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Slovenia "indipendente":
CANCELLATI / IZBRISANI /
ERASED
dalla
secessione anagrafica.
Documentazione
raccolta in ordine cronologico inverso
Slovenia:
cancellati, riconosciuto il danno
Stefano Lusa / Osservatorio Balcani,
Capodistria 17 marzo 2014
Sono passati più di venti anni da quando i
cosiddetti "cancellati", cittadini ex
jugoslavi eliminati dai registri anagrafici
della Slovenia, hanno iniziato la loro
battaglia. Solo di recente Lubiana ha
riconosciuto il loro numero effettivo. Ora in
base ad una sentenza della Corte di Strasburgo
dovrà risarcirli
La Corte europea per i diritti dell’uomo ha
sentenziato che la Slovenia dovrà pagare un
risarcimento complessivo di 240.000 euro a sei
cittadini ex jugoslavi, che vivevano nella
repubblica, per i danni materiali che hanno
subito a causa della loro cancellazione dal
registro dei residenti. La corte, nel giugno del
2012, aveva concesso ai sei uomini un
risarcimento di 20.000 euro a testa per i danni
morali subiti e aveva dato a Lubiana sei mesi di
tempo per risolvere con loro la diatriba per i
danni materiali, ma non se n’è fatto nulla e
così la questione è nuovamente passata nelle
mani dei giudici.
Come nascono i cancellati
Ma andiamo con ordine. La vicenda nasce con il
processo d’indipendenza del paese. Nella
federazione oltre ad essere cittadini jugoslavi
lo si sera anche delle repubbliche. Quest’ultima
categoria appariva del tutto ininfluente, almeno
sino alla dissoluzione della Jugoslavia.
Lubiana promise che a coloro, con cittadinanza
delle altre repubbliche, che lo avessero voluto,
sarebbe stata concessa la cittadinanza slovena.
Nelle nuove leggi sulla cittadinanza e sugli
stranieri però venne fatto saltare un
emendamento che avrebbe concesso il diritto di
residenza anche a coloro che non avrebbero fatto
direttamente domanda di cittadinanza slovena.
Il 26 febbraio del 1992, a poche settimane dal
riconoscimento internazionale della repubblica,
oltre 25.000 persone vennero cancellate dal
registro dei residenti, che a quel punto
divennero clandestine a tutti gli effetti.
Quell’operazione venne condotta dai solerti
funzionari del ministero degli Interni in un
clima di consenso sociale altissimo e senza che
ci fosse nessuna reale solidarietà nei confronti
di coloro che da un giorno all’altro si videro
privati di tutti i loro diritti. Si credeva che
queste persone avessero avuto la possibilità di
ottenere la cittadinanza e quindi di continuare
tranquillamente a vivere nella repubblica, ma
non avevano voluto coglierla.
In realtà quel 26 febbraio nessuno, o quasi,
ebbe la percezione che qualcosa fosse cambiato,
nemmeno i cancellati si resero conto di quello
che era loro accaduto. Poterono condurre
tranquillamente le loro esistenze finché non
erano costretti ad espletare qualche semplice
pratica.
Aleksandar Todorović
Aleksandar Todorović, che divenne il simbolo
della lotta per i diritti dei cancellati, scoprì
di non essere più iscritto nel registro dei
residenti nel 1993, quando andò ad iscrivere sua
figlia appena nata all’anagrafe. La solerte
funzionaria gli chiese i documenti e li
distrusse davanti a lui, poi si rifiutò di
scrivere il suo nome sul certificato di nascita
della bambina, che risultò figlia di padre
ignoto.
A quel punto Todorović cominciò la sua
battaglia. Ben presto si rese conto che non era
l’unico a trovarsi in quella situazione, fondò
un'associazione ed iniziò una guerra senza
quartiere, legale e morale, tra lo scherno
generale e qualche attestato di solidarietà. Per
anni si espose in prima persona, mise persino in
atto uno sciopero della fame davanti allo zoo di
Lubiana per dire che gli animali avevano più
diritti dei cancellati. Fu una vera e propria
spina nel fianco per le autorità e per
l’opinione pubblica slovena, costretta a dover
prendere atto, suo malgrado che era stata messa
in atto una palese violazione dei diritti
dell’uomo.
Consumato dalla sua battaglia, bersaglio di
aggressioni verbali e persino fisiche è morto
suicida poche settimane fa. Immediatamente,
Marko Štrovs, un viceministro del primo governo
Janša ha cinicamente commentato, su Twitter, che
Todorović è stato nuovamente cancellato dal
registro della popolazione residente in
Slovenia.
In tribunale
Sta di fatto ci sono voluti anni prima che la
Corte costituzionale sentenziasse che la
cancellazione era illegale. Da quel momento la
classe politica slovena si è trovata tra le mani
un problema che probabilmente avrebbe preferito
non risolvere e di cui avrebbe preferito non
parlare.
Solo nel 2003, quando Lubiana oramai era
praticamente nell’Unione europea, iniziarono ad
arrivare i primi moniti dal Consiglio d’Europa,
ma la questione era oramai diventato un terreno
di scontro in politica interna.
Nel 2004 la legge che avrebbe dovuto (almeno
parzialmente) chiudere la questione, approvata
con i voti del centrosinistra, venne bocciata
grazie ad un referendum promosso dal
centrodestra. L’allora astro nascente della
politica slovena, il post comunista Borut Pahor,
che ricopriva la carica di presidente del
parlamento, all’epoca, si dimenticò di chiedere
l’ammissibilità costituzionale, che avrebbe
portato probabilmente ad una bocciatura del
referendum.
