a tutto ciò, alle battaglie sindacali, politiche, alle fasi propositive e a quelle recessive della nostra storia recente, con il suo instancabile fare, proporre, suggerire, lottare su tutti i terreni possibili per l’apertura di varchi ad una umanità meritevole di una destinazione di crescita razionale e di giustizia sociale. Le sue ultime parole per definire il comunismo sono state proprio tese a ribadire che infine, da qualunque versante lo si volesse considerare, avrebbe dovuto inevitabilmente sfociare nel diritto alla vita di tutti, e nella umanizzazione consapevole di una comunità mondiale in grado di soddisfare i bisogni storici della vita.

Nel suo modo di esprimersi, a metà scherzoso e a metà serio, era solito dire di avere tre figli: due in carne e ossa, amatissimi, e un terzo partorito come casa editrice di cui ha continuamente curato, non solo la nascita ma poi anche la crescita, concepita come erede naturale di tutte le pubblicazioni necessarie a informare scientificamente in senso lato, e in particolare sul pensiero socialista e comunista. Il mantenimento della memoria del sapere attraverso il libro, colto o divulgativo, specialistico o politico, nel momento in cui la lettura veniva meno, le case editrici storiche della sinistra sparivano una dietro l’altra, i classici del marxismo venivano mandati al macero o su qualche sparuta bancarella e le librerie che li tenevano vendute ad altre attività commerciali, significava scommettere sulla sopravvivenza, in questi lunghi tempi bui, della consapevolezza delle contraddizioni del sistema, del conseguente sfruttamento umano necessario al dominio di questo, della crescente distruttività legata al suo inevitabile progresso, infine della altrettanto ineluttabile tendenza alla sua fine e superamento in un altro modo di produzione.

Difficile parlare di Sergio Manes, nel senso che era stato capace di confondersi nei molteplici momenti di lotta sociale, nella storia delle trasformazioni del comunismo italiano e internazionale, solerte punto di riferimento di iniziative culturali e per pubblicazioni editoriali coraggiose, che altrove non avrebbero avuto spazio data la regressione sociale e politica di questi ultimi cinquant’anni. Come persona, pur essendo una individualità forte e spiccata, autorevole e tenace, non era schivo dal mostrare anche i lati più teneri, affettuosi e fragili legati agli affetti più cari, all’amicizia dei compagni considerata sempre come il bene più prezioso di cui avrebbe sentito una mancanza insopportabile semmai fosse venuta meno. Oggi a parlare a tutti di Sergio saranno le innumerevoli pubblicazioni della Città del Sole, che ci auguriamo possano continuare ad essere prodotte, proprio come lui auspicava, nell’ottica di una continuità non solo della sua lotta personale, ma soprattutto della necessità di resistenza sociale della cultura marxista di contro a ogni ostracismo opposto dal capitale. La “Città del Sole” non è soltanto stata la sua casa editrice, ma anche un centro stabile di incontri e dibattiti cultural-politici che Sergio ha tenuto caparbiamente a costituire a Napoli, nonostante tutti i tentativi di esproprio, i furti, le effrazioni e distruzioni subite, operate da riconoscibili ignoti mai efficacemente perseguiti, ad irrisione delle puntuali denunce effettuate.

La lunga collaborazione con l’associazione Contraddizione si è tradotta con la collana “Il socialismo scientifico” da cui è scaturito Laboratorio politico, la cui definizione era appunto la cifra costante di Sergio:“iniziativa militante che si pone –senza riproporre vecchie preclusioni e al di fuori di nuove divisioni – al servizio di una ripresa culturale e politica del movimento comunista… aperta ad ogni livello di contributo di tutti i militanti, poiché potrà raggiungere gli obiettivi per cui è nata solo con l’apporto e la collaborazione attiva di chi, con indomabile ostinazione, è impegnato più che mai a comprendere e trasformare la realtà, a battersi per realizzare i valori e gli ideali del comunismo”. Un’altra collana intitolata “Comunismo In/formazione”, sempre entro Laboratorio politico, ha affrontato diverse tematiche del presente sulla falsariga delle analisi marxiane, per attestarne e dimostrarne l’assoluta attualità e unicità analitica per la critica del presente. Inutile ribadire che senza la piattaforma e la disponibilità di questa casa editrice il lavoro profuso per i vari contributi non avrebbe mai visto la luce. Questa, inoltre, è stata la base anche per molte altre collaborazioni con docenti di ogni ordine e grado, riviste legate alla tradizione di sinistra, strutture sindacali, compagni sparsi e movimenti che faticosamente Manes ha continuamente ricercato, contattato, sollecitato e aiutato ad esistere. La casa editrice era il supporto e lo strumento che si attivava ovunque un nucleo di resistenza all’abbandono del comunismo si evidenziasse con le forze possibili ma reali.

Già dallo scorso anno Sergio aveva avviato i preparativi per una riflessione critica sulla rivoluzione d’ottobre in occasione, quest’anno, del ricorrere del suo centenario. Non si doveva trattare né di una commemorazione né di una celebrazione ritualistica, ma di una valutazione a più voci sul significato storico, sulla sua supposta attualità o meno, sulla sua permanenza nel presente, anche nei più giovani, e sulla sua forza ancora propositiva nelle contraddizioni di un imperialismo dei nostri giorni più avanzato e minaccioso. Seppure non riuscirà a vederne le conclusioni, tutti i compagni impegnatisi in quest’obiettivo nel portare a termine – forse in ottobre o novembre di quest’anno – sentono ora di proseguire i lavori anche in suo nome, come per tutte le altre iniziative e proposte che Sergio ha lasciato incompiute nella vita della sua terza, preziosa creatura. In essa si concretizza quella difficile sintesi di teoria e prassi che Sergio Manes ha mostrato come quella “cosa semplice difficile a farsi” [1].


Note:

[1] L’ultima citazione, per chi volesse apprenderne completamente il significato, non conoscendola, è la frase finale di B. Brecht in “Lode del comunismo”, 1933.



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Il ricordo di Gianni Fresu


Ho appena appreso della morte del mio caro amico Manes. Sergio non aveva un carattere facile, né amava le mezze misure, ma è stato un compagno instancabile, un editore coraggioso, leale e generoso come pochi. La sua creatura, “La città del sole”, senza risorse né santi in paradiso, in tanti anni ha pubblicato autori famosissimi come sconosciuti, dando al lavoro di tutti la stessa dignità e garantendo sempre lo stesso impegno editoriale. Ha reso disponibili grandi classici dimenticati e fuori catalogo, come opere nuove o inedite, fondamentali nel dibattito attorno al materialismo storico. Ci siamo conosciuti a Torino nel 1997, al Convegno per il sessantesimo anniversario della morte di Gramsci. Chiesi all’allora mio segretario regionale di essere mandato lì, anziché al Congresso dei Giovani Comunisti che si svolgeva contemporaneamente. In una di quelle giornate, al termine di una sessione di lavori nella quale il tema prevalente era l’esigenza tutta politica di separare Gramsci da Lenin con l’accetta, chiesi la parola e contestai in maniera abbastanza irrituale e dura quella lettura che ritenevo scorretta tanto sul piano filologico, quanto su quello dell’onestà politico-intellettuale. Subito dopo mi si avvicinò un uomo alto e con i baffi, che non aveva smesso di sorridermi da quel momento. “Io e te dobbiamo parlare” mi disse, quindi mi lasciò i suoi numeri, indirizzi e un malloppo di nuove pubblicazioni appena uscite. Così fu, ci incontrammo in una trattoria nel cuore di Napoli, confrontandoci anche duramente, fino litigare a voce alta su tante cose. Ben presto lo compresi, portare la discussione sul terreno sdrucciolevole del contrasto era un suo modo per studiare e capire chi aveva di fronte, quasi un esame. Nonostante una furibonda litigata sulla figura di Togliatti, nella quale non ci risparmiammo colpi bassi, diventammo molto più che amici. Sebbene fossi uno studentucolo senz’arte né parte, mi coinvolse da subito nelle iniziative della casa editrice, convegni, riviste, riunioni di gruppi e correnti marxiste-leniniste concluse a notte fonda, dopo aver smontato e ricostruito il mondo secondo la nostra “etica rivoluzionaria”. Per quanto potesse sembrare burbero e brusco nei modi, aveva in realtà una sensibilità e empatia umana capaci di sorprenderti. Ci sentivamo spesso, in interminabili telefonate nelle quali si parlava di tutto, dalla politica internazionale alla disastrosa situazione del nostro campo, dalle disavventure dei nostri rispettivi lavori all’uscita di nuovi libri interessanti o indecenti. Sebbene partisse dalla valutazione amara e sconsolata di una fase di riflusso e arretramento generalizzato, non dava il tempo per crogiolarti nella lamentazione passiva. In un secondo il suo tono di voce e ritmo nel parlare mutavano, come preso da una smania di azione irrefrenabile e da un entusiasmo giovanile, quindi ti travolgeva con idee, iniziative, progetti politico-editoriali. La mia partenza nel 2014 interruppe questa abitudine che assecondavamo con cadenza regolare, ma appena rientravo, dopo qualche giorno, ricevevo la sua telefonata: “ciao caro, hai due minuti per parlare…?" Anche l’ultima volta, mai avrei potuto immaginare sarebbe stata veramente l’ultima, quando mi ha parlato dei progetti per il centenario della Rivoluzione di Ottobre, del rilancio della casa editrice, di collaborazioni e rapporti con autori e editori brasiliani. Devo molto a Sergio, tantissimo, e la tristezza di questa pessima notizia è resa ancora più amara dalle migliaia di chilometri di distanza che mi impediscono di dargli il mio ultimo saluto. Addio Sergio, amico mio e compagno, non ho mai avuto l’occasione di ringraziarti abbastanza, anche perché mi avresti mandato a quel paese con una grossa risata. Grazie.

Gianni Fresu
March 19 2917 · Uberlândia, MG, Brazil


=== 4 ===


www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 22-03-17 - n. 625

Il compagno Sergio Manes è morto. Malato da tempo, si è impegnato sino all'ultimo nella grandiosa e lunga lotta per un cambiamento di società. Militante comunista, editore, patrocinatore di iniziative di studio e di ricerca (per esempio, il convegno del 2003 a Napoli sui problemi della transizione al socialismo in Urss), Sergio Manes, attraverso il Centro di Documentazione "La Città del Sole", ha fornito un contributo tangibile alla difesa e al rilancio dello studio del marxismo come strumento critico di comprensione della realtà e arma ideologica fondamentale per i militanti comunisti e le loro organizzazioni nella lotta di classe.

Lo vogliamo ricordare riproponendo un suo recente articolo, schiettamente critico rispetto il passato e il presente del movimento dei comunisti in Italia, in cui prova a indicare "l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili." 

Rivolgiamo ai famigliari e agli amici più stretti le nostre sincere condoglianze.

Ciao Sergio, che la terra ti sia lieve.

I compagni e le compagne del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

20 marzo 2017



Per la lotta ideologica attiva


Sergio Manes

09/09/2016

 I comunisti non si autocriticheranno mai abbastanza per aver disatteso - del tutto o quasi - l'esigenza di sottoporre ad analisi rigorosa i cambiamenti epocali della seconda metà del '900. Questa omissione ha impedito che l'esperienza ancora in corso del comunismo novecentesco - a partire da quella centrale dell'URSS - interpretasse pienamente e correttamente le trasformazioni in atto e individuasse linee capaci di resistere alle difficoltà insorgenti, ma anche di conquistare nelle condizioni in via di cambiamento nuovi traguardi all'altezza di quelli conseguiti fino a quel momento. Le conseguenze furono il crescente degrado teorico e il logorio politico di quelle esperienze fino al loro collasso.

Ma ce ne sono state altre che sono andate ben oltre il tempo della sconfitta e che ancora oggi pesano come macigni sulla speranza e sui volenterosi - ma confusi - tentativi di ripresa e di ripartenza. La inadeguata percezione dei cambiamenti in atto e il sostanziale vuoto di analisi innescarono una deriva - la cui responsabilità grava pesantemente sui gruppi politici dirigenti e ancor più sugli intellettuali comunisti - che lasciò e ancora lascia campo libero alla borghesia transnazionale sul piano strutturale e uno spazio immenso ad elaborazioni sia esterne alla tradizione marxista, sia vicine o perfino interne ad essa ma che fanno un utilizzo non rigoroso e coerente delle categorie e del metodo e che, nelle loro evoluzioni più mature, hanno portato infine a concezioni del tutto estranee alla concezione materialistica e dialettica del mondo e della storia.

Esse hanno, però - proprio per la loro sostanziale affinità con visioni interne al pensiero idealistico dominante e per la loro più semplice accessibilità - una capacità di suggestione e di convincimento che devia le analisi e le proposizioni di carattere politico di chi continua tuttavia a porsi soggettivamente - ma volontaristicamente - su un terreno alternativo e antagonista. Si pensi, ad esempio, alla deriva originariamente "operaista" la cui elaborazione del concetto di "operaio-massa" non poteva – nella sua forma matura e in presenza delle trasformazioni avvenute nella realtà produttiva e sociale - non sfociare che in quella della "moltitudine" che segna il definitivo abbandono - concettuale e politico, ancor prima che lessicale - della categoria di classe. Un approdo che sfugge al ben più arduo compito di ridefinirla nelle nuove condizioni, ma che porta a esiti aberranti.

Al suo seguito trovano spazio suggestioni soggettivistiche, che sembrano aderire più semplicemente al nuovo, ma che portano in sé l'eco dell'antica contrapposizione tra idealismo e materialismo, tra gradualismo e dialettica. Si riaffacciano in realtà vecchie ipotesi – per esempio, ma non solo, di impronta proudhoniana – che reintroducono opzioni strategiche, proposizioni e percorsi tattici, metodi e forme di lotta e di organizzazione che ben poco hanno più in comune con il pensiero e il metodo marxisti.

Le conseguenze sono devastanti: sfuma e finisce per sparire la contraddizione principale del rapporto tra chi produce la ricchezza e chi se ne appropria e, dunque, scompaiono le radici stesse dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia, della loro riproduzione verso l'alto, del loro possibile rovesciamento dialettico: la necessità di una radicale trasformazione dei rapporti di produzione a seguito dello sviluppo incontenibile delle forze produttive.

Ne discende che cambiano inevitabilmente il terreno, i soggetti e le modalità dello scontro e del necessario salto di qualità: il luogo non è più quello della produzione; i soggetti non sono più i "borghesi" e i "proletari", i "capitalisti" e i "lavoratori", ma l'"imperialismo" e le "banche" da un lato e il "popolo" dall'altro, i "ricchi" e i "poveri"; lotta e obiettivi del cambiamento non sono fondati sull'unità organizzata e sull'internazionalismo militate degli sfruttati e degli oppressi del mondo in ragione delle radici comuni e delle cause materiali del loro sfruttamento e della loro oppressione, ma su una conflittualità diffusa, generalizzata e dispersa tra le strutture del privilegio e la massa indifferenziata delle moltitudini subordinate; alle forme organizzate - politiche ed economiche – della lotta per la trasformazione vengono preferiti strumenti "leggeri" - cangianti e variegati - di autorganizzazione "partecipata" e "democratica". Non si tratta affatto, dunque – come si favoleggia con irresponsabile leggerezza codina o con opportunistico feticismo per un "nuovo" sgrammaticato – di differenze meramente formali o lessicali.

I comunisti hanno avuto e hanno grandi difficoltà a contrastare questa deriva che ormai connota una parte maggioritaria delle esperienze di lotta di questo tempo e suggestiona anche organismi che continuano a schierarsi in campo comunista. Sfilacciata la dimestichezza con il metodo e le categorie interpretative, sacralizzata per superficialità o per opportunismo l'esperienza novecentesca, trascurate l'insorgenza e la crescita di queste diverse concezioni e metodi di lotta, assediati o minati al loro stesso interno da pulsioni democraticiste, compresi soltanto di sé e occupati piuttosto a dividersi settariamente e a riprodursi replicando all'infinito esperienze già dimostratesi inadeguate, hanno essi stessi dismesso o appannato i propri riferimenti teorici e smarrito qualsiasi legame con la classe di riferimento - di cui però pretendono astrattamente di continuare a rappresentare gli interessi - e arrancano ai margini dei cosiddetti "movimenti".

Tuttavia, in una situazione così difficile e di così lungo periodo ci sono ancora una speranza e una ragionevole possibilità di ripresa. Già il testardo e pur sterile arroccamento di questi anni testimonia nelle diverse realtà residuali - anche e non solo di provenienza Pci-Prc - se non altro una tenacia che deve però scrollarsi di dosso i vecchi e i nuovi schemi settari e autoreferenziali per liberare le potenzialità tuttavia esistenti. In questa prospettiva il dato positivo che bisogna cogliere e valorizzare è che intanto cominciano a far breccia gli sforzi dei pochi che ostinatamente continuano a indicare e percorrere concretamente - nei limiti del possibile - l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili.

