Esistono,
riconosciute,
761 basi americane nel mondo, fra cui quella
gigantesca di Bondsteel in
Kosovo, che è stato strappato illegittimamente
alla Serbia con
la guerra e con l’aiuto decisivo degli
imperialisti
euro-atlantici.
Sono vent’anni che la fine della Guerra Fredda
doveva dare origine ad
un’era di pace. Tuttavia, dopo dieci anni, la
NATO fa la guerra, prima
al Kosovo, oggi in Afghanistan. È la guerra, e
non la pace, che
sta ritornando. Perché?
Desidero presentare diverse proposizioni che,
a mio avviso, sono
evidenze, ma evidenze che non risultano nel
discorso ufficiale
propagandato dai mezzi di comunicazione di
massa.
1. Prima proposizione. Lo scopo principale
della guerra condotta dalla
NATO nel 1999 contro la Jugoslavia, conosciuta
come “guerra del
Kosovo”, era quello di mantenere ancora in
attività la NATO,
assegnandole la nuova missione di condurre
guerre in posti e per
motivi, comunque, decisi da essa.
(Un obiettivo secondario consisteva nel
liberare la Serbia da un capo
considerato troppo poco sollecito nel seguire
il modello economico
neo-liberista, ma lascio da parte questo
aspetto della vicenda, che
avrebbe potuto essere affrontato in ben altro
modo che attraverso la
guerra, sebbene i bombardamenti abbiano
accelerato la privatizzazione
delle industrie così colpite in modo tanto
sbrigativo.)
2. Questo obiettivo è stato raggiunto, con
l’accettazione da
parte degli alleati europei della nuova
strategia della NATO, che
raccomanda la possibilità di interventi
militari in tutto il
mondo, non importa dove e nemmeno sotto quale
pretesto – basta
esaminare la lista delle “minacce” alle quali
la NATO ha dovuto far
fronte.
3. Questo cambiamento di politica estera, con
le conseguenti pesanti
implicazioni, è stato realizzato senza il
benché minimo
dibattito democratico nei parlamenti europei o
di altri paesi. È
stato realizzato con modalità unicamente
burocratiche dietro una
fitta cortina di fumo emozionale – si potrebbe
anche dire di gas
lacrimogeni – per la necessità di salvare le
popolazioni da
minacce assolutamente inesistenti e
completamente inventate,
precisamente per giustificare un intervento
che doveva servire agli
interessi degli Stati Uniti e, nel contempo,
dei secessionisti albanesi
del Kosovo. In altre parole, la nuova politica
di guerra senza limiti
è stata decisa quasi a porte chiuse e venduta
all’opinione
pubblica come una grande missione umanitaria
di una abnegazione tanto
generosa, senza precedenti nella storia
dell’umanità.
Ed è così che la “guerra del Kosovo” continua
ad essere
celebrata, soprattutto negli Stati Uniti, come
la prova provata che la
guerra non costituisce più il peggiore dei
mali da evitare, ma
il migliore dei veicoli del ”Bene”.
4. In seguito agli attacchi criminali dell’11
settembre 2001 contro le
Torri del World Trade Center, gli alleati
europei degli Stati Uniti
hanno accettato senza batter ciglio
l’interpretazione più che
dubbia fornita dall’amministrazione americana
Bush-Cheney, secondo cui
quegli attacchi costituivano un “atto di
guerra”.
Nuovamente presi da un tourbillon sentimentale
– “siamo tutti
Americani” – le donne e gli uomini politici
europei non si sono affatto
mobilitati per fare osservare che si trattava
piuttosto di attacchi
criminali – internazionali, forse, ma che
erano stati scatenati da
individui o da gruppi, e non da qualche Stato,
e che esigevano
logicamente una risposta di polizia e non di
una guerra.
Invece di andare in soccorso al popolo
americano portandogli come
contributo una dose di buon senso, che
visibilmente mancava ai suoi
dirigenti, i dirigenti europei hanno per la
prima volta fatto appello
all’Articolo 5 del Trattato della NATO per
seguire gli Stati Uniti
aggrediti nella loro guerra contro i fantasmi
in Afghanistan. Capiscono
sempre tutto..!
5. Quinta proposizione. Tutto questo ha messo
in evidenza l’assenza
quasi totale in Europa di un dibattito
politico, o persino di
un’opinione, sulle questioni fondamentali
della sicurezza, della guerra
e della pace, e ancor meno sul diritto
internazionale.
6. Sesta proposizione. Senza dubbio, la più
essenziale e
controversa. La deplorevole inesistenza morale
ed intellettuale
dell’Europa in questo suo cammino verso il
disastro è dovuta
soprattutto ad una causa: la sedicente
“costruzione
europea”.
