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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



Miscellanea
su strategia della tensione e stragi della NATO in Italia

Vedi anche:
www.casarrubea.wordpress.com
documenti di archivi Nara, Kew Garden, Lubiana, Sis, ecc. sul (neo)fascismo italiano a cura di G. Casarrubea e M. J. Cereghino


 
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Documento
Costitutivo
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Due nuovi Dossier curati da Claudia Cernigoi:

1) ALLA RICERCA DI NEMO
Una spy-story non solo italiana

Dossier n.46 de La Nuova Alabarda - Trieste 2013


PREMESSA
PROLOGO: APPUNTI SULLA LOTTA DI LIBERAZIONE IN ITALIA
La Resistenza bianca
Servizi & Servizi
L’arresto di Ferruccio Parri
PARTE PRIMA: NAZIFASCISMO E RESISTENZA A TRIESTE
La retata contro il CLN triestino nel febbraio 1945
Breve storia del CLN di Trieste fino alla fine del 1944
I triestini di Nemo
La “situazione triestina” secondo Nemo
Da gennaio 1945 all’insurrezione
Il Comitato di Salute Pubblica
Il capitano Podestà arriva a Trieste
“Trieste città libera”
Podestà allarga il proprio giro
Le varie delazioni di Giorgio Bacolis
La prigionia di Podestà
Podestà ritorna libero
Perché Podestà e Bergera furono arrestati dagli Jugoslavi?

Le missioni a Trieste dopo la Liberazione
La missione del CLN giuliano al Sud
PARTE SECONDA: ALLA RICERCA DI NEMO
“Nemo Op. Sand II”
Una rete con tante maglie
Momenti di Sogno
La Relazione di Elia sulla sua attività nella Missione Nemo
La struttura della Nemo
Chi pagava?
Attività informativa
Un’operazione non riuscita
La rete di Parma e don Paolino Beltrame
Due vicende poco chiare
La collaborazione di Cersosimo
Don Paolino in missione a Roma
Le relazioni della Nemo
Una collaborazione ambigua...
PARTE TERZA: LE OPERAZIONI SUNRISE – CROSSWORD E WOLLE
Operation Sunrise
La stay behind nazista (operazione Cypresse)
L’attività dell’agente Corvo
Il Servizio Scotti
La fuga e la cattura di Mussolini
Emilio Daddario e la liberazione di Graziani
Il Piano Graziani (prima parte)
EPILOGO
Il piano Graziani (seconda parte)
Il Piano Solo
Il passato che non passa


http://www.diecifebbraio.info/2013/06/alla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2/


2) DOSSIER MARIA PASQUINELLI

Dossier n. 47 de La Nuova Alabarda - Trieste 2013


PREMESSA
IL PERIODO FASCISTA
LA SCUOLA DI MISTICA FASCISTA
CROCEROSSINA IN AFRICA, CON VELLEITA' DI COMBATTENTE
INSEGNANTE IN DALMAZIA
AGENTE DI COLLEGAMENTO IN VENEZIA GIULIA E FRIULI
LE INFORMAZIONI SULLE FOIBE
I DUE MEMORIALI
LA FRANCHI DI SOGNO E TERESIO GRANGE
POSIZIONE PRIVILEGIATA ALLA FINE DELLA GUERRA
A GUERRA FINITA
STRATEGIA DELLA TENSIONE IN ISTRIA
LA STRAGE DI VERGAROLLA
L'ASSASSINIO DEL GENERALE DE WINTON
I SERVIZI ERANO STATI INFORMATI CON LARGO ANTICIPO (PERO' NON FECERO NULLA)
LA PISTOLA
IL PROCESSO
L'AVVOCATO LUIGI GIANNINI
APERTA PARENTESI: LA VICENDA DI ENRICO GIANNINI, FIGLIO DELL'AVVOCATO LUIGI
LA DETENZIONE ED I RAPPORTI CON ANTONIO SANTIN
DA IMPUTATA A TESTIMONE
LA GRAZIA AL TEMPO DEL PIANO SOLO
ED OGGI?


http://www.diecifebbraio.info/2013/07/dossier-maria-pasquinelli/



http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20981

Il golpe inglese

di Filippo Ceccarelli

su la Repubblica del 13/01/2008

I documenti degli archivi britannici, appena desecretati gettano una luce cruda sul backstage della Guerra Fredda Dalle carte segrete del Foreign Office l'idea di un colpo di Stato in Italia Repubblica ha trovato e può rendere noti testi elaborati nel 1976 in cui s'ipotizzava il "Coup d'Etat", poi scartato perché "irrealistico"

A mali estremi, estremi rimedi. Anche questo fu la guerra fredda in Italia, là dove il male estremo, più che una generica idea di comunismo, era la concretissima possibilità che il Partito comunista italiano andasse al potere.

Era il 1976, l'anno delle elezioni più drammatiche dopo quelle del 1948. Ebbene: dinanzi al male assoluto che un governo con il Pci avrebbe arrecato al sistema di sicurezza dell'Alleanza atlantica, nel novero degli estremi e possibili rimedi il fronte occidentale, le potenze alleate e in qualche misura la Nato presero in considerazione anche l'ipotesi di un colpo di Stato. Un "coup d'Etat", letteralmente: alla francese. Eventualità scartata in quanto "irrealistica" e temeraria.

Nei documenti britannici di cui Repubblica è venuta in possesso grazie alla norma che libera dal segreto le carte di Stato dopo trent'anni, ce n'è uno del 6 maggio 1976, ovviamente super-segreto, elaborato dal Planning Staff del Foreign Office, il ministero degli esteri inglese, e intitolato "Italy and the communists: options for the West". All'inizio di pagina 14, tra le varie opzioni, si legge in maiuscolo: "Action in support of a coup d'Etat or other subversive action". Il tono del testo è distaccato e didattico: "Per sua natura un colpo di Stato può condurre a sviluppi imprevedibili. Tuttavia, in linea teorica, lo si potrebbe promuovere. In un modo o nell'altro potrebbe presumibilmente arrivare dalle forze della destra, con l'appoggio dell'esercito e della polizia. Per una serie di motivi - continua il documento - l'idea di un colpo di Stato asettico e chirurgico, in grado di rimuovere il Pci o di prevenirne l'ascesa al potere, potrebbe risultare attraente. Ma è una idea irrealistica". Seguono altre impegnative valutazioni che ne sconsiglierebbero l'attuazione: la forza del Pci nel movimento sindacale, la possibilità di una "lunga e sanguinosa" guerra civile, l'Urss che potrebbe intervenire, i contraccolpi nell'opinione pubblica dei vari paesi occidentali. E dunque: "Un regime autoritario in Italia - concludono gli analisti del Western European Department del Foreign and Commonwealth Office (Fco) - risulterebbe difficilmente più accettabile di un governo a partecipazione comunista".

In politica estera i documenti diplomatici, specie se a uso interno, hanno una loro fredda determinazione. Gli interessi sono nudi, non di rado venati di cinismo. Questi che raccontano la crisi italiana prima e dopo le elezioni del 20 giugno 1976 provengono dai faldoni desecretati dell'archivio del premier britannico e del ministero degli esteri. Sono centinaia e centinaia di fogli: corrispondenza fra i grandi del mondo occidentale, resoconti di riunioni e incontri, analisi di rischio, lettere di accompagnamento, policy papers, telegrammi, schede, studi comparati (l'Italia come il Portogallo della rivoluzione dei garofani, ad esempio), relazioni dirette alle ambasciate di Sua Maestà a Roma, Parigi, Bonn, Washington e Bruxelles, quartier generale della Nato.

In questo abbondante materiale non c'è, ovviamente, solo la rivelazione del golpe. Eppure, mai come in queste testimonianze scritte il "Fattore K", come "Kommunism", cioè l'impossibilità per il Pci di essere accettato al governo nel quadro degli equilibri decisi a Yalta, trova la sua più realistica rappresentazione. E al massimo livello. Ad esempio. Grazie all'ambasciatore americano a Londra, Elliot L. Richardson, si viene a conoscere il testo di una lettera privata che il Segretario di Stato Henry Kissinger scrive in gennaio all'allora presidente dell'Internazionale socialista Willy Brandt a proposito della crescita comunista in Italia, Spagna e Portogallo: "Ho il dovere di esprimere la mia forte preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare. La natura politica della Nato sarebbe destinata a cambiare se uno o più tra i paesi dell'Alleanza dovessero formare dei governi con una partecipazione comunista, diretta o indiretta che sia. L'emergere dell'Urss come grande potenza nello scenario mondiale continua a essere motivo di inquietudine. Il ruolo della Nato, così come la nostra immutata posizione militare in Europa, è indispensabile e cruciale. La mia ansia consiste nel fatto che questi punti di forza saranno messi in pericolo nel momento in cui i partiti comunisti raggiungeranno posizioni influenti nell'Europa occidentale".

Dei vari protagonisti Kissinger è senz'altro il più caparbio e intransigente. Mentre i vertici della Nato sono fin dall'inizio i più irrequieti. Scrivono il 25 marzo dal ministero della Difesa britannica ai colleghi degli Esteri: "La presenza del Pci nel governo italiano e conseguentemente l'accresciuta minaccia di sovversione comunista potrebbero collocare l'Alleanza e l'Occidente dinanzi alla necessità di prendere una decisione grave". È chiaro che la partita va ben oltre le faccende italiane: "L'arrivo al potere dei comunisti - si legge in un documento interno del Fco - costituirebbe un forte colpo psicologico per l'Occidente. L'impegno Usa verso l'Europa finirebbe per indebolirsi, potrebbero così sorgere tensioni gravi fra gli americani e i membri europei della Nato su come trattare gli italiani". Ma al tempo stesso c'è il rischio che un governo con Berlinguer sconvolga gli equilibri consolidati da trent'anni di guerra fredda creando problemi anche all'Urss, e qui i diplomatici inglesi sottolineano il pericolo che "le idee riformiste si diffondano in Russia e nell'Europa dell'Est". Il Pci di Berlinguer, e più in generale quello che allora andava sotto il nome di "eurocomunismo", costituisce a loro giudizio una vera e propria "eresia revisionista" e il suo sbocco governativo porterebbe il dibattito teorico della chiesa marxista sul terreno della politica reale. Il Pcus ha tutte le ragioni per temere il "contagio" di un "comunismo alternativo" al potere in occidente. E tuttavia, secondo altre analisi, su un piano più immediatamente geopolitico e militare per l'Urss "i vantaggi supererebbero di gran lunga gli svantaggi, specie in relazione all'indebolimento della Nato".

E insomma, sarebbe un evento "catastrofico". La parola risuona più e più volte nei papers in attesa delle elezioni italiane. Da Bruxelles, soprattutto, fanno presente che il tempo stringe e per questo occorre prepararsi al peggio. "La presenza di ministri comunisti nel governo italiano porterebbe a un immediato problema di sicurezza nell'Alleanza - scrive a Londra l'ambasciatore inglese alla Nato, John Killick - Qualunque informazione in mano ai comunisti dovrà essere automaticamente considerata a rischio. I comunisti al potere altro non sono che l'estensione di una minaccia contro la quale la Nato si batte. Dunque, è preferibile una netta amputazione (dell'Italia, ndr) piuttosto che una paralisi interna".