Tutto questo, però, rischia di restare puro e inutile esercizio intellettuale se non viene coniugato e verificato nella realtà viva dello scontro di classe che si sviluppa - pur se percepita in modo distorto e realizzata in maniera frammentata, dispersa e spesso incoerente - sulle condizioni materiali delle masse sfruttate e oppresse, sulle drammatiche contraddizioni reali derivanti dalle scelte imposte dal capitalismo transnazionale, sui retroterra ideologici di chi - comunque meritoriamente -suscita e orienta queste lotte a cui occorre portare il massimo contributo e il sostegno. Ma esserci non basta. Questo vuol dire che formazione, ricerca, analisi e proposizioni non possono essere studio avulso dal contesto reale, ma debbono essere impostati e sviluppati in funzione di esso.

E allora formazione, ricerca, analisi e proposizioni debbono essere centrate e finalizzate a riportare il terreno principale di scontro nei luoghi e sui modi della produzione;  a riguadagnare la fiducia della classe lavoratrice nella prospettiva comunista e in chi opera a partire dai loro bisogni collettivi piuttosto che dai loro presunti diritti individuali; a ricostruire nelle nuove condizioni e con la lotta l'unità degli sfruttati e degli oppressi a livello nazionale e internazionale; a individuare e realizzare forme di lotta capaci di unificare questo esercito sterminato, in mille modi frazionato ma unito dalla comune condizione; a costruire forme stabili di organizzazione, al passo con la realtà materiale di oggi.

A questo scopo è anche utile e necessario aggredire criticamente analisi, posizioni e iniziative che vengono agitate sulla scena politica, che captano il consenso e indirizzano la conflittualità dei militanti: polemiche non demonizzanti ma intese, fornendo gli opportuni spunti critici, a problematizzare, a far discutere, a fare chiarezza, a formare maieuticamente i militanti. È giunto il tempo di scatenare tra gli stessi comunisti, ma anche tra coloro che si ispirano ancora ad orizzonti anticapitalisti, una seria lotta ideologica attiva e dedicare ad essa energie e risorse.




(srpskohrvatski / italiano)

Report dalla Serbia in occasione del 18.mo della aggressione NATO

0) VOCE JUGOSLAVA e altri LINK
1) GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA
Report della Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta per Contropiano.org
2) 18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU (SRP)
3) 18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ (Komunisti Srbije)


=== 0: LINKOVI ===

VOCE JUGOSLAVA ★ JUGOSLAVENSKI GLAS / Program  28.III.2017  Programma  
18. godišnjice NATO bombardiranja. Izvještaj sa puta u Srbiju od 23. do 29. marta. Ivan i Andrea
18.mo Anniversario dei bombardamenti NATO. Relazione del viaggio in Serbia, dal 23 al 29 marzo. Ivan e Andrea

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Nećemo u alijansu koja nas je bombardovala (Igor MITIĆ | 24. mart 2017.)
Kod Železničkog mosta u Grdeličkoj klisuri obeleženo 18 godina od početka NATO bombardovanja SR Jugoslavije 1999. Vučić: Na svaku agresiju imaćemo jak i jasan odgovor...

Godišnjica Nato bombardovanja - Grdelica (Vranjska Plus, 24 mar 2017)

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Agresija NATO (SUBNOR, 23.3.2017)

Da se ne zaboravi (SUBNOR, 24.3.2017)

Zaječar:
Agresor ne moze da pobedi (SUBNOR, 25.3.2017)

Negotinska Krajina:
Mir je put u budućnost (SUBNOR, 25.3.2017)

Šumadija:
Školski čas o agresiji (SUBNOR, 27.3.2017)

Vranje:
Ubijali su i decu (SUBNOR, 27.3.2017)

Kuršumlija: 
Herojiski ćin sestre Radice (SUBNOR, 29.3.2017)
Uvek ćemo braniti otadzbinu (SUBNOR, 29.3.2017)

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Видео излагања са Конференције Де се не заборави, 18 година од НАТО агресије

(субота, 25 март 2017 09:21 | Нато агресија)

Конференција "Агресија НАТО 18 година после- где смо сада?" одржана је 23. априла 2017. године у Свечаној сали Дома војске у Београду. Конференција је окупила преко 250 учесника из Србије ( укључујући АП Косово и Метохију), Републике Српске, Црне Горе и српског расејања, као и велики број дипломата страних земаља у Србији. Скуп је започео минутом ћутања, чиме је одата почаст свим невино страдалим жртвама агресије. У наставку су излагања учесника.

Живадин Јовановић

Јелана Гускова

Ген. Миломир Миладиновић

Душан Чукић

Момчило Вуксановић

Проф др Жарко Павић

Јован Алексић

Проф Шеварлић

Марко Антић

Симо Спасић

Јован Радић - Косовски божури
Маја Арсић - Косовски божури


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GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA

Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta


La primavera ha fatto irruzione a Belgrado con una temperatura media di 25 gradi di giorno – molto meno di notte, come in ogni clima continentale che si rispetti. Sono giornate limpide e colorate da una splendida fioritura di violette, adatte a una campagna elettorale energica e aggressiva come è quella per le elezioni presidenziali in calendario il prossimo 2 aprile
Sono però anche i giorni dell'anniversario dell'inizio della aggressione della NATO (24 marzo 1999). Quella ferita non è rimarginata, nonostante il tempo passato, le ristrutturazioni di molti degli edifici bombardati, che fanno storcere il naso a chi non vuole dimenticare, e i nuovi rapporti politici, sociali e macro-economici instauratisi dopo il "cambio di regime". Le strade di Belgrado si sono riempite di insegne luminose in stile occidentale, la viabilità ha subito trasformazioni importanti – con la costruzione di nuove autostrade e spettacolari ponti sui fiumi Sava e Danubio, anche grazie all'imprenditoria cinese. I nuovi ponti non cancellano però dai cuori le immagini di quelli "colpiti e affondati" dalla NATO né di quelli occupati da migliaia di cittadini che, urlando slogan e ballando, in quella primavera del 1999 mostravano al mondo intero fieramente i cartelli con la scritta TARGET.
L'anniversario a Belgrado è celebrato nell'arco di un paio di giorni attraverso qualche conferenza con tema geopolitico e cerimonie in memoria dei caduti; la campagna elettorale potrebbe invece durare fino al 16 aprile, in caso di ballottaggio. L'opzione più probabile, e certamente la meno peggio da vari punti di vista, date le condizioni reali esistenti, è che vinca l'attuale primo ministro Aleksandar Vučić, che darebbe così il cambio al suo compagno di partito Tomislav Nikolić. Alle ultime elezioni politiche il loro Partito Progressista Serbo (SNS, una scissione moderata del Partito Radicale di Šešelj) ha incassato oltre il 48% dei voti. I due in tandem hanno gestito in questi anni la cosa pubblica e la collocazione della Serbia sulla scena internazionale con pacatezza ed equilibrio, riuscendo a garantire il posizionamento "centrale" del paese nella contesa sempre più dura apertasi tra Occidente e Federazione Russa: una contesa culminata con la guerra civile in Ucraina, che sotto numerosi aspetti assomiglia alla guerra – fratricida e imperialista assieme – che ha cancellato la Jugoslavia dalle carte geografiche tra il 1991 e il 2008 ed i cui strascichi permangono sotto forma di gravi tensioni e sfacciate ingerenze esterne. 

Non è questa la sede per approfondimenti sulla situazione in tutta l'area, ma per comprendere la precarietà quasi miracolosa dell'equilibrio serbo vanno richiamate le delicatissime situazioni esistenti nei paesi vicini. Nella FYROM (Macedonia di Skoplje), essendo fallito il progetto terrorista pan-albanese con la operazione di Kumanovo del maggio 2015, UE e NATO da molti mesi lavorano a rinfocolare lo scontro politico ed etnico cercando di imporre un governo socialdemocratico sostenuto dai secessionisti albanofoni al posto dell'attuale governo di impronta patriottica. In Montenegro, le stesse UE e NATO lo scorso ottobre hanno "coperto" l'ennesimo  "golpe bianco" del "presidente eterno", il camorrista Milo Djukanović, che ha inscenato una operazione mediatico-repressiva proprio nel giorno delle elezioni politiche, garantendo così la vittoria formale del blocco atlantista che sta portando il piccolo paese nella NATO contro la volontà della maggioranza della sua popolazione. In Bosnia-Erzegovina la Repubblica Srpska difende con i denti alcune prerogative di sovranità che in tutti i modi il regime semicoloniale, instaurato dopo gli Accordi di Dayton, le vuole sottrarre: principale tra tutti, anche in questo caso, è il diritto a non entrare a far parte della NATO contro la volontà del proprio popolo, anch'esso bombardato nel 1994-1996. 
Per quanto dunque riguarda la Serbia, il focolaio principale di crisi rimane ovviamente (lo è da 30 anni a questa parte) il Kosovo, che i paesi NATO hanno provato a strapparle a forza di atti militari e diplomatici unilaterali e illegali (1). Violenze, ingiustizie, provocazioni e polemiche non sono mai cessate dal giugno 1999 (momento della occupazione congiunta NATO-UCK del territorio) in poi, inclusa ovviamente la dichiarazione di indipendenza del 2008. Però sono adesso all'ordine del giorno nuovi passaggi simbolici dalla valenza potenzialmente lacerante, in particolare: la nuova decisione del "Parlamento" di Pristina di "nazionalizzare" i beni jugoslavi (ricordiamo la straordinaria ricchezza mineraria di quel territorio e tutte le infrastrutture industriali ad essa collegate) e l'annuncio della formazione di un "esercito del Kosovo" (fatto su misura, ovviamente, per la adesione alla NATO).

Ritornando dunque ai leader SNS, data la preoccupante situazione al contorno e globale, il loro equilibrio è apprezzato da tutti i soggetti internazionali: da Occidente – si pensi al gesto della visita di Vučić a Srebrenica – come da Oriente – visti i rapporti sempre più stretti, specialmente dal lato economico, con la Cina e ovviamente la Russia, con cui è stato stretto un accordo di partnership strategica nel 2014. In virtù di tale equilibrio, che potremmo definire opportunistico, gli anni del governo SNS sono stati finora contrassegnati dalla accumulazione di energie, anche economiche, nel segno ovviamente del nuovo corso liberista seguito al golpe dell'ottobre 2000.
Un orientamento liberista più acceso è propugnato dai candidati alla presidenza filo-occidentali: dall'ex "difensore civico" (ombudsman) Janković all’ex premier Živković ("Partito Nuovo"), dall’ex ministro degli Esteri Jeremić (di recente candidato a Segretario Generale dell’ONU, ma significativamente sgradito anche alla Russia) all’ex ministro dell’Economia Radulović, ed altri ancora. Tutti costoro erano però assenti dal Parlamento il giorno della visita della Rappresentante dell'UE Mogherini, a causa di una controproducente protesta che hanno voluto inscenare contro la sospensione della attività parlamentare in campagna elettorale. Nel Parlamento della capitale serba la Mogherini non ha trovato perciò applausi, come avrebbe voluto, bensì la sonora e plateale contestazione da parte dei deputati delle opposizioni di destra,cioè Dveri e il Partito Radicale con Vojslav Šešelj in testa. Dinanzi alla contestazione << Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile per l’UE >> (2). Allo stesso Šešelj il circo mediatico, evidentemente diretto da "spin doctors" assai professionali formatisi in chissà quali istituti anglosassoni, ha attribuito il ruolo di candidato per eccellenza della parte più apertamente anti-europeista e anti-occidentale dell'opinione pubblica; alle consuete scritte sui muri ed ai manifesti scoloriti affissi dai militanti si sono aggiunti in queste settimane molti manifesti patinatissimi e bene illuminati che ne espongono il faccione con insistenza. Oltre al provocatorio Šešelj, sul fronte nazionalista alle elezioni c'è il rappresentante di Dveri, Obradović, ed il debole candidato del partito DSS che fu di Koštunica – Popović.

La sinistra non presenta candidati. I socialisti (SPS e Movimento dei Socialisti) sono oramai da molti anni in coalizione con l'SNS e dunque appoggiano Vučić. La sinistra di classe doveva essere rappresentata da Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale), per la iniziativa civica "Il lavoratore non è merce": ma appena il 5 marzo con una dichiarazione pubblica rilasciata via YouTube Veselinović ha comunicato che "a causa delle condizioni impossibili" (spec. dal punto di vista economico) poste per la presentazione della lista e la partecipazione alle elezioni, doveva rinunciare alla competizione. È l'ennesima volta che le formazioni anticapitaliste sono tenute fuori dalle competizioni elettorali tramite tagliole burocratiche e finanziarie.

La UE si lagna della crescita dell'influenza russa in Serbia (3), ma ha poco da piangere sul latte versato essendo questo uno dei frutti di quanto ha essa stessa seminato nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Non si può dimenticare che la UE ha responsabilità non minori di quelle statunitensi nel determinarsi del disastro jugoslavo: proprio contestualmente al suo atto fondativo, il 17 dicembre 1991, a Maastricht, la allora Comunità Europea per diktat tedesco sacrificò l'unità jugoslava e con essa la pace nel continente (4). Il 23 dicembre successivo, come preannunciato a Maastricht, la Germania dichiarava unilateralmente e pubblicamente il suo riconoscimento delle repubbliche di Croazia e Slovenia, con effetto a partire dal 15 gennaio successivo; il 13 gennaio 1992 era però la Città del Vaticano a precedere tutti, riconoscendo la Croazia come stato indipendente, seguita due giorni dopo da tutti i paesi della UE.
Incontestabile fu dunque l'analisi di Slobodan Milošević, che dinanzi al “Tribunale ad hoc” dell'Aia, il 30 gennaio 2002 disse: << C'era un piano evidente contro quello Stato di allora [la Jugoslavia] che era, direi, un modello per il futuro federalismo europeo. >> Necessariamente, anche post-mortem Milošević rimane il convitato di pietra di ogni passaggio politico in Serbia, e quindi pure in queste elezioni. Proprio negli stessi giorni della visita della Mogherini, nell'altro anniversario marzolino – quello del giorno 11, quando nel 2006 il cadavere di Milošević fu ritrovato nella cella dell'Aia – a Belgrado la associazione SloboDA (che vuol dire "Slobo SI" ma anche "Libertà") ha presentato pubblicamente il testo "Anatomia di un assassinio giudiziario" (5), contenente tutta la documentazione forense e amministrativa che dimostra come all'interno del "Tribunale ad hoc" sia stato pianificato e realizzato l'omicidio dell'ultimo presidente jugoslavo, vittima della somministrazione intenzionalmente scorretta di un farmaco in grado di causare sbalzi di pressione esiziali per un cardiopatico.

In effetti in Serbia il nodo del "cambio di regime", dal colpo di Stato dell'ottobre 2000 alla uccisione di Milošević all'Aia nel 2006, rimane sotto traccia nella vita politica e nella coscienza popolare nonostante la disinformazione strategica impartita in dosi massicce da un sistema mediatico fortemente condizionato dai monopoli capitalistici. A Belgrado capita di trovare persone che ti dicono seriamente che "Milošević in realtà fu portato a Mosca di nascosto ed è ancora vivo"... ultima favola giornalistica dopo altre surreali bufale, come quella di "Tito agente del Vaticano".
Ancora più chiaro di Milošević nel giudizio sull'Europa è stato solamente il grande drammaturgo tedesco Peter Handke: << Per me la Jugoslavia era l'Europa... La Jugoslavia, per quanto frammentata sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa come è adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue zone di libero scambio, ma un posto in cui nazionalità diverse vivono mischiate l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia, anche dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come io la vorrei. Perciò, in me l'immagine dell'Europa è stata distrutta con la distruzione della Jugoslavia. >> (6) Questo è l'epitaffio che campeggia sulla tomba del progetto europeo sin dal 1991, e che i manifestanti del 25 marzo a Roma, dopo tante inequivocabili ulteriori verifiche (basti pensare ai casi ucraino o greco) potrebbero fare proprio con pieno diritto.


NOTE:

1) La Risoluzione ONU 1244 del 1999, con cui si è conclusa la aggressione NATO, sulla carta ribadisce la sovranità della Serbia sulla provincia del Kosovo-Metohija.

2) G. Vale: Serbia: il premier sogna da presidente (Affari Internazionali, 15/03/2017)
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3860

3) L'Unione Europea teme la crescita dell'influenza russa in Serbia (Sputnik News, 20.03.2017)
https://it.sputniknews.com/mondo/201703204225158-unione-europea-russia-serbia-conflitti-balcani/

4) La cinica trattativa è stata raccontata anche Gianni De Michelis, che vi partecipò (Si veda ad es. Limes n.3/1996. Di essa rimane anche traccia formale nel documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992.

5) Il libro "Anatomija sudskog ubistva" è in corso di traduzione a cura di Jugocoord Onlus, che su questi temi sta per lanciare una serie di attività concordate con SloboDA.

6) Intervista al giornalista televisivo tedesco Martin Lettmayer, gennaio 1997.

Sul tema delle responsabilità europee in Serbia si consiglia anche la lettura di
A. Martocchia: Nessuna Europa senza la Jugoslavia (su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011)


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18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU

Danas 24. marta, navršava se 18 godina od početka brutalne NATO agresije na SR Jugoslaviju, odnosno Srbiju i Crnu Goru, koja je trajala punih 78 dana. Sama agresija pokrenuta je mimo svih dotadašnjih normi međunarodnog prava, povelje UN-a, završnog dokumenta iz Helsinkija o evropskoj sigurnosti i suradnji pa i do tada važećih NATO akata koji su Sjevernoatlantski savez definirali kao obrambeni sistem.