Ora mi accingo a ritornare su questa serie di
avvenimenti che ci
conducono dallo slancio “umanitario” del
Kosovo fino al pantano
insanguinato dell’Afghanistan.
L’Europa e la
Jugoslavia
È fatto ordinario biasimare l’Europa per la
sua inazione nella
questione jugoslava. Ma, più spesso, questo
rimprovero assume la
forma di una lamentazione secondo cui l’Europa
avrebbe dovuto
intervenire militarmente per salvare le
vittime, bosniache, s’intende.
Questa non è un’analisi ma uno sfruttamento
moralizzatore da
parte di uno degli attori in campo – i
Musulmani di Bosnia – di una
tragedia nella quale costoro contano sì
il più alto
numero di vittime, ma per la quale i loro
dirigenti politici
(soprattutto il signor Izetbegovic) avevano la
loro parte di
responsabilità.
In questa lamentazione senza un’effettiva
analisi, l’inerzia
dell’Europa viene attribuita spesso alla sua
“mollezza” collettiva, ed
anche, da certuni, ad un suo supposto razzismo
anti-musulmano.
Oggettivamente, qua e là esiste un razzismo di
questa natura, ma
nel caso jugoslavo i motivi del fallimento
europeo sono da ricercarsi
in una diversa direzione.
In questa sede, vorrei offrire una diversa
interpretazione di questo
fallimento, che risulta più complicata, e meno
moralista.
Già negli anni 1980, la Jugoslavia affondava
in una crisi sia
economica che politica. L’indebitamento del
governo centrale, che
risultava soprattutto dalle crisi petrolifere
e dalle speculazioni sul
dollaro, favoriva la spinta separatista delle
repubbliche più
ricche, la Slovenia e la Croazia.
Paradossalmente, l’auto-gestione
socialista contribuiva al movimento
centrifugo. Eppure, il sentimento
unitario restava probabilmente ancora
maggioritario.
Questo è il tempo in cui appunto una meno
superficiale politica
europea di allargamento avrebbe potuto
impedire il disastro. Dopo
tutto, la Jugoslavia, situata fra la Grecia e
l’Italia, godeva di un
sistema socialista più libero e più prospero
rispetto a
quello del blocco sovietico, stava evolvendo
più verso una
democrazia di stile occidentale, e per logica
era il candidato
all’adesione alla Comunità europea in un
immediato futuro.
Alcune voci isolate sottolineavano questa
evidenza, senza ricevere
ascolto. Agli inizi degli anni 1990, ecco il
dramma! Non posso
raccontare tutta questa storia adesso, che
comunque è riportata
nel mio libro “La Crociata degli inganni”.
Tuttavia, in breve, nel 1991 esistevano due
mondi paralleli che si sono
scontrati con modalità gravide di sventura.
Esisteva il mondo
jugoslavo, in cui le repubbliche – è così che
si
denominavano le componenti della Federazione
jugoslava – di Slovenia e
Croazia optavano per la secessione, appoggiate
dalla Germania. Ed
esisteva il mondo della costruzione europea,
in cui in particolare il
governo francese era totalmente assorbito dal
tentativo di convincere
il governo tedesco ad amalgamare il suo
prezioso marco, il
deutschemark, in una nuova moneta europea, che
avrebbe servito da
collante nella trasformazione della Comunità
europea in Unione
europea.
Il risultato è ben noto. Nella fase iniziale,
nessun altro
membro della Comunità voleva seguire la
Germania nel
riconoscimento delle secessioni della Slovenia
e della Croazia, se non
in presenza di un negoziato, ma quando la
Francia, in piena trattativa
sulla moneta europea con la Germania, ha
ceduto sulle secessioni
jugoslave, allora tutta la Comunità l’ha
seguita in questa
decisione, che violava il principio di
inviolabilità delle
frontiere e portava inevitabilmente alla
guerra civile.
Capisco come tutto questo possa risultare un
po’ complicato, ma
desidero sottolineare un aspetto che è
relativamente sottile, ma
essenziale.
Per favorire la sacrosanta “costruzione
europea”, la Comunità
europea si è allineata sulla posizione
tedesca, che all’inizio
non era condivisa da nessun altro Stato
membro. Gli Stati membri non
hanno esaminato in modo scrupoloso né i veri
motivi della
posizione germanica, né la sua
giustificazione, nemmeno le sue
conseguenze programmate. Al posto di tutto
questo, hanno adottato una
versione moralistica ed unilaterale di un
conflitto complesso, versione
che serviva soprattutto a giustificare la loro
violazione di normali
procedure, come il non-riconoscimento di
secessioni non-negoziate. Ma
il risultato ottenuto è stata la stura alle
accuse moralistiche
di non avere fatto molto per “salvare le
vittime”. Una volta che
si accoglie una visione manichea, si impone
anche una soluzione
manichea. Essendosi incastrata da
sola, l’Europa ha tentato
di combinare il suo discorso manicheo, che
attribuiva tutta la
responsabilità al solo “nazionalismo serbo”,
con gli sforzi per
trovare una soluzione negoziata, azioni del
tutto contraddittorie e
votate allo scacco matto.
