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Slovenia "indipendente":

CANCELLATI / IZBRISANI / ERASED

dalla secessione anagrafica.

Documentazione raccolta in ordine cronologico inverso




Slovenia: cancellati, riconosciuto il danno

Stefano Lusa / Osservatorio Balcani, Capodistria 17 marzo 2014

Sono passati più di venti anni da quando i cosiddetti "cancellati", cittadini ex jugoslavi eliminati dai registri anagrafici della Slovenia, hanno iniziato la loro battaglia. Solo di recente Lubiana ha riconosciuto il loro numero effettivo. Ora in base ad una sentenza della Corte di Strasburgo dovrà risarcirli

La Corte europea per i diritti dell’uomo ha sentenziato che la Slovenia dovrà pagare un risarcimento complessivo di 240.000 euro a sei cittadini ex jugoslavi, che vivevano nella repubblica, per i danni materiali che hanno subito a causa della loro cancellazione dal registro dei residenti. La corte, nel giugno del 2012, aveva concesso ai sei uomini un risarcimento di 20.000 euro a testa per i danni morali subiti e aveva dato a Lubiana sei mesi di tempo per risolvere con loro la diatriba per i danni materiali, ma non se n’è fatto nulla e così la questione è nuovamente passata nelle mani dei giudici.

Come nascono i cancellati
Ma andiamo con ordine. La vicenda nasce con il processo d’indipendenza del paese. Nella federazione oltre ad essere cittadini jugoslavi lo si sera anche delle repubbliche. Quest’ultima categoria appariva del tutto ininfluente, almeno sino alla dissoluzione della Jugoslavia.
Lubiana promise che a coloro, con cittadinanza delle altre repubbliche, che lo avessero voluto, sarebbe stata concessa la cittadinanza slovena. Nelle nuove leggi sulla cittadinanza e sugli stranieri però venne fatto saltare un emendamento che avrebbe concesso il diritto di residenza anche a coloro che non avrebbero fatto direttamente domanda di cittadinanza slovena.
Il 26 febbraio del 1992, a poche settimane dal riconoscimento internazionale della repubblica, oltre 25.000 persone vennero cancellate dal registro dei residenti, che a quel punto divennero clandestine a tutti gli effetti. Quell’operazione venne condotta dai solerti funzionari del ministero degli Interni in un clima di consenso sociale altissimo e senza che ci fosse nessuna reale solidarietà nei confronti di coloro che da un giorno all’altro si videro privati di tutti i loro diritti. Si credeva che queste persone avessero avuto la possibilità di ottenere la cittadinanza e quindi di continuare tranquillamente a vivere nella repubblica, ma non avevano voluto coglierla.
In realtà quel 26 febbraio nessuno, o quasi, ebbe la percezione che qualcosa fosse cambiato, nemmeno i cancellati si resero conto di quello che era loro accaduto. Poterono condurre tranquillamente le loro esistenze finché non erano costretti ad espletare qualche semplice pratica.

Aleksandar Todorović
Aleksandar Todorović, che divenne il simbolo della lotta per i diritti dei cancellati, scoprì di non essere più iscritto nel registro dei residenti nel 1993, quando andò ad iscrivere sua figlia appena nata all’anagrafe. La solerte funzionaria gli chiese i documenti e li distrusse davanti a lui, poi si rifiutò di scrivere il suo nome sul certificato di nascita della bambina, che risultò figlia di padre ignoto.
A quel punto Todorović cominciò la sua battaglia. Ben presto si rese conto che non era l’unico a trovarsi in quella situazione, fondò un'associazione ed iniziò una guerra senza quartiere, legale e morale, tra lo scherno generale e qualche attestato di solidarietà. Per anni si espose in prima persona, mise persino in atto uno sciopero della fame davanti allo zoo di Lubiana per dire che gli animali avevano più diritti dei cancellati. Fu una vera e propria spina nel fianco per le autorità e per l’opinione pubblica slovena, costretta a dover prendere atto, suo malgrado che era stata messa in atto una palese violazione dei diritti dell’uomo.
Consumato dalla sua battaglia, bersaglio di aggressioni verbali e persino fisiche è morto suicida poche settimane fa. Immediatamente, Marko Štrovs, un viceministro del primo governo Janša ha cinicamente commentato, su Twitter, che Todorović è stato nuovamente cancellato dal registro della popolazione residente in Slovenia.

In tribunale
Sta di fatto ci sono voluti anni prima che la Corte costituzionale sentenziasse che la cancellazione era illegale. Da quel momento la classe politica slovena si è trovata tra le mani un problema che probabilmente avrebbe preferito non risolvere e di cui avrebbe preferito non parlare.
Solo nel 2003, quando Lubiana oramai era praticamente nell’Unione europea, iniziarono ad arrivare i primi moniti dal Consiglio d’Europa, ma la questione era oramai diventato un terreno di scontro in politica interna.
Nel 2004 la legge che avrebbe dovuto (almeno parzialmente) chiudere la questione, approvata con i voti del centrosinistra, venne bocciata grazie ad un referendum promosso dal centrodestra. L’allora astro nascente della politica slovena, il post comunista Borut Pahor, che ricopriva la carica di presidente del parlamento, all’epoca, si dimenticò di chiedere l’ammissibilità costituzionale, che avrebbe portato probabilmente ad una bocciatura del referendum.
Per arrivare ad una svolta si dovette attendere che al ministero degli Interni arrivasse la giovane leader demoliberale Katarina Kresal. Con un certo dinamismo e non curandosi troppo delle critiche, comunicò, prima, che il numero esatto dei cancellati non era di 18.000, ma di oltre 25.000 e poi mise in atto una serie di azioni legislative e amministrative che andarono a buon fine e che regolavano la questione dal punto di vista burocratico. Quello che, invece, la Kresal non fece fu toccare il capitolo dei risarcimenti per i danni subiti a causa della cancellazione.
I suoi detrattori, comunque, non mancarono di sottolineare che avrebbe mandato in bancarotta la Slovenia e che il paese avrebbe dovuto pagare ai cancellati somme stratosferiche.