La questione vitale riguarda la sicurezza nucleare, quindi la dislocazione e la custodia delle bombe atomiche: anche senza ministri comunisti alla Difesa e agli Esteri, un'Italia governata dal Pci va comunque esclusa dal Nuclear Planning Group: "Per dirla con parole crude - chiarisce il Ministero della Difesa - il rischio è che i documenti sensibili finiscano a Mosca". Altri problemi hanno a che fare con le basi militari e navali della Nato nella penisola: "Considerata l'alta percentuale degli italiani che votano Pci, è quasi certo che alcuni simpatizzanti di questo partito hanno già penetrato il quartier generale della Nato a Napoli (Afsouth). Sul lungo termine il Pci potrebbe accentuare lo spionaggio oppure spingere per rimpiazzare gradualmente i funzionari nei posti chiave dell'Alleanza con elementi comunisti". A parte gli scioperi, i blocchi e le manifestazioni che potrebbero essere organizzate attorno alle installazioni militari. In caso di guerra, possono nascere problemi seri: "La perdita del quartier generale di Napoli, ad esempio, avrebbe un effetto negativo sulle operazioni della Sesta Flotta nel Mediterraneo Orientale".

Il sistema di edifici in vetro, acciaio e cemento che ospita i National Archives a Kew Gardens, venti minuti di metropolitana a sud di Londra, sembra una via di mezzo tra una serra e una pagoda. Qui dentro sono conservati circa trenta milioni di record, dall'alto medioevo ai giorni nostri. Intorno, cottage, boschi, giardini e un piccolo lago artificiale popolato da oche e anatre. Nell'immensa reading room climatizzata, insonorizzata e strettamente sorvegliata da telecamere e dal personale in elegante giacca blu, il ricercatore Mario J. Cereghino ha passato varie settimane. Su uno dei grandi tavoli esagonali in legno scuro si sono via via ammonticchiati fascicoli su fascicoli, tutti originali, ingialliti dal tempo. Trent'anni e oltre: è attraverso queste carte che si può osservare, come mai finora, il backstage della guerra fredda.

L'Italia del 1976, come si sarà capito, è un paese in crisi. La formula del centrosinistra è morta; i comunisti hanno ottenuto un grande successo alle amministrative dell'anno prima conquistando il governo di diverse regioni e importanti città; il Psi, di cui è segretario l'anziano De Martino, ha aperto la crisi al buio; mentre ancora tramortita dalla sconfitta nel referendum sul divorzio e sotto accusa per una serie di scandali, la Dc sembra per la prima volta allo sbando, più che divisa, divorata dalle faide. A reggere le sorti del governo nei primi mesi dell'anno c'è un pallido bicolore Moro-La Malfa, cui segue, per gestire le elezioni anticipate, un ancora più esangue monocolore sempre diretto da Moro. La maggioranza è in pezzi, Berlinguer appare il personaggio del momento e da anni ormai ha posto sul tavolo l'offerta del Compromesso storico.

L'ambasciatore britannico a Roma, Sir Guy Millard, è un uomo molto sottile e per giunta dotato di una buona penna. "Berlinguer - scrive a Londra, al Segretario di Stato - è una figura attraente, ispira fiducia con la sua oratoria. Ciò che dice è credibile e lui lo afferma in modo convincente". Ma proprio per questo non c'è da fidarsi. "Il suo ingresso nel governo porrebbe la Nato e la Comunità europea dinanzi a un problema serio e potrebbe rivelarsi un evento dalle conseguenze catastrofiche". Quali Millard lo spiega in modo incalzante: la "disintegrazione" della Dc, innanzi tutto, poi il calo degli investimenti, la fuga dei capitali, la caduta di fiducia nelle imprese, l'intervento drastico del governo nello Stato e di conseguenza "la rapida fine del sistema di libero mercato". Cosa fare per tenere il Pci alla larga dal governo? "Non molto, temo". E aggiunge: "È un peccato che la difesa dell'Italia dal comunismo sia nelle mani di un partito così carente come la Dc".

Dello scudo crociato, dopo il congresso che a marzo ha visto la vittoria di Benigno Zaccagnini su Arnaldo Forlani, Millard va a parlare con l'ambasciatore americano a Roma John Volpe. Secondo quest'ultimo, Forlani "è una brava persona, ma non è un combattente", Zac invece "piace molto ai giovani", gli Usa lo appoggiano anche se preferirebbero Forlani e Fanfani che sono più anticomunisti. Parlano anche di Moro: "Qualche volta - sostiene Millard - sembra piuttosto ambiguo sul Compromesso storico". Volpe concorda: "È un pessimista, troppo incline a ritenerlo inevitabile". È questa specie di rassegnazione la colpa che gli americani attribuiscono all'astuta, ma imbelle classe di governo democristiana. In un rapporto del 23 marzo si legge che al Dipartimento di Stato Usa sono molto preoccupati: "La situazione italiana va deteriorandosi e non si sa come agire". Di qui al sospetto che la Dc faccia il doppio gioco il passo è breve: "Piuttosto che perdere il potere, preferirebbe spartirlo con il Pci".

Ai primi di aprile il rappresentante britannico presso la Santa Sede, Dugald Malcolm, va a trovare il Patriarca di Venezia, monsignor Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I: "Il Patriarca sembra aver assunto una posizione incline alla catastrofe. L'argomento trattato era sempre uno: l'avanzata del Pci". È il periodo in cui i comunisti italiani corteggiano i cattolici (alcuni di questi finiranno eletti nelle loro liste di lì a qualche mese). Su questo Luciani è intransigente: "Non si può essere al contempo cristiani e marxisti". Al diplomatico inglese racconta di aver dei problemi con alcuni sacerdoti della sua diocesi "che si sentono in obbligo di convertirsi al comunismo". In un'isola della laguna un gruppo di scout ha addirittura sostituito il crocifisso con la foto di Mao. Nel congedarsi, il prossimo pontefice sussurra: "Siamo nella mani di Dio". E aggiunge: "Che comunque sono buone mani".

Per i laici l'ambasciatore Millard consulta Giovanni Spadolini. Lo trova piuttosto agitato: "È un sintomo grave che il presidente Moro abbia convocato Berlinguer a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei ministri. Così ora i comunisti fanno virtualmente parte della maggioranza, ma non sono più in grado di dare ordini alla classe operaia. Per farlo - scherza, ma non troppo Spadolini - avrebbero bisogno dell'Armata rossa". E comunque: "Il Pci è ormai parte integrante del sistema politico, che sta andando a pezzi. L'unica speranza è che sia contaminato dal potere come gli altri partiti". Parla da intellettuale, ma anche come ex ministro (dei Beni culturali, nel dicastero Moro-La Malfa): "La polizia è insoddisfatta e il quaranta per cento degli agenti sarebbe pronto a partecipare a un colpo di stato di sinistra. I carabinieri invece sono molto più affidabili". Commento di Millard: "Si percepisce un clima di profonda depressione, quasi di disperazione, per non dire di panico".

Il tempo stringe, è la formula che risuona nei documenti britannici. A Londra Henry Kissinger incontra il nuovo ministro degli Esteri di Sua Maestà, Antony Crosland. Da parte americana si avverte un indubbio nervosismo: "La questione dell'obbedienza del Pci a Mosca è secondaria. Per la coesione dell'occidente - è ora la tesi di Kissinger - i comunisti come Berlinguer sono più pericolosi del portoghese Cunhal". Ribatte Crosland: "Il Pci non avrebbe il prestigio di cui gode se gli altri partiti italiani non fossero messi così male. Ma vi sono segni di decadenza anche tra i comunisti, corruzione, come nel caso di Parma". E francamente colpisce che leader così potenti si abbassino a parlare di un piccolo scandalo edilizio che nell'autunno del 1975 coinvolse l'amministrazione rossa della città emiliana. La risposta di Kissinger, comunque, sembra stizzita: "Sembrano tutti ipnotizzati dai successi del Pci, senza avere idea di cosa fare per bloccarne l'ascesa".

Il 13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department del Foreign Office elabora un dossier che ha proprio il compito di stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse a seconda dei vari scenari. La prima parte è dedicata appunto a come impedire che il Pci vada al governo e sono indicati i vari passi da compiere: finanziamento degli altri partiti, orchestrazione di campagne stampa sul pericolo, attacco alla credibilità delle Botteghe Oscure, moniti ai sovietici.

Nella seconda parte il documento offre delle soluzioni per così dire pratiche nel caso il Pci sia già riuscito a conquistare una quota di potere, cioè sia già andato al governo. A questo punto gli scenari sono cinque, e cinque di conseguenza le options, ciascuna esaminata a seconda dei vantaggi e degli svantaggi. La linea più morbida è definita "Business as usual" e prevede di "continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato". Seguono, in ordine di gravità, "misure di ordine pratico-amministrativo" per "salvaguardare i segreti e i processi decisionali dell'Alleanza atlantica". Come ulteriore scelta, sempre rispetto all'Italia, gli inglesi si riservano di mettere in atto una "persuasione di tipo economico" che si traduce in una serie di pressioni anche sul piano della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale. Entrerebbero in gioco, in quel caso, posti di potere in tali organismi, benefici, prestiti. "Occorre comunque precisare - si legge - che tali misure cesserebbero se il Pci abbandonasse il governo".

La option number four ha un titolo che, anche in lingua inglese, non è che suoni proprio tranquillizzante: "Subversive or military intervention against the Pci". Ecco come comincia: "Questa opzione copre una serie di possibilità: dalle operazioni di basso profilo al supporto attivo delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con l'obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di Stato incoraggiato dall'esterno". Vantaggi: "Tali misure possono aiutare a rimuovere il Pci dal governo". Svantaggi: "Vi sono immense difficoltà pratiche per portare a compimento questo tipo di operazione. Vista la situazione italiana, è estremamente improbabile che un'operazione coperta rimanga segreta a lungo. La sua rivelazione può danneggiare gli interessi dell'occidente e aiutare il Pci a giustificare in maniera più decisa il suo controllo sulla macchina del governo. Inoltre, la pubblica opinione dei paesi occidentali potrebbe prenderla male col risultato di creare tensioni all'interno della Nato, soprattutto fra Usa e alleati europei, nel caso gli americani assumano il comando dell'iniziativa". E conclude: "Anche se l'intervento esterno servisse a rimuovere il Pci dal potere, la situazione politica italiana rimarrebbe instabile, rafforzando così l'influenza comunista e quella dell'Urss sul lungo periodo".

