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KOSOVO
testi ed
approfondimenti di
Andrea Catone
vedi anche:
SECESSIONE UNILATERALE DEL KOSOVO:
l’asservimento della Serbia obiettivo delle potenze
imperialiste
di Andrea Catone -
Direttore
del “Centro studi sui problemi della transizione al
socialismo”
su Gramsci Oggi -
marzo 2008
http://www.gramscioggi.org/Gramsci%20oggi-numero%202-2008.pdf
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La
dichiarazione di
“dipendenza”
Il 17 febbraio 2008, con la dichiarazione
unilaterale di indipendenza
approvata dall’assemblea del Kosovo –
organismo sorto sulla base dei
provvedimenti adottati dall’amministrazione
ONU del Kosovo(UNMIK
nell’acronimo in inglese) - si chiude
formalmente la fase iniziata con
i bombardamenti della NATO nella primavera
1999 e la successiva
imposizione di un protettorato ONU-NATO sulla
provincia serba, avallato
– ma non nella misura estesa e totale che poi
si è verificata –
dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza
delle NU 1244/99,
successiva all’armistizio di Kumanovo (3
giugno 1999), in base al quale
l’allora piccola Jugoslavia, la RFJ composta
dalle due repubbliche di
Serbia e Montenegro, doveva accettare, dopo 78
giorni di violenti e
micidiali bombardamenti terroristici sulla
popolazione civile e le
infrastrutture essenziali, che le sue forze
armate abbandonassero il
Kosovo alle truppe NATO e di contingenti di
altri paesi delle NU.
Questo atto, palesemente contrario alle norme
di diritto internazionale
che si basano sul riconoscimento dei confini
degli stati esistenti e
che condannano secessioni unilaterali, è stato
platealmente
sostenuto dal presidente USA, George Bush, che
il 10 giugno 2007 a
Tirana,durante la conferenza stampa, espose la
sua posizione in modo
molto chiaro e determinato: “Il Kosovo deve
essere indipendente. Il
momento è adesso”. Agli USA si accodano, senza
particolari
distinguo, i principali paesi della UE, salvo
la Spagna, che si
affrettano a riconoscere diplomaticamente il
nuovo stato, connotato, in
diversi rapporti di organismi internazionali
come il principale centro
di traffico europeo di esseri umani, donne
ridotte in schiavitù,
armi, droga.
Il governo Prodi, nonostante sia dimissionario
e debba quindi occuparsi
costituzionalmente solo degli affari correnti,
nonostante una mozione a
fine novembre 2007, approvata
“trasversalmente” dal parlamento (dalla
Lega nord alla sinistra), impegnasse il
governo a spingere per il
proseguimento delle trattative sullo status
“al fine di arrivare a una
soluzione condivisa” tra Serbia e leadership
albanese-kosovara, e
mentre le commissioni parlamentari stanno
ancora discutendo, proponendo
di rinviare la decisione al nuovo governo dopo
le elezioni di aprile,
è tra i primi, insieme con Francia, Regno
Unito e Germania, a
riconoscere ufficialmente il Kosovo. Così
Massimo D’Alema, che
nel 1999 da presidente del consiglio, violando
la costituzione della
repubblica (articolo 11), aveva fatto
partecipare il nostro paese
all’aggressione terroristica della NATO contro
la Serbia col pretesto
di una “guerra umanitaria” per difendere la
popolazione albanese del
Kosovo, nel 2008, da ministro degli esteri,
legittima l’amputazione del
15% del territorio della Serbia (che ad essa
apparteneva prima ancora
della formazione del Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni nel 1918),
riconoscendo implicitamente che l’aggressione
della NATO del 1999, che
ha distrutto la Serbia per portarla “indietro
di mezzo secolo”, come
dichiarava il capobanda delle operazioni NATO,
il generale Wesley
Clark, non aveva alcuno scopo “umanitario”, ma
era una volgare guerra
di aggressione per strappare un territorio a
un paese e imporvi il
proprio controllo con un governo quisling, non
diversamente da quello
che nella storia del XX secolo faceva Adolph
Hitler o l’imperialismo
colonialista.
Che la “dichiarazione di indipendenza” del
Kosovo sia in realtà
una dichiarazione di dipendenza dagli USA e
dalla NATO, e dalla UE solo
in quanto indissolubilmente legata ad USA e
NATO (che rimane lo
strumento principe dell’egemonia militare e
politica degli USA, nel
momento in cui il dollaro perde vistosamente
posizioni nei confronti
dell’euro), appare evidente anche ad una
superficiale lettura del testo
e del contesto in cui l’evento si colloca:
nelle piazze di Pristina
migliaia di bandiere USA oscurano anche quelle
del neo inventato stato
del Kosovo. Essa sembra scritta (e lo è con
ogni evidenza) dai
giuristi della NATO. Sin dal preambolo la
dichiarazione1 si preoccupa
di rispondere alle obiezioni - sollevate da
tutti i più seri
esperti di diritto internazionale ed espresse
con grande forza dalla
Russia - che la secessione unilaterale del
Kosovo possa aprire il vaso
di Pandora dei secessionismi (nelle
repubbliche ex sovietiche di
Georgia e Moldavia, ma anche in diversi paesi
della UE, in primis di
baschi e catalani in Spagna). Essa ripete la
litania, reiterata senza
fantasia dalla coscienza sporca delle
cancellerie occidentali, che “il
Kosovo è un caso speciale che sorge dal
disfacimento non
consensuale della Jugoslavia e non costituisce
un precedente per
qualunque altra situazione”. Perché scrivere
esplicitamente
questo? Una “normale” dichiarazione di
indipendenza, quali quelle
prodotte dalle lotte di indipendenza nazionale
e anticoloniale nel XX
secolo rivendicherebbe invece il proprio
diritto come diritto di tutti
i popoli all’autodeterminazione e non si
preoccuperebbe comunque di
rimarcare il proprio caso speciale. Si esprime
poi riconoscenza al
“mondo” che “nel 1999 è intervenuto togliendo
a Belgrado il
governo del Kosovo e ponendo il Kosovo sotto
la gestione ad interim
delle Nazioni Unite”. Ma che il mondo degli
ascari albanesi di Pristina
si riduca alla NATO è detto chiaramente al
punto 5 in cui si
invita quest’ultima a “mantenere il ruolo di
guida della presenza
militare internazionale in Kosovo” e si
dichiara l’impegno ad una piena
collaborazione degli albanesi con essa. Al
punto 6 si manifesta
l’impegno “all’integrazione europea ed
euro-atlantica”. L’unica Europa
che gli uomini di Thaci riconoscono è l’Europa
legata a doppio
filo con gli USA, è l’euro-atlantismo, è
l’Europa
americana.
Il primo
successo
internazionale degli USA dopo il 2003
Non può sfuggire che con la dichiarazione
unilaterale del 17
febbraio e col riconoscimento del nuovo
narcostato da parte dei
principali paesi della UE, che, pur non
potendo adottare, per
l’opposizione di alcuni stati membri, una
risoluzione comune, fornisce
il principale supporto all’operazione con la
missione Eulex - la
più grande e costosa missione europea -, la
politica estera
degli USA colga il primo significativo
successo dopo cinque anni di
difficoltà e fallimenti: divisione del fronte
imperialista per
la guerra all’Iraq nel 2003, mancato controllo
del territorio iracheno
e afghano per la forte resistenza di gruppi
armati legati alla
popolazione; notevole capacità politica e
militare dimostrata da
hezbollah in Libano contro l’aggressione
israeliana nell’estate 2006;
significativi processi di emancipazione dal
dominio economico e
politico nordamericano in America Latina
guidati dal Venezuela e da
Cuba; nuovo peso internazionale assunto dalla
Russia di Putin, che
rovescia la politica di cedimenti e svendita
del paese dell’ubriacone
Eltsin; intenso sviluppo della Cina e
possibili processi di alleanza
tra i più grandi e popolosi paesi del mondo,
India, Cina, Russia.
In nessuna parte del mondo – e forse neppure
nel suo stesso paese – la
bandiera a stelle e strisce è osannata come in
Albania e Kosovo,
in nessuna parte del mondo vi sono tanti
segnali di servile
sottomissione agli USA, cui si dedicano
strade, ristoranti, botteghe e
supermercati, come in Kosovo. Dove trovare dei
quisling più
solerti? Quale zona più sicura per istallare
la più
grande base militare d’Europa (Camp Bondsteel)
rivolta a un tempo verso
Russia e Medioriente?