Imposizione europea
Ad imporre e Lubiana di risarcire i cancellati però ci ha pensato la Corte europea per i diritti dell’uomo, che in pratica ha concesso, sommando danni morali e materiali, 230 euro di risarcimento complessivo per ogni mese vissuto da cancellato. In questo periodo, l’esecutivo sloveno, con tutta la calma che ha contraddistinto l’azione dei vari governi in questa vicenda, ha elaborato uno schema che prevede un risarcimento forfettario di 50 euro, che potrebbe triplicarsi in caso di ricorso in tribunale. Per i cancellati è troppo poco.
Ora lo scontro è tutto sulla lettura della sentenza di Strasburgo. Per il ministro degli Interni Gregor Virant la decisione dei giudici sarebbe in linea con lo schema di risarcimento approntato dal suo esecutivo, mentre per i cancellati il Tribunale europeo ha concesso indennizzi ben più cospicui.
Sta di fatto che i cancellati non si arricchiranno e che comunque, come ha fatto capire la figlia di Todorović, il danaro non potrà compensare la vita serena che lei e sua madre avrebbero potuto passare in tutti questi anni con suo padre.



LINKS:

Slovénie : enfin des compensations pour les « effacés » de la citoyenneté. Par Rodolfo Toè – Le Courrier des Balkans, lundi 25 novembre 2013

Cancellati, condanna per la Slovenia. Di Stefano Lusa – balcanicaucaso.org, 2 luglio 2012



La ragione dei cancellati di Ljubljana
di Roberto Pignoni - da Il Manifesto, 29 Giugno 2012