L'ultima opzione prevede, seccamente, "l'espulsione dell'Italia dalla Nato". Vantaggi: "Si tutelano i segreti e si elimina la possibilità che l'Italia comprometta l'alleanza dall'interno". Ma in questo caso, secondo gli analisti del Fco, si arriverebbe alla "chiusura di tutte le basi nel paese, destinato a diventare neutrale con un orientamento verso l'occidente. Ma l'Italia potrebbe anche evolversi in una sorta di Yugoslavia. Al limite, potrebbe anche offrire agevolazioni di tipo militare all'Urss in cambio di denaro". In ogni caso, conclude il dossier, "si renderebbe necessaria una revisione della strategia difensiva della Nato sul fianco Sud. La Sesta Flotta ne sarebbe danneggiata. Grecia e Turchia potrebbero chiedersi se valga la pena continuare a far parte dell'alleanza. Potrebbe anche essere compromessa la capacità americana di intervenire in Medio Oriente e di influenzare quei paesi a livello politico. Di conseguenza, il ritiro dell'Italia dalla Nato si trasformerebbe di fatto in una sconfitta dell'occidente di fronte al mondo intero".

Dopo tanto tempo viene da chiedersi, e pure con un certo sgomento, se e in che misura nel 1976 gli italiani fossero consapevoli dei rischi che correvano. Si ha qualche scrupolo a montare un caso di golpismo postumo, per giunta irrealizzato. Eppure, c'è da dire che mai come allora l'idea stessa del golpe, la minaccia di golpe, le voci di golpe, la vigilanza e l'autodifesa in caso di golpe, erano entrate da tempo nell'immaginario politico.

C'era stata la Grecia (1967) e poi il Cile (1973); e qui il "Piano Solo" del generale col monocolo, Giovanni De Lorenzo (1964), il tentativo del "Principe nero" Junio Valerio Borghese (1970) e la Rosa dei Venti (1974). Circolavano anche film (Colpo di Stato di Salce e l'indimenticabile Vogliamo i colonnelli di Monicelli) e perfino barzellette: "Dicono a De Martino: "Sono arrivati i carriarmati", e quello: "Bene, e a noi socialisti quanti ce ne toccano?""). Umorismo in verità raffreddato dalle tante, troppe stragi di quegli anni: Piazza Fontana, Reggio Calabria, Peteano, Piazza della Loggia, Italicus.

Alla metà degli anni Settanta i capi comunisti sono prudenti e qualche volta dormono fuori casa: "Non ci prenderanno a letto", garantisce Pajetta. Ogni tanto qualche capo democristiano, ad esempio Moro, se ne esce con criptiche denunce tipo: "Sta prendendo corpo un torbido disegno eversivo". Ogni tanto finisce in prigione qualche generale dei servizi segreti, accusato di cospirazione politica e insurrezione armata: proprio nel febbraio del 1976 tocca al generale Gianadelio Maletti, mentre a maggio la magistratura di Torino chiede l'arresto di Edgardo Sogno, figura di spicco della Resistenza non comunista, poi divenuto così acceso anticomunista da farsi ispiratore di un golpe detto "bianco", para-legalitario. Scrive Pier Paolo Pasolini nell'articolo sulle lucciole, la cui scomparsa nelle campagne definiva poeticamente la grande mutazione antropologica degli italiani: "È probabile che il vuoto di potere stia già riempiendosi attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato".

Perché si potrà anche sorridere di questa strisciante mitomania golpistica, dietrologica e pistarola; così come del comandante della Guardia Forestale Berti, con il suo spadone, che nella notte dell'Immacolata Concezione, da Cittaducale, provincia di Rieti, si lancia alla conquista del Viminale. Ma assai meno viene da sorridere leggendo il rapporto top-secret inviato a Londra dall'addetto militare dell'ambasciata britannica a Roma, colonnello Madsen, un mese esatto prima delle elezioni del 20 giugno. Titolo: "La reazione delle forze armate italiane alla partecipazione comunista al governo e l'effetto che essa può avere sul contributo dell'Italia alla Nato". Sono undici pagine fitte e dettagliatissime, dai piani di ristrutturazione appoggiati dal Pci al movimento dei "proletari in divisa" organizzato da Lotta continua. E di nuovo le conclusioni dell'indagine vanno a parare sul colpo di Stato: "Gli ufficiali delle Forze armate sono per la maggior parte di destra o di estrema destra. Tuttavia i soldati di leva riflettono le inclinazioni politiche tipiche dell'Italia attuale. In teoria, se non in pratica, il Pci potrebbe contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate. Una eccezione importante è costituita dai Carabinieri, ottantaseimila uomini tra i quali il Pci non ha appoggi. Ma i Carabinieri sono tradizionalmente leali al governo, qualunque sia il suo colore politico".

Rispetto all'ipotesi di un governo con i comunisti, sostiene il colonnello che "il sentimento degli ufficiali è generalmente di preoccupazione. È difficile individuare nelle Forze armate un nucleo abbastanza forte o influente da promuovere un golpe. L'unica possibile eccezione è quella dei Carabinieri. Nell'attuale situazione è improbabile che i militari lo appoggino. Tuttavia potrebbe in breve crearsi una situazione tale da favorire un putsch militare "per l'ordine pubblico", soprattutto se i risultati delle elezioni del 20 giugno generassero una situazione di incertezza politica". La premessa è che si tratta di uno "scenario ipotetico". Ma al tempo stesso il colonnello Madsen segnala al suo ministro della Difesa che "nei piani di ristrutturazione, le forze armate italiane hanno di recente rafforzato le formazioni territoriali e quelle dei parà con l'obiettivo di condurre operazioni di salvaguardia della sicurezza nazionale, nel caso venga meno l'ordine pubblico".

Beato il paese che non ha paura del proprio passato. E che in nome della democrazia e della trasparenza apre regolarmente i suoi archivi a studiosi, appassionati e gente comune. Detto questo, a rileggere queste carte, si resta colpiti da un dubbio: meritava, l'Italia, la società italiana, di essere sorvegliata in quel modo? Come una repubblica delle banane in mezzo al Mediterraneo? Torna alla memoria quel 1976: "E l'Italia giocava alle carte/ e parlava di calcio nei bar" come ne La presa del potere di Gaber. Si resta un po' interdetti fronte a certe canzoni di allora: "E la Cia ci spia - questo è un Finardi d'annata - e non vuole più andare via". L'Italia degli scioperi, della guerriglia urbana, dell'austerità, della disoccupazione, dell'inflazione, dei mini-assegni al posto degli spiccioli. Parco Lambro e Porci con le ali. Ma anche l'Italia del boom di Benetton, del femminismo, della nascita di Repubblica e delle radio libere, degli ultimi Caroselli e dell'arrivo in tv della banda di Renzo Arbore, con Roberto Benigni improbabile critico cinematografico la domenica pomeriggio. E Gimondi, Panatta, la Ferrari di Niki Lauda. E il terremoto del Friuli, i matrimoni che diminuivano, Gheddafi nella Fiat, le Br che cominciano ad uccidere, il giudice Coco, a Genova, l'8 giugno 1976. Mai che le carte inglesi facciano riferimento al terrorismo rosso e nero di quella stagione di piombo.

Insomma, non c'era solo Berlinguer. Ma in quella primavera fra Londra, Washington e Bruxelles sembra davvero che non pensino ad altro. Il 6 maggio il Fco produce un secondo documento che integra e sviluppa il manuale di metodologia anticomunista del 13 aprile. E tuttavia proseguendo nella lettura si capisce che sull'uso di questi record nei contatti internazionali con gli alleati sorgono dei problemi. Il segretario di Stato si preoccupa delle "implicazioni politiche" di una linea così rigida. Nell'ambito dell'amministrazione britannica, che è pur sempre costituita da laburisti, ci sono delle diverse valutazioni. Quelle che pone all'attenzione del Segretario di Stato il suo consigliere politico David Lipsey suonano ad esempio più moderate e molto meno interventiste: "Se diamo troppa corda ai comunisti potrebbero dichiararsi innocenti oppure impiccarsi da soli. Se invece ci imbarchiamo in un'operazione di linciaggio - è la conclusione - sarà la nostra credibilità democratica ad essere danneggiata, non la loro".

Anche per questo il governo inglese è preoccupato che studi, indagini e relazioni restino al sicuro. "La loro esistenza non deve essere rivelata - è la raccomandazione - La Gran Bretagna non deve essere vista come un governo che interferisce negli affari interni dell'Italia". Ma il 18 maggio, in vista di un vertice Nato a Oslo, qualcosa trapela: un articolo del Financial Times dal titolo "I timori del Foreign Office sull'Italia". Il giornalista rivela che l'atteggiamento degli alleati è stato riassunto in un documento ad hoc. Dalla Farnesina, a questo punto, chiedono spiegazioni, ma a Londra fanno i vaghi, ridimensionano: il caso Italia non è nell'agenda ufficiale di Oslo, non c'è nessun paper, del Pci si parlerà al massimo "nei corridoi".

Più in generale, al di là delle necessità diplomatiche, pare anche di cogliere una sottile linea di distinzione fra l'atteggiamento britannico e quello americano. Oltre una certa prudenza che porta Crosland e il premier Callaghan a non fare mosse avventate prima del 20 giugno, il Foreign office si preoccupa soprattutto dell'unità degli alleati, il che significa da un lato incoraggiare i francesi e i tedeschi a una maggiore presenza sulla questione italiana e dall'altro di frenare gli americani, soprattutto Kissinger.

Del Segretario di Stato Usa i colleghi britannici sembrano poco apprezzare certe intemperanze, sottolineano che in privato usa uno "strong language", un linguaggio forte; come pure si concedono una qualche distaccata superiorità quando gli pare che Kissinger si comporti più da professore di storia che da stratega: "Così rischia di perdere di vista le implicazioni immediate delle sue parole - nota l'ambasciatore inglese a Washington, Peter Ramsbotham - sviluppando una sorta di teoria del domino europeo sul lungo termine". Ma gli americani, imperterriti, non solo seguitano a spingere sulla loro linea, ma in un memorandum del 4 giugno si mostrano anche piuttosto seccati dal fatto che mentre gli europei sono indecisi sul da farsi, loro rischiano di figurare sempre e comunque come il "bad cop", il cattivo poliziotto della situazione, tipo in Cile nel 1973.

A pochi giorni dalle elezioni tutto è ancora incerto: "I sondaggi italiani sono notoriamente inaffidabili". Intanto Berlinguer dichiara di accettare l'ombrello della Nato e Montanelli invita a turarsi il naso e votare Dc. E con questo si arriva finalmente al 20 giugno. I risultati non potrebbero essere più ambigui. La Dc al 38,7 per cento e il Pci al 34,3 risultano i "due vincitori", come li definisce Moro. Ma questi due vincitori, secondo un'analisi del Fco, sono anche "prigionieri l'uno dell'altro".

Una settimana dopo, al vertice di Puertorico, riservato alle sette potenze più industrializzate del mondo, l'Italia si presenta senza un governo. Ci sono Moro e Rumor, ma solo per salvare le forme. Gerald Ford, Callaghan, Schmidt e Giscard d'Estaing si incontrano alle 12,45 di domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e qui si verifica un pietoso incidente. Lo descrive brutalmente Campbell, futuro ambasciatore britannico a Roma: "Quando arrivano per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani viene impedito di entrare". È il massimo dell'umiliazione.