Ma col colpo gobbo dell’indipendenza del
Kosovo gli USA non si
assicurano soltanto il controllo di un
territorio di importanza
strategica – sia militare che economica, per
il passaggio delle
pipeline -, essi piegano la UE alla propria
strategia, dimostrano al
mondo di essere ancora leader del campo
imperialista, gli unici a poter
dettare l’agenda e ad imporre le loro
soluzioni. La UE invece mostra
ancora una volta di non poter avere una
politica estera comune, ma,
soprattutto, di essere, con i suoi principali
paesi, subordinata agli
USA. E, per giunta, di dover pagare a caro
prezzo questa
subordinazione. Agli USA il controllo militare
e la leadership
politica, alla UE le spese esorbitanti del
mantenimento delle missioni
internazionali in Kosovo, cui si aggiungeranno
quelle della nuova
missione Eulex.
Le potenze
imperialiste e
la Serbia
In realtà, nei Balcani, a partire dagli anni
’90, vi è un
interesse principale dell’intero campo
imperialista, che ha operato
potentemente per “balcanizzare” l’area,
favorendo la frantumazione
della Jugoslavia e la formazione di ministati
che, per la loro
dimensione economica e militare, fossero
totalmente dipendenti dai
paesi imperialisti, dei quali sarebbero
divenuti i maggiordomi. Anche
qui, nulla di nuovo sotto il sole. Così si
mosse anche la
politica hitleriana.
L’unico popolo che, per la sua consistenza, la
sua tradizione storica
di resistenza e lotta per l’indipendenza, è
considerato ostacolo
alla marcia verso est nei Balcani è quello
serbo (i serbi sono i
primi a cominciare nell’800 il risorgimento
nazionale contro il dominio
ottomano nei Balcani e a costituirsi come
stato indipendente;
respingono nel 1914 l’ultimatum dell’Austria,
nel 1941 quello di Hitler
e nel 1999 quello della NATO, pagando sempre
un prezzo altissimo). Per
questo peccato di “orgoglio” nazionale e di
resistenza, i serbi, le
potenze imperialiste oggi, al pari degli
imperi centrali agli inizi del
‘900, mirano a distruggere la Serbia: Serbien
muss sterbien.
Si comprende così che la questione del Kosovo,
ben prima di
essere una questione di “diritti umani”
violati, o della convivenza tra
etnie, è la questione dell’imperialismo che
mira ad indebolire e
sottomettere, bombardandolo e amputandolo, un
paese che, nonostante
vistosi cedimenti e tradimenti di buona parte
del suo ceto politico,
non è ancora considerato affidabile per fare
il maggiordomo
delle grandi potenze. La lunga storia del
Kosovo e le sue vicende
interne che hanno visto il confrontarsi dei
popoli serbo e albanese ben
prima dell’ascesa di Milosevic al governo
della Serbia – e che furono
utilizzate dall’imperialismo nazifascista
nella conquista dei Balcani
con l’annessione del Kosovo all’Albania
occupata da Mussolini, per
ingraziarsi i fautori della Grande Albania
disegnata dalla Lega di
Prizren – sono solo il pretesto di cui le
potenze imperialiste si sono
servite per la conquista dei Balcani.
Imperialismo UE a base tedesca e imperialismo
USA hanno marciato
insieme alla distruzione della Serbia. Le
divergenze sono state
secondarie, molto sostanziali le convergenze.
Certo, la UE, che
maschera il suo imperialismo dietro la
facciata del diritto e delle
regole, avrebbe preferito, anche nella sua
componente tedesca
più serbofobica, non uscire ulteriormente
dalla legalità
internazionale (dopo che i principali paesi
che la costituiscono
avevano scatenato la “guerra umanitaria” del
1999), e si è mossa
per convincere il governo serbo a dare il suo
assenso alla secessione
del Kosovo in cambio della promessa di un non
molto lontano ingresso di
Belgrado nell’Unione. In tal modo la
secessione sarebbe stata
consensuale e non sarebbe sorto alcun problema
di legalità
internazionale, come invece è apertamente
esploso oggi, con
conseguenze in prospettiva devastanti,
soprattutto per il progetto di
statualità europea. La secessione del Kosovo
col consenso di
Belgrado sarebbe stata la prova della piena
malleabilità della
Serbia, della sua disponibilità a
sottomettersi finalmente ai
peggiori diktat, e avrebbe avuto come
contropartita il suo ingresso
subalterno, da maggiordomi di seconda classe,
nell’Unione europea.
La questione dello status del Kosovo e della
sua soluzione finale,
infatti, non può essere compresa se non come
una carta - forse
la principale per l’altissimo valore simbolico
e storico che ha questa
terra nella costituzione dell’identità
nazionale serba – della
partita intrapresa dalle potenze imperialiste
per sottomettere
definitivamente la Serbia e inglobarla da
serva e minore nel loro
sistema economico, politico, militare. Un
esame sinottico di quanto
accade in Kosovo e in Serbia dopo il 1999 e ai
rapporti tra Serbia, UE,
NATO, USA in questi ultimi anni può forse
chiarire nodi e
implicazioni di questa partita. Proveremo a
disegnare schematicamente
le sue fasi:
1. Giugno
1999 – ottobre
2000. Bastonare in tutti i modi la Serbia
fino a che non si istalli al
potere un governo affidabile per l’Occidente
Demolita dalle bombe NATO, tradita da El’cyn e
Cernomyrdin, la Serbia
deve piegarsi all’ingresso delle truppe NATO
in Kosovo, ottenendo
però, con la risoluzione 1244 del Consiglio di
sicurezza
(10.6.1999), il chiaro riconoscimento che la
provincia è parte
integrante della RFJ (di cui la Serbia, quando
si scioglierà
l’unione col Montenegro, rappresenta la
continuità statale2).
Con un’interpretazione molto estensiva della
1244 l’UNMIK (acronimo di
United Nations Interim Administration Mission
in Kosovo), l’organismo
creato dalle N.U. per l’amministrazione
provvisoria della provincia, ne
assume tutti i poteri, sostenuta militarmente
da un altro organismo, la
KFOR (Kosovo Force), forza militare
internazionale a guida NATO,
responsabile di ristabilire “l'ordine e la
pace”. Sotto lo sguardo
complice di quasi 50.000 militari NATO l’UCK
albanese scatena il
terrore contro serbi e rom: uccisioni,
sequestri di persona,
distruzione di abitazioni e saccheggi spingono
oltre 200.000 persone ad
abbandonare la provincia e cercare rifugio in
una Serbia demolita dalle
bombe e assediata dall’embargo. Il francese
Kouchner (oggi ministro
degli esteri) quale “governatore” del
“protettorato ONU” opera sin
dall’inizio per creare istituzioni
amministrative totalmente separate
da Belgrado, in conformità con il disegno USA
di staccare dalla
Serbia il Kosovo, dove hanno costruito la più
grande base
militare, Camp Bondsteel.
In Serbia c’è ancora il “dittatore”
(democraticamente eletto in
un sistema pluripartitico, dove la maggior
parte dei media sono
dell’opposizione) Milosevic, demonizzato dai
media occidentali per aver
avuto il torto di voler difendere il suo paese
dall’aggressione NATO.
Nessun mezzo viene risparmiato per rovesciare
lui e il suo partito,
SPS, che gode di un ampio consenso tra i
lavoratori e nei sindacati:
dalla pressione economica, politica, militare
ai delitti mirati contro
importanti esponenti dell’establishment serbo,
dalla creazione di
organizzazioni pseudo democratiche di
mercenari pagati dagli USA (prima
fra tutte Otpor) e di numerose e ambigue ONG,
al sostegno ai partiti di
opposizione. Con un’azione ben programmata e
orchestrata (un modello
che vedremo all’opera anche in successive
“rivoluzioni arancione” a
Tbilisi e Kiev) che combina propaganda,
manifestazioni di piazza e
azione di commando ben addestrati, il 5
ottobre 2000 – prima che si
andasse al ballottaggio per il secondo turno –
il parlamento è
assalito e devastato e Milosevic si dimette,
lasciando il posto al
candidato della DOS (opposizione democratica
serba) Vojslav Kostunica.
Le sedi dei partiti socialisti e della
sinistra vengono saccheggiate,
picchiati e feriti i militanti socialisti e i
rappresentanti sindacali,
bloccati e sequestrati i beni del SPS, che
deve affrontare una violenta
ondata repressiva.
2. Ottobre
2000-dicembre
2003. La Serbia potrebbe diventare un buon
maggiordomo dell’Occidente
Tutta la regia del colpo di mano di ottobre è
delle centrali USA
e NATO, che hanno in Djindjic più che in
Kostunica, che si
presenta come difensore dell’interesse
nazionale, il loro uomo di
riferimento. Comincia la fase in cui
l’Occidente agita dinnanzi alla
“nuova” Serbia la carota degli aiuti economici
e di una possibile
integrazione nella UE, ma a condizione che la
Serbia dia prova di
essere “democratica”, cioè totalmente prona ai
voleri di
Washington e dei comandi NATO. Il primo, più
plateale prezzo da
pagare, è la consegna all’Aja (28 giugno 2001)
del presidente
Milosevic, cui Kostunica aveva invece dato
ampie garanzie di rimanere
in patria. Nel 2002 la RFJ costituisce una
commissione per coordinare
la cooperazione con il Tribunale Penale
Internazionale per
l'ex-Jugoslavia (ICTY) e inizia a emettere
ordini di arresto per
persone accusate di crimini di guerra
rifugiate entro i suoi confini,
mentre comincia all’Aja (12 febbraio 2002) il
processo contro
Milosevic.