Martedì scorso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza davvero storica. Dopo il ricorso presentato esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006, da un gruppo di «cancellati», la Corte ha ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune gravissime violazioni dei diritti umani, riferite all'art.8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), all'art.13 (diritto a un rimedio legale effettivo) e all'art.14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando, inspiegabilmente, alcune posizioni particolari, la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma significativo, delle decine di migliaia di cittadini che furono illegalmente privati della «residenza permanente» il 26 febbraio '92, così perdendo ogni diritto civile, politico, economico e sociale. Un'operazione di pulizia etnica in guanti bianchi, portata a termine con un colpo di mouse davanti ai terminali dei computer del Ministero degli Interni sloveno, e passata per anni inosservata nonostante gli effetti devastanti su migliaia di famiglie (l'ultima stima governativa ammette la «cancellazione» di 25.671 persone).
La decisione della Corte, assunta dalla Grande Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche perché applica la cosiddetta «procedura pilota», imponendo al governo sloveno di predisporre, entro un anno, uno schema di risarcimento per tutti i «cancellati». Al di là delle implicazioni economiche «da panico» per i media di Ljubljana, il dato politico è di enorme rilevanza: da martedì scorso la «cancellazione» è ufficialmente riconosciuta come un crimine contro i diritti umani. La sentenza seppellisce una volta per tutte il mito della success story slovena, di una secessione incruenta, condotta nel pieno rispetto dei principi democratici. Vent'anni fa, a Ljubljana, fu fissato un paradigma che prefigura nella forma più estrema e crudele il processo di spoliazione progressiva dei diritti che minaccia la società europea. Perché dai «cancellati» abbiamo imparato che Kafka è un autore neorealista: si limita a fotografare la realtà - con 80 anni d'anticipo.
Pirano, Slovenia, 1992. Un uomo svolta l'angolo sulla via di casa e intravvede dei poliziotti che gettano in strada le sue cose. Nato da genitori sloveni e cresciuto a Pirano, Milan Makuc si sente sloveno, ma per il nuovo stato indipendente è «solo jugoslavo». A sua insaputa, è stato cancellato dai registri di residenza permanente della Repubblica, perdendo tutto: casa, lavoro, assistenza sanitaria... Dall'appartamento, passa a una panchina del cortile. Sopravviverà grazie al buon cuore di qualche ex-concittadino. Quando l'abbiamo rintracciato, portava i segni di quattordici anni di «cancellazione»: un tumore gli mangiava il volto, nessun ospedale disponibile a curarlo. Dovettero farlo, quando sul tavolo della Corte di Strasburgo arrivò un fascicolo intitolato: «Milan Makuc e 10 altri c. Slovenia». Non era stato facile convincere Milan, temeva per la propria vita. «Sai, attraverso la strada, arriva una macchina, nessuno si accorgerà di niente...». Infine si decise, affidandosi all'ombrello della giustizia europea.
Il nostro gruppo si chiamava Karaula, come le caraule partigiane: piccole unità clandestine, ancorate ai colli fra Friuli e Slovenia. Avevano il compito di garantire i rifornimenti, assicurare i contatti fra le formazioni, raccogliere gli sbandati... La nostra si occupava di difendere i migranti. L'intervento spaziava dai campi rom della capitale agli scenari della memoria storica: con alcuni giovani di Ljubljana, girammo un documentario sui campi di concentramento fascisti in Friuli - compresi quelli di ultima generazione. Intervistavamo la gente all'uscita dalla messa di Pasqua, a Gradisca d'Isonzo, mentre il Cpt (oggi Cie) era in costruzione: «Scusi, ci sono dei campi di concentramento nei paraggi?» «Per adesso no...». Analizzando le tipologie di persone che finiscono nei lager attuali, che a volte (è il caso di Gradisca) vengono realizzati in perfetta continuità con quelli di ieri, c'imbattemmo nei «cancellati».
In Slovenia, con un'operazione segreta, decine di migliaia di cittadini erano stati trasformati in morti viventi, uomini senza diritti. Per mesi, a volte anni, molti di loro hanno continuato a esercitare, come per inerzia, le attività abituali. Un bel giorno venivano fermati dalla polizia, o entravano in un ufficio per rinnovare un documento. «Ci porti anche il passaporto...». Lo bucavano sotto i loro occhi, con un'apposita foratrice di metallo.
Le istituzioni europee fingevano di non vedere, compresi i nostri campioni, Romano Prodi e Riccardo Illy. Non c'era avvocato, in Slovenia, disposto a difendere i «cancellati». Così, anche dopo il primo articolo di denuncia di Tommaso Di Francesco sul manifesto del maggio 2004 che di fatto aprì la campagna, decidemmo di cercarlo in Italia. La caraula tenne fede al suo nome, assicurando un'efficace connessione fra movimento sloveno e italiano. I «cancellati» manifestavano a Gradisca, i compagni di Monfalcone in Slovenia. Ognuno fece la sua parte, dai centri sociali del Nord-Est alla Fiom, fino alla pattuglia di parlamentari del Prc a Bruxelles. L'idea del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani la dobbiamo ai rom del Casilino: aveva funzionato cinque anni prima, quando l'avvocato Luigi Lusi s'era fatto carico, su mandato di Rutelli, di ripulire la capitale dagli zingari nell'anno del Grande Giubileo.
Per mesi, a Ljubljana, un gruppo di giovani ha intervistato persone, raccolto dati, interpretato e tradotto leggi, certificati, circolari. Lavoro militante, senza un centesimo in cambio. Al più una birra e un piatto di cevapcici offerti dai «cancellati». Periodicamente ci fiondavamo a Roma a concordare con gli avvocati, Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, la strategia da seguire. Carla Casalini ci ospitava la domenica, nella pagina europea del manifesto, dandoci modo di perfezionare lo stile e affilare le armi. Ne uscì un'iniziativa robusta, per la qualità della documentazione e l'eccellente contributo tecnico dei legali dello studio Lana.
Non era un compito facile: le regole della Corte paiono fatte apposta per tenere alla larga chi ne ha veramente bisogno. Al fine di garantire l'ammissibilità del ricorso, selezionammo undici casi fra centinaia di «candidati». Il 26 giugno, a Strasburgo, degli undici siluri lanciati nel 2006, sei hanno centrato il bersaglio.
Fra quelli che non ce l'hanno fatta, Velimir Dabetic. Nato a Capodistria (Slovenia) nel '69, era in Italia per lavoro e dopo la «cancellazione» non è potuto rientrare nel suo paese. Da dieci anni s'aggira per la riviera romagnola facendo il saltimbanco: i suoi due collaboratori sono in regola, iscritti all'anagrafe canina, ma Velimir non ha uno straccio di documento. Ogni tanto i poliziotti lo fermano, lo tengono dentro per un po', poi lo mollano. Un paio d'anni fa gli hanno notificato un decreto di espulsione verso... la Romania.
La Corte di Strasburgo aveva atteso quattro anni, prima di dar ragione a Velimir, nel 2010. L'altro giorno ci ha ripensato: a vent'anni e quattro mesi esatti dal 26 febbraio '92, ha deciso che Velimir Dabetic, apolide e senza mezzi di sussistenza, deve restare «cancellato» a vita.
Nemmeno Milan Makuc godrà i benefici della sentenza. Fu trovato morto qualche anno fa, nella misera stanza che gli aveva concesso la municipalità di Pirano. Il suo corpo venne cremato a tempo di record, senza informare i familiari. Accade anche in Italia, fra rom e «clandestini» - i nostri «cancellati».
Al funerale parteciparono una decina di persone. Con involontaria ironia il prete ricordava ai presenti che non abbiamo, su questa terra, «residenza permanente». Si formò un piccolo corteo, preceduto da un becchino in uniforme, con una bandiera nera. Dopo la cerimonia, abbiamo scoperto che era un «cancellato» pure lui. Reggeva il vessillo con la fierezza di un alfiere, scortando l'urna di Milan lungo i viali del magnifico cimitero di Pirano - un'isola di luce, battuta dalla brezza marina, dove le lapidi parlano tutte le lingue d'Europa.