Appena chiuse le porte, si affronta il "problema Italia". Il verbale di quell'incontro viene redatto dal funzionario Fergusson. Pur riconoscendo che gli italiani devono decidere da soli, i quattro capi di Stato sono d'accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario.

Quella riunione si tiene effettivamente a Parigi, all'Eliseo, l'8 luglio del 1976. Il padrone di casa è il Segretario generale aggiunto della Presidenza della Repubblica francese Yves Cannac. Per gli Usa c'è Helmut Sonnenfeldt, consigliere del Dipartimento di Stato e braccio destro di Kissinger; per i tedeschi arriva Gunther Van Well, alto funzionario del ministero degli Esteri di Bonn; e infine, per la Gran Bretagna, il sottosegretario del Foreign Office, Reginald Hibbert.

A Parigi l'incontro segreto"Meglio che gli italiani non sappiano"

È a quest'ultimo che si deve il resoconto, a tratti anche abbastanza scanzonato, di un incontro in cui "ognuno ha i suoi buoni motivi per mantenere il Pci fuori dal governo". Giscard vorrebbe un "centrodestra riformista" in Italia perché teme la spinta che a casa sua favorirebbe Mitterrand. Il rappresentante di Schmidt, d'altra parte, punta sulla rinascita del centrosinistra perché un successo di Berlinguer potrebbe spaventare il suo elettorato e aprire le porte a una vittoria dei democristiani nelle imminenti elezioni tedesche. E poi ci sono gli americani che appoggiano decisamente una Dc rinnovata. Insomma, un po' di confusione.

In più, fa notare Hibbert con evidente disappunto, mancano traduttori e dattilografi che lavorino in inglese e soprattutto c'è una gran fretta perché il rappresentante di Kissinger deve scappare all'aeroporto. Così, "Kannac ci invita a pranzo al ristorante Ledoyen, ma l'urgenza è tale che non facciamo neanche in tempo a leggere il menu". In un angolo, Sonnenfeldt si concede una battuta sul clima carbonaro di quel pranzo: "Siete sicuri che l'ambasciatore italiano non sia qui? Se ci beccano, è chiaro che è per parlare di Berlino".

Chissà che cosa sapevano Moro, Andreotti o Berlinguer di tutto questo. O che cosa immaginavano. Da quel che si capisce l'incontro di Parigi, che Hibbert definisce "sticky", cioè difficile, insidioso, appiccicoso, fa pensare in realtà a una specie di ultimo avviso all'Italia, che è anche una prova di commissariamento. Le delegazioni producono una bozza d'intenti che a distanza di trent'anni finisce per avere un certo peso storiografico. S'intitola "Democracy in Italy" e in pratica espone ai futuri governanti italiani quello che devono fare. Così comincia: "Malgrado gli ulteriori progressi del Pci, le recenti elezioni consentono di mantenere in vita la democrazia in Italia. Ma è arrivato il momento di mettere fine a questa deriva". La parola usata è "slide", uno scivolamento che porta a una caduta, al collasso italiano.

I quattro grandi dell'occidente non solo alzano il tradizionale muro di fronte all'ipotesi di un governo con il Pci, ma nella riunione segreta di Parigi intervengono anche sulla formula e sulla maggioranza che dovrà avere il nuovo dicastero: a "guida dc", con "partiti non comunisti e non fascisti". E quindi provano pure a delineare le caratteristiche della loro compagine ideale: "Un piccolo gruppo omogeneo di uomini di prestigio che lavorino in squadra". Nelle carte c'è addirittura il programma, che tocca amministrazione pubblica, giustizia, sicurezza, economia e politica estera. Si scende nei particolari: un piano a medio termine per il risanamento della finanza pubblica e riduzione dell'evasione fiscale; è indicata la necessità di tentare un accordo con imprenditori e sindacati. C'è anche la lotta alla corruzione e perfino un accenno al "nepotismo".

Ma soprattutto si fa notare, sotto un paragrafo dal titolo "The Christian democratic party", un appello che di nuovo suona come un atto di sottomissione richiesto alla classe di governo del "partito che ha esercitato il potere per trent'anni e rimane il più forte dopo le elezioni". Per battere il Pci, la Dc dovrebbe (should) ripulire la sua immagine di partito tollerante della "prevaricazione e del sotterfugio", ha il dovere di "liberarsi delle pecore nere", la necessità di "mettere ordine a casa sua", di svecchiarsi e arruolare giovani, assicurare maggiore spazio alle donne, ai lavoratori e ai sindacati. Suo compito è anche quello di contestare al Pci l'egemonia culturale "riconquistando l'intellighenzia, le università e i media". Il giorno dopo, 9 luglio, ore 23,20, l'ambasciatore inglese a Washington telegrafa a Londra: "Kissinger approva il paper "Democracy in Italy"". Da Londra, forse, il premier Callaghan un po' si spaventa a leggere quelle carte: "Dobbiamo usare molta cautela considerando il grande danno che ne verrebbe se la loro esistenza divenisse pubblica. Sarebbe un'intrusione diretta negli affari di uno stato europeo nostro alleato". E aggiunge: "Ogni fuga di notizie finirebbe per essere un regalo ai comunisti italiani".

E così potrebbe anche concludersi il grande film del 1976. Poi certo, molte altre cose accadono - e il Foreign Office le registra con la consueta diligenza. Il Pci che rimane sulla soglia del potere. I democristiani che continuano a traccheggiare inventando formule quasi intraducibili, per cui l'andreottianissima "non sfiducia" diventa "non no-confidence". C'è anche un nuovo segretario socialista, il quarantenne milanese Bettino Craxi. L'ambasciatore Millard, che ha l'occhio lungo, lo segnala subito come una luce in fondo al tunnel del caos italiano. Si stabilisce che una sua visita a Londra "sarebbe auspicabile". Arriva l'autunno e a Bruxelles, davanti a Kissinger, il Segretario di Stato britannico Crosland parla "warmly", con calore, del "Signor Craxi".

A Roma il successore di Millard è Alan Hugh Campbell. A fine anno l'ambasciatore scrive la tradizionale Christmas letter al Foreign Office: "Pur immersi nella tristezza, frustrazione, incompetenza, corruzione, gli italiani continuano a essere un popolo duttile e molto operoso. Ma condivido l'idea che non siano maturi per la rivoluzione". E c'è quasi un salto poetico: "Forse, questo spiega la sofferenza che ho osservato sul volto di Berlinguer, l'altro giorno, quando me lo sono trovato seduto vicino durante una cerimonia".

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http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20980

articolo originale:
http://www.terrelibere.org/index.php?x=completa&riga=249

Stati Uniti, eversione nera e guerra
al comunismo in Italia 1943 -1947

di Giuseppe Casarrubea, Mario J. Cereghino

su Terrelibere.org del 18/04/2007

La strage di Portella della Ginestra, quella di Partitico, gli omicidi dei segretari delle Camere del Lavoro (Rizzotto, Li Puma e tanti altri) non sono casuali ma fanno parte di una guerra parallela che vede impegnati monarchici e nostalgici, fascisti e servizi alleati, agrari ed industriali. Personaggi diversi ma accomunati da un solo obiettivo: usare qualunque mezzo, dalle stragi fino al colpo di stato, per fermare la “Repubblica”, che in quei mesi concitati e tesi diventa sinonimo di “comunismo”… Un resoconto avvincente che propone testimonianze originali e documenti inediti, tratti dagli archivi statunitensi, inglesi e sloveni e dall’Archivio del Sis di Roma.

NASCITA DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Questo dossier fa seguito alle motivazioni per la riapertura delle indagini sulle stragi del 1° maggio e del 22 giugno 1947 avvenute a Portella della Ginestra e a Partinico (Palermo), consegnate il 7 dicembre 2004 e il 24 maggio 2005 al Procuratore della Repubblica di Palermo, dott. Pietro Grasso.

L’obiettivo è di mettere in rilievo gli ulteriori approfondimenti compiuti dagli autori negli ultimi due anni negli archivi statunitensi, britannici, italiani e sloveni nonché di allargare lo spettro dei fatti stragistici del ’47 a un arco temporale che va dal ‘46 (strage di Alia, 22 settembre) fino agli assassinii di Epifanio Li Puma, segretario della Camera del lavoro di Petralia Soprana (2 marzo ‘48), Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro di Corleone (10 marzo ‘48) e Calogero Cangelosi, segretario della Camera del lavoro di Camporeale (2 aprile ‘48).

Lungo questo periodo si registrano numerosi altri delitti di sangue contro dirigenti sindacali e della sinistra, come gli assassinii di Giovanni Severino, segretario della Camera del lavoro di Joppolo (25 novembre ‘46); Nicolò Azoti, segretario della Camera del lavoro di Baucina (21 dicembre ‘46); Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro di Sciacca (4 gennaio ‘47); Pietro Macchiarella, segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (19 febbraio ‘47); Biagio Pellegrino e Giuseppe Martorana, caduti durante una sparatoria dei carabinieri sulla folla dei manifestanti a Messina (7 marzo ‘47);

Michelangelo Salvia (dirigente della Camera del lavoro di Partinico, 8 maggio ‘47); Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono (dirigenti della Camera del Lavoro di Partinico, 22 giugno ’47); Giuseppe Maniaci, segretario della Federterra di Terrasini (23 ottobre ‘47); Calogero Caiola (testimone della strage di Portella della Ginestra, 3 novembre ‘47); Vito Pipitone, segretario della Camera del lavoro di Marsala (8 novembre ‘47).

Delitti che ora appaiono unificati da un disegno eversivo unico, teso a decapitare il processo democratico e partecipativo che si realizza in Italia con la lotta di Resistenza e con l’unità delle forze antifasciste. Al crollo del fascismo, il vecchio regime risponde riorganizzando le proprie forze e sperimentando sul campo, in particolar modo tra l’autunno ’46 e quello successivo, la riconquista del potere perduto mediante un colpo di Stato e l’instaurazione di un governo autoritario in grado di imprimere un corso reazionario alla storia politica italiana. Il primo passo consiste nel mettere fuori legge il Pci di Palmiro Togliatti e nell’incarcerarne i principali dirigenti, dopo una sollevazione armata delle varie formazioni neofasciste. A eseguire questo piano troviamo generali dell’Arma dei carabinieri, dell’Esercito, dell’Aeronautica nonché ammiragli della Marina, tutti provenienti da ambienti monarchici o fascisti. Costituiscono in quei mesi varie organizzazioni eversive che confluiscono, nell’autunno ’46, nell’Unione patriottica anticomunista (Upa).