La UE impone inoltre a Belgrado (marzo 2002)
di trasformare la
Jugoslavia in una unione col Montenegro,
guidato dal mafioso
filoamericano Djukanovic, cui la Germania ha
già fornito i
marchi (e poi gli euro) per rompere l’unità
monetaria (e poi
l’unità statale) con Belgrado. Un altro colpo
al ruolo della
Serbia, paese che va distrutto. Nel febbraio
2003 muore ufficialmente
la RFJ e nasce uno strano stato che rimarrà in
vita, come era
prevedibile, solo tre anni.
Ma intanto il nuovo governo serbo guidato da
Djindjic, che continua a
dare prova di buona volontà e sottomissione
all’Occidente e non
solleva la questione del Kosovo, né si
preoccupa delle
condizioni miserrime in cui vivono nel suo
territorio 200.000 profughi
dal Kosovo (oltre alle altre centinaia di
migliaia dalla Bosnia e dalla
Croazia), ottiene la carota dell’ammissione al
Consiglio d'Europa e
chiede di aderire al programma Partnership for
Peace, anticamera per
l’ingresso nella NATO.
Tra il 2002 e il 2003 si verifica una seria
incrinatura tra le potenze
imperialiste. Non in merito ai Balcani, ma
all’opzione USA di una nuova
guerra contro l’Iraq. La Serbia vive di
riflesso questa contraddizione,
quando la UE, vestiti i panni della legalità
internazionale, si
oppone all’impunità pretesa dagli USA per
crimini commessi dalle
loro truppe o personale civile fuori del
territorio statunitense. Il
governo USA chiede anche alla Serbia di
firmare l'accordo sulla non
consegna dei cittadini americani al Tribunale
penale internazionale,
mentre Bruxelles invita a non farlo,
rammentando, per bocca di Peter
Schieder, presidente dell'Assemblea
parlamentare del Consiglio
d'Europa, che la Serbia e Montenegro è "un
paese che un giorno
diventerà membro della UE e che per questo
dovrebbe avvicinarsi
agli standard europei"3.
L’influenza USA sul governo serbo si fa molto
forte, al punto da
coinvolgere indirettamente il paese nella
guerra contro l’Iraq. Un
articolo del settimanale belgradese Vreme4
(sull’attendibilità
della fonte non si può però mettere la mano
sul fuoco)
rivela che nell'imminenza della guerra
all’Iraq sono stati consegnati
agli americani moltissimi dati su strutture
irachene di importanza
strategica, come basi militari e marittime,
aeroporti e bunker
sotterranei, alla cui progettazione e
realizzazione la Jugoslavia
(allora repubblica federativa socialista)
aveva collaborato negli anni
‘80. Zoran Djindjic è legato piuttosto
all’imperialismo tedesco,
che per la prima volta, insieme con la più
politicamente
determinata Francia, manifesta un aperto
dissenso con gli USA. Il 12
marzo 2003, una settimana prima
dell’aggressione anglo-americana
all’Iraq, viene assassinato in pieno giorno
davanti al palazzo del
governo serbo.
Dopo questo delitto eccellente e mai veramente
chiarito (almeno per il
ruolo avuto in esso dai servizi segreti
inglese e statunitense), il
governo è retto da Zivkovic, che proclama lo
stato d’emergenza,
mette agli arresti diecimila persone e mostra
ottime relazioni con gli
USA. L'influenza di Londra e Washington in
questo momento si
ingrandisce a tal punto rispetto a quella
della UE che gli ambasciatori
britannico e americano controllano pienamente
persino l'azione
dell'arresto degli assassini di Djindjic.
Nella tarda primavera del
2003 a Belgrado si accelerano fortemente le
riforme dell'esercito e dei
servizi serbi di informazione, sotto
supervisione britannica e
americana. È la pressoché totale infiltrazione
e
distruzione dall’interno di un esercito che
aveva conservato, anche
nella piccola Jugoslavia, capacità e
professionalità
acquisite nel periodo della Jugoslavia di
Tito. Zivkovic dichiara che
la Serbia gode delle migliori relazioni con
gli USA degli ultimi 50
anni e a fine luglio si reca in visita in USA
per una settimana, dove
si impegna ad epurare il partito democratico
(DS) degli elementi non
filoamericani e, insieme col ministro degli
esteri Goran Svilanovic,
offre a Condoleezza Rice e Colin Powell un
contingente di circa mille
militari serbi e montenegrini alle forze
americane di Enduring Freedom
per combattere in Afghanistan5: Può essere
considerato quindi un
buon maggiordomo degli USA. I media
filogovernativi di Belgrado
annunciano la nuova "partnership strategica"
fra gli USA e la Serbia.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, lasciano
intendere che non sosterranno
l'indipendenza del Kosovo, richiesta dai loro
figliocci dell’UCK, e
garantiranno la sicurezza dei serbi prima di
decidere dello status
politico finale della provincia. Si rinnovano
i rapporti commerciali
interrotti con la introduzione (maggio 1992)
delle sanzioni contro la
RFJ e gli USA divengono i maggiori investitori
in Serbia, favoriti
dalla svendita delle imprese di stato che i
governi antisocialisti e
antipopolari della DOS (Djindjic e Zivkovic)
hanno intrapreso: nel 2003
la Phillip Morris acquista la fabbrica di
tabacco di Nis per 605
milioni di euro, mentre la US Steel mette le
sue zampe sull’unica
acciaieria serba, a Smederevo, per soli 205
milioni di euro e licenzia
immediatamente circa 1.000 lavoratori,
imponendo una paga oraria di
0,40 dollari all’ora, che passerà a 1 dollaro
solo dopo un epico
sciopero generale durato settimane, che
coinvolge l’intera
città. Alcuni analisti politici credono a
questa svolta
strategica dei rapporti serbo-americani,
ritenendo che Washington,
messa di fronte alla difficoltà di posizionare
le proprie truppe
in tutto il mondo, necessita della stabilità
balcanica per
ritirare le forze dal Kosovo e dalla Bosnia ed
Erzegovina, e
distribuirle in punti più importanti come
l’Iraq. D’altra parte,
al vertice di Salonicco del 21 giugno 2003, la
Serbia è inclusa
tra i potenziali candidati per l’accesso alla
UE.
La questione del Kosovo non è in questi anni
2001-2003 tra le
priorità dell’agenda politica dei nuovi leader
serbi.
L’UNMIK procede nella sua opera di costruzione
di istituzioni affatto
nuove che nulla abbiano a che fare con
Belgrado, gettando le premesse
per una futura definitiva secessione statale.
Tuttavia la questione del
futuro status della provincia non è chiusa. Il
15 maggio 2001 il
nuovo rappresentante speciale del segretario
generale, il danese Hans
Haekkerup, subentrato al precedente
“governatore” Kouchner, promulga il
“Quadro costituzionale per un governo autonomo
provvisorio in Kosovo”.
Nel novembre 2001 si svolgono le elezioni per
la prima Assemblea
legislativa, alle quali partecipa in massa, su
sollecitazione di
Koštunica e del governo di Belgrado, anche la
comunità serba: la
“Coalizione per il ritorno” (Povratak) ottiene
l’11,34% con 89.400
voti.
Agli inizi del 2002 il nuovo rappresentante
delle NU, il tedesco
Steiner comincia ad articolare le linee della
politica "standards
before status”, sostenendo che senza il
raggiungimento delle condizioni
minime di rispetto della legge, del
funzionamento di istituzioni
democratiche, dei diritti delle minoranze non
albanesi e di sviluppo
economico, non si potrà aprire il negoziato
sullo status del
Kosovo. A fine maggio 2002 il governo del
Kosovo entra in funzione con
tutti i suoi ministeri, quando i serbi
ottengono, oltre al ministero
dell’agricoltura, il posto, che loro preme
molto di più, di
Coordinatore interministeriale dei ritorni
presso il primo ministro.
Agli inizi del 2003 l’UNMIK comincia a
trasferire un buon numero di
competenze di governo a questi ministri,
mantenendo per sé
alcuni poteri legati alla sovranità di uno
stato, quali il
ministero degli esteri e alcune funzioni della
sicurezza.
Intanto l’ONU fissa alla metà del 2005 la data
in cui si
esaminerà il raggiungimento degli standard.