Slovenia: Strasburgo conferma risarcimento per 'cancellati'
Corte diritti umani a difesa di chi fu privato residenza

ANSAmed, 27 GIUGNO 2012

(ANSAmed) - LUBIANA, 27 GIU - La Corte europea per i diritti umani ha confermato in seconda istanza il suo verdetto del 2010 secondo il quale la Slovenia ha violato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo quando nel 1991, al momento del raggiungimento dell'indipendenza, cancello' circa 25 mila persone senza la cittadinanza slovena dal registro dei residenti, in prevalenza originari dalle altre ex repubbliche jugoslave. Secondo la stampa slovena, che riporta fonti di Strasburgo, la Corte ha confermato che i cosiddetti ''cancellati'' hanno diritti a un risarcimento di 20 mila euro ciascuno. La denuncia contro la Slovenia era stata presentata da undici persone, e la Corte ha ordinato alle autorita' di Lubiana di trovare entro un anno un meccanismo per restituire ai cancellati in modo retroattivo il diritto di residenza, negato vent'anni fa. Secondo i giudici, la Slovenia ha violato gli articoli della Convenzione che proteggono la vita familiare e la privacy dei cittadini verso i quali si e' comportata in modo discriminatorio. In Slovenia, il ministro dell'Economia, Radovan Zerjav, ha subito espresso il disappunto del governo di Lubiana, ''che quest'anno non avra' i soldi per pagare i risarcimenti''. Il ministro si e' anche detto molto preoccupato perche' il verdetto di Strasburgo potrebbe essere poi adoperato come precedente anche da altri 25 mila ''cancellati'' per chiedere un risarcimento. ''Nel caso la Slovenia dovesse risarcirli tutti allora sara' un grande problema perche' stiamo parlando di cifre che fanno paura''. ''Tutto quello che siamo riusciti a risparmiare con le misure di rigore e i tagli dovrebbe essere pagato solamente in questi risarcimenti'', ha osservato il ministro. (ANSAmed).




LINK: Il difensore. Di Stefano Lusa - osservatoriobalcani.org, 23.07.2009.



Radiati dai registri sloveni 
Tre anni fa la «carovana dei cancellati» arrivò a Bruxelles. Ma nulla è cambiato

Da Il manifesto del 24/02/2007, pag. 18
 
Dei 200.000 cui Lubiana nel 1991 revocò il permesso di residenza, dopo il 1992 170mila riescono a presentare domanda nei tempi previsti riottenendo la cittadinanza, 11mila scelgono di emigrare. Gli altri 18.305 vengono radiati dai registri il 26 febbraio 1992, perdendo ogni diritto civile, sociale e politico. Una seconda possibilità viene offerta dal governo nel 1998, ma solo per chi risiede permanentemente nel paese. Oggi circa 6000 restano senza cittadinanza: molti vivono illegalmente in Slovenia, altri sono stati espulsi. Chi è riuscito a riottenere la residenza permanente sconta comunque le conseguenze di anni di irregolarità. Il 29 novembre 2006 la «Carovana dei cancellati», una delegazione di 40 persone partita da Lubiana con il sostegno degli eurodeputati italiani Giusto e Musacchia, membri della Commissione Ue e Comitati Onu, raggiunge Bruxelles, dove è ricevuta in seduta straordinaria dal Parlamento europeo. Ma il 9 febbraio scorso il commissario per la libertà, sicurezza e giustizia Frattini dichiara: «La questione non è di competenza della Commissione europea». Il 4 luglio 2006 11 cancellati, tra cui Ali Berisha, hanno presentato un ricorso collettivo presso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo (Makuc e altri contro la Slovenia), che promette di esaminarlo con procedura d'urgenza. Vi si legge: «La cancellazione è un problema europeo, perché viola i diritti umani fondamentali previsti dalla Convenzione Ue». Nel 2008 la Slovenia assumerà la presidenza di turno della Ue.  



LINK: Non è affar nostro. Di Franco Juri - osservatoriobalcani.org, 9 febbraio 2007



Slovenia's Vanishing Act
The former Yugoslav republic made 18,000 people disappear in the blink of an eye. Now it wants the world to forget its experiment in ethnic cleansing.

By Chris Colin - From Mother Jones, January 11, 2007


It should be strange talking to someone who doesn't exist. But Zoran Ilič, stubbing out a cigarette in my Ljubljana apartment, is disappointingly ordinary: watery blue eyes, a refrigerator's physique, likable laugh lines across his face. For all that's happened to the amiable middle-aged locksmith, what's hardest to comprehend lies over his right shoulder, around the sparkling river and polished cobblestone outside my kitchen window. Modern, thriving, and lovely, 21st-century Slovenia is increasingly hailed as an enlightened jewel in Europe's crown. How could such a place do what it did to Ilič?

If you're picturing snipers and bombed-out buildings, you're thinking old Balkans. Slovenia prides itself on being a safe, prosperous, sophisticated exception — a peaceful place where you can have breakfast under a palm tree in Piran and lunch atop the Julian Alps in Bovec. "God's blessing on all nations," its big hearted national anthem begins. The national hero isn't a general but a poet. The euro was adopted in January. These days the newly hip country spends its days polishing its vanilla image; in the offing are the presidency of the European Union and a general luxuriating in global capitalism.

Ignorance of Slovenia is a forgivable sin — President Bush once confused it with Slovakia — and anyway, it's generally a good thing if you're a former Yugoslav republic that's stayed out of the headlines. Slovenia seceded from the failing socialist federation in 1991 with scarcely a murmur. After a crisp little 10-day war, the country made a quick shimmy toward Europe, pointing out to anyone listening that it had always belonged in that more civilized association anyway. In the 15 years since independence, Slovenia has reinvented itself as the sole Balkan "success story," as the breathless write-ups routinely put it; a pearl squeezed forth from the frictions of communism and capitalism, East and West, ancient and modern. Balkanism, with all its grim complexity and bloodshed, has become a shelled facade receding in the rearview mirror.

But objects in the mirror are sometimes closer than they appear. Which brings us to Ilič's nightmare. He moved to Ljubljana in 1969, leaving his tiny Serbian village for "the big city." A Yugoslav could move about freely then, and Ilič loved his new home immediately. He began a career as a locksmith, married a Slovene, started a family, and embarked on a pleasantly ordinary life.