Per contro, immaginiamo che gli Stati membri
avessero agito come Stati
indipendenti, senza sentirsi costretti dalla
“costruzione europea”. La
Germania, senza dubbio, avrebbe sostenuto i
suoi clienti storici, i
separatisti sloveni e croati, ma avrebbe
dovuto ascoltare anche
altri punti di vista. Infatti, la Francia e la
Gran Bretagna,
certamente seguite da altri paesi, avrebbero
pensato agli interessi dei
loro alleati storici, i Serbi. Con questo non
si vuole assolutamente
affermare che si sarebbe ripetuta la Prima
Guerra Mondiale – nessuno
è così folle. Ma si sarebbe potuto
riconoscere, da una
parte e dall’altra, che esistevano autentici
conflitti non solamente di
interesse ma anche di interpretazioni
giuridiche in quello che
concerneva lo statuto delle frontiere fra
repubbliche, delle minoranze
e via di seguito. Riguardando il problema
jugoslavo da questa visuale,
invece di considerarlo come un conflitto fra
il Bene e il Male, le
potenze europee avrebbero potuto incoraggiare
una mediazione e un
negoziato per evitare il peggio.
L’argomento che desidero sottolineare è il
seguente. Uno dei
dogmi della Costruzione europea è che
l’accordo fra gli Stati
membri è un bene così grande che il contenuto
di questo
accordo diviene secondario. Ci si felicita di
essere d’accordo, quale
che sia la qualità o le conseguenze di questo
accordo. Cessa
ogni riflessione. E l’accordo si fa, e si è
pronti a
giustificarlo nel modo più facile tramite
qualche luogo comune
moralizzatore – in primo luogo, i “diritti
dell’uomo”.
La “costruzione europea” rassomiglia al
“processo di pace” in Medio
Oriente, nel senso che il miraggio di un
futuro in sicurezza paralizza
il presente, e serve come scusa per non
importa che cosa.
Vorrei segnalare che, nel caso jugoslavo, gli
Stati Uniti non erano del
tutto propensi a sostenere secessioni senza
negoziato della Slovenia e
della Croazia. L’amministrazione di Bush padre
era incline a lasciare
questo problema agli Europei. Dunque, è troppo
facile biasimare
gli Stati Uniti. Ma davanti all’ignavia
europea, ed essi stessi sempre
predisposti alle interpretazioni manichee, gli
Americani
dell’amministrazione Clinton hanno
approfittato della situazione per
sfruttare il disastro jugoslavo per i loro
stessi scopi, vale a dire,
l’affermare il ruolo di dirigenza degli Stati
Uniti in Europa, la
rinascita della NATO e qualche briciola
sentimentale gettata ai
Musulmani per compensare l’appoggio senza
alcuna incrinatura fornito ad
Israele dagli Stati Uniti.
La NATO e le
“minacce”
L’evoluzione degli ultimi due decenni
pone la questione dell’uovo
e della gallina. In altre parole, è
l’ideologia la causa delle
azioni, o l’inverso? Sarei tentata, viste le
mie considerazioni a
proposito della Jugoslavia, di affermare che è
l’inverso –
almeno a volte. O, piuttosto, in assenza di un
pensiero rigoroso e
franco, si è facilmente trascinati in
avventure nefaste da una
dialettica fra ideologia e burocrazia.
Il mio secondo esempio è il ruolo della NATO
nel mondo, e
dell’Europa nella NATO.
Tramite la NATO, la maggior parte dei paesi
dell’Unione Europea hanno
già partecipato a due guerre di aggressione, o
almeno ad una
delle due, e altri si preparano. E tutto
questo in assenza di un
effettivo dibattito, senza una visibile
strategia decisionale.
Aspettando la realizzazione della Costruzione
europea, l’Unione Europea
allo stato attuale prosegue come una
sonnambula nel percorso di guerra
che le è stato tracciato dagli Stati Uniti.
Questo stato di incoscienza è conservato da un
mito che diviene
più infantile con l’età, tipico della demenza
senile: il
mito dell’America protettrice, potente e
generosa, ultimo ricorso per
salvare l’Europa da tutto e soprattutto da se
stessa. Si potrebbe
obiettare che a questo mito non crede più
nessuno. Ma si agisce
sempre come se a questo mito si credesse. Che
gli si creda o no - ed io
non posso saperlo – la maggior parte dei
dirigenti europei non esitano
a raccontare ai loro popoli delle panzane, sul
tipo:
“Gli Stati Uniti vogliono posizionare il
loro scudo anti-missile
in Europa per difendere gli Europei da
attacchi iraniani;” “La guerra
in Afghanistan è necessaria per impedire
attentati terroristici
in Europa;” “La Francia è rientrata
nell’ambito del comando NATO
per influenzare gli Stati Uniti;”
“Noi siamo la Comunità Internazionale,
il mondo
civilizzato, e le nostre azioni sono in difesa
dei diritti dell’uomo.”