Per arrivare ad una svolta si dovette attendere
che al ministero degli Interni arrivasse la
giovane leader demoliberale Katarina Kresal. Con
un certo dinamismo e non curandosi troppo delle
critiche, comunicò, prima, che il numero esatto
dei cancellati non era di 18.000, ma di oltre
25.000 e poi mise in atto una serie di azioni
legislative e amministrative che andarono a buon
fine e che regolavano la questione dal punto di
vista burocratico. Quello che, invece, la Kresal
non fece fu toccare il capitolo dei risarcimenti
per i danni subiti a causa della cancellazione.
I suoi detrattori, comunque, non mancarono di
sottolineare che avrebbe mandato in bancarotta
la Slovenia e che il paese avrebbe dovuto pagare
ai cancellati somme stratosferiche.
Imposizione europea
Ad imporre e Lubiana di risarcire i cancellati
però ci ha pensato la Corte europea per i
diritti dell’uomo, che in pratica ha concesso,
sommando danni morali e materiali, 230 euro di
risarcimento complessivo per ogni mese vissuto
da cancellato. In questo periodo, l’esecutivo
sloveno, con tutta la calma che ha
contraddistinto l’azione dei vari governi in
questa vicenda, ha elaborato uno schema che
prevede un risarcimento forfettario di 50 euro,
che potrebbe triplicarsi in caso di ricorso in
tribunale. Per i cancellati è troppo poco.
Ora lo scontro è tutto sulla lettura della
sentenza di Strasburgo. Per il ministro degli
Interni Gregor Virant la decisione dei giudici
sarebbe in linea con lo schema di risarcimento
approntato dal suo esecutivo, mentre per i
cancellati il Tribunale europeo ha concesso
indennizzi ben più cospicui.
Sta di fatto che i cancellati non si
arricchiranno e che comunque, come ha fatto
capire la figlia di Todorović, il danaro non
potrà compensare la vita serena che lei e sua
madre avrebbero potuto passare in tutti questi
anni con suo padre.
LINKS:
Slovénie
: enfin des compensations pour les «
effacés » de la citoyenneté. Par
Rodolfo Toè – Le Courrier des Balkans, lundi
25 novembre 2013
Cancellati,
condanna per la Slovenia. Di
Stefano Lusa – balcanicaucaso.org, 2 luglio
2012
La
ragione dei cancellati di Ljubljana
di Roberto Pignoni - da Il
Manifesto, 29 Giugno 2012
Martedì scorso la Corte europea dei diritti
umani di Strasburgo ha emesso una sentenza
davvero storica. Dopo il ricorso presentato
esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006,
da un gruppo di «cancellati», la Corte ha
ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune
gravissime violazioni dei diritti umani,
riferite all'art.8 (diritto al rispetto della
vita privata e familiare), all'art.13 (diritto a
un rimedio legale effettivo) e all'art.14
(divieto di discriminazione) della Convenzione
Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando,
inspiegabilmente, alcune posizioni particolari,
la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni
dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma
significativo, delle decine di migliaia di
cittadini che furono illegalmente privati della
«residenza permanente» il 26 febbraio '92, così
perdendo ogni diritto civile, politico,
economico e sociale. Un'operazione di pulizia
etnica in guanti bianchi, portata a termine con
un colpo di mouse davanti ai terminali dei
computer del Ministero degli Interni sloveno, e
passata per anni inosservata nonostante gli
effetti devastanti su migliaia di famiglie
(l'ultima stima governativa ammette la
«cancellazione» di 25.671 persone).
La decisione della Corte, assunta dalla Grande
Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche
perché applica la cosiddetta «procedura pilota»,
imponendo al governo sloveno di predisporre,
entro un anno, uno schema di risarcimento per
tutti i «cancellati». Al di là delle
implicazioni economiche «da panico» per i media
di Ljubljana, il dato politico è di enorme
rilevanza: da martedì scorso la «cancellazione»
è ufficialmente riconosciuta come un crimine
contro i diritti umani. La sentenza seppellisce
una volta per tutte il mito della success story
slovena, di una secessione incruenta, condotta
nel pieno rispetto dei principi democratici.
Vent'anni fa, a Ljubljana, fu fissato un
paradigma che prefigura nella forma più estrema
e crudele il processo di spoliazione progressiva
dei diritti che minaccia la società europea.
Perché dai «cancellati» abbiamo imparato che
Kafka è un autore neorealista: si limita a
fotografare la realtà - con 80 anni d'anticipo.
Pirano, Slovenia, 1992. Un uomo svolta l'angolo
sulla via di casa e intravvede dei poliziotti
che gettano in strada le sue cose. Nato da
genitori sloveni e cresciuto a Pirano, Milan
Makuc si sente sloveno, ma per il nuovo stato
indipendente è «solo jugoslavo». A sua insaputa,
è stato cancellato dai registri di residenza
permanente della Repubblica, perdendo tutto:
casa, lavoro, assistenza sanitaria...
Dall'appartamento, passa a una panchina del
cortile. Sopravviverà grazie al buon cuore di
qualche ex-concittadino. Quando l'abbiamo
rintracciato, portava i segni di quattordici
anni di «cancellazione»: un tumore gli mangiava
il volto, nessun ospedale disponibile a curarlo.
Dovettero farlo, quando sul tavolo della Corte
di Strasburgo arrivò un fascicolo intitolato:
«Milan Makuc e 10 altri c. Slovenia». Non era
stato facile convincere Milan, temeva per la
propria vita. «Sai, attraverso la strada, arriva
una macchina, nessuno si accorgerà di
niente...». Infine si decise, affidandosi
all'ombrello della giustizia europea.
Il nostro gruppo si chiamava Karaula, come le
caraule partigiane: piccole unità clandestine,
ancorate ai colli fra Friuli e Slovenia. Avevano
il compito di garantire i rifornimenti,
assicurare i contatti fra le formazioni,
raccogliere gli sbandati... La nostra si
occupava di difendere i migranti. L'intervento
spaziava dai campi rom della capitale agli
scenari della memoria storica: con alcuni
giovani di Ljubljana, girammo un documentario
sui campi di concentramento fascisti in Friuli -
compresi quelli di ultima generazione.