Tuttavia, il
“governatore” dell’UNMIK, il tedesco Michael
Steiner, dichiara che "il
Kosovo non farà mai più parte della Serbia"6.
Se da un
lato la politica ufficiale del rappresentante
delle Nazioni Unite in
Kosovo è ancora, alla fine del 2003, quella
sintetizzata dalla
formula “norme prima dello status”7,
dall’altro vi sono forze
internazionali che, all’interno dei loro
disegni strategici
sull’assetto dei Balcani, spingono per la
piena indipendenza del
Kosovo, con la cesura netta di qualsiasi
legame con lo stato serbo,
facendo così consapevolmente da sponda al
nazionalismo
esclusivistico albanese, con tutte le
conseguenze che ciò
comporta per la vita della popolazione serba e
delle altre minoranze
non albanesi, nonché del patrimonio
storico-culturale. Sono
personaggi potentissimi, che controllano
alcuni tra i principali media
dei Balcani, come il magnate George Soros,
strettamente legato al
National Endowdment for Democracy, o think
tank influenti come
l’International Crisis Group (ICG) che
richiedono l’indipendenza del
Kosovo. Il 10 dicembre 2003 viene pubblicato a
Pristina “Standards for
Kosovo”, e approvato dal consiglio di
sicurezza dell’ONU con
dichiarazione del 12 dicembre 2003, completato
dal “Kosovo Standards
Implementation plan” che sarà varato il 31
marzo 2004, dopo i
violenti pogrom antiserbi di due settimane
prima.
Nel complesso, in questa fase, il destino
dello status del Kosovo, se
è senza dubbio già orientato ad una amplissima
autonomia
da Belgrado, non è però già stato deciso.
3. 2004. La
Serbia
è di nuovo inaffidabile. Si scatenano in
Kosovo i pogrom
antiserbi di marzo
Il quadro politico in Serbia muta
radicalmente, in senso letterale…
Infatti, le elezioni politiche anticipate del
28 dicembre 2003,
provocate dalla caduta del governo Zivkovic -
inviso alle masse serbe
che popolano sempre di più le piazze con
scioperi e
manifestazioni, travolto dalle accuse della
Del Ponte, che incrimina
all’Aja 4 generali serbi, diviso al suo
interno, con la DOS oramai in
frantumi (il partito democratico serbo, DSS,
di Kostunica è in
rotta di collisione con il partito
democratico, DS, di Djindjic e
Zivkovic) – fanno del partito radicale serbo,
nazionalista e
antiamericano, il maggior partito del paese
(col 28% di suffragi). Il
partito socialista serbo, SPS, duramente
attaccato dopo l’ottobre 2000,
non scompare di scena, ma si attesta su uno
“zoccolo duro” del 7%,
mentre il partito liberaldemocratico e
filo-occidentale (DS) è
ridotto al 13%, superato dal DSS di Kostunica
(18%). È a
quest’ultimo, dopo una lunga e critica fase di
gestazione, che spetta
la guida del nuovo governo serbo (2 marzo
2004), che, senza i
filo-occidentali DS, è sostenuto da G17 Plus,
una formazione
politica liberale costituita soprattutto da
economisti, il Movimento
per il Rinnovamento Serbo (SPO) di Vuk
Draškovic e il partito Nuova
Serbia (NS), con l’appoggio esterno dei
socialisti.
Kostunica pone apertamente la questione del
Kosovo, chiedendo una
sostanziale e ampia autonomia per i distretti
popolati dai serbi (la
cosiddetta “cantonalizzazione”). Il forte
condizionamento
dall’opposizione dei radicali serbi, il
ritorno nel gioco politico con
un peso determinante del partito di Milosevic,
che all’Aja difende con
fierezza la politica di indipendenza nazionale
serba e infiamma gli
animi della popolazione, incollata per ore al
televisore a seguire
l’autodifesa del suo presidente che è tutta un
preciso e
circostanziato atto d’accusa all’imperialismo
della NATO, fanno di
nuovo della Serbia un paese non affidabile per
l’Occidente.
A solo due settimane dalla nascita del nuovo
governo serbo si scatena
(17-20 marzo 2004) in tutti i distretti del
Kosovo un violentissimo
pogrom contro serbi e rom e altre minoranze
non albanesi, lasciate in
moltissime occasioni senza alcuna protezione
da parte dei corpi
militari e di polizia di KFOR, UNMIK, KPS.
“Sono stati distrutti
impianti, sono stati saccheggiati edifici
pubblici, tra cui scuole e
dispensari, alcuni gruppi etnici sono stati
accerchiati e minacciati e
le famiglie cacciate dalle loro case. Villaggi
interi sono stati
evacuati e numerose case sono state ridotte in
cenere dopo la partenza
dei loro abitanti. In alcuni casi, gli
assalitori hanno tentato di
occupare illegalmente le case abbandonate,
addirittura di rivendicarne
la proprietà. Gli scontri hanno provocato 19
morti – 11 albanesi
e 8 serbi del Kosovo - e 954 feriti. Inoltre
sono stati feriti 65
poliziotti delle forze internazionali, 58
membri del KPS e 61 membri
della KFOR. 730 case appartenenti alle
minoranze, principalmente serbi
del Kosovo, sono state danneggiate o
distrutte. È stato preso di
mira il patrimonio culturale e religioso del
Kosovo: 36 chiese,
monasteri e altri siti religiosi e culturali
ortodossi sono stati
saccheggiati o distrutti. Alcuni luoghi di
culto erano del XIV secolo,
due erano classificati dall’UNESCO patrimonio
mondiale
dell’umanità e un terzo tra i siti di
interesse regionale. Sono
stati pure danneggiati o distrutti beni
dell’UNMIK e della KFOR”8.
Non abbiamo allo stato attuale documenti che
provino una correlazione
specifica, un rapporto diretto tra il mutato
quadro politico in Serbia
e i pogrom organizzati dall’UCK in Kosovo, ma
dai rapporti dell’UNMIK e
delle numerose ONG, emerge il carattere
deliberato e organizzato, non
casuale o accidentale, del pogrom. È come se
qualche burattinaio
esterno, un’accorta regia occulta, avesse
deciso di “dare una lezione”
ai serbi e di agitare ora minacciosamente la
carta della violenza
etnica di massa per ottenere la secessione
immediata. A rivelarlo
è la conclusione politica - apparentemente
incomprensibile e
paradossale – tratta alcuni mesi dopo dalle
cancellerie occidentali:
infatti, il pogrom, preceduto e seguito da un
ininterrotto stillicidio
di omicidi, sequestri e violenze quotidiane
contro i serbi del Kosovo,
viene interpretato come il segnale che occorre
definire al più
presto lo status del Kosovo, indipendentemente
dal raggiungimento di
quegli standard da cui gli albanesi, come gli
eventi di marzo mostrano,
sono mille miglia lontani. Paradossalmente –
ma non tanto, se si legge
la questione del Kosovo come parte della
politica imperialista verso la
Serbia – il pogrom di marzo, invece che
spingere alla difesa dei serbi
vittime delle violenze albanesi, rovescia la
politica standard beforee
status. Ora il raggiungimento degli standard
minimi di rispetto dei
diritti delle minoranze non è più una
priorità.
4. Giugno
2004-febbraio
2008. La carota dell’Europa e il bastone del
Kosovo
Dopo tre inutili tentativi, che inducono ad
abolire il quorum del 50%
per convalidare il voto, a fine giugno 2004
viene eletto alla
presidenza di Serbia-Montenegro Boris Tadic,
del DS, che, con
l’appoggio del partito di Kostunica, supera il
radicale Nikolic. La
Serbia così si presenta con due teste, quella
filo-occidentale
di Tadic e quella di difesa nazionale di
Kostunica. La prospettiva di
adesione alla UE li unisce, la strategia da
seguire sul Kosovo li
divide. Alle elezioni di ottobre 2004 per il
rinnovo dell’assemblea del
Kosovo, Tadic, seguendo le pressioni
dell’Occidente che intende
mostrare la foglia di fico della democratica
multietnicità della
provincia, chiede ai serbi di partecipare al
voto, Kostunica li invita
invece, dopo il pogrom di marzo e la
fallimentare esperienza della loro
partecipazione nelle istituzioni disegnate
dall’UNMIK, dove non contano
assolutamente nulla, a boicottarle. A dicembre
2004 la nuova assemblea
del Kosovo elegge a primo ministro il capoclan
dell’UCK e criminale di
guerra Ramush Haradinaj.