Iako je NATO agresija na SR Jugoslaviju predstavljala presedan po nekoliko osnova, ona je ipak proizvod jedne politike koja si želi uzurpirati pravo dominacije u svijetu i upravljanja iz jednog centra moći.

Agresija koju je tzv. međunarodna zajednica, a ustvari grupa najbogatijih zemalja svijeta na čelu sa SAD-om i NATO, izvršila u proljeće 1999. godine na SRJ, bila je u svojoj biti sastavni dio borbe za prostor koja je krenula nakon tektonskih društveno-političkih procesa 90-ih godina prošlog stoljeća, a kojima je cilj bio prodor krupnog kapitala na Istok i osvajanje novih teritorija.

Tim prodorom je kapitalizam, koji se našao u dubokoj krizi 80-ih godina prošlog stoljeća, ostvario svoja tri cilja i odgodio svoj silazak s društvene scene i odlazak u povijest za jedan nedefinirani vremenski period.

Ciljevi koje je kapitalizam postigao su:

- ekonomski

- politički

- vojni

 

EKONOMSKI cilj sastojao se od:

Osvajanja novih tržišta.

Preuzimanja infrastrukture, sirovinske i financijske baze novoosvojenih područja.

Dobivanja jeftine radne snage, bilo postojeće u zemljama u koje su transferirali kapital ili one imigrantske u vlastitim zemljama.

POLITIČKI cilj sastojao se od:

Eliminacije socijalizma u Evropi i samoupravljanja u Jugoslaviji.

VOJNI cilj sastojao se od:

Prodora na Istok s krajnjim ciljem približavanja i opkoljavanja Rusije i Kine. I taj proces još traje.

Agresija na SRJ 1999. godine, osim što je bila dio opće strategije osvajanja prostora, na način kako je izvedena po svojoj brutalnosti imala je i zadatak kažnjavanja neposlušnog protivnika.

Naime, dinamika prodora u istočnoj Evropi bila je za nosioce imperijalne težnje zadovoljavajuća, jer su u zemljama bivšeg socijalističkog bloka lako pronašli suradnike među političkim elitama za rušenje dotadašnjeg društveno-političkog uređenja, koji su time vlastiti narod i materijalne resurse predali globalnom krupnom kapitalu.

Problem je nastao na jugoslavenskom prostoru. Posebno nepoželjan imperijalističkim krugovima bio je njen model samoupravnog socijalizma kao primjer emancipatorske prirodne pozicije rada u društvu i dostojanstva radnika koji bi bili u stanju upravljati vlastitim sudbinama uz pun državni suverenitet.

U procesu koji je dirigiran izvana, a realiziran iznutra, predani smo na milost i nemilost svjetskim moćnicima pri čemu su vodeću ulogu odigrale secesionističke republike Slovenija i Hrvatska, a po domino efektu slijedile Bosna i Hercegovina i Makedonija, bez iole racionalne potrebe koja bi imala pokriće u ekonomskoj ili nekoj drugoj logici. Jedinu prepreku osvajanju kompletnog  prostora i dominacije nad njim, predstavljala je tadašnji ostatak nekadašnje države, SR Jugoslavija, koja je, iako s tada već promijenjenim društveno-političkim uređenjem, percipirana kao zadnji bastion na putu imperijalističkim moćnicima i zbog toga ju je trebalo kazniti. Da se radi o kažnjavanju razvidno je već iz činjenice da je međunarodna zajednica primjenjivala različite kriterije za pojedine republike i narode bivše Jugoslavije, što je bilo dozvoljeno jednima, nije bilo dozvoljeno drugima, a to je zavisilo od stupnja koncilijantnosti lokalnih oligarhija naspram svjetskih moćnika.

Uslijedila je brutalna agresija NATO snaga koje nisu nanijele SRJ relativno velike vojne gubitke usprkos širini kampanje i činjenici da je omjer snaga izražen u ljudstvu i vojnoj opremljenosti između agresora i napadnutih bio do tada nezabilježen u vojnoj praksi. Iako su vojni gubici SRJ bili relativno mali, zato su oni civilni i materijalni bili vrlo visoki. Uništavana je infrastruktura i ekonomska supstanca zemlje primjenom najsofisticiranijih sredstava koja nemaju nikakvo vojno opravdanje, već su namijenjena materijalnom razaranju civilnih i privrednih objekata, često s katastrofalnim učincima.

Prvi su put upotrijebljene grafitne bombe, a vrhunac brutalnosti postignut je upotrebom municije s osiromašenim uranom koja trajno kontaminira prostor u kojem žive ljudi, a o apsurdu upotrebe tih sredstava svjedoči činjenica o velikom broju stradalih pripadnika agresorskih jedinica koje su rukovale tom municijom.

Presedan, par excellence, učinjen je sada već prema državi Srbiji otimanjem dijela njenog teritorija mimo svih međunarodnih pravnih normi i instaliranjem imperijalističkog protektorata na Kosovu i Metohiji s najvećom NATO vojnom bazom u ovom dijelu svijeta. Tim činom stvorena je jedna umjetna kvazidržavna tvorevina bez vlastite privrede od koje bi njeni građani živjeli, ali s velikim i vrijednim mineralnim resursima, koju nije priznao veliki broj zemalja u svijetu, a čija je osnovna namjena biti odskočna daska SAD-a i NATO-a na putu prema Kaspijskom bazenu. Ta je teza potvrđena 2008. kad su SAD i NATO stojeći jednom nogom na Kosovu i Metohiji pokušali drugom nogom zakoračiti na Kavkaz, što im, na sreću, nije uspjelo. Kasnija događanja u Ukrajini i ona recentna u baltičkim zemljama potvrđuju namjere SAD-a u širenju utjecaja prema Rusiji, ne prežući pritom od suradnje s eksplicite fašističkim subjektima.

Od agresije je, eto, proteklo 18 godina, ali posljedice su još prisutne, prvenstveno one zdravstvene kao posljedica trajno kontaminiranog tla od upotrebe radioaktivne municije. Ali i sam proces porobljavanja još traje. On se finalizira, ovaj put ne vojnim sredstvima, s ciljem da se žrtva ponizi i uvuče u interesni krug svojih tlačitelja – EU i NATO. Na raspolaganju je široki spektar metoda: od honoriranja oligarhije, obećanja za jednokratnu upotrebu, uvjeravanja, ucjena, podmetanja i slično.

Doprinos agresiji odradile su i bivše republike SFRJ, pa i Hrvatska, dozvolivši agresorskim snagama korištenje zračnog prostora za avione koji su polijetali iz NATO baze u Avianu. Dio neiskorištenih bojnih punjenja ti su avioni na povratku istresali u Jadransko more da bi se oslobodili prije slijetanja.

Aviano je tih dana svjedočio i plemenitoj strani ljudskog uma. Cijelim tokom bombardiranja tamo su se održavale vrlo organizirane masovne proturatne demonstracije na dnevnoj bazi, pretežno mladih ljudi pristiglih iz svih dijelova Italije i Evrope. Broj prisutnih znao je vikendom prelaziti brojku od 25.000 ljudi. Socijalistička radnička partija je, kao jedini politički subjekt iz Hrvatske, u organizaciji i suradnji s našim drugovima iz Rifondazione Comunista dva puta učestvovala u demonstracijama i to 17. aprila i zadnji vikend prije prestanka agresije. Tom je prilikom u demonstracijama uzeo učešće i osnivač i tadašnji predsjednik SRP-a dr. Stipe Šuvar.

 

Vladimir Kapuralin



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18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ


Комунисти Србије никада неће заборавити злочиначку агресију НАТО пакта на чијем челу су САД и водеће земље ЕУ који сви заједно представљају ударну песницу крупног капитала који изграђује нови светски поредак. 24. Марта 1999.године НАТО пакт је по први пут изашао из својих до тада прокламованих начела да никада никога не напада без сагласности СБ УН.

Током агресије уз ангажовање 19 чланица НАТО алијансе, убијено је око 3.500, а рањено 12.500 грађана. Од тога, према званичном, објављеном списку, у редовима војске и полиције погинуло је 1.008 бораца, од којих 659 војника и 349 полицајаца. Ракетама и бомбама НАТО оштећено је 25.000 кућа и стамбених зграда и уништено 470 километара путева и 595 километара железничких шина. Оштећено је 14 аеродрома, као и 19 болница, 20 домова здравља, 18 вртића, 69 школа, 176 споменика културе и 44 моста, док је још 38 мостова било потпуно уништено.Потпуно је разорио 7 индустријских и привредних објеката, 11 енергетских постројења, 28 радио и ТВ-репетитора, 29 манастира и 35 цркава. Изведено је 2.300 налета у нападима на 995 објеката по Србији, док је 1.150 борбених авиона испалило скоро 420.000 пројектила укупне масе од 22.000 тона. НАТО је испалио 1.300 крстарећих ракета, бацио 37.000 касетних бомби које су убиле око 200 људи и повредиле још неколико стотина.

Коришћени су пројектили пуњени осиромашеним уранијумом који трајно угрожава земљиште, воду и ваздух, улази у ланац исхране и изазива далекосежне последице по здравље људи и живих бића уопште. Србија је током бомбардовања засипана и другим отровима а контаминацији су допринела и оштећења индустријских постројења. Дејство загађивача резултирало је чињеницом  да је данас Србија прва у Европи по броју оболелих и умрлих од малигних болести у дечијем узрасту. Ово је био тихи атомски рат, чије последице ћемо сагледати за 600 година.

Уништена је једна трећина електроенергетских капацитета у земљи, бомбардоване су две рафинерије нафте, у Панчеву и Новом Саду, а снаге НАТО употребиле су први пут и такозване графитне бомбе нарушавајући функционисање електроенергетског система. НАТО је свесно лишавао снабдевања струјом домаћинства, болнице, породилишта, дечје вртиће, пекаре…

Комунисти Србије ће се и даље борити против поданичких власти у Србији који подржавају прикључење ЕУ и Евроатланским интеграцијама. Наглашавамо да је капитализам у овој фази узрочник НАТО агресије и свих досадашњих ратова и криза у свету.

КОМУНИСТИ СРБИЈЕ





Caldarola (MC), 31 marzo 2017
alle ore 20 presso la Tensostruttura comunale nella zona industriale

Cena Resistente 73° Anniversario Eccidi di Montalto e Piobbico

Resistenza, memoria e difesa del territorio

L’edizione della “cena resistente” di quest’anno sarà realizzata dalle sezioni Anpi Sarnano e Caldarola. 

L’evento, che cade nel periodo degli anniversari nazifascisti di Montalto (22 marzo) e Piobbico (29 marzo), si svolgerà presso la tensostruttura comunale nella zona industriale di Caldarola. 

Dopo la cena di autofinanziamento, il cui ricavato servirà per la realizzazione della “Marcia della Memoria” Caldarola-Montalto e per progetti di ‘ricostruzione’ della memoria, avrà luogo un dibattito aperto su ‘Resistenza, memoria e difesa del territorio’. 

Ci saranno i contributi di Lorenzo Marconi, presidente provinciale dell’Anpi Macerata, Franco Fabi dell’Anpi intercomunale Visso-Castelsantangelo sul Nera, Susanna Angeleri del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) e la presentazione di ‘Terre in moto’ Marche, “una rete di realtà sociali, associazioni e semplici cittadini che ha intrapreso un percorso collettivo che vuole intervenire sulle problematiche legate al terremoto andando oltre i singoli ambiti comunali”.

L’appuntamento è per venerdi 31 marzo a partire dalle ore 20.00.


Info:
Pagina Fan: https://www.facebook.com/anpi.sarnano/
Email: anpisarnano @ gmail.com



(deutsch / italiano)

Siehe auch:
"Freiheitskämpfer" in Riga (Waffen-SS-Gedenken in Lettland – GFP 15.3.2017)
RIGA/BERLIN (Eigener Bericht) - Öffentliche Gedenkveranstaltungen für Einheiten der Waffen-SS in dieser Woche in Riga stoßen international auf Protest. Am morgigen Donnerstag wird in der lettischen Hauptstadt die alljährliche Gedenkprozession zur Ehrung der lettischen Waffen-SS-Divisionen stattfinden. Als Teilnehmer werden neben den letzten noch lebenden Veteranen auch Aktivisten heutiger ultrarechter Organisationen erwartet. Vor mehreren lettischen Botschaften und Konsulaten unter anderem in Deutschland, Italien und Griechenland sind für den heutigen Mittwoch Protestkundgebungen angekündigt worden. Die lettische Waffen-SS war ein Produkt lettischer NS-Kollaborateure, die umfassend am Holocaust beteiligt waren. Von den rund 70.000 lettischen Juden, die sich beim Einmarsch der Wehrmacht noch in Lettland aufhielten, überlebten weniger als 1.500 das Terrorregime der Deutschen und ihrer Kollaborateure. Das morgige Gedenken geht auf eine Organisation namens "Daugavas Vanagi" ("Habichte der Düna") zurück, die nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs geflohene Waffen-SS-Veteranen versammelte und den westlichen Mächten für Zwecke des Kalten Kriegs zur Verfügung stand...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59561

Vedi anche:
In Lettonia si festeggia la giornata del legionario nazista (PTV news 17 Marzo 2017)



Riga: la sfilata annuale degli ex legionari lettoni delle SS


di Fabrizio Poggi, 17 marzo 2017

Sono finiti in manette ieri a Riga i giovani che, in lingua russa, avevano osato gridare “Vergogna Lettonia; il fascismo non passerà”, di fronte al corteo che ogni anno, il 16 marzo, celebra i legionari lettoni delle Waffen SS. La data ricorda il primo scontro dei reparti lettoni delle SS (15° e 19° Divisioni Granatieri) contro l'Armata Rossa, nel 1944. 

La Lettonia si difende in questo modo dalla “aggressione” russa e spiega ai più piccoli il pericolo che potrebbe venire da est, insegnando la “Difesa dello stato” – educazione patriottica e preparazione paramilitare – materia scolastica introdotta in seguito alla “annessione della Crimea”. Per i più grandi, la speaker del Saeima per il Nacionālā apvienība (Unione nazionale, il cui simbolo è di per sé un programma)Ināra Mūrniece, propone di reintrodurre il servizio militare obbligatorio, cui però si oppongono (ma solo per motivi di bilancio, o per la paura che i giovani emigrino, pur di evitarlo) Presidente, Ministro della difesa e Comandante in capo, nonostante insistano anch'essi sul “pericolo russo”. Si è arrivati al punto di dichiarare che la naja servirebbe gli interessi russi, indebolendo l'esercito professionale (circa 6.000 uomini) e la Zemessardze, la difesa territoriale (8.000 uomini). 

La stessa Ināra Mūrniece, intervenendo ieri alla cerimonia commemorativa delle SS al cimitero militare di Lestene (80 km a sudovest di Riga) ha dichiarato che i legionari SS andarono in battaglia per “sgominare il bolscevismo, nella speranza di sconfiggere entrambi gli eserciti occupanti” (lo stesso argomento usato dai neonazisti ucraini che si rifanno a Stepan Bandera) “come avevano fatto nella guerra di indipendenza del 1918-1920, allorché i lettoni respinsero sia i bolscevichi, che i nazisti”, i quali ultimi, per le cronache, non erano ancora comparsi.

Ma, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, le fobie che dettano tali misure e altre già adottate ad esempio in Lituania, potrebbero in egual misura scoraggiare i tanto attesi investimenti occidentali. Tant'è che, ad esempio, il sindaco della città portuale di Ventspils, 200 km a nordovest di Riga, Ajvar Lembergs, aveva già avuto da ridire sulle prese di posizione della passata amministrazione USA a proposito della “linea del fronte che passa per la Lettonia”: pensiamo davvero, aveva detto Lembergs “che un investitore voglia gettare risorse in un territorio prossimo alla linea del fronte?”. Non a caso, il 23% dei lettoni, contro le pretese dei circoli russofobi, avrebbe voluto Lembergs alla guida del governo, sopravanzando nei favori addirittura il sindaco di Riga Nils Ušakovs, appoggiato dalla forte minoranza russofona lettone, in gran parte esclusa dal diritto di voto nella Lettonia membro della UE.

In un modo o in altro, sembra comunque che il passato collaborazionista torni regolarmente a far capolino nei Paesi baltici, con le parate annuali di Riga e Sinimaee, in Estonia. E a poco servono gli “argomenti” secondo cui i legionari baltici sarebbero stati costretti a indossare l'uniforme nazista per difendere il proprio paese: combattendo contro l'Armata Rossa, liberavano forze naziste per le necessità di sterminio nei campi di Salaspils (20 km a sudest di Riga) o Klooga (40 km a sudovest di Tallin); tanto più che, come nota l'agenzia Regnum, i legionari non prestavano giuramento al proprio paese, ma direttamente a Adolf Hitler. 