E via così!
Gli Europei accettano il
vocabolario“newspeak” della NATO, punta
massima dell’informazione. Quindi, per
designare i molteplici pretesti
per le guerre, viene utilizzato il termine
“minacce”. Un paese o una
regione che si ha l’intenzione di attaccare
sono naturalmente
“strategici”. E qualsiasi azione aggressiva è
chiaramente un
atto di “difesa”.
Qui, ancora, è l’ideologia che segue la
burocrazia, ma che
diviene una forza estremamente pericolosa. Mi
spiego.
La NATO è prima di tutto una struttura
burocratica pesante,
tenuta in piedi da interessi economici e da
carriere molteplici. Alla
base della NATO si trova il complesso
militar-industriale americano
(così definito da Eisenhower nel 1961, ma che
dovrebbe
comprendere anche il Congresso in questa sua
denominazione, in quanto
l’industria militare è sostenuta politicamente
per gli interessi
economici localizzati in quasi tutte le
circoscrizioni elettorali degli
Stati Uniti, difesi accanitamente dai
rappresentanti della specifica
circoscrizione al Congresso nel momento di
votare il bilancio).
Dopo cinquant’anni, questo complesso
costituisce ancora la base
dell’economia degli Stati Uniti – un
keynesismo militare che impedisce
un keynesismo sociale, che andrebbe a tutto
beneficio della
popolazione, ma che viene decisamente
ostacolato a causa di un
dogmatico anti-socialismo.
Al momento della “Caduta del muro”, vent’anni
fa, vale a dire del
crollo del blocco sovietico, c’è stata come
una ventata di
panico nel campo avversario. Cosa sarebbe
accaduto senza la “minaccia”,
che faceva vivere l’economia? Risposta
semplice: trovare altre
“minacce”.
Per individuare gli obiettivi sono pronti i
“think tanks”, queste
scatole di idee, questi centri studi
riccamente finanziati da settori
privati per fornire al settore pubblico – che
vuol dire il Pentagono e
i suoi emuli al Congresso e all’esecutivo – le
ragioni d’essere e di
agire al momento del bisogno.
Il seguito è noto. Sotto Reagan è stato
individuato il
paradigma del terrorismo, e Saddam Hussein
sotto Bush primo, poi il
nazionalismo serbo e le violazioni dei diritti
dell’uomo, poi
nuovamente il terrorismo, ed attualmente vi è
una autentica
esplosione di “minacce”, a cui la “Comunità
internazionale”,
altrimenti detta NATO, deve rispondere.
Un elenco non esaustivo di minacce alla
sicurezza:
il sabotaggio cibernetico; i cambiamenti
climatici; il terrorismo; le
violazioni dei diritti dell’uomo; il
genocidio; il traffico di droghe;
gli stati in disastro; la pirateria; l’aumento
del livello del mare; la
penuria di acqua; la siccità; i trasferimenti
di popolazioni; il
probabile declino della produzione agricola;
la diversificazione delle
fonti di energia. (Fonte: NATO; conferenza
tenuta l’1 ottobre 2009 ed
organizzata congiuntamente da NATO e Lloyd’s
di Londra, “the world’s
leading insurance market”, il cosiddetto
numero uno nel mercato
mondiale delle assicurazioni.)
Comunque, bisogna mettere in evidenza che la
risposta congetturata a
tutte queste minacce è necessariamente
militare, e non mai
diplomatica. Qualche volta è possibile giocare
alla diplomazia,
ma dal momento che si trova in una posizione
di predominio militare,
Washington è decisamente indotta a preferire
il trattamento
militare di qualsiasi problema.
Tutte queste minacce sono necessarie per
giustificare l’espansione
burocratica del complesso militar-industriale
e del suo braccio armato,
la NATO.
Ad unificare non è più un sistema di pensiero,
una
ideologia, ma una emozione: la paura. La paura
del diverso, la paura
dell’incognito, la paura... non importa
di cosa! E a questa paura
la sola risposta è quella di natura militare.
Questa paura uccide la diplomazia. La paura
uccide l’analisi e il
dibattito. La paura uccide il pensiero.
L’incarnazione di questa paura
aggressiva è lo Stato di Israele. E
l’Occidente, invece di
calmare la paura israeliana, l’adotta e la
interiorizza.