Intervistavamo la gente all'uscita dalla messa
di Pasqua, a Gradisca d'Isonzo, mentre il Cpt
(oggi Cie) era in costruzione: «Scusi, ci sono
dei campi di concentramento nei paraggi?» «Per
adesso no...». Analizzando le tipologie di
persone che finiscono nei lager attuali, che a
volte (è il caso di Gradisca) vengono realizzati
in perfetta continuità con quelli di ieri,
c'imbattemmo nei «cancellati».
In Slovenia, con un'operazione segreta, decine
di migliaia di cittadini erano stati trasformati
in morti viventi, uomini senza diritti. Per
mesi, a volte anni, molti di loro hanno
continuato a esercitare, come per inerzia, le
attività abituali. Un bel giorno venivano
fermati dalla polizia, o entravano in un ufficio
per rinnovare un documento. «Ci porti anche il
passaporto...». Lo bucavano sotto i loro occhi,
con un'apposita foratrice di metallo.
Le istituzioni europee fingevano di non vedere,
compresi i nostri campioni, Romano Prodi e
Riccardo Illy. Non c'era avvocato, in Slovenia,
disposto a difendere i «cancellati». Così, anche
dopo il primo articolo di denuncia di Tommaso Di
Francesco sul manifesto del maggio 2004 che di
fatto aprì la campagna, decidemmo di cercarlo in
Italia. La caraula tenne fede al suo nome,
assicurando un'efficace connessione fra
movimento sloveno e italiano. I «cancellati»
manifestavano a Gradisca, i compagni di
Monfalcone in Slovenia. Ognuno fece la sua
parte, dai centri sociali del Nord-Est alla
Fiom, fino alla pattuglia di parlamentari del
Prc a Bruxelles. L'idea del ricorso alla Corte
Europea dei Diritti Umani la dobbiamo ai rom del
Casilino: aveva funzionato cinque anni prima,
quando l'avvocato Luigi Lusi s'era fatto carico,
su mandato di Rutelli, di ripulire la capitale
dagli zingari nell'anno del Grande Giubileo.
Per mesi, a Ljubljana, un gruppo di giovani ha
intervistato persone, raccolto dati,
interpretato e tradotto leggi, certificati,
circolari. Lavoro militante, senza un centesimo
in cambio. Al più una birra e un piatto di
cevapcici offerti dai «cancellati».
Periodicamente ci fiondavamo a Roma a concordare
con gli avvocati, Anton Giulio Lana e Andrea
Saccucci, la strategia da seguire. Carla
Casalini ci ospitava la domenica, nella pagina
europea del manifesto, dandoci modo di
perfezionare lo stile e affilare le armi. Ne
uscì un'iniziativa robusta, per la qualità della
documentazione e l'eccellente contributo tecnico
dei legali dello studio Lana.
Non era un compito facile: le regole della Corte
paiono fatte apposta per tenere alla larga chi
ne ha veramente bisogno. Al fine di garantire
l'ammissibilità del ricorso, selezionammo undici
casi fra centinaia di «candidati». Il 26 giugno,
a Strasburgo, degli undici siluri lanciati nel
2006, sei hanno centrato il bersaglio.
Fra quelli che non ce l'hanno fatta, Velimir
Dabetic. Nato a Capodistria (Slovenia) nel '69,
era in Italia per lavoro e dopo la
«cancellazione» non è potuto rientrare nel suo
paese. Da dieci anni s'aggira per la riviera
romagnola facendo il saltimbanco: i suoi due
collaboratori sono in regola, iscritti
all'anagrafe canina, ma Velimir non ha uno
straccio di documento. Ogni tanto i poliziotti
lo fermano, lo tengono dentro per un po', poi lo
mollano. Un paio d'anni fa gli hanno notificato
un decreto di espulsione verso... la Romania.
La Corte di Strasburgo aveva atteso quattro
anni, prima di dar ragione a Velimir, nel 2010.
L'altro giorno ci ha ripensato: a vent'anni e
quattro mesi esatti dal 26 febbraio '92, ha
deciso che Velimir Dabetic, apolide e senza
mezzi di sussistenza, deve restare «cancellato»
a vita.
Nemmeno Milan Makuc godrà i benefici della
sentenza. Fu trovato morto qualche anno fa,
nella misera stanza che gli aveva concesso la
municipalità di Pirano. Il suo corpo venne
cremato a tempo di record, senza informare i
familiari. Accade anche in Italia, fra rom e
«clandestini» - i nostri «cancellati».
Al funerale parteciparono una decina di persone.
Con involontaria ironia il prete ricordava ai
presenti che non abbiamo, su questa terra,
«residenza permanente». Si formò un piccolo
corteo, preceduto da un becchino in uniforme,
con una bandiera nera. Dopo la cerimonia,
abbiamo scoperto che era un «cancellato» pure
lui. Reggeva il vessillo con la fierezza di un
alfiere, scortando l'urna di Milan lungo i viali
del magnifico cimitero di Pirano - un'isola di
luce, battuta dalla brezza marina, dove le
lapidi parlano tutte le lingue d'Europa.
Slovenia:
Strasburgo conferma risarcimento per
'cancellati'
Corte diritti umani a difesa di chi fu privato
residenza
ANSAmed, 27 GIUGNO 2012
(ANSAmed) - LUBIANA, 27 GIU - La Corte europea
per i diritti umani ha confermato in seconda
istanza il suo verdetto del 2010 secondo il
quale la Slovenia ha violato la Convenzione
europea dei diritti dell'uomo quando nel 1991,
al momento del raggiungimento dell'indipendenza,
cancello' circa 25 mila persone senza la
cittadinanza slovena dal registro dei residenti,
in prevalenza originari dalle altre ex
repubbliche jugoslave. Secondo la stampa
slovena, che riporta fonti di Strasburgo, la
Corte ha confermato che i cosiddetti
''cancellati'' hanno diritti a un risarcimento
di 20 mila euro ciascuno. La denuncia contro la
Slovenia era stata presentata da undici persone,
e la Corte ha ordinato alle autorita' di Lubiana
di trovare entro un anno un meccanismo per
restituire ai cancellati in modo retroattivo il
diritto di residenza, negato vent'anni fa.