E ugualmente serve a poco la “giustificazione” per cui i legionari lettoni non ricadono sotto le sentenze del tribunale di Norimberga, dato che, nonostante il loro status formalmente volontario, non avrebbero avuto la possibilità di sottrarvisi. Le stragi di almeno 12mila civli lettoni (di cui 2.000 bambini) e le distruzione di centinaia villaggi in Russia, Bielorussia e Polonia a opera di battaglioni lettoni delle SS, impiegati nelle attività antipartigiane dell'operazione “Magia invernale”, non sembrano un solido argomento a sostegno delle dichiarazione adottata nel 1998 dal Saeima lettone: "L'obiettivo dei militari richiamati e di quelli che volontariamente aderirono alla legione era quello di difendere la Lettonia dalla restaurazione del regime stalinista. Essi non presero mai parte alle azioni punitive hitleriane contro la popolazione civile". Nel 1944-'45, come ricorda un ampio servizio di Argumenty i Fakty, i terroristi del “Comando Arajs” di polizia ausiliaria si occuparono dell'eliminazione di ebrei lettoni – da 26mila a 60mila, a seconda delle fonti – e anche questo difficilmente permette di considerare i membri volontari della legione lettone “vittime delle circostanze”, come si tenta di presentarli oggi in Lettonia. 

Sono centinaia i collaborazionisti, sfuggiti 70 anni fa alla giustizia sovietica, rifugiati a ovest e utili alle manovre della guerra fredda, poi rientrati in patria dopo la fine dell'Urss. Ma perché su di loro, nota Argumenty i Fakty, sulle loro sfilate e celebrazionil'occidente chiude tutti e due gli occhi? Perché tali reparti di SS non ci furono solo nei Paesi baltici o in Ucraina: ce ne furono in Olanda, Danimarca, Norvegia, Belgio, Finlandia, Svezia, Francia e in altri paesi europei.

E' così che oggi, da Riga, Tallin o Vilnius, mentre non si rinnega tale passato e anzi lo si esalta, con la partecipazione ai cortei dei veterani anche di massimi esponenti governativi (a titolo individuale, per carità!), non si hanno remore a pretendere “compensazioni” in milioni di euro non dagli eredi degli ex camerati, ma dalla Russia, “erede della occupazione sovietica”.

Io ho vissuto l'occupazione e so cosa significhi”, ha dichiarato qualche giorno fa il primo ministro estone Juri Ratas incontrando a Bruxelles il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e riferendosi alla odierna “occupazione russa” dell'Ucraina e alla necessità di “ristabilire l'integrità territoriale di Moldavia e Georgia”. Se è chiara la sua posizione geopolitica, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, è però il caso di ricordare come suo padre, Rejn Ratas, durante “l'occupazione sovietica” – terminata, bisogna ricordarlo, nel 1991, quando Juri Ratas aveva 13 anni – sia divenuto uno degli scienziati più affermati del paese, le cui centinaia di pubblicazioni e volumi sono oggi disponibili in ogni biblioteca russa.

Ora, dunque, lo scorso novembre Juri Ratas è diventato leader del Partito di Centro (sostenuto da moltissimi russi di Estonia), capovolgendo la precedente politica di buon vicinato con Mosca condotta dal suo predecessore e sindaco di Tallin, Edgar Savisaar, politica che aveva relegato il partito fuori del governo, nonostante i successi elettorali. Adottando la nuova politica, il Partito di Centro è stato immediatamente ammesso al governo e Ratas nominato primo ministro. 

E' così che va, nella UE “a due velocità”, non solamente economiche, quando a Bruxelles si ritiene, alla maniera di Heinrich Böll, che “nei momenti decisivi bisogna essere primitivi e barbari”.

 

(deutsch / italiano)

Europa nucleare

0) INIZIATIVE 
– 28 Aprile a Quirra e dappertutto contro le basi militari e la guerra
– 19 Marzo manifestazione ad Augusta: NO DYNAMIC MANTA
– Appello dal convegno di Prato (2016) e bozza di mozione da proporre
1) Il riarmo delle testate nucleari tedesche potrebbe trasformarsi in una tragedia nazionale (di Rudolph Herzog, 10 marzo 2017)
2) Nuovi articoli di Manlio Dinucci, da Il Manifesto:
– Il grande gioco nucleare in Europa (14.3.2017)
– Colpo di sonno nucleare (28.2.2017)
– Due minuti e mezzo alla Mezzanotte (7.2.2017)
3) La posizione del CNGNN sulle armi nucleari in Italia e sulla Risoluzione presentata dall’On. Manlio Di Stefano et al. (15 marzo 2017)


ALTRI LINK:

Violazioni del Trattato INF: “E’stato Putin ancora una volta” (PandoraTV, 10 Marzo 2017)

Auf Augenhöhe (II) (Berlin sieht sich auf Augenhöhe mit Washington, strebt nach Zugriff auf Atomwaffen – GFP 20.02.2017)
Auf der Münchner Sicherheitskonferenz hat die Bundesregierung sich am Wochenende zum ebenbürtigen Verbündeten "auf Augenhöhe" mit den Vereinigten Staaten stilisiert. Die Bundeskanzlerin sowie mehrere Minister haben gegenüber der US-Administration Bedingungen für eine künftige Zusammenarbeit formuliert und ein "stärkeres Europa" in Aussicht gestellt, das Außenminister Sigmar Gabriel zufolge auch eigenständig in der Lage sein müsse, "mit der Realität der Krisen und Kriege außerhalb der Europäischen Union ... erfolgreich umzugehen". Entsprechende Aufrüstungsschritte werden vorbereitet; die Kanzlerin hält eine Erhöhung des Militäretats um rund acht Prozent pro Jahr für möglich. Zudem schreitet die Debatte über deutsch-europäische Nuklearwaffen voran; Publizisten bringen die Option ins Spiel, Berlin könne sich per Kofinanzierung des französischen Atomwaffenarsenals eine Teilkontrolle über die Force de Frappe sichern. Weil die Aufrüstung ebenso wie die Sicherung des Zugriffs auf Atomwaffen Zeit kosten, setzt Berlin zumindest vorläufig noch auf das Bündnis mit Washington...


=== 0: INIZIATIVE ===

28 APRILE UNITI CONTRO LE BASI MILITARI E LA GUERRA

Anche quest’anno, in concomitanza con la ripresa delle esercitazioni militari in Sardegna, il movimento che lotta e si oppone alla presenza militare, contro le basi e la militarizzazione, contro la guerra, si prepara ad organizzare per il 28 APRILE un corteo al PISQ (Poligono Interforze del Salto di Quirra).
Il Poligono di Quirra oltre ad essere la palestra di tanti eserciti, è anche luogo di sperimentazione per i colossi dell’industria bellica, a partire dall’italianissima Finmeccanica, che da anni è ospite fissa del poligono e di altre industrie come la Piaggio Aerospace e l’Alenia.
L’Italia è in prima fila, come parte integrante sia dell’Unione Europea che della NATO, nella partecipazione alla guerra imperialista che mai come in questo momento si manifesta con tutte le sue conseguenze negative sul piano sociale ed economico nel nostro paese.
Guerra imperialista significa adesione al progetto di un nuovo colonialismo e ad una nuova spartizione del mondo per la conquista di nuovi mercati, appropriazione di risorse energetiche, imposizione dell’ordine capitalistico, che si traduce ‑ al tempo stesso ‑ per milioni di persone, in distruzione, miseria sociale ed ambientale.
Negli stessi paesi promotori della guerra, il militarismo si avvale del sostegno dell’apparato industriale militare e di una  gestione autoritaria della crisi attraverso una presenza militare ‑ sempre più visibile ‑ nei territori a garanzia di controllo e deterrente dei conflitti sociali e dei flussi migratori (generati dall’impoverimento di intere aree e dalle guerre in corso) che le politiche, di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, producono.
Anche l’apparato ideologico, attraverso la scuola e la formazione,  diventa strumento da una parte di consenso e dall’altra di controllo. Stiamo assistendo – difatti ‑ ad un intervento sempre più organico ‑ all’interno degli atenei ‑ degli apparati sia militari che industriali sotto forma di corsi di studio e progetti legati a finalità belliche sia dal punto di vista produttivo che di formazione di figure, spacciate come civili, di intermediazione sociale nelle situazioni di conflitto. In questo senso a Milano l’Università Politecnico ha siglato un accordo con il colosso industriale della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, Leonardo-Finmeccanica.
Il sostegno a quelle iniziative di lotta che indeboliscono il normale svolgersi delle politiche militari all’interno degli Stati dei principali promotori della guerra, USA ed UE, oltre che essere da sostegno alle Resistenze che combattono contro l’aggressione imperialista, rafforzano anche nei nostri territori quelle lotte per i bisogni concreti della popolazione, dal lavoro alla casa alla salute, e aprono spazi perché si sviluppi un fronte comune di lotta al razzismo e all’autoritarismo per una società liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
Anche per queste ragioni, nella stessa giornata del corteo in Sardegna al Poligono di Quirra, diventa significativo organizzare per il 28 APRILE anche nei nostri territori iniziative di informazione e di lotta contro la “guerra del capitale”.
Invitiamo tutti al confronto e alla partecipazione per cominciare a ridare voce e corpo in questa metropoli ad una opposizione alla guerra.



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NO DYNAMIC MANTA, STOP AI WAR GAMES USA E NATO IN SICILIA! 
Presidio ad Augusta, domenica 19 marzo ore 10:30
c/o Via Darsena – ingresso base navale MM (banchina Tullio Marcon)
di Coordinamento Regionale Dei Comitati No Muos
Per adesioni: comunica@... / Coordinamento regionale dei comitati No Muos
http://www.nomuos.info/war-games-usa-e-nato-in-sicilia-no-grazie/
Tra le unità navali impiegate, a preoccupare maggiormente è la presenza di sottomarini a propulsione nucleare, già partecipanti all’edizione dello scorso anno...
Al via Dyma 2017: la NATO si esercita alla guerra nel mare siciliano (La Riscossa | lariscossa.com, 12/03/2017)


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APPELLO DEL CONVEGNO «IL RUOLO DELLA NATO NELLA GUERRA MONDIALE A PEZZI»

Il Convegno – promosso da Pax Christi Italia, Mosaico di pace, Comi-tato No Guerra No Nato, Comunità Le Piagge, Unione Suore Domeni-cane San Tommaso D’Aquino – si è svolto l’11 giugno 2016 nel Complesso S. Niccolò a Prato. 



NO ALLE BOMBE NUCLEARI IN ITALIA
APPELLO DA SOTTOSCRIVERE E DIFFONDERE 

Sono in fase di sviluppo negli Stati Uniti – documenta la U.S. Air Force – le bombe nucleari B61-12, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Italia e altri paesi europei.

La B61-12 – documenta la Federazione degli scienziati americani (Fas) – non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma nucleare: ha una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, con una potenza media pari a quella di quattro bombe di Hiroshima; un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo; la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando in un attacco nucleare di sorpresa.

Le B61-12, che gli Usa si preparano a installare in Italia, sono armi che abbassano la soglia nucleare, ossia rendono più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese e lo espongono quindi a una rappresaglia nucleare.

Secondo le stime della Fas, gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180. Nessuno sa però con esattezza quante effettivamente siano le B-61, destinate ad essere sostituite dalle B61-12. 

Foto satellitari – pubblicate dalla Fas – mostrano che, per l’installazione delle B61-12, sono già state effettuate modifiche nelle basi di Aviano e Ghedi-Torre. 

L’Italia, che fa parte del Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, mette a disposizione non solo il suo territorio per l’installazione di armi nucleari, ma – dimostra la Fas – anche piloti che vengono addestrati all’attacco nucleare con cacciabombardieri italiani sotto comando Usa.

L’Italia viola in tal modo il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, firmato nel 1969 e ratificato nel 1975, che all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». 

Chiediamo che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e, attenendosi a quanto esso stabilisce, chieda agli Stati uniti di rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari. 

Liberare il nostro territorio nazionale dalle armi nucleari, che non servono alla nostra sicurezza ma ci espongono a rischi crescenti, è il modo concreto attraverso cui possiamo contribuire a disinnescare l’escalation nucleare e a realizzare la completa eliminazione delle armi nucleari che minacciano la sopravvivenza dell’umanità. 


BOZZA DI MOZIONE DA PROPORRE AI PARLAMENTARI E AI RAPPRESENTANTI IN ENTI LOCALI

CONSIDERATO che – secondo i dati forniti dalla Federazione degli Scienziati Americani (FAS) – gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180.

CONSIDERATO che – come documenta la stessa U.S. Air Force – sono in fase di sviluppo negli Stati Uniti le bombe nucleari B61-12, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Europa. 

CONSIDERATO che – come documenta la FAS – la B61-12 non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma nucleare, con un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, con capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando in un attacco nucleare di sorpresa. 

CONSIDERATO che foto satellitari, pubblicate dalla FAS, mostrano le modifiche già effettuate nelle basi di Aviano e Ghedi-Torre per installarvi le B61-12. 

CONSIDERATO che l’Italia mette a disposizione non solo il suo territorio per l’installazione di armi nucleari, ma anche piloti che – dimostra la FAS – vengono addestrati all’uso di armi nucleari con aerei italiani.

CONSIDERATO che l’Italia viola in tal modo il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, firmato nel 1969 e ratificato nel 1975, il quale all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». 

I PROPONENTI CHIEDONO al Governo di rispettare il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari e, attenendosi a quanto esso stabilisce, far sì che gli Stati Uniti rimuovano immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinuncino a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari. 


PER CONTATTI:
Coordinatore nazionale del CNGNN, Giuseppe Padovano
cell. 393 998 3462
e-mail:  giuseppepadovano.gp @ gmail.com


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E ora anche la Germania pensa a costruire l’atomica

Tempi di crisi, di rotture; alcune lente, altre velocissime. Dopo dieci anni di crisi economica globale, che hanno avuto il loro epicentro negli usa e in Europa, "la politica" non appare più in grado di gestire alcunché. "Il mercato" ha da tempo spossessato gli Stati di buona parte dei loro strumenti strategici per concentrarli in istituzioni sovranazionali inattingili alla volontà delle popolazioni, am permeabilissime alle istanze del grande capitale, soprattutto finanziario. 

In un quadro di crisi degli assetti geostrategici – in particolare dopo il voto per la Brexit e l'elezione di Trump alla presidenza Usa – le vecchie alleanze sembrano molto meno solide. Quasi improvvisamente.

Inevitabile, in questo quadro, che le potenze regionali si scoprano militarmente deboli, davanti a "protettori" storici improvvisamente interessati da tutt'altri scenari. 

Ma se in un paese chiamato Germania si comincia a discutere pubblicamente della "necessità" di costruire armamenti nucleari "indipendenti", dopo 70 anni di tabù assoluto, è il caso di prendere atto che qualcosa di enorme si è rotto.

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Il riarmo delle testate nucleari tedesche potrebbe trasformarsi in una tragedia nazionale 

 

Il riarmo delle testate atomiche oggi, per la Germania, potrebbe mettere a rischio anche l'ordine mondiale.

Da “Foreignpolicy.com”, Rudolph Herzog, 10 marzo 2017

Traduzione e cura di Francesco Spataro

 

Dal 1945 ad oggi, nessuno si è più preoccupato dei passi compiuti dalla Germania circa la bomba atomica, ma questo atteggiamento è destinato a cambiare. I commentatori tedeschi, stanno dibattendo da alcuni giorni, se il Paese si debba dotare di nuovo di armi nucleari oppure no. Il più importante quotidiano berlinese, “Der Tagespiel”, ha dato il via alla discussione sulla sua piattaforma online, due mesi dopo le elezioni USA, pubblicando un cosiddetto “articolo d’opinione”, in cui si sosteneva che il Presidente Donald Trump aveva intenzione di chiudere di scatto l’ombrello nucleare della NATO, e che l'unico modo di controbattere le minacce russe percepite era dunque quello di rendersi più indipendenti. 

Ma la via a questa “indipendenza”, richiederebbe, un deterrente nucleare tedesco. “Ne va dei nostri interessi fondamentali,” sostiene il politologo Maximilian Terhalle; e continua: “Le circostanze così vitali potrebbero voler dire che Berlino, non dovrebbe ricevere alcun consenso, sulla materia, da parte degli altri 27 membri della Unione Europea.”

Proprio a febbraio, “Die Ziet”, rispettabile settimanale del Paese, ha compiuto un supplemento di indagine, con un articolo che terminava con un duro e spiacevole avvertimento: la Germania potrebbe ignorare il cambiamento dei tempi, oppure investire velocemente nella “Force de Frappe”, o “Forza d'urto”, la forza di dissuasione nucleare francese.

Infranto un tabù di lunga data e con i vari Dottor Stranamore che si aggirano furtivamente fra i mass media nazionali, non c’è voluto molto tempo, prima che qualcuno condannasse queste dichiarazioni. Ottfried Nassauer, a capo del Centro Informazioni per la Sicurezza Transatlantica con sede a Berlino, in un pezzo su “Der Freitag”, un popolare settimanale, ha fatto risalire il concetto di un ordigno atomico tedesco a “un'ala conservatrice, nazionalista e di estrema destra… che soffre di manie di grandezza o si vuole solo divertire ad aprire il vaso di Pandora.” In realtà, alcune di quelle persone, che sono saltate fuori evocando una bomba tedesca (mascherandola debolmente con il termine “Eurobomba”), sembra non abbiano aspettato altro, per sbattere l’idea fra la popolazione.