In 1992, Ilič was at a municipal office, filling out some form or other. From behind the counter came an odd reply: Not only was Ilič not a Slovenian resident, the cheery official informed him; there was no record of his existence whatsoever. This would have been merely aggravating, in a head-slapping, DMV kind of way, were it not for the dawning dread: Ilič's pension, health insurance, driver's license, and right to legal employment had all disappeared with his identity — he couldn't even check out a library book. Any hope of this being a computer glitch vanished when he returned to the office a few days later. A similar fate had apparently befallen others, and he stared as the armfuls of documents they'd brought in were shredded before their eyes.

"I was watching them put holes in people's paperwork," Ilič recalls. "Everyone was crying and screaming; some women fainted. Later, the suicides. We were told we didn't exist anymore, by these people behind the counter we'd gone to school with." The consequences went beyond red tape. "Suddenly at block parties, our neighbors would have a little to drink and then start telling me to 'go home.' Even my wife's family told her to 'leave this guy.' Everything had been fine before." He shakes his head. "It's like that glass there," he says, pointing to my kitchen counter. "One day you just bring it down to the basement."

Ilič was one of more than 18,000 nonethnic Slovenes who awoke one day to find they'd been completely deleted from the country's registry of permanent residents. (For proportion's sake, that's the equivalent of 2.6 million people in the United States.) The "Erased," as they came to be known, were almost exclusively "new foreigners" from other ex-Yugoslav republics — Serbs, Bosnians, Croats, Kosovars, and Roma (not to be confused with "old foreigners" such as Italians or Hungarians). Many had called Slovenia home all their lives, and ethnic distinctions had been effectively meaningless under the Yugoslav umbrella. Their crime? Failing to gain citizenship in the chaotic first months after Slovenia's declaration of independence, when, in what seemed like an obscure bit of bureaucracy, as many as 200,000 minorities were asked to register as citizens in the newly formed country — a requirement waived for their Slovenian-born neighbors.

The Slovene government has maintained that the Erased were victims of their own failure to turn in their paperwork — a failure reflecting their hostility toward Slovene independence, their allegiance to Yugoslavia, and so on. "Why should those who hoped for the Yugoslav Army to return be given certain privileges?" Andrej Umek, a senior member of the Slovene People's Party, asked the New York Times. But Matevz Krivic, a former constitutional court judge and now an advocate for the Erased, believes the registration issue is a red herring. "With 80 to 90 percent I've interviewed, I say, 'For God's sake, why didn't you apply?,' and they answer, 'I did!'"

Most of the Erased did eventually acquire citizenship, but for the 18,305 who didn't, it's been a miserable and often untenable existence — the product of what the human-rights group Helsinki Monitor has called "administrative genocide." Families have been forced into poverty, pensions canceled, children denied schooling or informed their parents don't exist. It's unknown how many Erased have died from lack of medical care, though human rights groups have documented many instances. Some were deported, others driven to leave on their own. Twice, in 1999 and 2003, the country's constitutional court has ruled the mass denationalization to have been illegal, but the government has ignored these rulings.

A number of recent developments may force the Slovenian government to finally resolve the matter, though considerable political leverage evaporated once the country was admitted to the EU. In March 2006, the outgoing commissioner for human rights for the Council of Europe reiterated his call for Slovenia to restore full rights to the thousands still without legal status. In July 2005, the United Nations Human Rights Committee called on Slovenia to seek similar resolution, and four months later Amnesty International urged full reparation for the Erased and guarantees they wouldn't face future persecution. Last July, a group of Italian and Slovenian lawyers filed a lawsuit on behalf of the Erased at the European Court of Human Rights.

There's also been a change among the Erased themselves. Though the vast majority still keep their identities hidden — deportation's always a possibility, public disdain a certainty—a growing number are coming out of the shadows to participate in the loosely knit Association of the Erased. For all the suffering he's seen, Aleksandar "Aco" Todorović, the association's founder, tells me the most difficult part has been watching his nation so successfully convince itself and the outside world of Slovenia's general virtuousness. This February marks the 15th anniversary of the country's illegal act of denationalization, and the matter will be thrust into the spotlight again, possibly forcing an old term back into circulation at this unlikely moment in Slovenia's history: ethnic cleansing.

But to make any headway, the Erased first must combat a number of myths, most significantly that they themselves were responsible for what happened. "I don't think we can talk about 3,000 kids being 'opposed to Slovenia,'" Todorović says, referring to the estimated number of children who were taken off the books. For him, it's a no-brainer that Erasure was intentional. Ilič, whose son was erased when he was six, concurs: "Of course we never had a choice! We have a child — what parent would knowingly disregard their child's well being? Then they say I opposed independence — I voted for independence! They don't even care if their lies make sense!"

But the Erased still have to convince the general public that the country's been duped. In April 2004 a controversial referendum put support for restoration of the Erased's rights at less than 6 percent. Even after a newspaper published documents indicating erasure was deliberate and premeditated, little changed. The government's defense remains a one-two punch of obstinacy and obfuscation. "Nobody was erased, nobody was erased," mutters Bojan Trnovšek, director general for the Internal Administrative Affairs Directorate at the Ministry of the Interior — the office responsible for erasure — as he stacks a mountain of papers on his desk. "They are 'persons without status in Slovenia,'" Nina Gregori, the undersecretary at the ministry, tells me hastily. "It's very complicated."