Secondo i giudici, la Slovenia ha violato gli
articoli della Convenzione che proteggono la
vita familiare e la privacy dei cittadini verso
i quali si e' comportata in modo
discriminatorio. In Slovenia, il ministro
dell'Economia, Radovan Zerjav, ha subito
espresso il disappunto del governo di Lubiana,
''che quest'anno non avra' i soldi per pagare i
risarcimenti''. Il ministro si e' anche detto
molto preoccupato perche' il verdetto di
Strasburgo potrebbe essere poi adoperato come
precedente anche da altri 25 mila ''cancellati''
per chiedere un risarcimento. ''Nel caso la
Slovenia dovesse risarcirli tutti allora sara'
un grande problema perche' stiamo parlando di
cifre che fanno paura''. ''Tutto quello che
siamo riusciti a risparmiare con le misure di
rigore e i tagli dovrebbe essere pagato
solamente in questi risarcimenti'', ha osservato
il ministro. (ANSAmed).
LINK: Il
difensore. Di Stefano Lusa -
osservatoriobalcani.org, 23.07.2009.
Radiati dai registri sloveni
Tre anni fa la «carovana dei cancellati»
arrivò a Bruxelles. Ma nulla è cambiato
Da Il manifesto del 24/02/2007, pag. 18
Dei 200.000 cui Lubiana nel 1991 revocò il
permesso di residenza, dopo il 1992 170mila
riescono a presentare domanda nei tempi previsti
riottenendo la cittadinanza, 11mila scelgono di
emigrare. Gli altri 18.305 vengono radiati dai
registri il 26 febbraio 1992, perdendo ogni
diritto civile, sociale e politico. Una seconda
possibilità viene offerta dal governo nel 1998,
ma solo per chi risiede permanentemente nel
paese. Oggi circa 6000 restano senza
cittadinanza: molti vivono illegalmente in
Slovenia, altri sono stati espulsi. Chi è
riuscito a riottenere la residenza permanente
sconta comunque le conseguenze di anni di
irregolarità. Il 29 novembre 2006 la «Carovana
dei cancellati», una delegazione di 40 persone
partita da Lubiana con il sostegno degli
eurodeputati italiani Giusto e Musacchia, membri
della Commissione Ue e Comitati Onu, raggiunge
Bruxelles, dove è ricevuta in seduta
straordinaria dal Parlamento europeo. Ma il 9
febbraio scorso il commissario per la libertà,
sicurezza e giustizia Frattini dichiara: «La
questione non è di competenza della Commissione
europea». Il 4 luglio 2006 11 cancellati, tra
cui Ali Berisha, hanno presentato un ricorso
collettivo presso la Corte europea dei diritti
umani di Strasburgo (Makuc e altri contro la
Slovenia), che promette di esaminarlo con
procedura d'urgenza. Vi si legge: «La
cancellazione è un problema europeo, perché
viola i diritti umani fondamentali previsti
dalla Convenzione Ue». Nel 2008 la Slovenia
assumerà la presidenza di turno della
Ue.
LINK: Non
è affar nostro. Di Franco Juri -
osservatoriobalcani.org, 9 febbraio 2007
Slovenia's
Vanishing Act
The former Yugoslav republic made 18,000
people disappear in the blink of an eye. Now
it wants the world to forget its experiment
in ethnic cleansing.
By Chris Colin - From Mother Jones,
January 11, 2007
It should be strange talking to someone who
doesn't exist. But Zoran Ilič, stubbing out a
cigarette in my Ljubljana apartment, is
disappointingly ordinary: watery blue eyes, a
refrigerator's physique, likable laugh lines
across his face. For all that's happened to the
amiable middle-aged locksmith, what's hardest to
comprehend lies over his right shoulder, around
the sparkling river and polished cobblestone
outside my kitchen window. Modern, thriving, and
lovely, 21st-century Slovenia is increasingly
hailed as an enlightened jewel in Europe's
crown. How could such a place do what it did to
Ilič?
If you're picturing snipers and bombed-out
buildings, you're thinking old Balkans. Slovenia
prides itself on being a safe, prosperous,
sophisticated exception — a peaceful place where
you can have breakfast under a palm tree in
Piran and lunch atop the Julian Alps in Bovec.
"God's blessing on all nations," its big hearted
national anthem begins. The national hero isn't
a general but a poet. The euro was adopted in
January. These days the newly hip country spends
its days polishing its vanilla image; in the
offing are the presidency of the European Union
and a general luxuriating in global capitalism.
Ignorance of Slovenia is a forgivable sin —
President Bush once confused it with Slovakia —
and anyway, it's generally a good thing if
you're a former Yugoslav republic that's stayed
out of the headlines. Slovenia seceded from the
failing socialist federation in 1991 with
scarcely a murmur. After a crisp little 10-day
war, the country made a quick shimmy toward
Europe, pointing out to anyone listening that it
had always belonged in that more civilized
association anyway. In the 15 years since
independence, Slovenia has reinvented itself as
the sole Balkan "success story," as the
breathless write-ups routinely put it; a pearl
squeezed forth from the frictions of communism
and capitalism, East and West, ancient and
modern. Balkanism, with all its grim complexity
and bloodshed, has become a shelled facade
receding in the rearview mirror.