Con tutto questo dibattito in pieno svolgimento, dovrebbe tornarci alla mente il perché tutto ciò sia un'idea ridicola, e terribilmente pericolosa.

Tanto per cominciare, la Germania è firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare, o NPT, e sarebbe quindi illegale, per il Paese, acquisire la bomba. Se una Nazione così influente, all’improvviso si chiamasse fuori da un accordo ancora in vigore e che per quasi mezzo secolo è stato efficace, minerebbe la credibilità del NPT stesso, e sarebbe un esempio estremamente negativo. Altri Paesi potrebbero seguire velocemente questa pratica, scegliendo l’opzione di rinuncia per acquisire la bomba. Nonostante l’Iran sia un ovvio candidato, vicini amici degli Stati Uniti potrebbero sostenere che le garanzie di sicurezza dell’America non sono più affidabili. Vengono alla mente, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, ed anche l’Arabia Saudita; paesi situati in zone problematiche, difficili, vicine sia al paria nucleare nordcoreano e alla polveriera del Mar Cinese Meridionale, che all’orrore senza fine dei conflitti che stanno espandendosi in Medio Oriente. 

Come un qualsiasi stato “nucleare canaglia”, la Germania si troverebbe anche a perdere molta della sua credibilità nel “potere dolce”, di persuasione e convincimento, conquistato con così tanta fatica. 

Ma mentre questi sono argomenti razionali, c’è un altro aspetto del dibattito sulla Germania che va considerato, e che è considerevolmente più sconvolgente di queste particolarità tecniche legali: l’amnesia autoinflitta dei cittadini sulle possibilità di una catastrofe nucleare.

I commentatori che strepitano e reclamano una bomba di produzione tedesca, sembrano aver dormito per la maggior parte del XX secolo, quando il Paese era in prima linea parlando di sterminio nucleare. Quell’esperienza ha reso la Germania depositaria di una conoscenza, guadagnata duramente, sui pericoli di questi armamenti; ma alcuni tedeschi sembrano intenzionati a svuotare questo cassetto dei ricordi.

Richiamiamo alla mente alcuni degli strabilianti progetti ed incidenti, che sono accaduti fuori e dentro la Germania, al culmine del periodo nucleare.

Oggi, gli USA e la Russia hanno ancora una riserva di ordigni nucleari pari a 14.000 testate; durante la Guerra Fredda, questo numero, già enorme, era anche molto più alto ed alcuni degli ordigni più pericolosi erano proprio puntati su obiettivi tedeschi. Per la maggior parte della Guerra Fredda, gli strateghi militari Americani furono convinti che i vertici politici dell’Unione Sovietica, stavano complottando per invadere l’Europa Occidentale con i loro eserciti tradizionali. Per scoraggiare il nemico al di là della Cortina di ferro, e bilanciare eserciti NATO relativamente più piccoli, l’Amministrazione USA, sotto il Presidente Dwight Eisenhower, decise di optare per la teoria del “chi più spende, meno spende.” Questo voleva dire, che le testate nucleari erano piazzate in Europa Occidentale per garantire una massiccia ritorsione, se l’Unione Sovietica avesse deciso di inviare i carri armati, per infiltrarsi al di là del confine. 

Nel 1956, il SAC, il Comando Aereo Strategico, (incaricato della detenzione e dell’impiego dell'arsenale nucleare strategico N.d.T.), stabilì che in caso di attacco venissero sganciate ben 91 testate nucleari solo su Berlino Est, alcune delle quali destinate esplicitamente a distruggere la “popolazione”, anche se questo violava i trattati internazionali. La sponda sovietica aveva ammassato una potenza nucleare simile, seguendo la fredda logica della corsa agli armamenti.

Prima dell’avvento dei missili balistici intercontinentali entrambe le parti sganciarono in aria delle bombe 24/7 (bombe a frammentazione N.d.T.), ciascuna armata con una carica esplosiva nucleare. Questa situazione aumentò significativamente le tensioni, e portò ad una serie di incidenti imbarazzanti, come quello tristemente noto come Incidente di Palomares del 1966, nel quale un bombardiere USA B52 si schiantò vicino ad un villaggio spagnolo, perdendo il suo carico, fatto di quattro bombe all’idrogeno. “Hanno iniziato a tremarmi le ginocchia, quando ho visto la testata di uno di questi ordigni”, ha dichiarato uno dei tecnici che recuperarono le bombe in un’intervista per il mio libro “Breve storia di una follia nucleare”

La sostituzione delle squadre specializzate in allarme bomba, con missili nucleari, alla fine, invece di tranquillizzare la popolazione, ha semmai aumentato la probabilità di un Armageddon (il biblico giorno del giudizio finale, N.d.T.). Il fatto che fossero stati posizionati al largo delle spiagge statunitensi ha poi quasi condotto ad uno scontro nucleare planetario, durante la crisi dei missili a Cuba. Ad un certo punto, una flotta USA iniziò a calare bombe di profondità contro un sottomarino russo, che stava facendo strascico, a largo dei Caraibi. Il capitano russo, Valentin Savistski, ordinò immediatamente di preparare la difesa, con i siluri nucleari, ma aveva comunque bisogno del permesso degli altri due comandanti dell’unità per distruggere l’ordigno; uno di loro acconsentì all’istante, l’altro, tale Vasili Arkhipov, li persuase a non contrattaccare, e anzi a calmarsi un poco. 

Non sarebbe stata l'unica volta in cui la III Guerra Mondiale fu evitata per la reazione ragionevole di un uomo con la testa sulle spalle. Nel 1983, la valutazione dell’ufficiale sovietico Stanislav Petrov, su un segnale radio da loro ricevuto come pericoloso era in realtà un falso allarme, ancora una volta salvò il mondo dalla catastrofe. 

La Germania, comunque, è stata la Nazione che si è avvicinata molto probabilmente più di ogni altro paese all'aspetto più pericoloso della corsa agli armamenti: lo stazionamento di missili a corto e medio raggio, più notoriamente noti come Pershing II, che in 15 minuti, sono in grado di colpire Mosca. Un'instabilità così diffusa, una sensazione di vivere sempre sulle spine, portava entrambi i Paesi a pensare che nessuna delle parti in causa avrebbe mai avuto tempo sufficiente per una reazione razionale. Non sorprende che questo abbia portato ad innumerevoli situazioni di tensione, durante le quali le superpotenze credevano, erroneamente, di essere sotto attacco. La sola cosa certa era che la Germania fosse il piano di scontro più probabile per un conflitto nucleare.

Durante la Guerra Fredda, molte delle aree di confine fra la Germania Est e quella Ovest furono minate con ordigni nucleari. Se l'Armata Rossa avesse attaccato, gli USA avrebbero potuto in pochi attimi trasformare gran parte della regione ad est del fiume Reno, in una terra di nessuno. Tutta questa apocalittica massa di macerie, avrebbe sicuramente dissuaso l'eventuale avanzata dei Sovietici. Nessun governo tedesco ebbe mai il coraggio di dare informazioni su questo progetto fino al 1974, quando Helmut Schmidt divenne Cancelliere. 

Non pensiamo agli ordigni, ormai un numero incalcolabile, bensì al fatto che in Germania, sia Est che Ovest, continuarono ad essere ammassate un gran numero di armi nucleari “tattiche”, testate con cariche esplosive minime, che potevano essere disattivate anche da ufficiali di basso grado; uno di questi, denominato Davy Crockett, dal nome del leggendario trapper mito del Far West, era di dimensioni così ridotte che si poteva incastrare sopra ad un fucile dotato di un rinculo minimo ed essere sparato anche da un singolo uomo.

Tra gli strateghi militari Americani, c’è sempre stata una pericolosa tendenza a credere che un conflitto nucleare potesse, in qualche modo, essere limitato all'interno dei confini della sola Germania. Henry Kissinger, più realistico, suggerì neanche tanto velatamente che un conflitto nucleare, anche se su scala ridotta, sarebbe stato possibile anche fuori da quei confini. Ha così dichiarato, una volta: “Se saremo costretti ad una guerra, causata da un'aggressione sovietica, tenteremo in ogni modo di contenere le perdite; non vorremmo usare più forza di quella necessaria a difendere la salvezza del mondo libero.” Anche nell'ottimistica visione di Kissinger dell'Armageddon, le cosiddette “perdite contenute” avrebbero significato comunque una vasta porzione di Germania.

L'altro schieramento non credeva alla verosimiglianza di quei limiti. “Se gli Americani avessero lanciato anche solo un piccolo ordigno l'Unione Sovietica avrebbe di sicuro contrattaccato, scatenando ben presto una guerra nucleare generalizzata.” Queste le dichiarazioni del Generale Evgeni Maslin, ex-capo dell'unità per la salvaguardia nucleare dell'URSS, durante un'intervista da me raccolta. Se anche gli USA fossero sopravvissuti ad uno scontro di questo genere, la Germania non sarebbe stata più come prima.

La Germania ha avuto una lettera “x” (una sorta di marchio) dipinta su di sé, da sempre. I tedeschi, sebbene in gran parte ne ignorino i dettagli terribili, ne sono ben consci; dalla fine degli anni ’70 in poi, si formò un movimento per la pace molto forte che culminò con manifestazioni di massa, come il raduno del 1986, dove più di 200.000 persone bloccarono un sito dove la Nato intendeva installare 96 missili nucleari Cruise. I dimostranti si resero conto che la cosa, illogica nella strategia NATO, si fondava sul fatto che il Paese poteva essere salvato dalla catastrofe nucleare soltanto se si fosse reso conto che, in caso di non installazione delle rampe missilistiche, sarebbe stato distrutto. Così la Germania, si accorse della barbarie presente nella logica degli armamenti nucleari: come ogni giro di vite, può irrigidire o peggiorare l'escalation; quando uno scudo è più grande, induce ad usare una spada più affilata. Secondo una recente ricerca, l'85% dei tedeschi sostiene che gli ordigni nucleari USA devono essere rimossi dal proprio territorio.

Rimane la questione, un poco retorica, se tutto questo porterà a prendere una posizione; una spia, in questo senso, potrebbe essere rappresentata dalla chiusura dell'impianto per l'arricchimento dell'uranio da parte dell’URENCO (compagnia britannica di carburanti che si occupa anche di arricchimento dell'uranio, N.d.T.), che sembra essere imminente. In una Germania che presumibilmente si sta armando, riprendersi questa struttura potrebbe essere di vitale importanza, se si vuole investire in una infrastruttura nucleare.

Sebbene tutto questo ragionamento, per ora, sembra essere distante, potrebbe diventare preoccupante però, più avanti nel tempo, anche per il resto del mondo. Ricordiamoci che questa disputa si sta tenendo in un Paese che, per ben due volte, ha dato fuoco alle micce, nei decenni scorsi. Dopo la devastante esperienza del Terzo Reich, la Germania ha lavorato sodo per riconquistarsi un senso di credibilità morale, chiedendo comprensione e perdono alle sue vittime e cercando una qualche redenzione. Data la sua storia, è un vero miracolo che oggi il Paese sia così rispettato al mondo. (Al contrario, il Giappone, è ancora considerato un Paese emarginato, un paria, dalla maggior parte dei paesi confinanti, a causa dei suoi comportamenti, durante il periodo della guerra). Se la Germania si armerà con il nucleare, metterà decisamente a repentaglio le sue sorprendenti conquiste.

In un mondo, post-Brexit o post-Trump, molti cittadini del pianeta stanno riponendo le loro speranze, e molte aspettative, verso la Cancelliera Merkel e il suo Governo, per sostenere principi morali e portare a soluzione problemi come l'unità della UE, o la crisi dei rifugiati. Queste sono le sfide più grandi. Per essere alla loro altezza, la Germania deve attaccarsi ai suoi principi, come ogni nazione pacifica, e lavorare sodo per la cancellazione degli armamenti nucleari. Dovrebbe affrancarsi da percorsi pericolosi; in caso contrario, verrebbe inflitto un danno enorme, non solo all'ordine mondiale, ma anche alla Germania stessa.



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Vedi anche: Il grande gioco nucleare in Europa (PTV news, 14 Marzo 2017)


Il grande gioco nucleare in Europa

14 Marzo 2017

di Manlio Dinucci
da ilmanifesto.it

Il siluro lanciato attraverso il New York Times – l’accusa a Mosca di violare il Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) – ha colpito l’obiettivo: quello di rendere ancora più tesi i rapporti tra Stati uniti e Russia, rallentando o impedendo l’apertura di quel negoziato preannunciato da Trump già nella campagna elettorale.

Il siluro porta la firma di Obama, che nel luglio 2014 (subito dopo il putsch di Piazza Maidan e la conseguente crisi con la Russia) accusava Putin di aver testato un missile nucleare da crociera, denominato SSC-X-8, violando il Trattato Inf del 1987 che proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5.500 km. Secondo quanto dichiarano anonimi funzionari dell’intelligence Usa, ne sono già armati due battaglioni russi, ciascuno dotato di 4 lanciatori mobili e 24 missili a testata nucleare.

Prima di lasciare l’anno scorso la sua carica di Comandante supremo alleato in Europa, il generale Breedlove avvertiva che lo schieramento di questo nuovo missile russo «non può restare senza risposta».

Taceva però sul fatto che la Nato tiene schierate in Europa contro la Russia circa 700 testate nucleari statunitensi, francesi e britanniche, quasi tutte pronte al lancio ventiquattr’ore su ventiquattro. E man mano che si è estesa ad Est fin dentro la ex Urss, la Nato ha avvicinato sempre più le sue forze nucleari alla Russia.

Nel quadro di tale strategia si inserisce la decisione, presa dall’amministrazione Obama, di sostituire le 180 bombe nucleari B-61 – installate in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), Germania, Belgio, Olanda e Turchia – con le B61-12: nuove armi nucleari, ciascuna a quattro opzioni di potenza selezionabili a seconda dell’obiettivo da colpire, capaci di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando. Un programma da 10 miliardi di dollari, per cui ogni B61-12 costerà più del suo peso in oro.

Allo stesso tempo gli Usa hanno realizzato in Romania la prima batteria missilistica terrestre della «difesa anti-missile», che sarà seguita da un’altra in Polonia, composta da missili Aegis, già installati a bordo di 4 navi da guerra Usa dislocate nel Mediterraneo e Mar Nero.

È il cosiddetto «scudo» la cui funzione è in realtà offensiva: se riuscissero a realizzarlo, Usa e Nato terrebbero la Russia sotto la minaccia di un first strike nucleare, fidando sulla capacità dello «scudo» di neutralizzare la rappresaglia.

Per di più, il sistema di lancio verticale Mk 41 della Lockheed Martin, installato sulle navi e nella base in Romania, è in grado di lanciare, secondo le specifiche tecniche fornite dalla stessa costruttrice, «missili per tutte le missioni», comprese quelle di «attacco contro obiettivi terrestri con missili da crociera Tomahawk», armabili anche di testate nucleari.

Mosca ha avvertito che queste batterie, essendo in grado di lanciare anche missili nucleari, costituiscono una violazione del Trattato Inf.

Che cosa fa l’Unione europea in tale situazione?

Mentre declama il suo impegno per il disarmo nucleare, sta concependo nei suoi circoli politici quella che il New York Times definisce «una idea prima impensabile: un programma di armamenti nucleari Ue».

Secondo tale piano, l’arsenale nucleare francese sarebbe «riprogrammato per proteggere il resto dell’Europa e posto sotto un comune comando europeo», che lo finanzierebbe attraverso un fondo comune. Ciò avverrebbe «se l’Europa non potesse più contare sulla protezione americana». In altre parole: qualora Trump, accordandosi con Putin, non schierasse più le B61-12 in Europa, ci penserebbe la Ue a proseguire il confronto nucleare con la Russia.


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Manlio Dinucci, il manifesto, 28 febbraio 2017

Il governo Gentiloni ha capovolto il voto del governo Renzi all’Onu, votando a favore dell'avvio di negoziati per il disarmo nucleare! La sensazionale notizia si è rapidamente diffusa, portando alcuni disarmisti a gioire per il risultato ottenuto. Per avere chiarimenti in proposito, il senatore Manlio Di Stefano (Movimento 5 Stelle) e altri hanno presentato una interrogazione, a cui il governo ha dato risposta scritta nel bollettino della Commissione Esteri. Essa chiarisce come sono andate le cose. 
Il 27 ottobre 2016, durante il governo Renzi, l’Italia (accodandosi agli Stati uniti) ha votato «No», nella prima commissione dell'Assemblea generale, alla risoluzione che proponeva di avviare nel 2017 negoziati per un Trattato internazionale volto a vietare le armi nucleari, risoluzione approvata in commissione a grande maggioranza. 
Successivamente, il 23 dicembre 2016 durante il governo Gentiloni, quando la stessa risoluzione è stata votata all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia ha invece votato «Sì» insieme alla maggioranza. 
Capovolgimento della posizione italiana? No, solo un errore tecnico. «Tale errore – spiega il governo nella risposta scritta – sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte». In altre parole il rappresentante italiano, probabilmente per un colpo di sonno, ha premuto il pulsante sbagliato. «L'erronea indicazione di voto favorevole – spiega sempre il governo – è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in prima commissione». 
Il governo Gentiloni, come quello Renzi, ritiene che «la convocazione, nel 2017, di una Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari, costituisca un elemento fortemente divisivo che rischia di compromettere i nostri sforzi a favore del disarmo nucleare». Insieme ai paesi militarmente non-nucleari dell'Alleanza Atlantica, «l'Italia è tradizionalmente fautrice di un approccio progressivo al disarmo, che riafferma la centralità del Trattato di non-proliferazione». 
Il governo ribadisce in tal modo la centralità del Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, ratificato nel 1975, in base al quale l’Italia «si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». Mentre in realtà viola il Trattato, poiché mantiene sul proprio territorio, ad Aviano e Ghedi-Torre, almeno 70 bombe nucleari Usa B-61, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani. 
Quale sia l’«approccio progressivo al disarmo nucleare» perseguito dall’Italia lo dimostra il fatto che tra circa due anni essa riceverà dagli Usa, per rimpiazzare quelle attuali, le nuove bombe nucleari B61-12, sganciabili a distanza e con capacità penetranti anti-bunker. Armi nucleari da first strike dirette soprattutto contro la Russia, che, rendendo più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese, lo esporranno ancora di più al pericolo di rappresaglia nucleare. 
Il modo concreto attraverso cui possiamo contribuire all’eliminazione delle armi nucleari, che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, è chiedere che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e chieda di conseguenza agli Stati uniti di rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61-12. Battaglia politica fondamentale se anche l’opposizione non fosse stata contagiata dal colpo di sonno, che assopisce perfino l’istinto di sopravvivenza. 