Il 2005 si apre con l’offensiva a tutto campo
sulla secessione del
Kosovo. In prima fila è l’ICG9, con il suo
rapporto “Kosovo:
toward Final Status”10, che propugna come
unico sbocco la secessione
anche unilaterale e con l’opposizione della
Russia (esattamente come
avverrà tre anni dopo). Segue ad aprile,
preceduta da un grande
battage sui principali quotidiani occidentali,
il rapporto conclusivo
della International Commission on the
Balkans11, presieduta da Giuliano
Amato. Anch’esso sostiene apertamente la tesi
che occorre accelerare il
processo di definizione formale di
indipendenza del Kosovo, che entro
un decennio potrebbe entrare, insieme con la
Serbia e gli altri
ministati della disciolta federazione
socialista jugoslava, nella UE.
L’argomentazione di fondo è che la situazione
non può
più attendere, il tempo sta scadendo, potrebbe
presto
verificarsi un’esplosione violenta di
dimensioni ben maggiori e
più cruente di quella del marzo 2004.
Assistiamo in
quest’argomentazione a un rovesciamento delle
posizioni politiche
precedenti sostenute, nel silenzio-assenso
degli USA, dall’UNMIK e
dalla UE, che vedevano nella violenza
antiserba scatenata nel marzo
2004 la ragione per rinviare qualsiasi
discorso sullo status del
Kosovo, poiché mancavano i requisiti minimi di
sicurezza e
vivibilità per le minoranze serbe, rom, e
delle altre etnie non
albanesi.
La politica degli USA e della UE è ora molto
chiara: si promette
alla Serbia la futura adesione alla UE e le si
chiede al contempo un
atto, anzi più atti, di sottomissione: non
solo la
collaborazione col tribunale dell’Aja,
costruito ad hoc per mantenere
la Serbia sotto una perenne spada di Damocle,
ma molto, molto di
più: la rinuncia al Kosovo, in spregio della
stessa risoluzione
1244/99.
Quasi contemporaneamente alla pubblicazione
ufficiale del rapporto
della Commissione sui Balcani, la Commissione
europea valuta (12 aprile
2005) che la Serbia sia sufficientemente
preparata per negoziare un
accordo di associazione e stabilizzazione con
la UE; il 25 aprile il
Consiglio europeo approva la fattibilità del
rapporto e invita
la commissione ad emanare le direttive di
negoziazione per l’accordo. A
fine ottobre il norvegese Kai Eide, nominato
dall’ONU per valutare il
raggiungimento degli standard, li giudica
insufficienti, ma ritiene
comunque di dover continuare il processo di
definizione dello status…
Contemporaneamente iniziano i colloqui
ufficiali tra UE e Serbia, alla
quale si richiede, al solito, stretta
cooperazione col Tribunale
dell’Aja.
A novembre 2005, il segretario generale delle
N.U. Kofi Annan, dopo 15
mesi di trattative senza esito a Vienna tra
serbi e albanesi, nomina il
finlandese Ahtisaari per avviare il processo
sulla definizione dello
status. Il “Gruppo di contatto” (Francia,
Germania, Italia, Regno
Unito, USA, Russia) elabora i “Principi guida
per la risoluzione del
futuro status del Kosovo”. Esclude che il
Kosovo possa ritornare alla
situazione pre-1999, che possa essere diviso,
o annesso ad altro stato
confinante, e rigetta come inaccettabile
qualsiasi soluzione
unilaterale o che faccia ricorso all’uso della
forza12.
A febbraio 2006 cominciano i negoziati sullo
status. Qualche settimana
dopo Milosevic viene lasciato (o, per meglio
dire, fatto) morire nel
carcere dell’Aja (11 marzo 2006). La
popolazione serba accorre in massa
ai funerali, concedendo l’ultimo tributo al
capo che non si è
piegato ai diktat degli USA, che si è battuto
con onore e
dignità davanti ai giudici del tribunale. Ma –
sempre
coincidenze? – qualche mese dopo (maggio 2006)
la Serbia viene punita:
i negoziati con la UE sono bloccati perché il
paese viene
giudicato inadempiente verso l’Aja.
Ed è già scattata (21 maggio 2006) la trappola
del
referendum secessionista del Montenegro -
sostenuto apertamente dagli
USA e più sommessamente dalla UE - che
sancisce, col 55,5% dei
votanti, la fine dello stato di
Serbia-Montenegro: il 3 giugno il
parlamento montenegrino dichiara
l’indipendenza, il parlamento serbo ne
prende atto, confermando la continuità della
Serbia come stato
successore dell’unione.
Belgrado deve ora confrontarsi con la stesura
di un nuovo testo
costituzionale, nel cui preambolo si ribadisce
che “la Provincia del
Kosovo e Metohija è parte integrante del
territorio della
Serbia, che gode dello stato di autonomia
sostanziale nel quadro dello
stato sovrano della Serbia e che da tale
condizione della Provincia del
Kosovo e Metohija seguono gli obblighi
costituzionali di tutti gli
organi statali di rispettare e difendere gli
interessi statali della
Serbia in Kosovo e Metohija e tutte le
relazioni politiche interne ed
esterne”. Adottato dal parlamento, viene
approvato da un referendum
popolare il 28-29 ottobre 2006. Intanto, i
negoziati sul Kosovo sono in
pieno stallo. In realtà non si tratta di
negoziati,
poiché i kosovaro-albanesi, spalleggiati dagli
USA, non vogliono
nulla di meno dell’indipendenza.
Non era ancora ufficialmente approvata la
nuova costituzione della
repubblica di Serbia, che i media legati
all’Occidente diffondono le
decisioni della “Comunità internazionale” sul
Kosovo (e sono ben
informati, poiché così accadrà un anno dopo):
la
provincia serba sarò indipendente, con una
supervisione
internazionale a guida Ue. Sono gettate le
premesse per la futura
“missione Eulex”. La UE, ad onta delle
illusioni dei filoeuropeisti
serbi, è parte determinante e soggetto attivo
nella secessione
del Kosovo. Al di là di alcune divergenze
tattiche o di facciata
(la UE, promettendo “l’ingresso in Europa”, si
adopera a che la Serbia
acconsenta alla secessione), vi è una
sostanziale, strategica
unità di vedute tra USA ed UE rispetto alla
Serbia. Tra i due
soggetti imperialisti vi è cooperazione e
divisione dei compiti
e dei ruoli. La UE in questo caso si sobbarca
le maggiori spese della
nuova missione internazionale e la copertura
“legale” della secessione:
un imperialismo ipocrita e leguleio, che cerca
di nascondere dietro la
vuota retorica dei diritti umani il volto
aggressivo e sfruttatore, a
fronte dell’imperialismo muscolare, rozzo e
diretto degli USA di G. W.
Bush.
Le elezioni per il nuovo parlamento del
gennaio 2007 confermano i
radicali quale maggiore forza politica del
paese, ma vedono il partito
di Tadic superare Kostunica, che perde
consensi.
Intanto riprende in parallelo il consueto
giochetto della carota Europa
e del bastone Kosovo. Agli inizi di febbraio
2007 l'inviato speciale
delle Nazioni Unite Maarti Athisaari presenta
il piano sul futuro del
Kosovo, già anticipato nei media qualche mese
prima. È di
fatto la legalizzazione della secessione della
provincia serba sotto
controllo militare della NATO e
giuridico-politico della UE.
Contemporaneamente il consiglio europeo invita
a riprendere i negoziati
col nuovo governo di Belgrado per l’accordo di
associazione alla UE,
sempre a condizione che la Serbia stia
pienamente cooperando col
tribunale dell’Aja.
Il 3 aprile si riunisce il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite
per discutere il piano Ahtisaari, che
consiglia l'indipendenza del
Kosovo sotto la supervisione internazionale.
Non si perviene a nessuna
risoluzione, poiché l’unica proposta che gli
USA sostengono
è la secessione della provincia, cui la Russia
si oppone
decisamente. Lo stesso scenario si ripeterà in
altre riunioni.
Sul Kosovo non vi è quindi, fino ad oggi, dopo
la dichiarazione
di indipendenza unilaterale del 17 febbraio
2008, nessuna risoluzione
del consiglio di sicurezza dell’ONU.
A giugno medesimo scenario: quasi
contemporaneamente Bush dichiara a
Tirana che riconoscerà la proclamazione
unilaterale di
indipendenza (10 giugno) e la UE riprende i
negoziati con la Serbia per
l’accordo di stabilizzazione e associazione
(13 giugno), che sfociano
il 10 settembre nella redazione di un testo
che dovrebbe essere firmato
formalmente entro il 2008. Ma… come sempre,
restano in sospeso la
questione del Kosovo e la piena collaborazione
con il tribunale
internazionale dell'Aia, che potrebbero
rallentare il percorso europeo
del paese… Il 7 novembre a Bruxelles si fa un
ulteriore passo per
l’accordo tra Serbia e UE, mentre dopo qualche
settimana terminano i
negoziati sul Kosovo senza alcun accordo tra
le parti.