But objects in the mirror are sometimes closer
than they appear. Which brings us to Ilič's
nightmare. He moved to Ljubljana in 1969,
leaving his tiny Serbian village for "the big
city." A Yugoslav could move about freely then,
and Ilič loved his new home immediately. He
began a career as a locksmith, married a
Slovene, started a family, and embarked on a
pleasantly ordinary life.
In 1992, Ilič was at a municipal office, filling
out some form or other. From behind the counter
came an odd reply: Not only was Ilič not a
Slovenian resident, the cheery official informed
him; there was no record of his existence
whatsoever. This would have been merely
aggravating, in a head-slapping, DMV kind of
way, were it not for the dawning dread: Ilič's
pension, health insurance, driver's license, and
right to legal employment had all disappeared
with his identity — he couldn't even check out a
library book. Any hope of this being a computer
glitch vanished when he returned to the office a
few days later. A similar fate had apparently
befallen others, and he stared as the armfuls of
documents they'd brought in were shredded before
their eyes.
"I was watching them put holes in people's
paperwork," Ilič recalls. "Everyone was crying
and screaming; some women fainted. Later, the
suicides. We were told we didn't exist anymore,
by these people behind the counter we'd gone to
school with." The consequences went beyond red
tape. "Suddenly at block parties, our neighbors
would have a little to drink and then start
telling me to 'go home.' Even my wife's family
told her to 'leave this guy.' Everything had
been fine before." He shakes his head. "It's
like that glass there," he says, pointing to my
kitchen counter. "One day you just bring it down
to the basement."
Ilič was one of more than 18,000 nonethnic
Slovenes who awoke one day to find they'd been
completely deleted from the country's registry
of permanent residents. (For proportion's sake,
that's the equivalent of 2.6 million people in
the United States.) The "Erased," as they came
to be known, were almost exclusively "new
foreigners" from other ex-Yugoslav republics —
Serbs, Bosnians, Croats, Kosovars, and Roma (not
to be confused with "old foreigners" such as
Italians or Hungarians). Many had called
Slovenia home all their lives, and ethnic
distinctions had been effectively meaningless
under the Yugoslav umbrella. Their crime?
Failing to gain citizenship in the chaotic first
months after Slovenia's declaration of
independence, when, in what seemed like an
obscure bit of bureaucracy, as many as 200,000
minorities were asked to register as citizens in
the newly formed country — a requirement waived
for their Slovenian-born neighbors.
The Slovene government has maintained that the
Erased were victims of their own failure to turn
in their paperwork — a failure reflecting their
hostility toward Slovene independence, their
allegiance to Yugoslavia, and so on. "Why should
those who hoped for the Yugoslav Army to return
be given certain privileges?" Andrej Umek, a
senior member of the Slovene People's Party,
asked the New York Times. But Matevz Krivic, a
former constitutional court judge and now an
advocate for the Erased, believes the
registration issue is a red herring. "With 80 to
90 percent I've interviewed, I say, 'For God's
sake, why didn't you apply?,' and they answer,
'I did!'"
Most of the Erased did eventually acquire
citizenship, but for the 18,305 who didn't, it's
been a miserable and often untenable existence —
the product of what the human-rights group
Helsinki Monitor has called "administrative
genocide." Families have been forced into
poverty, pensions canceled, children denied
schooling or informed their parents don't exist.
It's unknown how many Erased have died from lack
of medical care, though human rights groups have
documented many instances. Some were deported,
others driven to leave on their own. Twice, in
1999 and 2003, the country's constitutional
court has ruled the mass denationalization to
have been illegal, but the government has
ignored these rulings.
A number of recent developments may force the
Slovenian government to finally resolve the
matter, though considerable political leverage
evaporated once the country was admitted to the
EU. In March 2006, the outgoing commissioner for
human rights for the Council of Europe
reiterated his call for Slovenia to restore full
rights to the thousands still without legal
status. In July 2005, the United Nations Human
Rights Committee called on Slovenia to seek
similar resolution, and four months later
Amnesty International urged full reparation for
the Erased and guarantees they wouldn't face
future persecution. Last July, a group of
Italian and Slovenian lawyers filed a lawsuit on
behalf of the Erased at the European Court of
Human Rights.
There's also been a change among the Erased
themselves. Though the vast majority still keep
their identities hidden — deportation's always a
possibility, public disdain a certainty—a
growing number are coming out of the shadows to
participate in the loosely knit Association of
the Erased. For all the suffering he's seen,
Aleksandar "Aco" Todorović, the association's
founder, tells me the most difficult part has
been watching his nation so successfully
convince itself and the outside world of
Slovenia's general virtuousness. This February
marks the 15th anniversary of the country's
illegal act of denationalization, and the matter
will be thrust into the spotlight again,
possibly forcing an old term back into
circulation at this unlikely moment in
Slovenia's history: ethnic cleansing.
But to make any headway, the Erased first must
combat a number of myths, most significantly
that they themselves were responsible for what
happened. "I don't think we can talk about 3,000
kids being 'opposed to Slovenia,'" Todorović
says, referring to the estimated number of
children who were taken off the books. For him,
it's a no-brainer that Erasure was intentional.
Ilič, whose son was erased when he was six,
concurs: "Of course we never had a choice! We
have a child — what parent would knowingly
disregard their child's well being? Then they
say I opposed independence — I voted for
independence! They don't even care if their lies
make sense!"
But the Erased still have to convince the
general public that the country's been duped. In
April 2004 a controversial referendum put
support for restoration of the Erased's rights
at less than 6 percent. Even after a newspaper
published documents indicating erasure was
deliberate and premeditated, little changed. The
government's defense remains a one-two punch of
obstinacy and obfuscation. "Nobody was erased,
nobody was erased," mutters Bojan Trnovšek,
director general for the Internal Administrative
Affairs Directorate at the Ministry of the
Interior — the office responsible for erasure —
as he stacks a mountain of papers on his desk.
