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Produrre Stati
falliti
di Ed Herman (*)
09/09/2012
Durante
la guerra del Vietnam, sopra
l'ingresso di una base
americana si poteva leggere:
"Killing is our business, and
business is good" (Uccidere è
il nostro mestiere e gli
affari vanno bene"). E in
effetti, gli affari andarono
molto bene in Vietnam (così
come in Cambogia, Laos e
Corea), dove si contarono a
milioni i civili uccisi. In
realtà gli affari si
mantennero buoni, anche dopo
la guerra del Vietnam.
Traduzione
dal francese per
www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare
( In english: Manufacturing
Failed States - by Edward S. Herman, Z
Magazine, september 2012
En francais: Produire
des « Etats Ratés » - par Ed Herman, Z Magazine,
septembre 2012
aussi dans
JUGOINFO )
(*) Edward S. Herman è professore
emerito di Finanza alla Wharton School, University of
Pennsylvania. Economista e analista di media di fama
internazionale, è autore di numerosi libri tra cui: Corporate
Control, Corporate Power (1981), Demonstration
Elections (1984, con Frank Brodhead), The
Real Terror Network (1982), Triumph of the
Market (1995), The Global Media (1997,
con Robert McChesney), The Myth of The Liberal
Media: an Edward Herman Reader (1999) e Degraded
Capability: The Media and the Kosovo Crisis
(2000). La sua opera più nota, Manufacturing
Consent (con Noam Chomsky), pubblicata nel 1988,
è stata ristampata negli Stati Uniti nel 2002 e nel
2008 nel Regno Unito.
I massacri sono continuati in tutti i
continenti, sia direttamente che tramite
"proxies" [mercenari], ovunque la "sicurezza
nazionale" degli Stati Uniti bisognasse di basi,
guarnigioni, assassini, invasioni, campagne di
bombardamenti o di sostenere regimi assassini e
autentiche reti terroristiche transnazionali, in
risposta alla "minaccia terroristica" che
continua a sfidare il povero "pietoso gigante".
Nel suo eccellente libro sull'ingerenza degli
Stati Uniti in Brasile (United States
Penetration of Brazil, Pennsylvania
University Press, 1977), Jan Knippers Black
aveva dimostrato già anni fa, come l'accezione
sorprendentemente elastica del concetto di
"sicurezza nazionale" può essere estesa, in
funzione di quale nazione, quale classe sociale
o istituzione si riferisca. Al punto che proprio
"coloro la cui ricchezza e potere dovrebbe in
linea di principio garantire la sicurezza, sono
quelli maggiormente paranoici e che, con i loro
frenetici sforzi per garantire la propria
sicurezza, generano loro stessi la loro propria
[parziale] distruzione". (La sua opera
affrontava il pericolo di sviluppare una
democrazia sociale in Brasile nel 1960, e la sua
repressione attraverso il sostegno degli Stati
Uniti alla controrivoluzione e all'instaurazione
di una dittatura militare). Aggiungete a ciò la
necessità per gli imprenditori legati al
complesso militare-industriale di promuovere le
missioni per giustificare un aumento dei bilanci
della difesa e la piena cooperazione dei mass
media a questa attività, e otterrete una realtà
terrificante.
In realtà il suddetto gigante falsamente
paranoico si è impegnato a capofitto nella
produzione di pretesti per credibili minacce,
soprattutto dopo il crollo dell'"impero del
male", che il paese aveva sempre sostenuto di
"contenere". Grazie a dio, dopo alcuni tentativi
episodici di focalizzare l'attenzione sul
narco-terrorismo e sulle armi di distruzioni di
massa di Saddam Hussein, il terrorismo islamico
è caduto dal cielo per offrire alla defunta
minaccia un degno successore, derivante
naturalmente dall'ostilità del mondo arabo alle
libertà americane e dal suo rifiuto di
consentire la possibilità a Israele di negoziare
la pace e risolvere pacificamente i suoi
disaccordi con i palestinesi.
Oltre a rendere più efficaci i massacri e il
soldo dei mercenari che ne deriva, gli Stati
Uniti sono diventati de facto il più maggior
produttore di Stati falliti, su scala
industriale. Per Stato fallito, intendo uno
Stato che, dopo esser stato schiacciato
militarmente o reso ingovernabile a causa di una
destabilizzazione politica o economica che lo
getti nel caos, ha quasi sicuramente perso la
capacità (o il diritto) di ricostruirsi e di
soddisfare le legittime aspirazioni dei suoi
cittadini. Naturalmente, questa abilità degli
Stati Uniti non nasce ieri: come dimostra la
storia di Haiti, della Repubblica Dominicana, di
El Salvador, del Guatemala o degli Stati
dell'Indocina, dove i massacri hanno funzionato
così bene. Inoltre, abbiamo visto di recente una
recrudescenza incredibile nella produzione di
Stati falliti, di tanto in tanto senza ecatombe,
come ad esempio nelle repubbliche ex-sovietiche
e in tutta una serie di paesi dell'Europa
dell'est, dove la riduzione dei salari e
l'aumento vertiginoso del tasso di mortalità
sono frutto diretto dalla "terapia d'urto" e del
saccheggio generalizzato e semi-legale
dell'economia e delle risorse, da parte di élite
sostenute dall'Occidente, ma anche più o meno
organizzate e sostenute a livello locale
(privatizzazioni a tutto campo, corruzione a
livelli esorbitanti).