Il dossier intende evidenziare come tale situazione sia determinata dal governo degli Stati Uniti d’America, tramite il Comando militare e i servizi segreti di questa nazione in Italia. La Sicilia è scelta come campo sperimentale del disegno golpista. Le stragi e gli assassinii fungono da innesco per la provocazione delle masse socialcomuniste, necessaria allo scatenarsi della reazione dell’Upa e delle formazioni nere sotto l’ombrello protettivo dell’intelligence Usa. È, di fatto, la nascita della strategia della tensione nel Belpaese.

Queste pagine prendono in esame la documentazione, in forma cartacea originale, che si trova presso i seguenti archivi:

1) Usa, Maryland, College Park, National archives and records administration;

2) Gran Bretagna, Kew Gardens, Surrey, National archives;

3) Italia, Roma, Archivio centrale dello Stato, fondo Servizio informazioni e sicurezza (Sis);

4) Repubblica slovena, Lubiana, Archivio di Stato.

Di detti originali è stata prodotta copia attualmente giacente presso l’archivio “Giuseppe Casarrubea”, sito in via Catania 3 a Partinico (Palermo).

Per ciascuna copia presa in esame si è in grado di fornire l’esatta collocazione archivistica della stessa.

I rapporti Sis provengono dall’Archivio centrale dello Stato (Roma). Qui sono depositati alla fine degli anni Novanta in seguito alla loro scoperta da parte dello storico Aldo Sabino Giannuli, che li ritrova nel ‘96 in un deposito del ministero dell’Interno (Circonvallazione Appia) mentre effettua una serie di ricerche per conto del giudice Guido Salvini sulla strage di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre ‘69).

I nuovi elementi di documentazione rintracciati nei vari archivi appaiono convergenti e reciprocamente complementari, a tal punto da far ritenere insufficienti i dati emersi, anche in sede dibattimentale, nei processi conseguenti alle stragi di Portella della Ginestra e di Partinico. Le nuove scoperte risultano fondamentali alla riapertura delle indagini, allora basate su un Rapporto giudiziario (4 settembre ‘47) chiaramente depistante e privo di una corretta lettura dei fatti avvenuti.

Con sentenze della Corte di Assise di Viterbo (3 maggio ‘52) e della seconda Corte di Appello di Roma (10 agosto ‘56), sono condannati a pene varie numerosi elementi della banda di Salvatore Giuliano (Montelepre, 1922). Emerge ora che responsabili degli eccidi di Portella della Ginestra e di Partinico sono anche altri soggetti, alcuni dei quali potrebbero essere ancora in vita. Tali responsabilità riguardano anche i delitti consumati a partire dalla strage di Alia e fino ai nuovi equilibri imposti alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile ‘48, attraverso l’eliminazione di Li Puma, Rizzotto e Cangelosi.

UN DOCUMENTO DEL SERVIZIO INFORMAZIONI E SICUREZZA (SIS)

Un rapporto Sis datato 25 giugno ‘47, che si riporta per intero (pubblicato da Giannuli -e dallo stesso rintracciato nel ‘96 -nella rivista Libertaria, il piacere dell’utopia, anno 5, n. 4, ottobre dicembre 2003, pp. 48 -58, titolo: Salvatore Giuliano, un bandito fascista) riferisce quanto segue:


[…] Il “bandito Giuliano” vi è stato più volte segnalato, anche e soprattutto in ordine ai suoi contatti con le formazioni clandestine di Roma. Vi fu precisato il luogo degli incontri coi capi del neo -fascismo (bar sito a via del Traforo all’angolo di via Rasella). Vi parlammo dei suoi viaggi Roma-Torino.

Precisammo che capo effettivo della banda è presentemente il tenente della Gnr Martina, già di stanza a Novara. È superfluo ricordarvi che la banda ha sempre provveduto al mantenimento di un proprio nucleo dislocato in Roma (punto di ritrovo: alla “Teti” e nel caffé con servizio esterno sito in piazza San Silvestro) e che il noto detentore della valigia di bombe proveniente da Bari – per incarico del Partito fusionista italiano, certo Nicola, sfuggito (all’epoca del lancio delle “bombe di carta”) alla cattura per l’intempestiva pubblicazione relativa all’operazione di polizia in corso – altri non era che il pseudo “Dan”, altrimenti detto il “sergente di ferro”, che al nord fu attivissimo collaboratore del Martina, intimo fra l’altro della Sanna Anna, a voi nota, e di suo fratello Domenico.

La banda Giuliano è da ritenersi, fin dall’epoca delle nostre prime segnalazioni, a completa disposizione delle formazioni nere. Il nucleo romano della banda Giuliano era comandato fino a quindici giorni fa da certo “Franco” e da un maresciallo della Gnr, che si trovano attualmente a Cosenza. Partirono da Roma improvvisamente “per ordine superiore”, e in Sicilia dopo una breve permanenza a Napoli, da dove hanno scritto al Fronte dando “ottime notizie sulla situazione locale”. Le loro lettere, a firma “Franco”, vengono indirizzate a certa signora Gatti, “zia” di Franco, madre della Sanna. Con la loro ultima, annunciavano “cose grandi in vista e molto prossime”. Richiedevano la presenza a Palermo di 8 uomini completamente sconosciuti in Sicilia, ma la richiesta non venne accolta. Da Cosenza, la banda Giuliano, che ha ramificazioni in ogni centro della Calabria, della Sicilia e della Campania, inviò la settimana scorsa a Roma tal Libertini Sebastiano. Si presentò con documenti vari. In alcuni risultava impiegato alle dipendenze della locale Direzione di Artiglieria; in altri carabiniere. Aveva l’incarico di far noto che “data l’imminenza dell’azione”, la presenza a Cosenza di un esponente nazionale era indispensabile. Non se ne fece nulla, anche perché il suo arrivo a Roma coincideva stranamente coi noti fermi degli appartenenti ai Far [Fasci di azione rivoluzionaria]. Vi fu molto tempo fa parimente segnalata l’attività clandestina neo – fascista del console Riggio, trapiantato a Palermo con lo pseudonimo di “ing. Rizzuti” e, reiteratamente, quelle dell’avv. Ciarrapico, neo capo del Partito fusionista in sostituzione di Pietro Marengo, e del noto dott. Cappellato, ex medico di Mussolini, agente provocatore n. 1 in Sicilia, comandante del vecchio Partito fascista democratico prima, e delle FFNN [Formazioni nere] dopo, in seno alla sezione romana del Partito fusionista.

Altra nostra segnalazione di alcuni mesi fa: al bandito Giuliano doveva essere demandato il compito di provvedere alla evasione di Borghese, relegato a Procida, perché soltanto l’ex capo della Decima Mas era ritenuto in grado di assumere militarmente il rango, per l’influenza esercitata, di capo militare delle formazioni clandestine dell’isola. Anche il colonnello Pollini e Spinetti Ottorino, già abitanti in Roma in via Castro Pretorio 24, piano ultimo, sono stati, pochi giorni prima dell’arresto del Pollini e dell’inizio dell’azione della banda, in Sicilia e a Palermo per conto dell’“Ecla” [o Eca, Esercito clandestino anticomunista] diretta da Muratori. Vale qui ricordare che Muratori ha sempre agito nel campo clandestino in funzione di agente provocatore. Egli ha avuto anche contatti e remunerazioni, da notizie assolutamente certe, dal Pci.

Il Fronte antibolscevico costituito recentemente a Palermo, al quale dette la sua adesione incondizionata l’On. Alfredo Misuri in proprio, e quale capo del gruppo “Savoia” di via Savoia 86 (cap. Pietro Arnod, principessa Bianca Pio di Savoia, ecc.), non è una sezione del Fronte anticomunista a voi nota. Il Cipolla, che a Palermo dirigerebbe il Fronte, è del tutto sconosciuto al “Fronte unico anticomunista” di cui alle nostre reiterate segnalazioni confidenziali. Il Fronte antibolscevico di Palermo è però collegato con Anna Maria Romani, ospite della principessa Pio di Savoia, sedicente segretaria particolare di Misuri, cucita in tutto a filo doppio del noto colonnello Paradisi, detto anche Minelli (piazza Tuscolo) ed è pei suoi “buoni uffici” che Misuri e i “camerati” del Comitato anticomunista di Torino, a voi noto, appoggiarono e appoggiano il progetto di “azione diretta” di cui il Paradisi è autore.

Negli ambienti dei Far, Nuovo Comando Generale, si ammette che l’azione della banda Giuliano è in relazione con l’ordine testé impartito di “accelerare i tempi”. L’ordine, come vi fu fatto noto, è stato esteso all’Ecla di Muratori e Venturi, i quali attingono denaro e disposizioni da un’unica fonte. Si preparano adesso a Roma e al nord. Non è il caso di sottovalutare questa ennesima segnalazione, i considerazione del fatto che, per la perfetta conoscenza dell’ambiente, quanto di solito vi viene segnalato si verifica poi a breve scadenza (anche l’affare dei Far vi era stato reiteratamente segnalato per la sua pericolosità). Nel mese di marzo, se ben si rammenta, fu segnalato che il duca Spadafora, capo del gruppo commerciale agrario del sud, fu a Roma ed ebbe colloqui con rappresentanti del Fronte clandestino. Chiese di poter versare un milione in conto, a condizione che si facesse in Sicilia “un lago di sangue”. Mormini, del Fronte, avrebbe dovuto raggiungere in Sicilia la banda Giuliano, a contatto anche colla mafia locale in parte a disposizione del suo gruppo. La proposta non fu accettata, sembrò orribile…

Da allora, da notizie certe e sicure, Spadafora ha contatti diretti col Martina, che finanzia direttamente e al quale impartisce disposizioni. Elementi ricercati sono stati ammessi a far parte della banda. Proposte identiche a quelle avanzate dallo Spadafora pervengono in questi giorni insistentemente alle FFNN, e al Fronte anticomunista, da parte dell’avv. Tefanin di Padova. Di quest’ultimo (anche lui pone come condizione il “lago di sangue”) si sa soltanto che capita spesso a Roma e alloggia al Grande Albergo. A Roma, dopo l’azione della banda Giuliano, i più facinorosi (reperibili tutti tra i nullafacenti e gli sfaccendati dei bar dell’Esedra, al bar Carloni, al bar del Nord all’angolo del Viminale e in Galleria) hanno ripreso fiato, cianciano di rivoluzione imminente e di atroci vendette da compiere. Per esempio, l’anticomunismo di cui si ammanta il Rac (Reparti anticomunisti) è puramente fittizio. Non si tratta che di una organizzazione tipicamente fascista repubblichina, cui da Muratori e Venturi è stato affidato il compito di impossessarsi della Direzione Generale di Polizia. Dato l’aggravarsi della situazione interna, una visita a Milano, Verona, Torino, ecc. – di cui si hanno come già comunicato notizie certe di bande armate, le quali sono già sul piano di guerra – sarebbe più che opportuna per attingere informazioni dirette sulle azioni di piazza minacciate. Vale a questo punto ricordare che è recentissima la nostra segnalazione relativa alla distribuzione di buoni per il prelevamento di mitra ad opera del gruppo Navarra – Viggiani, che la questura non conosce, e di altre formazioni neo – fasciste (da non confondere con le organizzazioni anticomuniste “pure”), le quali attingono, si ripete, disposizioni e denaro da un’unica fonte. […].