"They are 'persons without status in Slovenia,'"
Nina Gregori, the undersecretary at the
ministry, tells me hastily. "It's very
complicated."
TO SPEND TIME IN SLOVENIA'S pristine, hospitable
towns is to wonder: How does such a thing happen
here, a place where so-called outsiders have
often intermarried with native Slovenes?
Ironically, part of the impetus seems to have
come from a wish among Slovenes to distance
themselves from the nationalist madness
elsewhere in the Balkans — it just so happened
that purging some of its residents looked like
the best way to get that distance. But at an
even deeper level, there lies a genuine fear of
extinction.
Slovenia has always belonged to someone else,
from the Holy Roman Empire to the Habsburgs to
Tito's Yugoslavia. Finally on its own after so
many centuries, it finds itself vanishing. Its
tiny population has the lowest fertility rate in
the EU, and a weak economy pushes its young
people abroad. People over 80 are expected to be
the single largest demographic group by 2050.
Coupled with the anxiety of adopting capitalism,
these worries lead to troubling conversations
about purity. "We're a peaceful country and
we're disappearing," a New Agey young artist
named Gregor tells me, before blaming "the
vulgar Croats and Bosnians" for filling the
void. "They gave Slovenia loud music and curse
words. It used to be '400 devils' was the worst
you could say here."
Slovenia's version of nationalism was downright
charming compared to Milosevič's butchery just
over the border. But as John Dalhuisen of the
Council of Europe's Office of the Commissioner
for Human Rights suggests, charming is how you
wind up in the EU rather than the Hague. "How
did they get away with this? Compare them to
their neighbors," he says. "Anyone who hasn't
fired too many bullets in the area in the last
15 years looks pretty good."
ON A COLD, BRIGHT DAY last February, the ragtag
Association of the Erased descends nervously on
Ljubljana's parliament building for a peaceful
sit-in at a National Assembly session. For many,
this is their first time publicly identifying
themselves, much less risking confrontation.
When they arrive, the building is
uncharacteristically flanked by police, who
inform Todorović it has been closed to the
public for the day.
Todorović huddles with the two dozen novice
activists and an alternate plan soon
materializes. One by one, they march back and
forth across a nearby crosswalk, Abbey
Road-style, as traffic builds up behind them.
The hastily conceived strategy is meant to draw
attention to the cause, and to the fact of the
cause. Indeed, Todorović tells me later, he sees
the association as standing up against the
country's broader slide toward exclusionism — as
evidenced by bizarrely repressive new asylum
laws, a long-running ban on building a mosque in
Ljubljana, institutional homophobia, and what
Dalhuisen describes as "a certain reactionary
core." If opposing the Erased can be populist
political shorthand for proving one's Slovene
patriotism, Todorović says, the Erased
themselves can be shorthand for opposition to
all Slovene intolerance. In December, when the
Slovene government made international headlines
for forcibly evicting a Roma settlement after a
mob made death threats and torched one of the
homes, many Erased activists rushed to protest
the action.
Back at the parliament building, half the
drivers honk angrily, while the other half just
stare at the gray-haired and rural protesters.
"At least it slows the final transition to
global capitalism by a few minutes," sighs
Andrej Kurnik, an activist and political science
professor. Two hours and one near-scuffle with
the police later, the Erased trickle back to
their cloistered lives; a kind of shrugging is
in the air. Todorović seems to sense it, but the
wispy former archaeologist says he'll keep
fighting: "Slovenia created this wonderful
stereotype of itself to get where it wants to
go, this exclusive place far from Yugoslavia. I
have to register the truth."
As for Zoran Ilič, it's hard to say whether his
goals are more or less ambitious in the end.
"What do I want?" he asks. "I lived here 36
years and put so much energy into this country.
They say I want all the money that's owed to me,
all the wages and insurance and pension they
took. But that money comes from my kids'
futures, and my kids have already suffered
enough. I just want my citizenship."
Like many, Ilič was told his only hope was in
returning to war-torn Serbia to find
documentation of his and his son's existence.
But Serbia had no papers for the boy, as he'd
been born in Slovenia. "Good," Ilič recalls
thinking at the time. "Now we can move to the
moon." Ilič's son's status was quietly restored
after a lengthy fight. (Roughly 12,000 of the
Erased have been "regularized" as new permanent
residents, thereby keeping pensions and
reparations out of reach.) "We had to get a
divorce, on paper anyway, so my wife wouldn't
have my last name," he adds. "It's been
horrible, but at the same time I'm blessed,
because my family is strong. Not all are so
lucky."
Indeed, a number have found the strain
unbearable. A few weeks after the parliament
protest, Todorović tells me about recruiting a
fellow Erased named Dragan when the association
was first coming together. Dragan was
Todorović's neighbor — a "calm and peaceful"
father of two who'd "lost everything, like all
of us." The last time Todorović saw him, a
decade of extreme poverty and shame had caught
up with him; he could no longer bear to eat a
single piece of bread, as he considered it food
from his daughters' mouths. Two days later, he
threw himself under a train. Todorović lingers
quietly on this memory for a moment, and then he
pushes back from our cafe table. "More to do,"
he says, and he's gone.
Chris Colin is the author of What
Really Happened to the Class of '93, and
lived in Slovenia for much of 2006.
In Slovenia il popolo dei 4mila
«cancellati» spera nella sentenza della
Corte europea
Milan Makuc, 59 anni, racconta la sua storia
di uomo senza identità dopo la dissoluzione
della Jugoslavia
di Claudio Ernè - da Il Piccolo, 31/12/2006
TRIESTE Si chiama Milan Makuc, ha 59 anni e vive
da solo in una angusta stanza di un gelido
edificio di Pirano. E' uno dei quattromila
«cancellati» che popolano la Repubblica di
Slovenia: uomini e donne privi di diritti civili
o con diritti grandemente compromessi: niente
lavoro, niente passaporto, niente pensione e
assistenza sanitaria, nessuna proprietà. Oggi
però alla mezzanotte Lubiana entra a pieno
titolo nell'Unione Europea e questi quattromila
«fantasmi» sperano che la Corte europea dei
diritti dell'uomo si pronunci presto e
restituisca loro tutto ciò che a partire dai
primi Anni Novanta il governo sloveno ha loro
tolto e negato. In primo luogo la dignità di
uomini.