SULLO STESSO ARGOMENTO SI VEDA ANCHE:
Armi nucleari: misteri e commedie – di Giorgio Nebbia, 27 feb 2017


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Due minuti e mezzo alla Mezzanotte

Manlio Dinucci | ilmanifesto.it, 07/02/2017

Finalmente il telefono ha squillato e Gentiloni, dopo una lunga e nervosa attesa, ha potuto ascoltare la voce del nuovo presidente degli Stati uniti, Donald Trump. Al centro della telefonata – informa Palazzo Chigi – la «storica amicizia e collaborazione tra Italia e Usa», nel quadro della «importanza fondamentale della Nato». Nel comunicato italiano si omette però un particolare reso noto dalla Casa Bianca: nella telefonata a Gentiloni, Trump ha non solo «ribadito l'impegno Usa nella Nato», ma ha «sottolineato l'importanza che tutti gli alleati Nato condividano il carico monetario della spesa per la difesa», ossia la portino ad almeno il 2% del pil, il che significa per l'Italia passare dagli attuali 55 milioni di euro al giorno (questi secondo la Nato, in realtà di più) a 100 milioni di euro al giorno. Gentiloni e Trump si sono dati appuntamento a maggio per il G7 a presidenza italiana che si svolgerà a Taormina, a poco più di 50 km dalla base Usa/Nato di Sigonella e di 100 km dal Muos di Niscemi. Capisaldi di quella che, nella telefonata, viene definita «collaborazione tra Europa e Stati Uniti per la pace e la stabilità».

Quale sia il risultato lo confermano gli Scienziati atomici statunitensi: la lancetta dell'«Orologio dell'apocalisse», il segnatempo simbolico che sul loro bollettino indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti a mezzanotte nel 2017. Un livello di allarme più alto di quello della metà degli anni Ottanta, al culmine della tensione tra Usa e Urss. Questo in realtà è il risultato della strategia dell'amministrazione Obama la quale, con il putsch di Piazza Maidan, ha avviato la reazione a catena che ha provocato il confronto, anche nucleare, con la Russia, trasformando l'Europa in prima linea di una nuova guerra fredda per certi versi più pericolosa della precedente.

Che farà Trump? Nella sua telefonata al presidente ucraino Poroshenko – comunica la Casa Bianca – ha detto che «lavoreremo con Ucraina, Russia e altre parti interessate per aiutarle e ristabilire la pace lungo le frontiere». Non chiarisce però se entro le frontiere dell'Ucraina sia compresa o no la Crimea, ormai distaccatasi per rientrare a far parte della Russia.
L'ambasciatore Usa all'Onu, Haley, ha dichiarato che le sanzioni Usa alla Russia restano in vigore e ha condannato le «azioni aggressive russe» nell'Ucraina orientale. Dove in realtà è ripresa l'offensiva delle forze di Kiev, comprendenti i battaglioni neonazisti, addestrate e armate da Usa e Nato. Contemporaneamente il presidente Poroshenko ha annunciato di voler indire un referendum per l'adesione dell'Ucraina alla Nato.

Anche se di fatto essa ne fa già parte, l'ingresso ufficiale dell'Ucraina nella Alleanza avrebbe un effetto esplosivo verso la Russia. Intanto si muove la Gran Bretagna: mentre intensifica la cooperazione delle sue forze aeronavali con quelle Usa, invia nel Mar Nero a ridosso della Russia, per la prima volta dalla fine della guerra fredda, una delle sue più avanzate unità navali, il cacciatorpediniere Diamond (costo oltre 1 miliardo di sterline), a capo di una task force Nato e a sostegno di 650 soldati britannici impegnati in una non meglio precisata «esercitazione» in Ucraina. Allo stesso tempo la Gran Bretagna invia in Polonia ed Estonia 1000 uomini di unità d'assalto e in Romania cacciabombardieri Typhoon a duplice capacità convenzionale e nucleare.
Così, mentre Gentiloni parla con Trump di collaborazione tra Europa e Stati Uniti per la pace e la stabilità, la lancetta dell'Orologio si avvicina alla mezzanotte nucleare.


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IN SLOVENIA LA PERCENTUALE È ANCORA MAGGIORE


Il 71% dei serbi rimpiange il Maresciallo Tito

L'Huffingtonpost   |  Redazione 18/03/2017
Il 71% dei serbi rimpiange la vecchia Jugoslavia socialista, e la Serbia - tra le ex repubbliche jugoslave - è quella con la maggiore percentuale di nostalgici. Dalla parte opposta figurano Kosovo e Croazia, dove a rimpiangere la Jugoslavia del Maresciallo Tito è solo rispettivamente il 5% e il 18% dei cittadini. 
E' quanto è emerso da una inchiesta diffusa dal portale 'Tportal' e ripresa dai media a Belgrado. Dopo la Serbia la maggiore percentuale di jugo-nostalgici si registra in Bosnia-Erzegovina (68%), seguita dal Montenegro (63%) e Macedonia (45%). Nell'inchiesta non è stata presa in considerazione la Slovenia.



(srpskohrvatski / italiano)


I siti del BeoForum e della Ass. Partigiani (SUBNOR: http://www.subnor.org.rs/predsednistvo-43 )
riferiscono sul programma delle iniziative organizzate per il 18.mo Anniversario della aggressione della NATO:

Giovedì 23 Marzo ore 11, Circolo Ufficiali (Braća Jurovića 19)
Conferenza: Aggressione NATO 18 anni dopo – Dove siamo oggi?

Venerdì 24 Marzo ore 11, parco Tašmajdan
deposizione dei fiori al monumento ai bambini vittime dei bombardamenti

Venerdì 24 Marzo ore 12, Novi Beograd
cerimonia al monumento della Fiamma Perenne

Sulla aggressione della NATO, finalizzata a strappare la provincia del Kosmet dalla Jugoslavia e a destabilizzare definitivamente il paese per cancellarlo dalle carte geografiche, si vedano le nostre pagine dedicate: https://www.cnj.it/24MARZO99/



ДА СЕ НЕ ЗАБОРАВИ!

Саопштења

На дан 24. марта  навршава се 18 година од почетка агресије НАТО пакта  на Србију и Црну Гору (СР Југославију), у којој је учествовало 19 земаља. Агресија је извршена грубим кршењем Повеље Уједињених нација и основних принципа међународног права, и представља злочин против мира и човечности. Она ће касније послужити као преседан и увод у многе друге агресије и насилна свргавања влада суверених држава. Током агресије настрадало је око 4.000, а рањено око 8.000. грађана. За време 78-дневног немилосрдног  бомбардовањ, агресори су разорили путеве, пруге, мостове, електро-мрежу, породичне домове, болнице, школе, обданишта, ТВ и радио станице, и многе друге цивилне објекте. Ратна штета је процењена на преко 100 милијарди долара. У тој злочиначкој акцији, НАТО је користио пројектиле са осиромашеним уранијумом, касетне бомбе и друга забрањена средства, која и данас настављају да узимају животе недужних грађана наше земље. Тим поводом, под геслом ,,ДА СЕ НЕ ЗАБОРАВИ'', Београдски форум за свет равноправних, Клуб генерала и адмирала Србије, СУБНОР Србије и Друштво српских домаћина, организују Конференцију, чија је тема: 
,,Агресија НАТО 18 година после- где смо данас?''

Конференција ће се одржати у четвртак 23. марта 2017. године, са почетком у 11 часова, у Дому војске Србије, Браће Југовића 19, Београд. 

У петак 24. марта 2017. године, у 11 часова, организовано је свечано полагање цвећа код Споменика деци – жртвама агресије НАТО, у парку Ташмајдан, Београд. 
Истог дана у 12 часова, организовано је свечано полагање цвећа код Споменика жртвама агресије НАТО   ''Вечна ватра'', у парку ''Ушће'', Нови Београд.

Позивамо све заинтересоване да присуствује Конференцији 23. марта и да учествују у свечаном полагању цвећа 24. марта. 
Очекујемо да ће, поред чланова и пријатеља  организатора,  наведеним догађајима присуствовати и представници студентских и других сродних организација из Србије, укључујући Покрајину Косово и Метохију, из Црне Горе, Републике Српске, Хрватске, Македоније и из српског расејања, као и гости из Русије и дипломатски представници пријатељских земаља.

Београдски форум за свет равноправних



 

Al sig. Sindaco dott. Nando Mismetti

e p.c.

alla Assessora con delega alla Memoria dott.ssa Maura Franquillo,

Comune di Foligno, Piazza della Repubblica, 06034 Foligno

 

agli antifascisti umbri

 

 

COMUNICATO

 

Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia onlus evidenzia la necessità non altrimenti procrastinabile di riconoscere in modo pubblico e istituzionale l’importanza storica del complesso delle “Casermette” di Colfiorito, quale campo di concentramento di antifascisti italiani e stranieri, dunque luogo-simbolo di rilevanza internazionale della Resistenza al nazifascismo.

Il luogo di detenzione, oltre ad essere ben ricordato nella memoria orale, è meta di visite di interessati provenienti da svariati paesi, conoscitori dei fatti e discendenti dei reclusi, che però si disilludono quando in loco non trovano alcun segno attestante il passato e il suo significato.

Infatti, a 74 anni dalla grande fuga dei prigionieri jugoslavi dal campo (22 Settembre 1943) e dall’inizio della lotta partigiana nella zona, non esiste ancora alcun monumento, targa, centro visita, museo o manufatto che richiami la centralità delle Casermette nella vicenda dell’antifascismo umbro, italiano ed europeo. Questo nonostante enunciazioni ed iniziative che negli scorsi anni hanno attestato una volontà di istituire un Museo della Memoria da erigere in alcuni dei locali dell’ex campo. Basti citare:

 

– 2001: progetto di “Centro di Documentazione sull’internamento”, per il quale fu istituito un gruppo di lavoro incaricato di redigerne il progetto esecutivo (prof. Bettoni assessore alla Cultura di Foligno, ricercatori ISUC ed altri) e fu approvata una Delibera comunale che destinava ad esso ca.170mq della ex caserma. Secondo il Documento licenziato dal gruppo di lavoro, il Centro di Documentazione si sarebbe dovuto porre, tra l’altro, come riferimento regionale per la celebrazione della Giornata della Memoria (27 Gennaio).

– 2003: Convegno di studi “Dall'internamento alla libertà. Il campo di concentramento di Colfiorito”, Foligno, Palazzo Trinci, 4 novembre.

– 2009: stanziamento della Giunta Regionale di oltre un milione di euro per interventi alle “Casermette” e conseguenti dichiarazioni degli amministratori sul “Museo della Memoria” come primo obiettivo degli interventi stessi.

– 2010: Delibera di Giunta Comunale di Foligno n.198 del 17 maggio, che destina alcuni locali delle “Casermette” a “Museo della Memoria”.

– 2014: Delibera di Giunta Comunale di Foligno n.190 del 30 aprile, che approva il progetto in tal senso elaborato da ISUC e Officina della Memoria.

 

La eccezionale importanza storica delle “Casermette” giustificherebbe peraltro, da parte della Soprintendenza e del Ministero, la imposizione di speciali vincoli non solo sul complesso architettonico ma anche sul luogo, in quanto bene culturale esso stesso, tali da regolamentarne gli utilizzi oltre che tutelarne l’integrità fisica.

Già dopo il terremoto del 1997 << l’affanno dell’emergenza [aveva] cancellato tracce che narravano gli eventi del luogo: reticolati, torrette, sbarre alle finestre dei capannoni, che nel frattempo sono diventati Uffici pubblici, negozi, bar >> (Dino Renato Nardelli, ISUC).

Fortunatamente i recenti sciami sismici non hanno causato danneggiamenti, per cui non sussistono ragioni per rinviare ulteriormente una iniziativa, anche se di carattere eminentemente simbolico e di costi estremamente contenuti, come l’apposizione di un elemento monumentale o di una lapide.

Quindi il nostro Coordinamento, a ricordo e a spiegazione dell’importanza del luogo, propone la apposizione di un elemento memoriale-celebrativo che illustri la vicenda drammatica e gloriosa degli internati antifascisti delle Casermette di Colfiorito.

A tal fine auspica la collaborazione dalle Istituzioni Pubbliche e dei Cittadini Umbri.

 

 

Foligno, 3 Febbraio 2017 (giorno della deportazione nazifascista dalla montagna folignate)

 

 

 

Per JUGOCOORD onlus, il segretario

Andrea Martocchia

 

 

Si allega: Nota storiografica

 

NOTA STORIOGRAFICA

 

Tra i principali campi di concentramento fascisti allestiti sulla Penisola, Colfiorito fu in particolare la destinazione primaria dei “ribelli” montenegrini, che sin dal 13 luglio 1941 avevano iniziato la Resistenza contro l’occupazione italiana del loro territorio, e di altri antifascisti jugoslavi specialmente sloveni della zona del Vipacco come lo scrittore France Bevk.

Il campo aveva subito diverse variazioni di destinazione d’uso negli anni precedenti, tanto che vi erano stati confinati pure oppositori albanesi (una cinquantina dall’estate 1939), noti antifascisti italiani (circa 120 dal giugno 1940 – tra di loro il noto Lelio Basso, Ugo Fedeli, Dario Fieramonte, Eugenio Musolino, Carlo Venegoni…), centinaia di prigionieri di guerra inglesi e di altre nazionalità (da ottobre 1942), fino ai suddetti più di 1500 deportati politici montenegrini. << Oltre a quattro grandi baracche, che una volta erano stalle per i cavalli c’era anche una decina di baracche in legno. I giorni di circa 1.600 internati erano quasi uguali... >> [Banislav Bastac]

 

Vittima della prigionia è nel 1943 il giovanissimo Dušan Golubović, di Berane, appena giunto a Colfiorito, dove ritrova il padre Lazar “Lazo” già recluso da tempo. Un giorno, mentre stende sul filo spinato le camicie sua e di suo padre appena lavate, una sentinella gli spara (<< sparò per farsi bella. Era un militare giovane di Castiglion del Lago >> [Luigi Marzufero]) e lo uccide.

 

In quei mesi all’interno delle Casermette sono prigionieri operai ed intellettuali, funzionari del Regno di Jugoslavia e contadini, artisti e studenti ginnasiali; vi si ritrovano spesso detenuti insieme tutti i componenti maschi di una stessa famiglia, deportati dal Montenegro ogni volta che questa era stata indicata come “covo” di sentimenti antifascisti. Simantengono o si creano strutture di Resistenza organizzate che svolgono attività culturale e politica. La stragrande maggioranza dei reclusi più giovani appartiene alla SKOJ – Lega della Gioventù Comunista della Jugoslavia – e molti adulti sono comunisti, e formano una cellula del Partito con segretario Savo Pejanović; viene istituito inoltre un Comitato spontaneo che si richiama al Fronte Popolare di Liberazione, cui aderiscono elementi di ogni orientamento ideologico seguendo l’esempio del movimento antifascista più generale.

Il 22 giugno 1943, con una piccola rappresentazione teatrale, gli internati commemorano il secondo anniversario della aggressione nazifascista contro l’URSS.

Prendono contatto con i comunisti italiani attraverso il farmacista di Serravalle Libero Vannucci, che diventerà comandante partigiano del IV distaccamento del battaglione “Capuzi” della Brigata Spartaco. Tra le figure di italiani solidali con i prigionieri, i testimoni ricorderanno don Pietro Onori, il medico Domenico Salvati, il muratore Mario Caprio, gli operai folignati fratelli Olivieri.

 

Nella prospettiva dell’arrivo degli Alleati, poco prima della fuga dal campo, il Comitato del Fronte di Liberazione redige una Risoluzione in cui si ripercorrono per sommi capi le vicende degli internati jugoslavi, all’interno della più generale lotta in corso per la liberazione del loro paese, e si richiede di poter continuare a battersi sul suolo jugoslavo al fianco del fronte antifascista internazionale. Della Risoluzione non è ancora mai stata pubblicata una traduzione in lingua italiana; copie del manoscritto originale, scritto in corsivo cirillico, circolano da decenni negli ambienti dei ex-internati montenegrini, e riproduzioni fotografiche sono contenute in alcuni libri degli ex internati Drago Ivanović e Vlado Vujović.