Un'altra cascata di Stati falliti origina dagli
"interventi umanitari" e dai cambi di regime
guidati dalla NATO e dagli Stati Uniti in modo
più aggressivo che mai dopo il crollo
dell'Unione Sovietica (vale a dire dopo la
scomparsa di una "forza di contenimento"
estremamente importante anche se molto
limitata). Qui, l'intervento umanitario in
Jugoslavia è servito da modello. Bosnia, Serbia
e Kosovo sono diventati Stati falliti, altri
sono usciti stremati, tutti assoggettati
all'Occidente o alla sua pietà: una base
militare statunitense monumentale è sorta da
subito in Kosovo, eretta sulle rovine di quello
che un tempo era uno Stato socialdemocratico
indipendente. Questa bella dimostrazione di
merito per l'intervento imperialista ha
inaugurato la produzione di una nuova serie di
stati falliti: Afghanistan, Pakistan, Somalia,
Iraq, Repubblica Democratica del Congo, Libia,
mentre oggi è in corso un programma simile in
Siria e un altro si appresta per la gestione
della cosiddetta "minaccia iraniana", nel
tentativo di far rivivere i giorni felici della
dittatura filo-occidentale dello Shah.
Questi fallimenti programmati hanno di solito in
comune i segni caratteristici della politica
imperiale e una proiezione di potenza
dell'impero. Il copione prevede: la comparsa e/o
legittimazione (o riconoscimento ufficiale) di
una ribellione etnica armata che si atteggia a
vittima, la quale conduce contro le autorità del
proprio paese azioni terroristiche volte a
provocare apertamente una reazione violenta da
parte delle forze governative e che invoca
immancabilmente le forze dell'impero a
soccorrerla. Mercenari stranieri vengono
generalmente assoldati per aiutare i ribelli,
mercenari e ribelli indigeni vengono armati,
addestrati e sostenuti logisticamente dalle
potenze imperiali. Queste ultime si impegnano a
incoraggiare e sostenere le iniziative dei
ribelli il tanto per giustificare la
destabilizzazione, i bombardamenti e, infine, il
rovesciamento del regime bersaglio.
Il processo è stato eclatante durante tutto il
periodo dello smantellamento della Jugoslavia e
nella produzione di Stati falliti che seguirono.
Le potenze della NATO, mirando alla
disgregazione della Jugoslavia e al crollo della
sua componente più importante e indipendente,
vale a dire la Serbia, hanno incoraggiato alla
ribellione gli elementi nazionalisti delle altre
repubbliche della federazione, per le quali il
sostegno o l'impegno militare della NATO sul
terreno era un fatto acquisito. Il conflitto fu
lungo e virò verso la pulizia etnica, ma per
quanto concerne la distruzione della Jugoslavia
e la produzione di Stati falliti, fu un successo
(vedi Herman e Peterson, The Dismantling of
Yugoslavia, Monthly Review, ottobre 2007).
Stranamente, è con l'approvazione e la
collaborazione dell'amministrazione Clinton e
dell'Iran che si importarono tra gli altri
mercenari, degli elementi di Al Qaeda in Bosnia
e poi in Kosovo, per aiutare a combattere il
paese obiettivo: la Repubblica di Serbia. Ma
Al-Qaeda appariva anche tra le fila dei
"combattenti per la libertà" impegnati nella
campagna di Libia, ed è anche un componente
riconosciuto (ora perfino dal New York Times,
anche se con un po' di ritardo) del cambiamento
di regime programmato in Siria (Rod Nordland, Al
Qaeda Taking Deadly New Role in Syria Conflict»,
New York Times, 24 luglio 2012). Certo,
Al Qaeda era precedentemente stata al centro del
cambiamento di regime in Afghanistan [1996] e un
elemento chiave nella svolta dell'11 settembre
(Bin Laden, capo dei ribelli sauditi di primo
piano, dapprima sostenuto dagli Stati Uniti, si
sarebbe poi rivoltato contro di loro, da cui
venne demonizzato ed eliminato).