Le elezioni di novembre in Kosovo assegnano la
vittoria ad Hashim
Thaci, il filoamericano capo dell’UCK, che
preannuncia quale primo
punto del suo programma l’immediata
dichiarazione di indipendenza, che,
con l’appoggio di USA e dei principali paesi
UE, viene puntualmente
proclamata il 17 febbraio 2008.
Dopo
l’indipendenza del
Kosovo, si apre una fase di instabilità nei
Balcani
La Serbia, che continua a vivere un “dualismo
di poteri” tra Kostunica,
capo del governo, e Tadic (riconfermato
presidente al ballottaggio del
3 febbraio contro Nikolic del partito
radicale), reagisce con grande
passione e dignità, protestando nelle piazze,
richiamando gli
ambasciatori dai paesi che riconoscono il
Kosovo come stato, attuando
una resistenza civile in Kosovo basata sul
rifiuto di riconoscere e
partecipare a qualsiasi istituzione del nuovo
stato. Ma questa è
la linea politica dei radicali, del SPS, che
ora Kostunica sostiene
coerentemente portandola fino alle estreme
logiche conseguenze.
Il 5 marzo una mozione proposta dai radicali
chiede di riprendere i
negoziati con la UE a condizione che ad essi
la Serbia partecipi
integra, senza l’amputazione del 15% del suo
territorio rappresentato
dal Kosovo. È chiaramente una mossa politica
che chiede alla UE
di recedere da tutta la politica sinora
seguita, è di fatto la
proposta di interrompere il percorso di
associazione subalterna nella
Unione Europea, che ha pesantemente ferito e
umiliato la Serbia,
è, indirettamente, l’indicazione di un’altra
via nelle relazioni
mondiali, costruendo un asse privilegiato,
economico e politico, con la
Russia. I ministri del DSS sostengono la
proposta dei radicali, Tadic
si oppone. L’8 marzo Kostunica si dimette, il
paese è chiamato a
breve a nuove elezioni.
Questa crisi politica serba non è endogena, è
stata
prodotta dalla politica delle potenze
imperialiste che, appoggiando la
secessione del Kosovo, hanno scientemente
operato per aprire una fase
di instabilità politica in Serbia, contro la
quale l’attacco e
le ingerenze occidentali termineranno solo
quando saranno riuscite – se
riusciranno - a ridurla pienamente in servitù.
|
Kosovo:
le potenze
imperialiste
preparano la soluzione finale
di Andrea Catone
|
"Time is
running out in
Kosovo", il tempo sta scadendo in
Kosovo: la stessa identica
frase viene impiegata per l'incipit del rapporto
dell'International
Crisis Group (ICG) del
24 gennaio 2005 (1) e per la parte del rapporto
della Commissione
internazionale sui Balcani
(2) presieduta da Giuliano Amato e presentato il
29 aprile a Roma alla
Farnesina alla presenza del ministro degli
esteri Gianfranco Fini.
Per farsi un'idea di cosa siano questi due
grandi centri transnazionali
che si occupano di analisi delle situazioni di
crisi e confitto per
meglio "consigliare" i governi della "comunità
internazionale"
dei principali paesi imperialistici, basta dare
una scorsa alle pagine
finali in cui si elencano membri e sostenitori
economici di essi.
Nell'ICG
– che non si occupa
solo di Balcani, ma anche di tutta l'area ex
sovietica, Asia centrale,
Medio Oriente, Africa, America Latina... -
troviamo tra i membri
del comitato esecutivo personaggi quali Morton
Abramowitz, Emma Bonino,
George Soros; e poi Zbigniew Brzezinski, Wesley
Clark, comandante in
capo delle forze NATO nell'aggressione del 1999
contro la Repubblica
Federale Jugoslava, fino all'ex presidente
messicano Ernesto Zedillo.
Questo potente e influente gruppo internazionale
per le aree di crisi
è finanziato, oltre che da "donatori"
individuali,
società e fondazioni "caritatevoli" (sic!), in
gran parte
statunitensi (la più nota da noi è l'Open
Society
Institute di George Soros, ritornato di recente
agli onori della
cronaca per aver sostenuto il gruppo di Otpor in
Ucraina), anche da
agenzie governative, dall'Australia al Giappone,
da Taiwan alla Nuova
Zelanda, dalla Francia alla Germania al
Giappone, passando naturalmente
per il Regno Unito e la U.S Agency for
International Development (3).
L'Italia invece non è presente tra i sostenitori
dell'ICG.
L'International
Commission on the
Balkans nasce dopo i pogrom antiserbi
del marzo dello scorso
anno su iniziativa di fondazioni statunitensi e
tedesche (Robert Bosch
Stiftung, German Marshall Fund of the United
States, Charles Stewart
Mott Foundation), oltre la belga King Baudouin
Foundation. È
composta da 19 membri, già presidenti o ministri
dei paesi
dell'area balcanica (Turchia, Romania, Ungheria,
Bulgaria, Grecia,
Albania, Macedonia, Serbia-Montenegro, Croazia,
Bosnia, Slovenia) e
dell'Europa occidentale (Svezia, Regno Unito,
Belgio, Germania,
Francia, Italia) e due statunitensi, Avis Bohlen
e Bruce Jackson,
presidente del Project on Transitional
Democracies. Dei paesi che
facevano parte del "gruppo di contatto",
costituito nel 1994 tra gli
Stati cui si riconosceva un interesse e un ruolo
nella Jugoslavia -
USA, Regno Unito, Francia, Germania, Italia e
Russia -, è
visibilmente esclusa quest'ultima. Dato non
casuale, che indica la
volontà delle grandi potenze imperialistiche
occidentali di
regolare e ridisegnare la mappa dei Balcani
senza o contro le decisioni
di Mosca (4).
E probabilmente non è casuale la coincidenza di
frase con cui
iniziano i due rapporti, dato che entrambi
propugnano una rapida
indipendenza del Kosovo, che pure la risoluzione
1244 del 10 giugno
1999 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per
"sanare"
l'illegalità della "guerra umanitaria" della
NATO contro la
Repubblica Federale Jugoslava, assegnava ancora
a quest'ultima.
Diversamente dal rapporto dell'ICG, che è
circolato
essenzialmente tra gli specialisti, il rapporto
della "Commissione
Internazionale" di Amato, pur essendo de jure e
de facto nient'altro
che la conclusione di un'inchiesta promossa da
fondazioni private,
senza nessun incarico specifico di organismi
internazionali quali l'ONU
o l'Unione Europea, ha avuto una sorprendente
esposizione mediatica -
sorprendente se si considera il silenzio
profondo di cui è stata
circondata tutta la vicenda del Kosovo che, dopo
l'ingresso delle
truppe della NATO nel giugno 1999 fino ai pogrom
antiserbi di marzo
2004, ha subito una delle più violente pulizie
etniche ad opera
di bande albanesi contro serbi, rom, gorani e
altre etnie, con oltre
250.000 persone costrette ad abbandonare le loro
case, migliaia di
rapiti e uccisi: omicidi etnici rimasti in
larghissima parte impuniti.
Non è solo l'ANSA che annuncia il senso della
"commissione
Amato" in diversi dispacci: "Balcani:
Commissione internazionale, superare status
quo; Kosovo: Commissione
internazionale, situazione può esplodere;
Balcani: Amato, UE non
può reggere situazione paracoloniale",
ma uno dei
maggiori quotidiani italiani, il Corriere
della sera che gli dedica ben tre
articoli con grande rilievo e
con una titolazione che spiega
inequivocabilmente la scelta
dell'indipendenza (5). L'Unità,
dal canto suo, ospita il 26 aprile un articolo,
tradotto
dall'International Herald Tribune del 14 aprile,
del "presidente del
Kosovo" Ibrahim Rugova: Kosovo, la strada che
porta in Europa (6).
Quasi improvvisamente la questione dei Balcani e
del Kosovo in
particolare – la situazione più difficile di
tutta l'area –
torna d'attualità. Una poderosa corrente
mediatica spira ora sul
Kosovo, e non solo in Italia. Il prestigioso
quotidiano francese Le Monde ospitava il 5
febbraio un
articolo del teorico della "guerra celeste"
contro la Jugoslavia,
l'invasato generale Wesley Clark, responsabile
di una delle più
crudeli guerre terroristiche contro la
popolazione civile, che ha
inquinato per millenni l'ambiente della Serbia e
del Kosovo con i
proiettili all'uranio impoverito. Il titolo,
inequivocabile, è
tutto un programma: Pour un Kosovo
libre. Vi si sostengono in maniera più
secca e rozza, in
tono di ultimatum alla Serbia, le medesime
argomentazioni
sull'improcrastinabile indipendenza del Kosovo
proposte dall'ICG, di
cui del resto egli è autorevole esponente.