La Minaccia
per abitudine:
la Russia
Ma esiste una minaccia che non si trova sulla
lunga lista ufficiale, ma
che potrebbe essere la più pericolosa di
tutte, per l’Europa in
particolare. Se ne parla poco, ma assume una
posizione di
qualità nelle attività frenetiche
dell’Alleanza
atlantica: questa minaccia è la Russia.
La Russia, o piuttosto l’Unione Sovietica, era
il nemico contro il
quale tutto era organizzato, ebbene, tutto
questo continua. Siamo in
presenza della “minaccia per abitudine”, o per
inerzia burocratica.
Passo dopo passo, la NATO si trova impegnata
nell’accerchiamento
strategico della Russia, ad ovest della
Russia, a sud della Russia e a
nord della Russia.
In particolar modo ad ovest, tutti gli ex
membri del defunto Patto di
Varsavia sono divenuti membri della NATO, così
come gli Stati
Baltici, un tempo membri dell’Unione Sovietica
stessa. Alcuni di questi
nuovi membri richiedono con grande strepito un
maggiore dispiegamento
di forze americane in vista di un eventuale
conflitto con la Russia.
Qualche giorno fa, a Washington, il ministro
per gli affari esteri
della Polonia, Radek Sikorski, ha reclamato la
dislocazione di truppe
americane nel suo paese, “come scudo contro
l’aggressione russa”.
L’occasione si è presentata ad una conferenza
organizzata dal
centro studi CSIS, Center for Strategic and
International Studies,
Centro per gli Studi Strategici ed
Internazionali, sul tema “Gli Stati
Uniti e l’Europa centrale”, per celebrare la
caduta del muro di
Berlino.
Tutto questo è caratteristico di ciò che l’ex
ministro
della guerra americano Donald Rumsfeld ha
definito come “la Nuova
Europa”: Sikorski ha ricevuto la cittadinanza
britannica nel 1984
(aveva 21 anni), ha compiuto i suoi studi a
Oxford e ha sposato una
giornalista americana, e lui stesso ha
lavorato come corrispondente per
diversi giornali e televisioni americane.
Prima di diventare ministro
degli affari esteri della Polonia, Sikorski ha
trascorso parecchi anni
(dal 2002 al 2005) a Washington in centri
studi dell’American
Enterprise Institute, vivaio di
neo-conservatori, e alla New Atlantic
Iniziative nel ruolo di direttore
esecutivo.
Dunque, questo Polacco appartiene a quella
schiera molto particolare di
strateghi originari dell’Europa centrale che,
dopo l’inizio della
Guerra Fredda nel 1948, hanno influenzato in
modo considerevole la
politica estera americana. Uno dei più
importanti fra costoro,
anche lui Polacco, Zbigniew Brzezinski, alla
stessa conferenza ha
parlato delle “aspirazioni imperiali” della
Russia, delle minacce di
questa nei confronti della Georgia e
dell’Ucraina e dell’intenzione
della Russia di diventare “una potenza
mondiale imperiale”.
Viene largamente dimenticato che la Russia
aveva volontariamente e
pacificamente lasciato andare questi Stati,
che oggigiorno pretendono
di essere “minacciati”.
Ancora di più è stato dimenticato che il 9
febbraio 1990
gli Stati Uniti, in occasione delle trattative
sul futuro dei due stati
tedeschi, avevano rassicurato Gorbachev
che, se la Germania
unificata veniva assimilata nella NATO, “non
sarebbe avvenuto alcun
allargamento delle forze della NATO ad est,
nemmeno di un centimetro.”
E quando Gorbachev era ritornato su questo
argomento, puntualizzando
che “questo allargamento della zona di
influenza della NATO è
inaccettabile”, il segretario di Stato
americano James Baker
aveva risposto, “Io sono d’accordo”.
Allora, rassicurato, Gorbachev ha accettato
l’appartenenza della
Germania riunificata alla NATO credendo –
ingenuamente – che le cose si
sarebbero fermate a quel punto e che la NATO
avrebbe impedito
efficacemente il “revanscismo” tedesco. Ma,
già l’anno seguente,
il governo della Germania riunificata ha dato
fuoco alle polveri
balcaniche, appoggiando le secessioni della
Slovenia e della
Croazia...
Ma ritorniamo al presente. La mobilitazione
contro la pretesa
“minaccia” russa non si limita ai discorsi.
Mentre Sikorski lasciava a
bocca aperta per lo stupore i suoi ex colleghi
dei think tanks di
Washington, i militari erano al lavoro.
In ottobre, delle navi da guerra americane
sono arrivate direttamente
da manovre al largo delle coste scozzesi per
partecipare a delle
esercitazioni militari con le marine da guerra
della Polonia e dei
Paesi Baltici. Questo faceva parte di ciò che
il portavoce della
Marina da guerra americana descriveva come la
“presenza continua” nel
Mar Baltico, a due passi da San Pietroburgo.