Sono informazioni di tale gravità da far ritenere che le stragi e gli omicidi ai quali si è fatto cenno, verificatisi in Sicilia tra il ’46 e il ‘48, siano da considerare sotto nuova luce, anche in virtù del fatto che alcuni mandanti ed esecutori potrebbero essere ancora in vita e, pertanto, penalmente perseguibili.

Il Rapporto giudiziario che fonda l’atto di accusa contro mandanti e gli esecutori materiali delle stragi di Portella e di Partinico (firmato Giovanni Lo Bianco, Giuseppe Calandra, Pierino Santucci, marescialli dei Cc i primi due e brigadiere il terzo) è redatto nel settembre ’47 sotto l’egida dell’ispettore generale di Ps nell’isola, Ettore Messana, del quale meglio parleremo più avanti.

Questo rapporto deve ora essere valutato depistante e inconsistente ai fini dell’accertamento della verità e dei responsabili. La figura del principale imputato, Salvatore Giuliano, risulta collocata nell’ambito delle azioni criminali delle squadre paramilitari neofasciste operanti su tutto il territorio nazionale almeno dall’autunno ‘43. Infine, è da segnalare che per la maggioranza dei sindacalisti assassinati tra il ’46 e il ’48 i processi giudiziari non sono mai stati celebrati.

SQUADRONI DELLA MORTE

Per capire ciò che accade nel ’47, occorre fare un passo indietro. Sappiamo che tra la caduta di Mussolini (25 luglio ‘43) e il mese di gennaio ‘44, Giuliano costruisce le basi della sua futura carriera criminale. Nell’estate ’43 avvengono numerose evasioni in massa dalle carceri di Partinico e dei comuni vicini. Non è un dettaglio secondario in quanto un documento americano, intitolato I mafiosi e datato 18 luglio ‘43, riferisce: “Ispettori della Milizia fascista sono stati inviati a Palermo e a Sciacca per aprire negoziati con esponenti mafiosi in prigione da lungo tempo. Ai mafiosi internati è fatta la seguente promessa: se contribuiranno a difendere la Sicilia, saranno allestiti nuovi processi per provare la loro innocenza”. È appena passata una settimana dallo sbarco angloamericano.

Il 2 settembre ‘43 Giuliano uccide il carabiniere Antonio Mancino; il 10 novembre prende d’assalto la polveriera di San Nicola a Montelepre, provocando 18 morti; alla vigilia di Natale uccide il carabiniere Aristide Gualtieri; il 30 e il 31 gennaio ’44 organizza l’evasione in massa dei detenuti dalle carceri di Monreale. La sua carriera, appena agli esordi, è già collaudata.

Giuliano è specializzato in assalti ad armerie e penitenziari. La fuga dei detenuti di Monreale segna la data di nascita del gruppo di fuoco monteleprino, sotto l’egida della famiglia mafiosa dei Miceli che in questa città del palermitano esercita un dominio assoluto. Su ciò che accade nei mesi successivi si possono ora avanzare alcune ipotesi, basate su una serie di documenti dell’intelligence Usa.

La Sicilia e il sud sono stati liberati dagli angloamericani e il fronte si trova sulla linea Gustav (settembre ’43). Nel febbraio ’44 Giuliano è inviato a Taranto e ottiene una sorta di promozione sul campo. È probabile che l’operazione sia da attribuire alla rete nazifascista clandestina al sud, coordinata dal principe calabrese Valerio Pignatelli e operativa da prima del 25 luglio ‘43. In vista del crollo del regime, infatti, Mussolini istituisce la “Guardia ai Labari”, di cui Pignatelli è designato capo per il mezzogiorno d’Italia. Nel porto pugliese Giuliano si arruola in un corpo speciale, quello della Decima Flottiglia Mas badogliana, istituita alla fine del ’43 a Taranto dagli Alleati, al comando del capitano Kelly O’Neill. Sono i Nuotatori paracadutisti (Np) del sud e non superano i cinquanta elementi. Dovranno combattere con gli Alleati contro i tedeschi. La missione di Giuliano è di infiltrarsi per conto della rete Pignatelli. Tra gli uomini di O’Neill c’è anche Athos Francesconi.

A marzo ’44 arrivano a Taranto Rodolfo Ceccacci e Aldo Bertucci, appartenenti ai corpi speciali della Decima Mas di Junio Valerio Borghese. Il principe ha aderito alla Rsi costituendo nel settembre ’43 la Decima Mas, a La Spezia, per combattere assieme ai nazifascisti. Ceccacci e Bertucci si fingono disertori dell’esercito di Salò e hanno la missione di organizzare lo spionaggio e il sabotaggio in tutto il meridione contro gli angloamericani. Contattano subito Francesconi, di idee fasciste, e nei giorni seguenti altri marò disposti ad agire contro gli Alleati.

Tra costoro c’è Giuliano. Che si tratti di infiltrati è così certo che, nell’aprile ’44, Giuliano diserta per seguire Ceccacci e Bertucci nella Rsi. I tre uomini varcano la linea Gustav e raggiungono Penne, nelle Marche, dove è operativa una base della Decima nazifascista. Poco dopo, il colonnello Hill Dillon del Cic (Counter intelligence corps, il controspionaggio dell’esercito americano) segnala il grave fatto con una circolare nella quale Giuliano spunta come “Giuliani, palombaro e sottocapo” della Decima di O’Neill a Taranto. Il colonnello traccia anche un identikit del ricercato, da dove risulta che è alto m. 1,65, robusto, occhi e capelli scuri.

La descrizione dei caratteri fisici corrisponde a quella del capobanda monteleprino. L’8 maggio ‘44, giorno dell’arrivo dei tre a Penne, Ceccacci raduna i suoi uomini e comunica loro che è giunta l’ora di agire oltre le linee contro gli Alleati, con azioni di spionaggio e sabotaggio. Tra i presenti troviamo i parà Giuseppe e Giovanni Console di Partinico, un paese distante pochi chilometri da Montelepre in provincia di Palermo, e il marò Dante Magistrelli (Milano). È probabile che l’incontro tra Giuliano, i Console e Magistrelli avvenga proprio l’8 maggio e che nei giorni seguenti prenda corpo il piano di spedire un commando nazifascista a Partinico. A fine giugno, infatti, i fratelli Console e Magistrelli sono già operativi nella cittadina siciliana. Per coprire le loro reali attività, i tre iniziano a lavorare in un esercizio commerciale. I Console raccontano ai loro compaesani che Magistrelli è un profugo rifugiatosi a Partinico per sfuggire alla guerra in corso nell’Italia centro -settentrionale. Nelle stesse settimane, a Giuliano è ordinato di rimanere nella Rsi per continuare l’addestramento nei corpi speciali nazifascisti. A luglio è segnalato dagli americani in un elenco di Np siciliani al nord, nella Decima di Borghese, assieme a Cacace ea Lo Cascio (quest’ultimo originario di Monreale, in provincia di Palermo).

Tra il novembre e il dicembre ’44, secondo le dichiarazioni rese agli Alleati nell’agosto ‘45 da Aniceto del Massa (uno dei capi dei servizi segreti di Salò), trenta uomini della Decima sono inviati in Sicilia. Sono stati addestrati a Campalto (Verona) presso la scuola di sabotaggio diretta dall’Ss Otto Ragen. Nell’elenco compare anche Giuseppe Sapienza, nato a Montelepre (il paese di Giuliano) il 19 novembre ‘18. La presenza di Sapienza nel palermitano, per operare con le bande fasciste, è segnalata anche da un dispaccio di Hill Dillon del novembre ‘44. Che Giuliano faccia parte di questo gruppo è confermato dall’interrogatorio di Pasquale Sidari (12 maggio ’45), un agente segreto nazifascista in missione nell’Italia liberata, arrestato dagli americani nei pressi di Pistoia il 2 marzo ‘45 assieme a Giovanni Tarroni, anch’egli una spia di Salò. Sidari confessa che nelle montagne tra Partinico e Montelepre è attiva una banda fascista al comando di “Giuliani” (head of a fascist band in the Palermo province), composta anche da “disertori tedeschi” (un riferimento agli istruttori delle Ss tedesche di Verona). Spiega di avere appreso queste notizie dai fratelli Console durante una conversazione avvenuta il 15 dicembre ’44, nell’atrio del teatro Finocchiaro a Palermo, e aggiunge che “dopo Natale, Magistrelli e Giovanni Console si sarebbero recati al nord per riferire al comando della Decima Mas sulle attività della banda”.

L’arrivo in Sicilia del gruppo dei trenta sabotatori di Campalto coincide con lo scoppio dei moti del “Non si parte”, che si sviluppano nell’isola sotto l’apparente spinta separatistica tra il dicembre ’44 e il gennaio ’45. Che si tratti di terroristi salotini emerge dai rapporti dell’intelligence britannica. In diversi comuni siciliani appaiano scritte fasciste accanto a slogan come “Entrate nella banda!” e “Viva Giuliani!”.

Nel marzo ’45, le confessioni di Sidari e Tarroni provocano l’arresto di una quarantina di sabotatori della Decima nazifascista tra Napoli e Palermo. A Napoli, cadono nella rete americana gli uomini di Pignatelli (Rosario Ioele) e i sabotatori Bartolo Gallitto e Gino Locatelli. A Partinico sono arrestati i fratelli Console e Dante Magistrelli. Gli interrogatori avvengono presso il carcere di Poggioreale, a Napoli, e sono condotti dai carabinieri del Sim (Servizio informazioni militari) al comando del maggiore Camillo Pecorella.

DALLE SCUOLE DI SABOTAGGIO ALL’AZIONE SUL CAMPO

Giuliano, Sapienza e i trenta sabotatori addestrati a Campalto sfuggono alla cattura e tornano nella Rsi. In un rapporto di Hill Dillon del 25 marzo ’45, troviamo infatti il nome del “sottotenente dei parà Giuliano” in uno dei corpi scelti della Decima Mas nazifascista, al nord. Sapienza è arrestato il 7 maggio ‘45 e internato in un campo di prigionia alleato, a Modena. Nonostante i gravi contraccolpi subìti, l’eversione nera in Sicilia non si arrende. Al contrario. Dalla confessione resa agli Alleati il 17 giugno ’45 da Fernando Pellegatta, un sabotatore del battaglione Vega della Decima nazifascista con sede a Montorfano (Como), apprendiamo che 120 uomini del Vega sono inviati al sud il 1° aprile ’45.