Nei Balcani, "dove nulla accade senza la
leadership degli Stati Uniti"
(7), questi ultimi ritornano prepotentemente
sulla scena con tutto il
peso della loro superpotenza "indispensabile" a
governare il mondo. Lo
spiega quasi trionfalisticamente una vecchia
conoscenza dei Balcani, lo
statunitense Richard Holbrooke, che si faceva
passare nelle guerre
jugoslave degli anni '90 come "mediatore"
realistico. E non a caso,
ancora una volta, sul Corriere della
sera, che si qualifica così, come il
portavoce più
autorevole e interessato a sostenere la causa
dell'indipendenza del
Kosovo e della sua integrazione in quanto nuovo
stato nella Unione
Europea (8). "Un
importante
cambiamento nella politica – scrive
Holbrooke - è
passato praticamente inosservato
— quello riguardante il Kosovo, dove, dopo
quattro anni di negligenza
ed errori, l'amministrazione ha compiuto una
notevole inversione di
rotta", abbandonando la "tattica
dilatoria chiamata `standard prima, status
poi', espressione che
consentiva di usare il `diplomatichese' per
mascherare la paralisi
burocratica". Ora, "in
seguito agli avvertimenti sull'infiammabilità
della situazione
lanciati dal diplomatico americano Philip
Goldberg, Condoleezza Rice ha
spedito il sottosegretario di Stato Nicholas
Burns in Europa
affinché incontrasse il quasi moribondo
Contact Group (Stati
Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia
e Germania). Burns ha
detto ai membri del gruppo che la situazione
in Kosovo era
intrinsecamente instabile e che, senza
un'accelerazione negli sforzi
per determinarne lo status finale, le violenze
si sarebbero
probabilmente intensificate, con conseguente
paralisi protratta delle
forze della Nato, truppe Usa comprese"
(9). Così, "sotto
pressione americana — ingrediente
sempre necessario negli affari che riguardano
una UE stagnante e in
divenire — inizia ad emergere una nuova
politica del Contact Group".
Ora, afferma l'amerikano col tono di chi non
ammette repliche, "Belgrado dovrà accettare un passo
politicamente difficile: rinunciare alle
pretese serbe sul Kosovo
(10), che i
serbi considerano il loro
cuore storico. I serbi dovranno scegliere tra
il tentativo di aderire
all'Unione Europea e quello di riconquistare
il Kosovo. Se si
concentreranno sulla loro provincia perduta,
non otterranno nulla".
I rapporti dell'ICG e della commissione
internazionale sui Balcani, gli
articoli di Bonino, W. Clark, Rugova, Amato,
Venturini, Holbrooke, pur
tra differenze di tono, ora "diplomatico", ora
dichiaratamente
minaccioso, si muovono tutti sostanzialmente
nella stessa direzione:
accelerare il processo di definizione formale di
indipendenza del
Kosovo, che entro un decennio potrebbe entrare,
insieme con la Serbia e
gli altri ministati della disciolta federazione
socialista jugoslava,
nella UE. L'argomentazione di fondo è che la
situazione non
può più attendere, il tempo sta scadendo,
potrebbe presto
verificarsi un'esplosione violenta di dimensioni
ben maggiori e
più cruente di quella del marzo 2004. Assistiamo
in
quest'argomentazione a un rovesciamento delle
posizioni politiche
precedenti sostenute, nel silenzio-assenso degli
USA, dall'UNMIK e
dalla UE, che vedevano nella violenza antiserba
scatenata nel marzo
2004 la ragione per rinviare qualsiasi discorso
sullo status del
Kosovo, poiché mancavano i requisiti minimi di
sicurezza e
vivibilità per le minoranze serbe, rom, e delle
altre etnie non
albanesi. Perché si potesse avviare solo il
discorso dello
status finale del Kosovo occorreva che la
provincia serba sotto
amministrazione internazionale avesse raggiunto
gli standard minimi
indicati dettagliatamente nel documento
"Standards for Kosovo",
pubblicato a Pristina il 10 dicembre 2003 e
approvato dal Consiglio di
Sicurezza dell'ONU con dichiarazione del 12
dicembre 2003, completato
dal "Kosovo Standards Implementation plan"
varato il 31 marzo 2004,
proprio a ridosso dell'esplosione di violenza
del 17-20 marzo: standard
di sicurezza, pari trattamento sul mercato del
lavoro, libera
circolazione nel territorio che, anche
nell'ultimo rapporto del
Segretario generale dell'ONU Kofi Annan,
risultano ben lungi
dall'essere raggiunti (11).
Nessuno dei rapporti o degli articoli – salvo
quelli di W. Clark e
Rugova – nega la gravità della situazione in cui
sono costretti
in una prigione a cielo aperto i serbi, i rom e
la popolazione non
albanese del Kosovo. Il rapporto Amato, anzi,
pur senza scoprire nulla
di nuovo rispetto a quanto denunciato da altri
osservatori
internazionali (12), dichiara senza mezzi
termini che "un
Kosovo multietnico non esiste salvo
che nelle dichiarazioni burocratiche della
comunità
internazionale […] I Serbi in Kosovo vivono
imprigionati nelle loro
enclave senza libertà di movimento, né lavoro,
senza
neppure la speranza né l'opportunità di una
significativa
integrazione nella società del Kosovo. La
posizione della
minoranza serba in Kosovo è il più grande atto
di accusa
alla volontà e capacità dell'Europa di
difendere i suoi
conclamati valori. […] Sotto la direzione
dell'Unmik il numero di serbi
impiegato nella Kosovo Electric Company è
sceso da oltre 4.000
nel 1999 a 29 oggi, su un totale di oltre
8.000 addetti […] la
disoccupazione è tra il 60 e il 70 % (quasi il
90% tra le
minoranze) […] La commissione condivide il
giudizio del segretario
generale delle N.U. Kofi Annan, secondo cui il
Kosovo ha fatto
progressi insufficienti per il raggiungimento
degli standard accettati
internazionalmente nel campo dei diritti
umani, del rispetto delle
minoranze e per il mantenimento dell'ordine
pubblico" (13).
Tuttavia, in contrasto con il segretario
generale dell'ONU e con le
esplicite dichiarazioni di alcune cancellerie
europee, tra cui quella
italiana, che si attestano sulla posizione
"standard prima dello
status" (14), il nuovo pensiero di questi think tank
è rovesciato:
solo l'indipendenza potrà risolvere le questioni
della sicurezza
dei serbi e non albanesi del Kosovo. Il
ragionamento è
fattualmente e logicamente insostenibile: se
oggi, nonostante la
presenza di oltre 18.000 militari della KFOR
quali truppe di
interposizione, la vita dei serbi è
costantemente in pericolo,
se, come osserva lo stesso rapporto Amato, gli
albanesi del Kosovo sono
propensi – unici tra tutti i popoli della
Jugoslavia – ad avere un
territorio "etnicamente omogeneo" (15), se
esiste una discriminazione
sostanziale in tutti i campi della vita sociale,
dal lavoro agli
ospedali alle scuole, come sarà possibile
salvaguardare domani i
serbi del Kosovo e garantire loro condizioni di
vita meno oppressive e
precarie di quelle attuali? La sola promessa di
indipendenza da parte
della comunità internazionale renderà più
insicura
la vita delle minoranze, vanificherà qualsiasi
anche remota
chance di ritorno dei 250.000 profughi. Il
rapporto Amato, del resto,
ammette che "sono
minime le
possibilità di un ritorno su larga scala dei
Serbi in Kosovo"
e mentre propone piuttosto ipocritamente – è lo
specchietto
delle allodole della multietnicità! – che "la comunità
internazionale
provveda a incentivare per i serbi del Kosovo
il ritorno anche nel caso
in cui essi preferiscano vivere in zone della
provincia maggiormente
popolate da serbi piuttosto che in aree in cui
vivevano prima della
guerra", aggiunge – rivelando
implicitamente il progetto di
soluzione finale per i serbi del Kosovo – che
bisognerà "prendersi
cura anche di quelli che
preferiranno non tornare", istituendo
un "Fondo di
inclusione", finanziato
dalla UE, "per
assistere
l'integrazione nella società serba dei serbi
del Kosovo che
hanno scelto di rimanere in Serbia".
Ciò che va
assolutamente evitato infatti è "una
`palestinizzazione' dei rifugiati che
decidono di non tornare in Kosovo", che
renderebbe molto
vulnerabile la democrazia serba (16). Le parole
sono pietre. I serbi
del Kosovo, come ha già scritto Michel Collon,
sono i
palestinesi d'Europa!
Al di là di qualche parola d'occasione sulla
multietnicità, la prospettiva che il rapporto
cinicamente
delinea non è quella del ritorno dei profughi
serbi in Kosovo,
ma del definitivo trasferimento in Serbia – con
il bastone della
pulizia etnica e la carota di un incentivo
monetario della UE – dei
serbi rimasti abbarbicati alle loro case e alla
loro storia in Kosovo.