In questa occasione, i responsabili dei
governi baltici parlavano di
“nuove minacce, dopo l’invasione russa della
Georgia” e di
esercitazioni navali a vasto raggio da
compiersi nell’estate prossima.
Tutto questo, mentre si progettano aumenti di
bilanci militari – 60
miliardi di euro solo da parte della Polonia
per modernizzare le sue
forze armate.
È importante sottolineare che questa attività
nel Mar
Baltico serve anche a far entrare
ufficiosamente i paesi scandinavi,
Svezia e Finlandia, storicamente neutrali,
nelle manovre e nei piani
strategici della NATO. I paesi scandinavi, con
il Canada, avranno un
ruolo da esercitare nella corsa
all’accaparramento delle risorse
minerali che potrebbero rendersi accessibili
con il ritirarsi della
calotta glaciale.
In questo modo prosegue l’accerchiamento della
Russia dalla parte
settentrionale.
Attualmente, non contenti di avere assorbito
gli Stati baltici, la
Polonia, la Cechia, la Slovacchia, l’Ungheria,
la Bulgaria e
così via, i dirigenti americani, sostenuti
vigorosamente dalla
“Nuova Europa”, insistono sulla necessità di
far entrare nel
girone dell’Alleanza cosiddetta “Atlantica”
due paesi strettamente
confinanti con la Russia, la Georgia e
l’Ucraina.
Relativamente a questi due casi, soprattutto
per quel che concerne
l’Ucraina, si avvicina pericolosamente la
possibilità di un
effettivo conflitto con la Russia.
L’Ucraina costituisce una grandissima
“Krajina”
jugoslava... in lingua slava i due
termini hanno il
significato di “frontiera”... divisa fra
Ortodossi e Cattolici-
Uniati, che ospita la grande base navale russa
di Sebastopoli, in una
Crimea la cui popolazione è di maggioranza
russa...
base reclamata dagli attuali dirigenti ucraini
che la trasferirebbero
volentieri agli Stati Uniti.
Ecco il punto vagheggiato per scatenare la
Terza Guerra Mondiale – che
sarebbe senza ombra di dubbio la vera
“ultimissima”.
I dirigenti baltici traducono l’inquietudine
russa davanti a questa
espansione della NATO come la prova della
“minaccia russa”.
Così, in una “lettera aperta
all’amministrazione Obama
dall’Europa centrale ed orientale” del luglio
scorso, Lech Walesa,
Vaclav Havel, Alexander Kwasniewski, Valdas
Adamkus e Vaira
Vike-Freiberga hanno dichiarato che “la Russia
in quanto potenza
revisionista ritorna a perseguire un programma
da 19.esimo secolo con
le tattiche e i metodi da 21.esimo secolo”.
Secondo costoro, il
pericolo sta in quello che loro definiscono
come “l’intimidazione
larvata” e “l’influenza propagandata” (da
venditore ambulante!) della
Russia, che potrebbe alla lunga portare ad una
“neutralizzazione de
facto della regione”.
Ci si potrebbe domandare dove starebbe il
male? Ma il male sta nel
passato e il passato è nel presente.
Questi Americanofili continuano: “La nostra
regione ha sofferto quando
gli Stati Uniti hanno dovuto soccombere al
‘realismo’ di Yalta...
Se agli inizi degli anni Novanta avesse
prevalso un punto di vista
‘realistico’, oggigiorno noi non saremmo nella
NATO... ”
Ma adesso ci sono, ed esigono “un rifiorimento
della NATO”, che deve
“riconfermare la sua funzione centrale di
difesa collettiva allo stesso
tempo in cui noi ci prepariamo ad affrontare
le nuove minacce del
21.esimo secolo.” Ed aggiungono, un po’
ricattatori, che la loro
“capacità di partecipare a spedizioni lontane
è collegata
alla loro sicurezza domestica.”
La Georgia è là per mostrare il pericolo
rappresentato da
questi piccoli paesi, pronti a coinvolgere
l’Alleanza Atlantica nelle
loro dispute di frontiera con la Russia.
Ma quello che è decisamente curioso sta nel
fatto che questi
dirigenti particolarmente bellicosi di piccoli
paesi dell’Est hanno
spesso trascorso anni negli Stati Uniti in
istituzioni vicine al potere
e possiedono la doppia nazionalità. Diventano
patrioti dei loro
piccoli paesi in quanto si sentono protetti
dall’unica superpotenza
mondiale, cosa che può indurre ad una
aggressività
particolarmente irresponsabile.
Questo presidente georgiano, Mikeil
Saakachvili, che nell’agosto 2008
non ha esitato a provocare una guerra contro
la Russia, è stato
borsista del Dipartimento di Stato degli Stati
Uniti negli anni
Novanta, conseguendo i diplomi delle
università di Columbia e di
George Washington, nella capitale.