TO SPEND TIME IN SLOVENIA'S pristine, hospitable towns is to wonder: How does such a thing happen here, a place where so-called outsiders have often intermarried with native Slovenes? Ironically, part of the impetus seems to have come from a wish among Slovenes to distance themselves from the nationalist madness elsewhere in the Balkans — it just so happened that purging some of its residents looked like the best way to get that distance. But at an even deeper level, there lies a genuine fear of extinction.

Slovenia has always belonged to someone else, from the Holy Roman Empire to the Habsburgs to Tito's Yugoslavia. Finally on its own after so many centuries, it finds itself vanishing. Its tiny population has the lowest fertility rate in the EU, and a weak economy pushes its young people abroad. People over 80 are expected to be the single largest demographic group by 2050. Coupled with the anxiety of adopting capitalism, these worries lead to troubling conversations about purity. "We're a peaceful country and we're disappearing," a New Agey young artist named Gregor tells me, before blaming "the vulgar Croats and Bosnians" for filling the void. "They gave Slovenia loud music and curse words. It used to be '400 devils' was the worst you could say here."

Slovenia's version of nationalism was downright charming compared to Milosevič's butchery just over the border. But as John Dalhuisen of the Council of Europe's Office of the Commissioner for Human Rights suggests, charming is how you wind up in the EU rather than the Hague. "How did they get away with this? Compare them to their neighbors," he says. "Anyone who hasn't fired too many bullets in the area in the last 15 years looks pretty good."

ON A COLD, BRIGHT DAY last February, the ragtag Association of the Erased descends nervously on Ljubljana's parliament building for a peaceful sit-in at a National Assembly session. For many, this is their first time publicly identifying themselves, much less risking confrontation. When they arrive, the building is uncharacteristically flanked by police, who inform Todorović it has been closed to the public for the day.

Todorović huddles with the two dozen novice activists and an alternate plan soon materializes. One by one, they march back and forth across a nearby crosswalk, Abbey Road-style, as traffic builds up behind them. The hastily conceived strategy is meant to draw attention to the cause, and to the fact of the cause. Indeed, Todorović tells me later, he sees the association as standing up against the country's broader slide toward exclusionism — as evidenced by bizarrely repressive new asylum laws, a long-running ban on building a mosque in Ljubljana, institutional homophobia, and what Dalhuisen describes as "a certain reactionary core." If opposing the Erased can be populist political shorthand for proving one's Slovene patriotism, Todorović says, the Erased themselves can be shorthand for opposition to all Slovene intolerance. In December, when the Slovene government made international headlines for forcibly evicting a Roma settlement after a mob made death threats and torched one of the homes, many Erased activists rushed to protest the action.

Back at the parliament building, half the drivers honk angrily, while the other half just stare at the gray-haired and rural protesters. "At least it slows the final transition to global capitalism by a few minutes," sighs Andrej Kurnik, an activist and political science professor. Two hours and one near-scuffle with the police later, the Erased trickle back to their cloistered lives; a kind of shrugging is in the air. Todorović seems to sense it, but the wispy former archaeologist says he'll keep fighting: "Slovenia created this wonderful stereotype of itself to get where it wants to go, this exclusive place far from Yugoslavia. I have to register the truth."

As for Zoran Ilič, it's hard to say whether his goals are more or less ambitious in the end. "What do I want?" he asks. "I lived here 36 years and put so much energy into this country. They say I want all the money that's owed to me, all the wages and insurance and pension they took. But that money comes from my kids' futures, and my kids have already suffered enough. I just want my citizenship."

Like many, Ilič was told his only hope was in returning to war-torn Serbia to find documentation of his and his son's existence. But Serbia had no papers for the boy, as he'd been born in Slovenia. "Good," Ilič recalls thinking at the time. "Now we can move to the moon." Ilič's son's status was quietly restored after a lengthy fight. (Roughly 12,000 of the Erased have been "regularized" as new permanent residents, thereby keeping pensions and reparations out of reach.) "We had to get a divorce, on paper anyway, so my wife wouldn't have my last name," he adds. "It's been horrible, but at the same time I'm blessed, because my family is strong. Not all are so lucky."

Indeed, a number have found the strain unbearable. A few weeks after the parliament protest, Todorović tells me about recruiting a fellow Erased named Dragan when the association was first coming together. Dragan was Todorović's neighbor — a "calm and peaceful" father of two who'd "lost everything, like all of us." The last time Todorović saw him, a decade of extreme poverty and shame had caught up with him; he could no longer bear to eat a single piece of bread, as he considered it food from his daughters' mouths. Two days later, he threw himself under a train. Todorović lingers quietly on this memory for a moment, and then he pushes back from our cafe table. "More to do," he says, and he's gone.

Chris Colin is the author of What Really Happened to the Class of '93, and lived in Slovenia for much of 2006.