Questi programmi comportano sempre una gestione
sapiente delle atrocità, che permette di
accusare il governo aggredito di aver commesso
atti di violenza gravi contro i ribelli e i loro
sostenitori, così da demonizzarlo efficacemente
per giustificare un intervento massiccio. Questo
metodo ha avuto un ruolo fondamentale durante le
guerre di dissoluzione della Jugoslavia, e
probabilmente ancora di più nella campagna di
Libia e di quella in Siria. E' un metodo che
deve molto anche alla mobilitazione delle
organizzazioni internazionali che sono
attivamente coinvolte in questa demonizzazione
denunciando le atrocità attribuite ai leader
riconosciuti, perseguendoli e condannandoli
penalmente. Nel caso della Jugoslavia, il
Tribunale penale internazionale per l'ex
Jugoslavia (ICTY), istituito dalle Nazioni
Unite, ha lavorato mano nella mano con le
potenze della NATO per assicurare che la sola
messa in stato d'accusa delle autorità serbe
fosse sufficiente a giustificare qualsiasi
azione che gli Stati Uniti e la NATO avessero
deciso di intraprendere. Esempio mirabile di
questa meccanica, la messa in stato di accusa di
Milosevic da parte del Procuratore del ICTY,
lanciata proprio quando (nel maggio 1999) la
NATO decideva di bombardare deliberatamente le
infrastrutture civili serbe per accelerare la
resa della Serbia, bombardamenti che
costituivano crimini di guerra condotti in piena
violazione della Carta delle Nazioni Unite.
Eppure fu proprio il processo a Milosevic che
permise ai media di distogliere l'attenzione
pubblica dagli abusi illegali della NATO.
Allo stesso modo, alla vigilia dell'attacco alla
Libia da parte della NATO, il procuratore della
Corte penale internazionale (CPI) si affrettò a
promuovere un'azione giudiziaria contro Muammar
Gheddafi senza aver mai chiesto un'indagine
indipendente, rendendo di pubblico dominio che
la Corte penale internazionale non aveva
perseguito nessun altro che i leader africani
non allineati con l'Occidente. Questo modo
curioso di "gestione della legalità" è una
risorsa preziosa per i poteri imperiali ed è
estremamente utile in un contesto di cambiamento
di regime, come nella produzione di Stati
falliti.
Sono anche coinvolte delle organizzazioni
umanitarie o di "promozione della democrazia"
apparentemente indipendenti, come Human Rights
Watch, l'International Crisis Group e l'Open
Society Institute, che regolarmente si uniscono
alla processione imperiale, facendo l'inventario
dei soli crimini correlati al regime obiettivo e
ai suoi dirigenti: cosa che contribuisce in modo
significativo alla polarizzazione dei media.
L'insieme consente di creare un ambiente morale
favorevole a un intervento più aggressivo in
nome della difesa delle vittime.
Poi si aggiunge che, nei paesi occidentali, le
denunce o le accuse di atrocità - che rafforzano
le immagini di vedove in lutto e rifugiati
indigenti, le prove apparentemente attendibili
di abusi odiosi e l'emergere di un consenso
attorno alla "responsabilità di proteggere" le
vittime del conflitto - commuove profondamente
gran parte dei circoli di sinistra e libertari.
Molti di loro vengono ad ululare con i lupi
contro il regime bersaglio, ed esigono
l'intervento umanitario. Gli altri in genere
sprofondano nel silenzio, certo perplesso, ma
pregno soprattutto della paura di essere
accusati di sostenere il "dittatore".
L'argomento degli interventisti è che, a costo
di apparire sostenitori dell'espansionismo
imperialista, talvolta occorre fare un'eccezione
se le cose sono particolarmente gravi e se tutti
sono indignati e chiedono un intervento. Ma
bisogna, per dimostrarsi autenticamente di
sinistra, tentare una micro-gestione degli
interventi per contenere l'attacco imperiale,
esigendo per esempio che ci si attenga
all'interdizione di una no-fly zone come in
Libia.
Ma gli Stati Uniti stessi non sono che un caso,
dei peggio riusciti, di produzione di tali Stati
falliti. Ovviamente, nessuna potenza straniera
li ha mai schiacciati militarmente, ma la base
della sua popolazione ha pagato un tributo
pesante al sistema di guerra permanente. Qui,
l'elite militare, così come i suoi alleati nel
mondo dell'industria, della politica, della
finanza, dei media e gli intellettuali, hanno
contribuito ampiamente ad aggravare la povertà e
il disagio generalizzato dovuto alla
disintegrazione dei servizi pubblici e
all'impoverimento del paese; la classe
dirigente, paralizzata e compromessa, è incapace
di rispondere adeguatamente alle esigenze e alle
aspettative dei suoi cittadini, nonostante il
costante aumento della produttività pro capite
del PNL. Le eccedenze sono completamente
dirottate verso il sistema di guerra permanente
e dal consumo e l'arricchimento di una piccola
minoranza, che lotta in modo aggressivo per
realizzare la captazione non solo delle
eccedenze, ma fino al trasferimento diretto
delle entrate, delle proprietà e dei diritti
pubblici della stragrande maggioranza dei suoi
concittadini (in difficoltà). In quanto Stato
fallito, come in molti altri campi, gli Stati
Uniti sono una nazione senza dubbio d'eccezione!
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