Fra i firmatari della lettera citata, bisogna
far notare che Valdas
Adamkus è in buona sostanza un Americano,
immigrato dalla
Lituania negli anni Quaranta, che ha servito
nel servizio informazioni
militare americano e nell’amministrazione
Reagan, che lo ha decorato, e
che è rientrato in pensione in Lituania nel
1997... per essere
immediatamente eletto come Presidente di
questo Stato dal 1998 fino al
luglio scorso.
Il percorso di Vaira Vike-Freiberga è
esemplificativo: di una
famiglia fuggita dalla Lettonia verso la
Germania nel 1945, ella ha
fatto carriera in Canada prima di rientrare in
Lettonia giusto in tempo
per essere eletta Presidente della Repubblica
dal 1999 al
2007.
La
Costruzione europea
contro il mondo
Abbracciando queste paure, che sono
all’origine di costrutti per
giustificare una militarizzazione, gli Stati
membri dell’Unione Europea
si pongono in contrapposizione con il resto
del mondo, visto che questo
sembra essere una fonte inesauribile di
“minacce”.
La capitolazione incondizionata dell’Europa
dinanzi alla burocrazia
militar-industriale e alla sua ideologia del
terrore è stata
confermata recentemente dal ritorno della
Francia nell’ambito del
comando NATO.
Una delle ragioni di questa capitolazione è la
psicologia dello
stesso presidente Sarkozy , la cui adorazione
per gli aspetti
più superficiali degli Stati Uniti si è
espressa nel suo
discorso imbarazzante tenuto al Congresso
degli Stati Uniti nel
novembre 2007.
L’altra causa, meno evidente ma più decisiva,
è
costituita dalla recente espansione
dell’Unione Europea (UE).
L’inglobamento rapido di tutti gli ex
satelliti dell’Europa dell’Est,
così come delle ex repubbliche sovietiche di
Estonia, Lettonia e
Lituania, ha radicalmente cambiato gli
equilibri di potere in seno alla
stessa UE.
Le nazioni fondatrici, la Francia, la
Germania, l’Italia e i paesi del
Bénélux, non possono più guidare l’Unione
verso
una politica estera e di sicurezza
unitariamente.
Dopo il rifiuto della Francia e della Germania
di accettare l’invasione
dell’Iraq, Donald Rumsfeld ha gettato il
discredito su questi due
paesi, come facenti parte della “vecchia
Europa” e si è
compiaciuto della volontà espressa dalla
“nuova Europa” di
seguire l’esempio degli Stati Uniti.
La Gran Bretagna ad ovest e i “nuovi”
satelliti europei ad oriente sono
più affini agli Stati Uniti, che non
all’Unione Europea, che li
ha accolti e che fornisce loro un
considerevole aiuto economico per lo
sviluppo e un “diritto di veto” su importanti
questioni
politiche.
È vero anche che, pur estranea al comando
integrato della NATO,
l’indipendenza della Francia era solo
relativa. La Francia ha seguito
gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo –
il Presidente
François Mitterrand sperava inutilmente di
guadagnare crediti a
Washington, il solito miraggio che attira gli
alleati nelle operazioni
statunitensi poco trasparenti. La Francia si è
unita alla NATO
nel 1999 nella guerra contro la Jugoslavia,
malgrado le
perplessità e i dubbi raggiungessero i più
alti livelli.
Ma nel 2003, il Presidente Jacques Chirac e il
suo ministro per gli
affari esteri Dominique de Villepin hanno
realmente messo in campo la
loro indipendenza rigettando l’invasione
dell’Iraq. Viene generalmente
riconosciuto che la posizione francese ha
permesso alla Germania di
fare lo stesso. Il Belgio si accodava.
Il discorso di Villepin, il14 febbraio 2003,
al Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, che assegnava la priorità
al disarmo e alla
pace sulla guerra, riceveva una rara ovazione
tutti-in-piedi, una
“standing ovation”. Il discorso di Villepin
divenne immensamente
popolare in tutto il mondo ed accrebbe
enormemente il prestigio della
Francia, in particolare nel mondo arabo. Ma,
al suo ritorno a Parigi,
l’avversione personale fra Sarkozy e Villepin
raggiungeva vertici di
contrapposizione passionale e la persecuzione
di Villepin coinvolto nel
poco chiaro “affaire Clearstream”
rappresenta l’affossamento
delle ultime velleità di indipendenza politica
della Francia
sotto una valanga di fango
vendicatore.
Oggi, chi parla per conto della Francia?
Ufficialmente Bernard
Kouchner, profeta dell’ingerenza umanitaria
che, lui sì, aveva
approvato l’invasione dell’Iraq.