Milan Makuc, ex cameriere dei bordo, ha perso
ogni diritto nel 1992, dopo aver dimenticato di
iscriversi all'anagrafe come cittadino del nuovo
Stato nato dalla dissoluzione della Jugoslavia
postcomunista. Sembrava una svista, una
dimenticanza. Invece questa mancata iscrizione
lo ha trasformato prima in un barbone, poi in un
una sorta di clandestino in Patria. Nella stessa
situazione si sono trovati esattamente altri
18.305 esseri umani che pur vivendo da anni e
anni sul territorio sloveno, hanno scordato di
iscriversi all'anagrafe della Nuova repubblica.
All'atto dell'indipendenza, il 25 giugno 1991,
Lubiana aveva promulgato due leggi che
regolavano i diritti di cittadinanza e la
permanenza degli «stranieri» sul suolo della
repubblica.
Il termine «stranieri» indicava nel nuovo Stato
sloveno soprattutto gli ex cittadini della
Jugoslavia federativa: serbi, montenegrini,
albanesi, kosovari, bosniaci e croati che erano
saliti verso il Nord di quello che era lo Stato
degli slavi del Sud.
Milan Makuc, il protagonista di questa storia,
non è un immigrato giunto dal Sud. Tutt'altro. I
suoi genitori erano sloveni e lui aveva
combattuto nel 1991 contro l'Armata federale.
Credeva nell'indipendenza. Ma qualche ottuso
burocrate dopo aver scoperto che si era scordato
di presentare la regolare domanda di
cittadinanza, aveva individuato un altro «neo»
nel suo pedigree.
Era nato nel 1947 in un paesino dell'Istria
meridionale, dove suo padre si era trasferito
per lavorare come minatore. Nella Stato del
maresciallo Tito questo trasferimento era più
che usale. Anzi rappresentava un titolo quasi di
merito. Invece dopo l'indipendenza di Lubiana si
è rivelato un boomerang.
Quel paesino dell'Arsia è sempre stato in
territorio croato e dunque Milan Makuc agli
occhi del funzionario di polizia che
sovraintendeva
all'anagrafe di Pirano, è diventato uno
«straniero» e per di più riottoso, perché non
aveva presentato domanda di cittadinanza. Per
questo lo avevano cancellato d'ufficio dai
registri di Stato civile. Un uomo senza identità
e soprattutto senza alcun diritto e senza
futuro.
«Nel 1994 rientrando a casa ho visto posteggiate
accanto all'ingresso due auto della polizia. Gli
uomini in divisa mi stavano svuotando
l'appartamento.
Buttavano tutto nei cassonetti delle immondizie.
Anche i documenti, i libri, tutto ciò che la mia
famiglia aveva raccolto e conservato nel corso
della sua vita. Non ho urlato, non sono
interventuto. Anzi mi sono nascosto per la
vergogna e ho pianto. Da quel giorno ho iniziato
a dormire sulle panchine e nei sottoscala. Avevo
paura, ero diventato un barbone».
Identica «cancellazione» hanno subito altre
18.305 persone grazie nall'interpretazione che
della legge sulla cittadinanza aveva fatto il
Ministero degli Interni di Lubiana. per anni e
anni le proteste di questi 18 mila esclusi e di
chi riteneva ingiusto e inumano il trattamento
loro riservato, non hanno avuto esito. La
«Fedina etnica» ha continuato ad escluderli da
ogni diritto fino al 1999 quando la Corte
Costituzionale slovena ha intimato al Governo di
Lubiana di annullare le cancellazioni effettuate
dai funzionari del Ministero degli Interni e di
reintegrare i cittadini nei loro diritti con
effetto retroattivo. La sentenza non ha avuto
esiti pratici e il Governo ha fatto orecchie da
mercante. Il Parlamento è rimasto in silenzio,
tant'è che nel 2003 la Corte costituzionale ha
dovuto riaffrontare il problema dei cittadini
«fantasma». Ma i 18 mila si era drasticamente
ridotti di numero.
Qualcuno era morto, altri si erano suicidati,
altri ancora erano emigrati come apolidi in vari
Paesi europei. Qualcun altro, in grande e
imbarazzato silenzio delle autorità era stato
anche «reintegrato» parzialmente nei propri
diritti civili. Quattromila al contrario non
hanno ottenuto nulla e sono rimasti dei
«fantasmi», dei «cancellati» degli sloveni
impuri con le fedine etniche comunque macchiate.
Al loro fianco da tempo si sono schierati i
movimenti non solo sloveni per i diritti civili
e il 4 luglio scorso la vicenda di Milan Makuc e
dei suoi compagni di sventura, è approdata alla
Corte europea dei diritti dell'uomo. Il ricorso
è stato preparato da uno studio legale romano e
in dettaglio dagli avvocati Antonio Giulio Lana
e Andrea Saccucci, un giovane udinese
trasferitosi nella capitale italiana. I giudici
della Corte europea hanno assegnato alla
trattazione del ricorso la «procedura
d'urgenza». Al momento della sentenza Lubiana
dovrà rassegnarsi e reintegrare i cittadini
fantasma, nei loro diritti con piena
retroattività. Ecco perché Milan Makuc, ex
cameriere di bordo, dice: «ce la faremo con
l'aiuto dell'Europa».