Sono stati selezionati tra le Ss italiane e i militi della trentacinquesima brigata nera “Raffaele Manganiello”. Il capo di quest’ultima a Como, dall’autunno ’44 all’aprile ’45, è l’ex federale di Firenze Fortunato Polvani, stretto collaboratore di Pino Romualdi, vicesegretario del Partito fascista repubblicano (Pfr). Polvani, non a caso, è a Palermo dall’estate ’45 per dirigere il Centro clandestino fascista della capitale siciliana, e qui rimane fino al marzo ‘46. È probabile, quindi, che i 120 uomini del Vega costituiscano il nocciolo duro dell’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia), che nasce nel settembre ‘45 e di cui Giuliano è nominato “colonnello” nei pressi di Sagana (Montelepre).

Il terrorismo nazifascista in Sicilia è considerato, da un punto di vista strategico, fondamentale per il futuro movimento neofascista. Non pochi indizi ci dicono che dietro la strage del 19 ottobre ‘44 in via Maqueda (Palermo) agiscano, quali provocatori, elementi salotini. Tale presenza, agli occhi del governo Bonomi, appare così pericolosa da far ordinare il massacro della folla da parte della divisione Sabaudia. Di fatto, l’eccidio (16 morti e decine di feriti) è un monito contro l’eversione nera nell’isola. Ma serve a poco. Un mese dopo scoppiano i moti del “Non si parte”.

Montelepre, 9 gennaio ’46. Centocinquanta uomini agli ordini di Salvatore Giuliano sferrano un durissimo attacco contro le caserme dei carabinieri. Il conflitto dura una settimana. Perdono la vita 9 militari, i feriti sono 35. I servizi segreti britannici affermano che la banda è composta anche da “terroristi ebraici” e da “elementi anticomunisti jugoslavi”. I primi potrebbero essere i gruppi armati che si preparano alla nascita dello Stato di Israele, addestrati nel dopoguerra dagli uomini della Decima Mas di Borghese su richiesta del capo dei servizi segreti americani in Italia, James J. Angleton. A confermarlo è Nino Buttazzoni (capo degli Np nella Rsi tra il ’43 e il ’45) nel volume Solo per la bandiera (Milano, Mursia, 2002, p. 125). Per quanto riguarda gli jugoslavi, potrebbe trattarsi di elementi fascisti croati manovrati dai servizi Usa.
Operano in Italia al comando di Ante Moškov, un ex generale ustascia. Anche il Sis segnala l’attività dei gruppi jugoslavi in Puglia, pronti a entrare in azione “contro il pericolo bolscevico” (b.46, f. LP155/Fronte internazionale antibolscevico, titolo: Organizzazione internazionale anticomunista, 6 settembre ’47). Fanno capo a una centrale anticomunista slava, con sede a Parigi e collegata all’Internazionale nera di Martin Bormann e Otto Skorzeny (ex gerarchi nazisti), attiva in Argentina e in Europa dal ‘46 (sul tema, cfr. il capitolo I del volume Tango Connection di G. Casarrubea e M. J. Cereghino, Milano, Bompiani, 2007).

Nei primi cinque mesi del ’46 cresce la tensione nei gruppi monarchici e neofascisti. Temono la vittoria della Repubblica al referendum istituzionale e una forte affermazione delle sinistre all’Assemblea costituente. I servizi segreti americani non nascondono le loro preoccupazioni e, dopo le precedenti intese col principe Borghese (primavera ‘45), si accordano con i capi politici e militari del neofascismo (Turati, Scorza, Messe, Navarra Viggiani, Romualdi, Buttazzoni) per avviare su vasta scala l’offensiva anticomunista. Sanno che il Pci e il Psi potrebbero conquistare la maggioranza relativa alla Costituente e che l’avvento della Repubblica potrebbe rapidamente trasformarsi nell’“anticamera del comunismo”. Nel marzo ’46, in gran segreto, l’intelligence Usa preleva Borghese dal penitenziario di Procida e lo traduce in una località sconosciuta. L’obiettivo è di organizzare la controffensiva paramilitare in caso di vittoria dei comunisti e dei socialisti.

ALL’ARMI SIAM FASCISTI!

Nell’aprile ’46, Buttazzoni inizia a lavorare per Angleton con lo pseudonimo di “ingegner Cattarini”. Forte di questa copertura, il capo degli Np fa sfilare i suoi uomini al parco del Pincio, a Roma. Sono duecento militi di provata fede anticomunista e disposti a tutto. In Solo per la bandiera (cit., pp. 122 -123) scrive: “Sono momenti in cui per molti Repubblica significa comunismo e la nostra scelta non ha incertezze. Abbiamo armi e depositi al completo. Faccio contattare anche alcuni Np del sud”. Nelle stesse settimane, Buttazzoni fonda l’Eca (Esercito 12 clandestino anticomunista) mentre Romualdi redige il manifesto programmatico del Fronte antibolscevico italiano (Fai, composto interamente da unità neofasciste clandestine) e lo consegna ad Angleton tramite Buttazzoni. Nel documento si sostiene in maniera esplicita che neofascisti e americani devono unirsi per una comune azione contro il comunismo, “focolaio di infezione sociale per l’Europa e il mondo”.

Vi si afferma testualmente: “I neofascisti intendono stabilire un contatto con le autorità americane per analizzare congiuntamente la situazione del Paese. La questione politica italiana sarà quindi collocata nelle mani degli Stati Uniti d’America”. Dall’analisi di questo testo (ora in Nicola Tranfaglia, Come nasce la Repubblica, Milano, Bompiani, 2004, pp. 80 -86) emergono non poche analogie con il testo dei volantini lanciati durante gli assalti contro le Camere del lavoro di Partinico e Carini (Palermo), il 22 giugno ‘47. Qui si fa riferimento alla “canea rossa” e alla “mastodontica macchina sovietica”. I due documenti sembrano scritti dalla stessa mano. Non a caso, i Fasci di azione rivoluzionaria (Far) nascono ufficialmente poco dopo, nell’autunno ’46, sotto la guida di Pino Romualdi e con palesi finalità terroristiche.

A Palermo, nel giugno ’46, è arrestato Giuseppe Caccini, alias “comandante Tempesta” della brigata Carnia (derivazione della Osoppo). L’accusa è di costituzione di banda armata (cfr. documenti Sis del 14 e 26 giugno ‘46). In Sicilia, a Catania, è entrato in contatto col principe Flavio Borghese, fratello maggiore del capo della Decima Mas. Caccini proviene da Roma, dove è giunto nel mese di maggio assieme a 221 uomini pronti a entrare in azione in caso di vittoria della Repubblica. È probabile, quindi, che gli uomini del “comandante Tempesta” siano gli stessi passati in rassegna da Buttazzoni, al Pincio, nelle stesse settimane. Caccini raggiunge la Sicilia su raccomandazione del capitano Callegarini (Cc), legato agli ambienti della Casa reale.

Il 25 giugno ‘46, il Sis segnala in Calabria le attività di “un movimento clandestino armato, sia per sostenere la monarchia nel caso di vittoria nel referendum, sia per attuare la separazione del Mezzogiorno dall’Italia”. Il movimento è diretto da un ex carabiniere ed ex maggiore della Gnr, Serafino Ferrero (Torino,

1899), e da un certo “tenente Franco”, ovvero Walter Di Franco. Il suo vero nome è Francesco Argentino (Reggio Calabria, 1916), ex membro della banda Koch e capofila dei Far nel meridione. Le attività paramilitari nere, ramificate in tutta la regione, godono del supporto sotterraneo dell’Arma dei carabinieri e delle squadre neofasciste calabresi, siciliane e campane con base a Napoli.


Di una tentata insurrezione neofascista a Roma, nel maggio ’46, scrive ampiamente un rapporto Sis del 17 giugno, a firma del questore Ciro Verdiani. Tra gli organizzatori troviamo Candiollo e Rodelli, capisquadra neofascisti per l’attuazione di un colpo di Stato. I due frequentano Francesco Garase, detto “lo zoppo”, che varie carte Sis definiscono nel ‘47 “l’emissario a Roma della nota banda Giuliano”, in contatto permanente con Walter Di Franco. Assieme ad altri neofascisti come Silvestro Cannamela (ex Decima Mas) e Caterina Bianca (ex spia nazifascista), Garase visita assiduamente le sedi monarchiche di via Quattro Fontane 143 e di via dell’Umiltà 83. Non a caso, un rapporto Sis di qualche mese dopo (1° novembre ‘46) afferma testualmente: “Da 20 giorni è stata riaperta la sede del partito in via Quattro Fontane, che è quella legale e dove gli iscritti vengono indirizzati verso l’organizzazione clandestina. Ferve l’opera di riorganizzazione soprattutto in Sicilia, dove non si disdegnano i contatti diretti neppure con la banda Giuliano”. Tra il novembre e il dicembre ‘46, il Sis segnala inoltre che la banda è in rapporti con le squadre neofasciste in Basilicata (26 novembre) e con il Macri (Movimento anticomunista repubblicano italiano, 31 dicembre). Tra il ’44 e il ‘45, Cannamela fa parte di un commando nazifascista della Decima Mas operante nell’Italia liberata (squadra Anassagora Serri/Gruppo Ceccacci). Tra i suoi componenti vi sono anche i fratelli Giovanni e Giuseppe Console e Dante Magistrelli, in missione a Partinico dall’estate ’44. Nell’ottobre ’46 il colonnello Laderchi (Cc), il capitano Callegarini (Cc), l’ammiraglio Maugeri, il colonnello Resio (Marina), il generale dell’Aeronautica Infante e molti altri ufficiali iniziano a organizzare un colpo di Stato antidemocratico.

“Sono in contatto con i fascisti monarchici” e preparano “una rivolta armata nel Paese” (cfr. documenti Sis, 12 ottobre e 5 novembre ‘46). Carlo Resio lavora per l’Oss di Angleton dall’estate ’44 (a Roma, in via Sicilia 59) e rimane alle sue dipendenze fino al dicembre ‘47, data in cui il capo dei servizi americani ritorna negli Stati Uniti. Resio è tra gli uomini che prelevano Junio Valerio Borghese (a Milano, il 10 maggio ’45) per tradurlo a Roma. All’operazione partecipano Angleton e Federico d’Amato (intelligence italiana).


Secondo un documento top secret dell’MI5 britannico, datato 8 ottobre ’46 e desecretato a Londra nel gennaio 2006, sono soliti riunirsi a Roma: Augusto Turati, ex segretario del Partito nazionale fascista (Pnf) e capo politico del clandestinismo fascista; Pompeo Agrifoglio, ex capo del Sim; Luigi Ferrari, capo della polizia; Leone Santoro, membro dell’ufficio politico del ministero dell’Interno; Izielo (sic) Corso, sottosegretario all’Interno nel secondo governo De Gasperi [c’è un Angelo Corso, sottosegretario all’Interno nel secondo governo De Gasperi] e l’agente americano Philip J. Corso (Cic), uno dei collaboratori più stretti di Angleton e “custode” di Junio Valerio Borghese a Forte Boccea (Roma) e a Procida. Il documento specifica: “Numerosi ufficiali americani e italiani (come il capitano Corso suddetto) sono legati in maniera intima e attiva a questo gruppo”. Il tramite tra Corso e Agrifoglio è il tenente Mario Bolaffio (Sim). Nello stesso periodo, Augusto Turati è ritenuto “persona grata agli angloamericani, i quali lo stimano e lo rispettano molto” (Sis, 19 settembre ‘46, b. 13, f. Turati Augusto).