 

Il 22 settembre 1943 << sono circa le nove di sera quando corre voce che il filo spinato è stato tagliato [...] Usciamo fuori a gruppi, ogni gruppo si tiene unito [...] Il torrente di uomini scorre come una massa scura [...] Marciamo come contrabbandieri, piegati, con gli zaini sulle spalle, comunicando sottovoce [...] Dal colle vicino crepita la mitragliatrice Breda, seguita da colpi di fucile e mitragliatori. [...] Passammo attraverso il varco come un tappo ben pressato. La pressione della folla infatti ci espulse trascinandoci con sè [...] La voce di un compagno trascina tutto il nostro gruppo a destra. Procediamo lungo un costone coperto di rovi che ci trattengono, le spine strappano la pelle. […] Marciavamo in fretta, in fila indiana. [...] Ci allontanavamo dalle luci tremolanti che ci guardavano da Colfiorito >> [Drago Ivanović]

 

I fuggiaschi di Colfiorito troveranno solidarietà e riparo presso le famiglie contadine e montanare della dorsale appenninica, che soprattutto nei più giovani di loro riconoscevano la sorte simmetrica dei loro stessi figli, dispersi nei territori invasi dal Regio Esercito dopo la capitolazione dell’8 Settembre. Gli ex-reclusi in maggioranza prenderanno parte attiva alle azioni di tutte le principali formazioni partigiane di Umbria, Marche e Abruzzo, ed in qualche caso ne rappresenteranno persino l’ossatura: Brigata Gramsci in Valnerina, banda Filipponi a Sarnano, battaglione Stalingrado nel Pesarese, formazione di Ettore Bianco nei Monti della Laga, alcuni battaglioni della IV Brigata Garibaldi di Foligno e della successiva Brigata Spartaco.

 

 

BIBLIOGRAFIA MINIMA

 

-        Ivanović D.D.V.

Poruke. Zapisi iz zice: Jusovaca, Kuća, Rogosica, Skadar-Tepa, Bari, Fodja, Kolfiorito di Folinjo [Messaggi. Note dal filo spinato]

Titograd/Podgorica, Istorijski Institut S.R. Crne Gore, 1989

 

-        Burani M.P.

Nessuno lo chiamava il campo... Le "Casermette" di Colfiorito luogo della memoria della deportazione civile italiana

Foligno, Comune di Foligno, 2001

 

-        Ivanović D.D.V.

Memorie di un internato montenegrino. Colfiorito 1943

[traduzione parziale in lingua italiana del precedente]

Foligno, ISUC / Editoriale Umbra, 2004

 

-        Lucchi O. (a cura di)

Dall'internamento alla libertà. Il campo di concentramento di Colfiorito

Atti del convegno di studi, Foligno, palazzo Trinci, 4 novembre 2003

Foligno, ISUC / Editoriale Umbra, 2004

 

-        Ivanović D.D.V.

Muzej logora Kolfiorito di Folinjo. Spomenik prijateljstva naroda italije

[Il museo del campo di Colfiorito di Foligno. Monumento dell'amicizia del popolo italiano]

Podgorica/Titograd, Istorijski Institut Crne Gore, 2007

 

-        Martocchia A. et al.

I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana

Roma, Odradek, 2011

 





Cresce la tensione nei Balcani con sullo sfondo le dispute interimperialiste

Redazione de La Riscossa (organo del Partito Comunista), 8.3.2017

Sempre più tesa la situazione nei Balcani dove si acuisce pericolosamente la competizione tra gli USA-NATO-UE e la Russia con particolare riferimento al conflitto per il controllo delle fonti di energia e le vie di trasporto, la promozione degli interessi geostrategici, a beneficio dei gruppi monopolistici su ogni lato. Questo ha il suo riflesso sulle mai sopite tensioni etniche-nazionaliste della regione. La NATO prosegue il suo “accerchiamento” della Russia muovendosi di recente anche sul Mar Nero, gli USA e l’UE incrementano le loro ingerenze in relazione con i piani della Russia che, dopo il riavvicinamento contradditorio con la Turchia, si muovono nella direzione del transito del gasdotto russo “Turkish Stream” dalla Macedonia e la Grecia, così come i piani della Cina che sono volti a promuovere una rapida via di comunicazione delle merci verso i mercati europei, anche attraverso un sistema ferroviario ultraveloce Salonicco-Budapest.

Su queste basi, la tensione nella regione aumenta costantemente, e non a caso il capo della politica estera e della sicurezza comune dell’UE, Federica Mogherini, ha appena concluso un tour di 4 giorni nei Balcani, dove rilevante è stato l’atteggiamento ostile del Parlamento serbo.

Nel frattempo, i politici americani intervengono ponendo la questione del ridisegno dei confini nei Balcani, come nel caso recente del senatore repubblicano Dana Rohrabacher che ha proposto uno scambio di territori tra la Serbia e il Kosovo, affermando ad inizio febbraio che «la Macedonia non è Stato», che dovrebbe esser quindi sciolta in modo che le regioni con popolazione di etnia albanese si uniscano al Kosovo e ciò che resta diventare parte della Bulgaria, della Grecia e altri paesi della regione.

Macedonia – Albania

Nella Repubblica di Macedonia si intensifica lo scontro politico a seguito della decisione del presidente del paese, Gjorge Ivanov, di non dare il mandato di formare un governo al leader dell’opposizione del Partito dell’Unione Socialdemocratica (SDSM), Zoran Zaev, nonostante egli sia riuscito ad ottenere, tramite un accordo di cooperazione con tutti i partiti parlamentari albanesi, i voti di 67 deputati su un totale di 120. Ivanov e l’ex primo ministro Nikola Gruevski, del Partito Democratico di centro-destra (VMRO-DPMNE) rifiutano l’entrata nel governo dei partiti albanesi.

Ivanov ha giustificato la scelta citando la Costituzione che vieta di compromettere la sovranità del paese, visto che se si formasse un governo di coalizione con i partiti di etnia albanese si consegnerebbe il potere a forze che stanno “sotto controllo straniero”, con riferimento all’Albania. La cosiddetta “Piattaforma Albanese”, posta dai partiti parlamentari macedoni-albanesi a sostegno del nuovo governo prevede: a) di stabilire costituzionalmente l’albanese come seconda lingua ufficiale in tutto il paese, b) cambio della bandiera e dei simboli nazionali per rappresentare la minoranza albanese, c) la promozione della procedura di adesione all’UE e alla NATO e la risoluzione della disputa con la Grecia sul nome costituzionale del paese con la partecipazione attiva dell’etnia albanese in essa. Edi Rama, Primo Ministro albanese, ha commentato che «non ci può essere Macedonia senza albanesi» e che l’albanese «non è la lingua del nemico, ma la lingua di una componente etnica in Macedonia». Hashim Thaçi, presidente dei Kosovari albanesi, ha definito “preoccupante” la decisione di Ivanov. Il primo ministro della Macedonia, Ntimitrief ha reagito accusando il suo omologo albanese di «un nuovo coinvolgimento negli affari interni della Macedonia», definendolo «dannoso per i rapporti di vicinato».

Gli sviluppi in questa repubblica balcanica meridionale, mostrano come, al momento, sia tra le situazioni più pericolose a seguito dello smantellamento della Jugoslavia, anche se non si possono sottovalutare i rischi negli altri paesi della regione. Significativa è la reazione del ministero degli Esteri russo che ha accusato i membri dell’UE e della NATO di star cercando di imporre «in Macedonia la piattaforma albanese progettata nell’ufficio del primo ministro albanese a Tirana», basata sulla mappa della “Grande Albania”, «esprimendo le aspirazioni territoriali a spese del vicino Montenegro, Serbia, Macedonia e Grecia». Stoltenberg ha invece sottolineato come la NATO «resta impegnata nel processo di adesione» della Macedonia, mentre il Commissario UE per le relazioni di vicinato, Johannes Hahn ha sollecitato «il Presidente della FYROM a rispettare l’esito delle elezioni» ribadendo la stessa posizione affermata in precedenza dall’ambasciatore USA, Bailey.

Montenegro

La situazione del paese rimane tesa dopo che il governo filo-occidentale di Milo Djukanovic ha “rivelato” di un tentato colpo di stato alla vigilia delle elezioni del 16 ottobre, accusando «gli elementi nazionalisti serbi e russi» che avrebbero tentato di occupare il Parlamento, assassinare il primo ministro e installare un governo ostile alla NATO. Nel mese di febbraio si sono aperte le procedure definitive per l’integrazione del Montenegro nella NATO che dovrebbe esser ufficializzato nel prossimo vertice di maggio della NATO a Bruxelles che «manderà un chiaro segnale di stabilità e di sicurezza in tutta la regione» costituendo «la base per la prosperità e rafforzerà la sovranità» del Paese dieci anni dopo l’indipendenza, secondo quanto ipocritamente commentato dal Segr. generale della NATO. Il governo montenegrino è intenzionato fortemente a proseguire nell’ingresso nell’alleanza militare imperialista euro-atlantica nonostante le forti obiezioni della Russia che da tempo ha messo in guardia sulle «negative gravi conseguenze» e le opinioni della maggior parte della popolazione che, secondo recenti sondaggi, non è d’accordo con i piani della borghesia di aderire alla NATO.

Bosnia –Erzegovina e Republika Srpska

La Bosnia-Erzegovina continua ad essere essenzialmente ancora sotto occupazione della UE e della NATO che perpetuano la sofferenza dei popoli della regione alimentando le tensioni in un paese composto da tre popoli (musulmani, serbi e croati) diviso in due entità amministrative: la Republika Srpska (RS – che comprende il 49% del territorio a maggioranza serba) e la Federazione croato-musulmana (BH – il 51% del paese dove vivono bosniaci musulmani e croati) sulla base degli accordi di Dayton (1995).

Il presidente dei serbi bosniaci, Milorad Dodik, ha stretti rapporti con la Russia e sta spingendo per l’indipendenza dell’Entità Serba criticando l’attuale assetto istituzionale troppo “centralistico” a vantaggio della componente croato-musulmana. Durante la visita della Mogherini, Dodik ha voltato le spalle scegliendo di andare a Mosca per incontrare, tra gli altri, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Mosca ha colto così l’occasione per cercare di promuovere i propri piani geopolitici ed ha espresso «preoccupazione per gli sforzi dell’Occidente di rivedere il compromesso del trattato di Dayton». La Serbia, tramite le parole a fine dicembre del presidente della repubblica, Nikolic, sostiene che la Republika Srpska sia in grave pericolo. La Croazia con il sostegno degli USA e della NATO starebbe lavorando a costruire un pretesto per abolire l’Entità Serba in Bosnia, scatenando così la reazione della Serbia. Questo spiegherebbe la corsa agli armamenti da parte di Zagabria con la fornitura da parte degli Stati Uniti d’America di missili a lunga gittata. A segnalare quanto la tensione sia alta, durante il voto referendario dello scorso settembre nel quale i serbi bosniaci votarono a favore del mantenimento della loro festa nazionale identitaria, l’ex leader militare bosniaco Sefer Halilovic ha affermato che «se necessario con una nostra reazione militare vinceremmo contro Dodik in 10-15 giorni», con Dodik che ha subito risposto: «siamo pronti a difenderci e capaci di farlo». Di recente il Partito Democratico Serbo (Pds) è uscito dalla maggioranza centrale bosniaca affermando che «lavorerà nel prossimo periodo soltanto per la tutela degli interessi della Repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia».

Serbia – Kosovo

La Serbia entra nella fase elettorale prima delle elezioni presidenziali di aprile, in un periodo di escalation di tensione con la leadership degli albanesi kosovari. Il dialogo tra Belgrado e Pristina avviene tramite la mediazione dell’UE per la “normalizzazione” del loro rapporto dopo l’intervento degli USA-NATO-UE nel 1999. L’ultimo focolaio nei rapporti Belgrado-Pristina si è acceso lo scorso dicembre, quando le forze speciali della polizia albanese kosovara hanno impedito il passaggio di un treno sulla linea ferroviaria da poco ristabilita tra Belgrado e Mitrovica, in quanto sui vagoni vi era riportato lo slogan in 21 lingue “Kosovo è Serbia”. Il Presidente serbo nazionalista Tomislav Nikolic ha minacciato di inviare truppe al nord del Kosovo per proteggere la comunità serba. Il Primo Ministro serbo A. Vucic, che ha un approccio più cauto con l’Occidente, cerca di placare Nikolic nell’obiettivo di portare avanti il progetto di una parte della borghesia serba che spinge per accelerare il processo di adesione all’UE che viene utilizzato da potenti potenze europee, come la Germania, come leva per promuovere i propri interessi.

A sua volta il protettorato della NATO del Kosovo è alla ricerca di un ulteriore riconoscimento dalla maggior parte dei paesi. Funzionari degli Stati Uniti stanno lavorando a questo obiettivo di riconoscimento come nel caso del nuovo ambasciatore degli USA alle Nazioni Unite, Haley, per unire il protettorato all’Agenzia in palese violazione del diritto internazionale. Il presidente Thaçi ha annunciato, inoltre, l’intenzione di trasformare le Forze di Sicurezza del Kosovo (KSF) in esercito regolare allo scopo di proteggere la sovranita e l’integrita territoriale. Nonostante il Kosovo sia in base della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite parte integrante della Serbia, Thaçi considera “legale” tale iniziativa «necessaria per avviare ufficialmente il processo di adesione delle KSF alla NATO». Non si è fatta attendere la risposta della Serbia che ha affermato che «non accetterà mai la costituzione di un esercito del Kosovo». Il Kosovo di fatto è gia una base NATO nel centro dei Balcani come risultato della guerra del 1999 con l’occupazione del Kosovo e Metohija, regione di importanza strategica. Una delle più grandi basi americane nella regione è situata proprio in Uroševca, Kosovo. Intanto, il prossimo 24 marzo (giorno del 18° anniversario dell’inizio dell’aggressione imperialista degli Stati Uniti, la NATO, l’UE col pretesto dei diritti dell’etnia albanese in Kosovo) la Russia consegnerà all’Air Force serba 6 caccia Mig-29 a prezzo simbolico, nel quadro di un processo di riarmamento serbo.

«La situazione attuale può solo surriscaldare il nazionalismo serbo e quello albanese a discapito dei serbi in Kosovo» – spiega in una intervista all’International Communist Press, il segretario generale del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia (membro della Iniziativa Comunista Europea), Aleksandar Banjanac – «L’occupazione imperialista deve volgere al termine. Sostenere la pace e la realizzazione della solidarietà tra i popoli albanesi e serbi non è utile alla NATO. Entrambe le parti sono vittime della NATO. I popoli dei Balcani saranno in grado di determinare il proprio futuro solo se i Balcani gli apparterranno».

Nazionalismo e divisione etnica: cuneo del capitale contro i lavoratori a vantaggio degli imperialisti

In questi giorni siamo inondati nei media dai messaggi filo-europei per il sessantennale dei Trattati che diedero vita all’UE che avrebbe “garantito libertà e pace ai popoli europei” manipolando la realtà e cercando di cancellare dalla memoria dei popoli il macello, lo spargimento di sangue e le conseguenze della guerra condotta nei Balcani.  Poco più di vent’anni dopo delle bombe della NATO che hanno disgregato la Jugoslavia occupandola e dividendola in più parti sottraendo le sue risorse con l’espansionismo di potenze europee, gli sviluppi generali nei Balcani sono ragionevolmente causa di preoccupazione raggiungendo oggi il picco della tensione nel quadro generale di acutizzazione delle dispute inter-imperialistiche. E’ necessaria la massima vigilanza e solidarietà internazionale, denunciando ogni coinvolgimento dell’imperialismo italiano, dell’Ue e della NATO che già tanti disastri hanno prodotto nel recente passato nella regione.

I motivi reali di questa escalation nella regione vanno ricercate nei piani geopolitici ed energetici dei centri imperialistici rivali dimostrando se ce ne fosse ancora bisogno che le ragioni dell’intervento degli anni ’90 degli USA-NATO-UE non avevano nulla a che vedere con la “pace” ma è avvenuto per la stessa ragione per cui oggi raggiunge il picco lo scontro, vale a dire il controllo delle risorse in competizione con la Russia, portando ulteriori frizioni tra i popoli.

«Il nazionalismo è stata l’ideologia che ha legittimato le classi dirigenti e gli obiettivi imperialisti» afferma il NPCJ, «questa idea ha diviso la classe operaia su base etnica, portandola a un crollo sociale e materiale»La divisione etnica-nazionale beneficia solo corrotti politici filo-capitalisti, “uomini d’affari” e magnati, uomini di guerra, rappresentando da anni un cuneo contro i lavoratori per dividerli a vantaggio del capitale e delle multinazionali che in questi anni hanno imposto il loro dominio con la borghesia locale di recente formazione che si è formata dai ranghi di coloro che hanno venduto la proprietà del popolo, saccheggiato l’economia, tradito gli interessi del popolo spingendolo ad una guerra fratricida per interessi altrui.