Operaio senza diritti in patria, clandestino in
Italia
TRIESTE Non c'è solo Milan Makuc a sperare in
una soluzione veloce del problema dei
«cancellati». Di recente è emersa anche al
storia di Velemir Dabetic, nato a Capodistria e
trasferitosi regolarmente in Italia per lavorare
come operaio. E in effetti ha lavorato prima a
Verona e poi a Vicenza finché il suo passaporto
jugoslavo è stato considerato valido dalle
autorità italiane. Anche lui si è scordato di
iscriversi all'anagrafe come prescrivevano le
leggi promulgate dal nuovo Stato sloveno.
Il passaporto non gli è stato rinnovato da
Lubiana e lui dopo essere stato «cancellato»e
nel nostro Paese è stato retrocesso a
clandestino. E'
stato bloccato dalla polizia ed espulso
dall'Italia. «Non è mai stato chiarito verso
quale Paese avrebbe dovuto dirigersi. Lui è nato
a Capodistria da genitori serbi ma la Slovenia
non lo vuole perché non ha i documenti
necessari» spiega Roberto Pignoni che con la sua
compagna Ursula Lipovec si occupa tra Roma,
Lubiana e il Friuli Venezia Giulia dei diritti
dei «cancellati».
Velemir Dabetic è stato prima rinchiuso in un
Centro di permanenza temporanea, poi, bloccato
come clandestino una seconda volta, è finito
anche in carcere in base alla legge Bossi-Fini.
E' stato processato e scarcerato e ora vive,
sempre da clandestino, tra Pesaro e Ancora.
«Era un promettente campione di scacchi»
racconta Roberto Pignoni. «Ma ha avuto il torto
di dimenticare o forse non saper visto che
lavorava in Italia che andava presentata la
domanda di cittadinanza. Quando lo ha fatto era
fuori dai termini stabiliti e il suo nome è
stato cancellato dall'anagrafe di Capodistria».
Secondo il Movimento dei diritti civili che
opera in Slovenia, spesso la polizia informava
chi era in ritardo sulla necessità della nuova
richiesta. Solo che sceglieva su base spesso
etnica, chi rendere edotto e chi no. In questo
modo si è attuata nella vicina repubblica una
pulizia etnica strisciante, a cui, purtroppo, ha
dato il proprio contributo anche la legge Bossi
-Fini, incarcerando i cancellati-clandestini.
LINK: Rom
e cancellati: amnesia europea. Di
Franco Juri - osservatoriobalcani.org,
30.11.2006
LINK: La
carovana dei cancellati: da Lubiana a
Bruxelles.
osservatoriobalcani.org, 23 novembre 2006
LINK: Un
Videoreportage sui cancellati (in
inglese) / VIDEO ON "ERASED" PEOPLE IN
SLOVENIA
UE: CATANIA (PRC), GRAVE SILENZIO
SU 'CANCELLATI' SLOVENIA
ANSA, TRIESTE, 17 novembre 2006
''E' un fatto inquietante che l' Europa resti
muta davanti a questa violazione dei diritti
umani e civili'': ad affermarlo
e' stato l' europarlamentare di Rifondazione
Comunista - Sinistra Europea, Giusto Catania,
che oggi a Lubiana (Slovenia) ha partecipato ad
una conferenza stampa sulla vicenda dei
cosiddetti 'cancellati' quei cittadini ex
jugoslavi ma residenti di fatto in Slovenia che
dal 1992,
dopo la nascita della nuova Repubblica, sono
stati cancellati dal registro dell' anagrafe.
''Ho presentato un' interrogazione parlamentare
su tutta la vicenda dei cancellati e - ha
aggiunto - in particolare sul caso di Ali
Berisha, un 'cancellato' che rischia la
deportazione in
Kosovo pur vivendo da sempre in Slovenia''. Oggi
a Lubiana e' stata presentata l' iniziativa
della 'Carovana dei cancellati' che lunedi' 27
novembre tocchera' anche Trieste e Monfalcone
per poi raggiungere Parigi ed infine Bruxelles
dove, mercoledi' 29 novembre, una delegazione
incontrera' il vicepresidente della Commissione
Ue, Franco Frattini, e diversi parlamentari di
varie formazioni. La 'Carovana' vuole infatti
sensibilizzare il governo sloveno e l'Ue sulla
questione che coinvolge ''oltre 18 mila persone
che vivono in una condizione di assoluta
clandestinita'''. ''La vicenda dei cancellati -
ha continuato Catania - e' un fatto europeo e
questa vicenda deve essere risolta prima che la
Slovenia sia presidente di turno dell' Unione
europea nel 2008''. Dopo la conferenza stampa a
Lubiana una delegazione di Rifondazione
Comunista con il segretario regionale del Friuli
Venezia Giulia, Giulio Lauri, e il consigliere
regionale del Friuli Venezia Giulia Igor
Canciani si e' recata nel Centro di permanenza
temporanea di Postumia (Slovenia) a visitare
Berisha e la sua famiglia che sono rinchiusi nel
Centro. ''E' molto grave - ha affermato Catania
- che dentro il Centro ci siano dei minori e
perfino un bambino di quattro mesi evidentemente
malato. Tutto questo - ha detto - non e'
accettabile in un' Europa civile e abbiamo
chiesto alla Commissione europea di sospendere
la deportazione di Berisha e di farlo uscire dal
Centro di permanenza temporanea. Abbiamo appreso
con grande sconcerto che questo Cpt e' stato
costruito con soldi dell' Unione europea e - ha
concluso Catania - che nel corso di questo
ultimo anno oltre 60 minori vi sono stati
rinchiusi. Tutto questo - secondo l'
europarlamentare - e' contrario alla
legislazione europea e alle convenzioni
internazionali di tutela dell' infanzia''.
(ANSA). KXH/MST 17/11/2006 16:43
LINK: Slovenia:
cancellati, vergognoso silenzio della
Commissione europea. Di Franco
Juri - osservatoriobalcani.org, 20 aprile 2004
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