È la "soluzione finale" per i serbi del Kosovo.
La micidiale
guerra del 1999 voluta da Clinton e D'Alema,
Jospin e Schroeder, Blair
e il generale Clark in nome dei diritti umani
per fermare una
indimostrata e indimostrabile "pulizia etnica"
contro gli albanesi, si
conclude sei anni dopo con l'eliminazione dei
serbi dal Kosovo
propugnata e sostenuta dalla "comunità
internazionale" e dalla
UE.
Val la pena osservare anche il rovesciamento
delle priorità
nella struttura del discorso della commissione
Amato e degli altri think tank: dai "diritti
umani"
alla "stabilizzazione dell'area". La
preoccupazione per i diritti umani
e la condizione delle minoranze, che, almeno
formalmente, campeggiava
nei programmi dell'ONU e della UE, espressa
nella formula "standards
before status" cede ora il passo a più prosaiche
considerazioni
pratiche ed economiche. Pagare il trasferimento
dei serbi dal Kosovo
appare operazione meno costosa del mantenimento
a tempo indeterminato
dei militari della KFOR e del probabile aumento
del loro numero in un
Kosovo assolutamente instabile. La retorica dei
diritti umani si toglie
la maschera e parla oggi il linguaggio della
stabilità e
stabilizzazione dell'area, della sua inclusione
nell'Unione Europea. I
diritti umani furono un pretesto buono per fare
la guerra contro la
Serbia, ma oggi passano in secondo piano, non
sono più la
priorità delle priorità, sono un accessorio, un
optional,
di cui si può
continuare a scrivere e parlare per riempire
qualche spazio bianco
sulla carta.
NOTE:
1)
Cfr. Kosovo:
toward Final Status, Europe
Report n. 161,
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3226&l=1.
2)
Cfr. The
Balkans in Europe's Future,
§ 1.3.1, Kosovo's Final Status, http://www.balkan-commission.org/activities/pr-2.htm.
3)
Cfr. Kosovo:
toward Final Status, op.
cit., pp. 33; 36-37.
4)
A questo
proposito, il rapporto dell'ICG è esplicito: "I paesi del
gruppo di contatto
(includendo com'è molto auspicabile la Russia,
ma se necessario
senza di essa)" dovrebbero definire con
tempestività i
tempi per la risoluzione della questione dello
status (Kosovo:
toward final status, op.
cit., p. ii). Del resto, il rapporto della
Commissione di Amato prefigura l'indipendenza
del Kosovo pur prevedendo
l'opposizione di Russia e Cina al Consiglio di
Sicurezza dell'ONU (cfr. The Balkans in
Europe's
Future, op. cit., p. 20).
5)
Cfr. Corriere
della sera, 27.4.2005:
Franco Venturini, Verso l'indipendenza del
Kosovo - La Superpotenza
Europa e i Balcani; R. Holbrooke, Il pragmatismo
della Rice
aiuterà il Kosovo; 29.4.2005: Giuliano Amato
Europa e Balcani -
Il coraggio di un Kosovo indipendente.
6)
Il titolo
dell'articolo dell'International
Herald Tribune è in realtà molto netto
e univoco: The
path to independence, la strada
per l'indipendenza. L'Unità,
il quotidiano del partito di D'Alema, presidente
del consiglio non
pentito della guerra "umanitaria" e
"democratica" contro la popolazione
jugoslava del 1999, preferisce un titolo
edulcorato e ingannevole,
ospitando un articolo chiaramente negazionista
di una pulizia etnica in
atto e di una situazione invivibile per i serbi
e le minoranze non
albanesi, che lo stesso rapporto della
Commissione Amato ammette
apertamente.
7)
È
quanto scrive R. Holbrooke nell'articolo Il
pragmatismo della Rice
aiuterà il Kosovo, Corriere
della sera del 27/04/2005.
8)
Il
quotidiano negli ultimi tempi ha ospitato in
bell'evidenza diversi
articoli a sostegno dell'indipendenza del
Kosovo. Si veda in
particolare l'articolo della radicale Emma
Bonino, assatanata
sostenitrice con Marco Pannella dell'UCK nel
1999, Belgrado si rassegni
e accetti la sconfitta, del 28/01/2005. Una
posizione nettamente
antiserba che non coincide neppure con quella
del governo italiano,
attestata sulla politica di prudente attendismo
degli "standards prima
dello status".
9)
Il rischio
che le truppe USA e NATO si trovino invischiate
a lungo in un Kosovo in
ebollizione, - i moti del marzo 2004 hanno avuto
a bersaglio
principalmente la popolazione e i monasteri
serbi, ma anche le truppe
della KFOR e la polizia dell'UNMIK - viene
sbandierato, a sostegno
della richiesta di indipendenza immediata del
Kosovo, anche nel
rapporto dell'ICG, che ricorda gli impegni
militari in altri
scacchieri, quali Afghanistan e Iraq. (Cfr. Kosovo: toward
Final Status, op.
cit., p. 3).
10)
Si noti
come il diritto alla sovranità territoriale
della Serbia sul
Kosovo, riconosciuto anche dalla risoluzione
1244, diventi per
Holbrooke una "pretesa".
11)
Cfr. Report
of the Secretary-General on the
United Nations, Interim Administration
Mission in Kosovo,
14.2.2005 (S/2005/88). Il rapporto, come i
documenti sugli standard
sono reperibili sul sito dell'UNMIK: http://www.unmikonline.org.
12)
Cfr. il
rapporto del luglio 2004, vol. 16, No. 8 (D)
della ONG, certo non
filoserba, Human Rights Watch, "Failure
to Protect: Anti-Minority Violence in Kosovo,
March 2004" (http://www.hrw.org).
13)
Cfr. The
Balkans in Europe's Future, op.
cit., pp. 19-20.
14)
Cfr. il
comunicato dell'agenzia France Press
del 15/02/2005 sotto il titolo "L'indépendance
du Kosovo serait
`hautement déstabilisante', selon Rome": "Roma. Il governo
italiano ritiene che
l'indipendenza del Kosovo sarebbe `altamente
destabilizzante' per la
regione, ma rigetta ugualmente un ritorno
indietro quando la provincia
non aveva alcuna autonomia. `La posizione
dell'Italia è che
bisogna regolare la questione della qualità
delle norme
applicate in questa provincia prima di
affrontare il problema del suo
statuto', ha spiegato all'AFP un portavoce del
ministero, utilizzando
una formula sintetica inglese: `standards
before status' per spiegare
la posizione ufficiale. `Rimangono in Kosovo
molti problemi irrisolti e
in questo contesto la scelta di uno status
definitivo sarebbe una fuga
in avanti. Un'indipendenza sarebbe altamente
destabilizzante', ha
dichiarato Pasquale Terracciano, portavoce del
ministero a una
settimana dal viaggio che il capo della
diplomazia Gianfranco Fini
effettuerà nella regione" (http://195.62.53.42/pressreview/print_right.php?func=detail&par=12398).
Anche nella conferenza del 29 aprile Fini si
mostra cauto. Mentre
ribadisce l'importanza del ruolo degli USA, "senza i quali una
stabilizzazione
dell'area balcanica sarebbe difficilmente
concepibile", richiama
– diversamente dall'ICG e dalla commissione
Amato – il ruolo della
Russia, la centralità dell'ONU e la 1244, e
rimane molto vago
sul futuro, rigettando di fatto la proposta
Amato: "Non
possiamo indicare fin d'ora le
intese, che evidentemente saranno in grado di
definire il futuro del
Kosovo solo se sapranno incontrare il consenso
delle parti coinvolte"
(cfr. http://www.esteri.it).
15)
Cfr. la
tabella 22 dell'allegato al rapporto della
commissione internazionale
sui Balcani. Alla domanda: "Sarebbe meglio se,
sotto gli auspici della
comunità internazionale, fossero tracciati nuovi
confini nell'ex
Jugoslavia e ogni nazionalità consistente (large)
vivesse in un
territorio/stato separato", solo il 18%
disapprova, contro uno
schiacciante 72% (il rimanente 10% non
risponde). Anche in Albania la
stragrande maggioranza (68% contro un 20%) è
favorevole a Stati
etnicamente omogenei, mentre in tutti gli altri
Stati della ex
Jugoslavia gli intervistati dalla commissione
sono nettamente contrari
(Bosnia e Erzegovina: 55% contrari a stati
etnicamente omogenei contro
un 29%; Serbia: 53% contro un 19%; Macedonia:
68% contro 16%;
Montenegro 56% contro 14%).
16)
Cfr. The
Balkans in Europe's Future, op.
cit., p. 22.
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