In Slovenia il popolo dei 4mila «cancellati» spera nella sentenza della Corte europea
Milan Makuc, 59 anni, racconta la sua storia di uomo senza identità dopo la dissoluzione della Jugoslavia

di Claudio Ernè - da Il Piccolo, 31/12/2006

TRIESTE Si chiama Milan Makuc, ha 59 anni e vive da solo in una angusta stanza di un gelido edificio di Pirano. E' uno dei quattromila «cancellati» che popolano la Repubblica di Slovenia: uomini e donne privi di diritti civili o con diritti grandemente compromessi: niente lavoro, niente passaporto, niente pensione e assistenza sanitaria, nessuna proprietà. Oggi però alla mezzanotte Lubiana entra a pieno titolo nell'Unione Europea e questi quattromila «fantasmi» sperano che la Corte europea dei diritti dell'uomo si pronunci presto e restituisca loro tutto ciò che a partire dai primi Anni Novanta il governo sloveno ha loro tolto e negato. In primo luogo la dignità di uomini.
Milan Makuc, ex cameriere dei bordo, ha perso ogni diritto nel 1992, dopo aver dimenticato di iscriversi all'anagrafe come cittadino del nuovo Stato nato dalla dissoluzione della Jugoslavia postcomunista. Sembrava una svista, una dimenticanza. Invece questa mancata iscrizione lo ha trasformato prima in un barbone, poi in un una sorta di clandestino in Patria. Nella stessa situazione si sono trovati esattamente altri 18.305 esseri umani che pur vivendo da anni e anni sul territorio sloveno, hanno scordato di iscriversi all'anagrafe della Nuova repubblica. All'atto dell'indipendenza, il 25 giugno 1991, Lubiana aveva promulgato due leggi che regolavano i diritti di cittadinanza e la permanenza degli «stranieri» sul suolo della repubblica.
Il termine «stranieri» indicava nel nuovo Stato sloveno soprattutto gli ex cittadini della Jugoslavia federativa: serbi, montenegrini, albanesi, kosovari, bosniaci e croati che erano saliti verso il Nord di quello che era lo Stato degli slavi del Sud.
Milan Makuc, il protagonista di questa storia, non è un immigrato giunto dal Sud. Tutt'altro. I suoi genitori erano sloveni e lui aveva combattuto nel 1991 contro l'Armata federale. Credeva nell'indipendenza. Ma qualche ottuso burocrate dopo aver scoperto che si era scordato di presentare la regolare domanda di cittadinanza, aveva individuato un altro «neo» nel suo pedigree.
Era nato nel 1947 in un paesino dell'Istria meridionale, dove suo padre si era trasferito per lavorare come minatore. Nella Stato del maresciallo Tito questo trasferimento era più che usale. Anzi rappresentava un titolo quasi di merito. Invece dopo l'indipendenza di Lubiana si è rivelato un boomerang.
Quel paesino dell'Arsia è sempre stato in territorio croato e dunque Milan Makuc agli occhi del funzionario di polizia che sovraintendeva
all'anagrafe di Pirano, è diventato uno «straniero» e per di più riottoso, perché non aveva presentato domanda di cittadinanza. Per questo lo avevano cancellato d'ufficio dai registri di Stato civile. Un uomo senza identità e soprattutto senza alcun diritto e senza futuro.
«Nel 1994 rientrando a casa ho visto posteggiate accanto all'ingresso due auto della polizia. Gli uomini in divisa mi stavano svuotando
l'appartamento.
Buttavano tutto nei cassonetti delle immondizie. Anche i documenti, i libri, tutto ciò che la mia famiglia aveva raccolto e conservato nel corso della sua vita. Non ho urlato, non sono interventuto. Anzi mi sono nascosto per la vergogna e ho pianto. Da quel giorno ho iniziato a dormire sulle panchine e nei sottoscala. Avevo paura, ero diventato un barbone».
Identica «cancellazione» hanno subito altre 18.305 persone grazie nall'interpretazione che della legge sulla cittadinanza aveva fatto il Ministero degli Interni di Lubiana. per anni e anni le proteste di questi 18 mila esclusi e di chi riteneva ingiusto e inumano il trattamento loro riservato, non hanno avuto esito. La «Fedina etnica» ha continuato ad escluderli da ogni diritto fino al 1999 quando la Corte Costituzionale slovena ha intimato al Governo di Lubiana di annullare le cancellazioni effettuate dai funzionari del Ministero degli Interni e di reintegrare i cittadini nei loro diritti con effetto retroattivo. La sentenza non ha avuto esiti pratici e il Governo ha fatto orecchie da mercante. Il Parlamento è rimasto in silenzio, tant'è che nel 2003 la Corte costituzionale ha dovuto riaffrontare il problema dei cittadini «fantasma». Ma i 18 mila si era drasticamente ridotti di numero.
Qualcuno era morto, altri si erano suicidati, altri ancora erano emigrati come apolidi in vari Paesi europei. Qualcun altro, in grande e imbarazzato silenzio delle autorità era stato anche «reintegrato» parzialmente nei propri diritti civili. Quattromila al contrario non hanno ottenuto nulla e sono rimasti dei «fantasmi», dei «cancellati» degli sloveni impuri con le fedine etniche comunque macchiate. Al loro fianco da tempo si sono schierati i movimenti non solo sloveni per i diritti civili e il 4 luglio scorso la vicenda di Milan Makuc e dei suoi compagni di sventura, è approdata alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il ricorso è stato preparato da uno studio legale romano e in dettaglio dagli avvocati Antonio Giulio Lana e Andrea Saccucci, un giovane udinese trasferitosi nella capitale italiana. I giudici della Corte europea hanno assegnato alla trattazione del ricorso la «procedura d'urgenza». Al momento della sentenza Lubiana dovrà rassegnarsi e reintegrare i cittadini fantasma, nei loro diritti con piena retroattività. Ecco perché Milan Makuc, ex cameriere di bordo, dice: «ce la faremo con l'aiuto dell'Europa».