Ufficiosamente, i cosiddetti
“neo-conservatori”, che sarebbe meglio
definire come “imperialisti
sionisti”, visto che il loro autentico
progetto è un nuovo
imperialismo occidentale aggressivo, in seno
al quale ad Israele
spetterebbe un posto in prima fila.
Il 22 settembre 2009, “The Guardian” di Londra
ha pubblicato una
lettera che faceva appello all’Europa perché
prendesse le parti
della Georgia nel conflitto per l’Ossezia del
Sud.
Sottoscritta da Vaclav Havel, Valdas Adamkus,
Mart Laar, Vytautas
Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn
Bendit, Timothy Garton Ash,
André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri
Lévy, Adam
Michnik e Josep Ramoneda, la lettera
profferiva le solite
banalità pretenziose sulle “lezioni della
storia”, si intende,
tutte giustificanti l’utilizzazione della
potenza militare occidentale:
Monaco, il patto Ribbentrop-Molotov, il muro
di Berlino.
I firmatari esortavano i 27 dirigenti
democratici dell’Europa a
“definire una strategia in grado di produrre
cambiamenti per aiutare la
Georgia a riprendersi pacificamente la sua
integrità
territoriale ed ottenere il ritiro delle forze
russe stazionanti
illegalmente sul suolo georgiano... ”
Nel frattempo, gli alleati della NATO
continuano ad ammazzare e a farsi
ammazzare in Afghanistan. Ci si potrebbe
domandare quali sono i veri
obiettivi di questa guerra, che, all’inizio,
si incentravano nella
cattura e nella punizione di Osama bin Laden.
Un diverso obiettivo,
più riservato, è valido quale che sia lo
sbocco di questo
conflitto: l’Afghanistan serve a forgiare un
esercito internazionale
come forza di polizia per controllare sullo
stile americano la
“globalizzazione”.
L’Europa è soprattutto una “scatola degli
attrezzi” nella quale
gli Stati Uniti possono attingere per
perseguire ciò che in
buona sostanza è un progetto di conquista
planetaria.
O, come viene dichiarato ufficialmente, di
“buona governance”, la buona
conduzione di un mondo “globalizzato”.
Gli “imperialisti sionisti” sono sicuramente
consapevoli di questo
obiettivo e lo sostengono. Ma gli altri? A
parte alcuni “illuminati”,
si ha l’impressione di un’Europa sonnambula,
senza un pensiero e senza
volontà, che segue la voce del suo maestro
americano, nella
speranza che Obama salverà il mondo. Più
triste che ai
tropici!
Per concludere, vorrei ritornare alla famosa
“Costruzione europea”.
Sono consapevole che esisteva un’epoca
in cui era lecito, e quasi
sensato, sperare che le vecchie nazioni
europee si mettessero insieme
pacificamente in quello che Gorbatchev, questo
grande “cornuto” della
storia, chiamava “la nostra casa comune”. Ma
dopo, ci sono stati
Maastricht, il neo-liberismo, il Trattato
costituzionale respinto e poi
adottato contro ogni procedura democratica, e
soprattutto gli
allargamenti sconsiderati verso i paesi i cui
dirigenti pensano di
proseguire la Guerra fredda fino alla totale
umiliazione della
Russia.
Attualmente, questa costruzione ha del
paradossale: si nutre di Utopia,
che distoglie dal presente, in attesa di un
avvenire che domina
l’orizzonte. E perciò, è vuota di contenuti. È
molto più ispirata dalla paura e dalla
vergogna del passato che
da speranze per il futuro.
L’Europa delle nazioni ha perso la sua
fierezza e la stessa sua ragion
d’essere nelle due grandi guerre del ventesimo
secolo, nel
“totalitarismo”, ma soprattutto – e questo è
relativamente
recente, per essere precisi dopo il 1967 – a
causa dell’Olocausto.
L’Europa deve mettersi nell’impossibilità di
commettere una
nuova Shoah con l’abolizione dello Stato
nazione, giudicato
intrinsecamente colpevole, per divenire
“multiculturale” e con l’unirsi
alla Crociata guidata dal suo salvatore
storico, gli Stati Uniti, per
recare il buon governo e i Diritti dell’Uomo
al mondo
intero.
L’Unione Europea non ha contenuti, è votata a
fondersi nella
“Comunità Internazionale”, a fianco degli
Stati Uniti. Dunque,
la Costruzione europea è anzitutto una
“decostruzione”, per
mutuare un termine filosofico.
Questo miraggio nasconde un futuro totalmente
imprevisto e, all’oggi,
imprevedibile.
Diana
Johnstone
è l’autrice di
“Fools'
Crusade: Jugoslavia, Nato, and Western
Delusions – La
Crociata degli Inganni: Jugoslavia, Nato e
Allucinazioni Occidentali”
pubblicato da Monthly Review Press.