L’unico “freno” ai disegni delle classi borghesi, che non esitano a portare i popoli sull’orlo di un nuovo spargimento di sangue per rispartire e ridisegnare la regione sulla base degli interessi delle diverse potenze imperialiste, può provenire solamente dalla lotta antimperialista delle classi lavoratrici sulla base dei propri interessi comuni per il rovesciamento finale del potere del capitale, mettendo fine all’occupazione della NATO, ai rispettivi nazionalismi, le ingerenze straniere e le varie argomentazioni borghesi al servizio del capitalismo imperialista che cercano di separare e dividere i lavoratori per indebolirne e disarmarne la lotta e la solidarietà tra i popoli.




Nell'articolo del Corriere della Sera non si fa ovviamente alcuna menzione delle vittime "nemiche": civili e soldati bersaglio dei proiettili all'uranio impoverito sparati dagli eserciti della NATO. Contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, così come sulla Repubblica Srpska di Bosnia, e in altri paesi più lontani.

Si veda anche la sezione sull'utilizzo di "URANIO IMPOVERITO" (DU / U238) sul nostro sito:



Uranio impoverito, la strage dimenticata dei soldati italiani: 
340 morti e 4 mila malati

L’ultima vittima di pochi giorni fa: Claudio Caboni, colonnello dell’Esercito, stroncato da un cancro linfatico. 
Le 43 sentenze di risarcimento e i lavori della commissione parlamentare (la quarta): «Presto una nuova legge»
di Alessandro Fulloni

L’ultima morte risale al mese scorso. Claudio Caboni, colonnello dell’Esercito, 59 anni. Un curriculum lungo così. Aviatore dell’aviazione leggera, a lungo nella «Brigata Sassari». Oltre venti missioni all’estero. Lascia moglie, Maria Assunta, e la figlia Federica, stremato da un cancro linfatico diagnosticato nel 2014. Era stato sui fronti più caldi che dall’inizio del 1990 hanno visto impegnati i reparti italiani: Kosovo, Iraq, Afghanistan. Un nome e un cognome, i suoi, che adesso diventano un numero. Questo: il 340. Ovvero 340 morti — a cui devono essere aggiunti circa 4 mila malati — per le conseguenze del contatto con l’uranio impoverito. Parliamo dell’«U238», il materiale con cui si fanno i proiettili di artiglieria che perfora le corazze dei tank. Ma che sviluppa temperature così alte che nebulizza i metalli, creando particelle che se inalate o ingerite possono causare forme tumorali. (nella foto Epa, un tecnico dell’Institute di Fisica di Belgrado mostra un proiettile all’uranio impoverito: http://images2.corriereobjects.it/methode_image/2017/03/03/Tablet%20Edition/Foto%20-%20Trattate/19est03f3-kGfE--544x408@...?v=201703091529 )

Dai Balcani a Kabul, 43 sentenze di risarcimento

Cifre, come l’ultima riguardante la morte del colonnello della «Sassari», che non rientrano nel bilancio crudo di una battaglia, persa o vittoriosa. Eppure quel che è successo nelle nostre missioni militari più recenti, dai Balcani all’Afghanistan, si configura come uno degli scenari più luttuosi nella storia delle forze armate italiane. Caduti come a Dogali, sul Carso, a El Alamein, o al «check point Pasta». Da vent’anni i reduci dalle missioni Nato in Afghanistan, Bosnia, Kosovo e Iraq si ammalano per le conseguenze dell’uso di questo tipo di arma. Tra tribunali amministrativi e civili — sono i puntuali numeri forniti dall’Osservatorio Militare presieduto da Domenico Leggiero, ex pilota dell’Aeronautica — ci sono già 43 sentenze di risarcimento. Tra queste 13 sono passate in giudicato. 

La battaglia dei familiari delle vittime 

I familiari dei morti, o gli stessi malati, in una ventina di casi hanno ricevuto gli indennizzi: che si aggirano — parliamo delle cause relative ai decessi — attorno al milione di euro. Tra soldati morti e bambini malformati: l’uranio impoverito uccide nel silenzio. La prima vittoria giuridica è stata quella del 3 novembre 2012, quando il Tribunale civile di Roma stabilì, con una sentenza, che a uccidere Andrea Antonaci (militare che aveva prestato servizio in Bosnia), era stato l’uranio impoverito. Motivo per cui il ministero della Difesa fu condannato a pagare quasi un milione di euro ai familiari, perché finalmente era stato stabilito il nesso causale fra la patologia contratta dal ragazzo (un linfoma di Hodgkin) e l’esposizione all’U235. 

Il diario straziante dell’incursore Danise

Il «bollettino di guerra» si aggiorna, purtroppo, di frequente: lo sorso anno aveva toccato l’Italia la morte di Gianluca Danise, incursore dell’Aeronautica, veterano di tante missioni all’estero, Kosovo, Albania, Eritrea, Afghanistan, Iraq e Gibuti ( http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_23/uranio-morto-militare-che-ricompose-resti-vittime-nassiriya-d0861a58-a973-11e5-8f07-76e7bd2ba963.shtml ). Strazianti, ma al tempo stesso colme d’amore indirizzato alla famiglia, le parole lasciate nel suo diario online che raccontano la sua malattia: «Ho paura di morire e non poter dare un futuro a mia moglie e a mia figlia... Ho paura di morire prima di aver sistemato la maledetta burocrazia militare e civile...». Non è escluso che il male che lo ha stroncato si sia sviluppato in Kosovo. (nella foto Ap, soldati della forza di pace in Bosnia accanto a proiettili anticarro: http://images2.corriereobjects.it/methode_image/2017/03/03/Tablet%20Edition/Foto%20-%20Trattate/05est02f3-kGfE--544x408@...?v=201703091529 ) 

«Gli americani giravano in tute da marziani»

«Vedevamo gli americani e ci chiedevamo perché girassero bardati a quel modo — aveva raccontato Danise —. Sembravano marziani. Sembravano personaggi di quei film tipo “Virus”. Avevano attrezzature per maneggiare i materiali di cui noi non disponevamo. Non ci siamo mai chiesti perché loro fossero cosi equipaggiati, pensavamo fossero loro a esagerare. Dopo il Kosovo, al rientro dalla seconda missione che ho fatto in Eritrea, cominciai a leggere i giornali e mi si gelò il sangue. Era l’epoca in cui si iniziava a parlare dell’uranio impoverito. Speravo di non essere tra gli sfortunati. Invece nel 2010 è toccato anche a me. È partito tutto da un mal di orecchie e mi si è stravolta la vita». Danise era morto nel dicembre 2015 e a febbraio 2016 la moglie aveva denunciato: «Non ho ancora avuto notizie sulla pensione di mio marito, non ho i soldi per vivere» ( http://www.corriere.it/cronache/16_febbraio_10/non-ho-soldi-vivere-aiutatemi-ad-avere-pensione-mio-marito-118a909a-d004-11e5-b46f-b6e34893b4a5.shtml ). 

Quattro commissioni parlamentari d’inchiesta 

Per fare luce sui numeri di questa «battaglia» dimenticata non sono servite tre commissioni d’inchiesta parlamentari. Regolarmente azzoppate dal crollo anticipato delle legislature. Ora ne è decollata una quarta, presieduta dal deputato Pd Gian Piero Scanu. Che ha ricevuto da Mauro Pili, suo collega di Unidos, il fascicolo riguardante Caboni. E acquisito dalla commissione. I cui lavori marciano spediti. In questi giorni alla Camera sono stati sentiti ufficiali e medici delle Forze Armate. L’obiettivo? Scanu parla di «un atto di indirizzo che impegni governo e Parlamento ad attuare con la massima tempestività le disposizioni che la Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito della Camera indicherà come non più procrastinabili». Insomma: una legge che chiarisca di chi sono le colpe e soprattutto come debbano essere definiti gli indennizzi. 
9 marzo 2017



(français / italiano / english)

Tentativi di censura nella Croazia europeissima

1) Tentativi di censura contro il giornale della minoranza serba (di Pierluca Merola, 10 marzo 2017)
2) La droite réac s’acharne contre l’hebdo de gauche Novosti (par Marzia Bona, 24 febbraio 2017)
CROAZIA: NOVOSTI SOTTO ATTACCO / NOVOSTI UNDER ATTACK


LINKS:

PORTAL NOVOSTI
Il giornale della comunità serba / Srpsko narodno vijeće / della Croazia

Media in Croazia: un tentato omicidio che ci riguarda tutti (Helena Puljiz)
Il 28 ottobre scorso, mentre percorreva l'autostrada Bregana-Lipovac, l'automobile di Saša Leković ha mostrato segni di danneggiamento... si è constatato che due bulloni della ruota anteriore destra erano stati segati...

Libertà dei media in calo in Croazia: un'infografica (OBC 15 novembre 2016
... Misure quali la rimozione di oltre 70 dipendenti dal servizio pubblico radiotelevisivo, la messa in discussione dell’agenzia nazionale per la regolamentazione delle telecomunicazioni e l'abolizione del finanziamento per i media non profit erodono la possibilità che i giornalisti possano svolgere il proprio lavoro adempiendo il compito fondamentale...
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Liberta-dei-media-in-calo-in-Croazia-un-infografica/


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CROAZIA: Tentativi di censura contro il giornale della minoranza serba

di Pierluca Merola, 10 marzo 2017

da ZAGABRIA – Željka Markić – volto dell’associazione U Ime Obitelj (in nome della famiglia) e attivista della destra nazionalista croata – ha recentemente aperto uno scontro con il settimanale Novostivoce indipendente e critica nel panorama mediatico croato e nominalmente testata della minoranza serba.

“Novosti diffonde l’odio verso la maggioranza croata”

Il 13 febbraio scorso Željka Markić ha presentato un report sull’uso improprio dei finanziamenti statali all’editoria delle minoranze nazionali da parte della rivista Novosti, edita dal Consiglio Nazionale SerboMarkić sostiene che la rivista si occupi poco della minoranza serba e troppo della politica nazionale croata. In particolare, il report identifica negli articoli di tre editorialisti di Novosti frasi che “incitano all’intolleranza e all’odio verso il popolo croato”e che mettono in discussione (in modo satirico) l’esistenza di un’(unico) popolo croato e le basi dello stato indipendente.

Markić ritiene inaccettabile che le tasse dei croati finanzino un giornale che li insulta: ha perciò chiesto al comitato per le minoranze nazionali (responsabile dei fondi) l’interruzione immediata del finanziamento a Novosti (pari a 3.2 milioni annui di kune croate). Il comitato per le minoranze nazionali ha prontamente notificato a Markić la sua ignoranza riguardo la legislazione costituzionale in tema di minoranze.

“Novosti promuove la tolleranza attraverso la critica al nazionalismo”

La risposta della redazione di Novosti non si è fatta attendere. Senza venir meno al proprio taglio editoriale critico e tagliente, il venerdì successivo alla denuncia, la rivista è uscita con un numero interamente dedicato alla figura di Markić (secondo la redazione offesa perché trascurata) e quello dopo ancora ha rincarato la dose con un numero dedicato alla natura “clerical-fascista” del movimento U Ime Obitelj.

Riguardo alle accuse, il caporedattore Nikola Bajto ha specificatoche Novosti non è disposta a farsi chiudere in un ghetto per la minoranza serba ma punta a un pubblico più ampio, così da perseguire una reale integrazione tra popolo maggioritario e minoranze. Il caporedattore ha poi sottolineato come la rivista rispetti i criteri per i finanziamenti perseguendo la promozione della tolleranza, del rispetto delle minoranze, dell’eguaglianza e delle libertà garantite dalla costituzione attraverso la critica quotidiana alle discriminazioni promosse da Markić e dalle altre forze del nazionalismo croato. La rivista intende dare così voce alla minoranza serba e a tutte le minoranze etniche, politiche e di orientamento sessuale discriminate dalle posizioni maggioritarie.

L’attacco al pluralismo della stampa in Croazia

Con l’attacco a Novosti si è manifestata ancora una volta l’insofferenza del nazionalismo croato verso la stampa non allineata. Non è un caso che due dei tre editorialisti – Boris Dežulović e Viktor Ivančić – i cui articoli “incitano all’odio verso il popolo croato” provengano dal Feral Tribune – unica realtà critica in Croazia verso il regime di Tuđman durante gli anni ’90chiusa nel 2008 per difficoltà finanziarie.

Željka Markić e le altre forze del nazionalismo croato stanno proseguendo la politica avviata dall’ex-Ministro della cultura Zlatko Hasanbegović volta a eliminare quelle realtà indipendentiche sbeffeggiano e decostruiscono gli assunti nazionalisti e la narrazione degli anni ’90 in Croazia.

Novosti – rivista della minoranza serba che ha accolto i giornalisti irriverenti ed “eretici” del defunto Feral – è l’incubo dei nazionalisti croati. Non sorprende che Markić ritenga che il budget statale possa essere meglio impiegato in una rivista completamente in alfabeto cirillico e concentrata sul folklore serbo. Basta che nessuno la legga.

Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association e PECOBUniversità di Bologna.



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in italiano: CROAZIA: NOVOSTI SOTTO ATTACCO (di Marzia Bona, 24/02/2017)
Una campagna lanciata dall’organizzazione "Nel nome della famiglia" minaccia di portare alla chiusura del settimanale Novosti, esempio di pluralismo e giornalismo di qualità in Croazia...

in english: NOVOSTI UNDER ATTACK (by Marzia Bona, 24/02/2017)
A campaign launched by conservative organization “In the name of the family” threatens to shut down the magazine Novosti, example of pluralism and quality journalism in Croatia...


CROATIE : LA DROITE RÉAC S’ACHARNE CONTRE L’HEBDO DE GAUCHE NOVOSTI

Osservatorio Balcani e Caucaso | European Center for Press and Media Freedom | Traduit par Mandi Gueguen |vendredi 3 mars 2017

U ime obitelji, « Au nom de la famille », c’est l’équivalent croate de Sens commun, sous-produit dérivé de la Manif pour tous. Et l’officine catho-tradi-réac s’est trouvé une nouvelle cible : l’hebdomadaire de gauche Novosti, officiellement édité par le Conseil national serbe de Croatie.

Par Marzia Bona

Ces deux dernières semaines, l’hebdomadaire Novosti, publié par le Conseil national serbe de Croatie (SNV), a été la cible d’une campagne visant à suspendre le financement public dont il bénéficie, en tant que média d’une minorité nationale reconnue. L’association responsable de cette campagne, célèbre pour son engagement nationaliste et ultra-conservateur, U ime Obitelji (« Au nom de la famille »), a été créée en 2013, pour mener la bataille sur la réforme constitutionnelle qui a amené à restreindre la définition du mariage comme « l’union entre un homme et une femme ».

Le 13 février dernier, Željka Markić, visage public de l’association, a tenu une conférence de presse en face du Parlement croate en demandant la fermeture de l’hebdomadaire. Dans le dossier accompagnant l’appel, Novosti est accusé de représenter une menace parce que le journal promouvrait « l’intolérance contre la majorité croate et contre la République de Croatie ». Sur la base de ces accusations, Željka Markić demande au Conseil pour les Minorités nationales la suspension de son soutien à Novosti (3,2 millions de kunas en 2016, près de 430 000 euros), de même que l’interruption de sa publication pour une période de trois ans.

Les accusations contre l’hebdomadaire ne sont pourtant pas confirmées par les observations objectives des organisations de presse actives dans la région. La plateforme régionale South East Europe Media Observatory, par exemple, a récemment cité Novosti parmi les exemples positifs que représentent un modèle alternatif viable pour la presse, illustrant notamment « un journalisme fièrement indépendant, de qualité, financé en grande partie par les fonds publics ».

Željka Markić, ne s’est pas arrêtée en chemin : le 20 février 2017, elle a lancé une pétition publique pour recueillir des adhésions à la campagne contre l’hebdomadaire. Après la publication de la pétition en ligne, la boîte de messagerie du Conseil pour les minorités nationales a été inondée par des milliers de mails automatiques.

La rédaction de Novosti a diffusé un communiqué de presse exprimant ses préoccupations. « Ces actions constituent une campagne dangereuse et orchestrée au nom du nationalisme, de la xénophobie, visant à stigmatiser les journalistes de l’hebdomadaire Novosti, en les présentant comme des ennemis de l’État et des traitres à la nation ». Cette campagne, selon eux, « vise à répandre la haine contre le Conseil national serbe, qui est l’organisation de tutelle de la minorité nationale serbe en Croatie et contre cette minorité en général ».

Diverses organisations actives dans la défense de la liberté de la presse, dont la Fédération européenne des journalistes (FIJ), ont rapidement réagi en affirmant leur solidarité et leur soutien et en s’alarmant des conséquences d’une éventuelle fermeture de Novosti, qui se solderait par une érosion du pluralisme des médias en Croatie et l’exclusion d’une voix importante des minorités. « Nous considérons la tentative de l’association U ime obitelji comme dangereuse non seulement pour le niveau de protection démocratique des minorités en Croatie, mais aussi par rapport au respect de la liberté d’expression journalistique et éditorialiste au sein des moyens de communication de ces minorités », souligne le SEE Media Observatory.