Operaio senza diritti in patria, clandestino in Italia

TRIESTE Non c'è solo Milan Makuc a sperare in una soluzione veloce del problema dei «cancellati». Di recente è emersa anche al storia di Velemir Dabetic, nato a Capodistria e trasferitosi regolarmente in Italia per lavorare come operaio. E in effetti ha lavorato prima a Verona e poi a Vicenza finché il suo passaporto jugoslavo è stato considerato valido dalle autorità italiane. Anche lui si è scordato di iscriversi all'anagrafe come prescrivevano le leggi promulgate dal nuovo Stato sloveno.
Il passaporto non gli è stato rinnovato da Lubiana e lui dopo essere stato «cancellato»e nel nostro Paese è stato retrocesso a clandestino. E'
stato bloccato dalla polizia ed espulso dall'Italia. «Non è mai stato chiarito verso quale Paese avrebbe dovuto dirigersi. Lui è nato a Capodistria da genitori serbi ma la Slovenia non lo vuole perché non ha i documenti necessari» spiega Roberto Pignoni che con la sua compagna Ursula Lipovec si occupa tra Roma, Lubiana e il Friuli Venezia Giulia dei diritti dei «cancellati».
Velemir Dabetic è stato prima rinchiuso in un Centro di permanenza temporanea, poi, bloccato come clandestino una seconda volta, è finito anche in carcere in base alla legge Bossi-Fini. E' stato processato e scarcerato e ora vive, sempre da clandestino, tra Pesaro e Ancora.
«Era un promettente campione di scacchi» racconta Roberto Pignoni. «Ma ha avuto il torto di dimenticare o forse non saper visto che lavorava in Italia che andava presentata la domanda di cittadinanza. Quando lo ha fatto era fuori dai termini stabiliti e il suo nome è stato cancellato dall'anagrafe di Capodistria».
Secondo il Movimento dei diritti civili che opera in Slovenia, spesso la polizia informava chi era in ritardo sulla necessità della nuova richiesta. Solo che sceglieva su base spesso etnica, chi rendere edotto e chi no. In questo modo si è attuata nella vicina repubblica una pulizia etnica strisciante, a cui, purtroppo, ha dato il proprio contributo anche la legge Bossi -Fini, incarcerando i cancellati-clandestini.



LINK: Rom e cancellati: amnesia europea. Di Franco Juri - osservatoriobalcani.org, 30.11.2006
LINK: La carovana dei cancellati: da Lubiana a Bruxelles. osservatoriobalcani.org, 23 novembre 2006

LINK: Un Videoreportage sui cancellati (in inglese) / VIDEO ON "ERASED" PEOPLE IN SLOVENIA



UE: CATANIA (PRC), GRAVE SILENZIO SU 'CANCELLATI' SLOVENIA

ANSA, TRIESTE, 17 novembre 2006

''E' un fatto inquietante che l' Europa resti muta davanti a questa violazione dei diritti umani e civili'': ad affermarlo
e' stato l' europarlamentare di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea, Giusto Catania, che oggi a Lubiana (Slovenia) ha partecipato ad
una conferenza stampa sulla vicenda dei cosiddetti 'cancellati' quei cittadini ex jugoslavi ma residenti di fatto in Slovenia che dal 1992,
dopo la nascita della nuova Repubblica, sono stati cancellati dal registro dell' anagrafe. ''Ho presentato un' interrogazione parlamentare
su tutta la vicenda dei cancellati e - ha aggiunto - in particolare sul caso di Ali Berisha, un 'cancellato' che rischia la deportazione in
Kosovo pur vivendo da sempre in Slovenia''. Oggi a Lubiana e' stata presentata l' iniziativa della 'Carovana dei cancellati' che lunedi' 27
novembre tocchera' anche Trieste e Monfalcone per poi raggiungere Parigi ed infine Bruxelles dove, mercoledi' 29 novembre, una delegazione incontrera' il vicepresidente della Commissione Ue, Franco Frattini, e diversi parlamentari di varie formazioni. La 'Carovana' vuole infatti sensibilizzare il governo sloveno e l'Ue sulla questione che coinvolge ''oltre 18 mila persone che vivono in una condizione di assoluta clandestinita'''. ''La vicenda dei cancellati - ha continuato Catania - e' un fatto europeo e questa vicenda deve essere risolta prima che la Slovenia sia presidente di turno dell' Unione europea nel 2008''. Dopo la conferenza stampa a Lubiana una delegazione di Rifondazione Comunista con il segretario regionale del Friuli Venezia Giulia, Giulio Lauri, e il consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia Igor Canciani si e' recata nel Centro di permanenza temporanea di Postumia (Slovenia) a visitare Berisha e la sua famiglia che sono rinchiusi nel Centro. ''E' molto grave - ha affermato Catania - che dentro il Centro ci siano dei minori e perfino un bambino di quattro mesi evidentemente malato. Tutto questo - ha detto - non e' accettabile in un' Europa civile e abbiamo chiesto alla Commissione europea di sospendere la deportazione di Berisha e di farlo uscire dal Centro di permanenza temporanea. Abbiamo appreso con grande sconcerto che questo Cpt e' stato costruito con soldi dell' Unione europea e - ha concluso Catania - che nel corso di questo ultimo anno oltre 60 minori vi sono stati rinchiusi. Tutto questo - secondo l' europarlamentare - e' contrario alla legislazione europea e alle convenzioni internazionali di tutela dell' infanzia''. (ANSA). KXH/MST 17/11/2006 16:43



LINK: Slovenia: cancellati, vergognoso silenzio della Commissione europea. Di Franco Juri - osservatoriobalcani.org, 20 aprile 2004





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