Secondo un altro rapporto britannico top secret (27 novembre ’46), “Il capitano Corso ha recentemente sostenuto un incontro con Enzo Selvaggi [esponente monarchico] e lo ha informato di aver ricevuto istruzioni dal suo governo per formare un gruppo politico anticomunista. Corso ha aggiunto che questo cambio di politiche è dovuto al successo del Partito repubblicano nelle elezioni statunitensi”. Si tratta delle elezioni di mezzo termine del congresso americano (novembre ’46) . Si registra, in pratica, il via libera all’offensiva anticomunista in Italia da parte di Washington.

Il 27 novembre ‘46, il Sis (b. 13, f. Turati Augusto) segnala:

“Da alcuni elementi fascisti è stato riferito che i noti Scorza e Turati si sarebbero trasferiti dal nord a Roma, dove sarebbe stato pure trasferito il ‘comando generale del movimento fascista’. Secondo le voci che corrono tra gli elementi fascisti, il ‘comando’ starebbe preparando tutto un lavorìo di organizzazione dei ‘quadri’ fascisti specialmente con riferimento al meridione. Si dice che in gennaio o febbraio dovrebbe ‘scoppiare’ qualcosa di grosso.

Da Bari, il 13 gennaio ‘47, il Cic scrive:

Un informatore affidabile di questo Ufficio ha sostenuto una conversazione con tre ufficiali dell’Arma dei carabinieri, il 10 dicembre ‘46. Costui ha riferito di certe direttive provenienti dal comando dell’Arma dei carabinieri a Roma, in cui si raccomanda di promuovere una forte propaganda monarchica all’interno del Corpo. Quando l’informatore ha chiesto notizie più dettagliate, gli è stato risposto che la monarchia sarebbe stata ristabilita nel giro di pochi mesi. L’informatore ha replicato che la restaurazione della monarchia sarebbe il segnale per una rivolta popolare, soprattutto al nord. Gli ufficiali però, sorridendo, hanno fatto notare che i qualunquisti hanno il supporto dei carabinieri e che sono fortemente armati e in posizione di contrastare qualunque mossa. I qualunquisti sono stati menzionati a tale proposito perché si suppone che questo partito debba creare ‘l’incidente’ che dovrebbe condurre al colpo di Stato.

I collegamenti tra il gruppo terroristico di Salvatore Giuliano in Sicilia e il capo dei Far, Pino Romualdi, trovano conferma nei seguenti elementi:

1) Fortunato Polvani, braccio destro di Romualdi almeno dal ‘43, è a Palermo nella veste di capo del Centro clandestino fascista a partire dall’estate ’45. Qui si ferma fino al marzo ’46. È Polvani il responsabile della trentacinquesima brigata nera “Raffaele Manganiello”, a Como, fino alla primavera ‘45. L’1 aprile ’45, 120 militi di questa formazione sono inviati al sud con l’intento di continuare la cosiddetta “resistenza fascista” nell’Italia liberata;
2) Uomo dei Far e referente della banda Giuliano in Calabria e in Sicilia, almeno dal maggio ’46, è Francesco Argentino/Walter Di Franco, che opera in Calabria con Serafino Ferrero. È molto probabile che il documento Sis del 25 giugno ’47 (riportato all’inizio di questo dossier) si riferisca proprio a questi due elementi nel seguente passo:

La banda Giuliano è da ritenersi, fin dall’epoca delle nostre prime segnalazioni, a completa disposizione delle formazioni nere. Il nucleo romano della banda Giuliano era comandato fino a quindici giorni fa da certo “Franco” e da un maresciallo della Gnr, che si trovano attualmente a Cosenza.

Nel ’47, vari documenti Sis segnalano Argentino/Di Franco in contatto con Francesco Garase, “emissario a Roma della nota banda Giuliano”;

3) Gli assalti alle sedi comuniste e alle Camere del lavoro iniziano il 18 giugno ’47 in Calabria, per poi dilagare nella provincia di Palermo con gli esiti stragistici del 22 giugno. Il rapporto Sis del 25 giugno ’47, infatti, afferma che “la banda Giuliano ha ramificazioni in ogni centro della Calabria, della Sicilia e della Campania”;

4) Nello stesso documento leggiamo:

Negli ambienti dei Far, Nuovo Comando Generale, si ammette che l’azione della banda Giuliano è in relazione con l’ordine testé impartito di “accelerare i tempi”. L’ordine, come vi fu fatto noto, è stato esteso all’Ecla [Eca] di Muratori e Venturi, i quali attingono denaro e disposizioni da un’unica fonte.

Si preparano adesso a Roma e al nord.

Un altro dispaccio Sis (b. 46, f. LP155/Fronte internazionale antibolscevico, Titolo: Movimenti neo -fascisti, segreto, 25 giugno ‘47), riporta:

Il comando generale dei Far ha ordinato questa mattina, in conseguenza dell’operazione di polizia in corso, di accelerare i tempi, nel senso di anticipare l’azione di piazza per la conquista del potere. L’Ecla e le Sam [Squadre armate Mussolini] procedono di pari passo (come tattica, metodo e programma) con i Far. Le direttive sono identiche. I fondi, notevoli, provengono da un’unica fonte. L’ultimo stanziamento è stato interessante. La sola formazione Ecla ha incamerato quattro milioni. La polizia romana non ha fermato che alcuni degli elementi effettivamente responsabili, senza minimamente intaccare i gangli vitali e capillari della organizzazione, che ha carattere nazionale. Da non sottovalutare lo spirito combattivo e, per la disciplina instaurata nei ranghi, la più assoluta dedizione ai capi da parte dei gregari. (…) Se vi saranno moti armati, i Far vi parteciperanno per diventare movimento risolutivo della situazione. Nonostante la suddetta operazione di polizia, i Far continuano a controllare tutte le formazioni clandestine, anche l’Upa e il gruppo carabinieri, in seno a quali elementi fidati lavorano sotto controllo agli effetti della realizzazione del colpo di Stato.

Si fa riferimento a un “Nuovo comando generale”, risultante dall’unificazione delle tre principali formazioni paramilitari neofasciste: Eca, Sam e Far. Secondo una nota del Sis (cfr. Giannuli, Libertaria, cit., p. 51), “a Venezia, Milano e nella Calabria ferve il lavoro delle Sam, le quali sono sovvenzionate da Giuliano ed il suo aiutante è lo scugnizzo. È partito da Roma un console della milizia per la Calabria, per incontrarsi con Giuliano”. Uno dei capi delle Sam è Selene Corbellini (ex membro della banda Koch), che agisce tra Milano, Torino e Roma e che nel ‘47 troviamo a Palermo per incontrare il capobanda monteleprino.

Scrive il Sis:

Da Palermo viene segnalata la presenza in quella città di Selene Corbellini, ricercata, già della banda Koch, detta anche Lucia o Maria Teresa (…). Si tratta di un elemento pericoloso. Ai camerati di Palermo dichiarava appena giunta di dovere stabilire contatti diretti col noto Martina, capo della banda Giuliano (2 agosto ‘47).

I collegamenti diretti tra l’Evis e le Sam sono segnalati inoltre Dall’intelligence Usa (20 febbraio ’46) e da quella britannica (19 Gennaio ’46).

Dalla Sicilia, il Cic riferisce:

Alcuni membri dell’Evis indossano uniformi americane e britanniche. Parecchi disertori alleati sono membri di queste bande ribelli. Il maggiore britannico Oliver si dice appartenga a una di queste formazioni ribelli. Un ufficiale britannico dello stesso nome sarebbe stato di stanza a Palermo per conto dell’intelligence alleata, durante il periodo dell’occupazione (29 gennaio ’46).

Secondo un rapporto statunitense dell’anno precedente (23 ennaio ’45), Oliver è un agente del Field security service (il controspionaggio britannico), a contatto nell’isola con non meglio precisati “banditi”.


Il riferimento all’Eca di Muratori non è da sottovalutare. Lo stesso Buttazzoni (cfr. il volume di Lapo Mazza Fontana intitolato Italia über alles, Milano, Boroli editore, 2006, pp.169 170) dichiara:

Io ho costituito l’Eca (…) a Roma nel periodo del ’46 -’47, dopo essere scappato dal campo di concentramento di Ancona il 22 settembre 1945 (…), e con l’Eca ho riunito parecchi ex ufficiali; come aiutante avevo un ex generale della Milizia che si chiamava Muratori.

È Muratori a coordinare l’eversione nera in Sicilia alla vigilia delle stragi del ’47 (Sis, 25 giugno ‘47).


Anche il colonnello Pollini e Spinetti Ottorino (…) sono stati, prima dell’arresto del Pollini e dell’inizio dell’azione della banda [Giuliano], in Sicilia e a Palermo per conto dell’Ecla diretta da Muratori.
Si può quindi ipotizzare che sia Muratori a emanare ordini al colonnello Pollini e a Spinetti (esponenti neofascisti), su mandato di Nino Buttazzoni. Ma quest’ultimo ha sempre evitato ogni riferimento alle attività da lui svolte nel periodo che va dall’aprile ‘46 (inizio della sua collaborazione con i servizi segreti di Angleton, a Roma) al settembre ‘47, data in cui è arrestato dalla polizia nei pressi dell’università La Sapienza;

5) A Palermo, nella primavera ‘47, opera il Fronte antibolscevico (via dell’Orologio). Lo guida Gioacchino Cipolla, un neofascista. Secondo quanto emerge durante la fase dibattimentale al processo di Viterbo, e le dichiarazioni del bandito Antonino Terranova (inteso “Cacaova”), Giuliano è solito frequentare il “Partito anticomunista” della capitale siciliana proprio nella temperie delle stragi di Portella e di Partinico. In realtà, il Fronte antibolscevico (o anticomunista) altro non è che la copertura legale delle attività terroristiche dei Far nell’isola;

6) Secondo il giornalista Andrea Lodato, i Far di Romualdi iniziano a operare a Catania nel gennaio ’46, tramite il neofascista Nino Platania. In città, dal ’43, è attivo anche il principe Flavio
Borghese, in contatto dal ’46 con le formazioni paramilitari di Caccini (Osoppo) e, probabilmente, con quelle di Buttazzoni (Eca) e di Giuliano (Evis/Sam).

GOLPISTI

Numerosi rapporti Sis si occupano di un’organizzazione, l’Upa, che nell’ottobre ’46 inizia a preparare un colpo di Stato. È guidata dal generale Giovanni Messe (Cc), dal Sim e, come abbiamo visto, da Laderchi, Callegarini, Maugeri, Resio e Infante. L’Upa agisce agli ordini diretti dell’intelligence Usa di Angleton e di Philip J. Corso. L’obiettivo è una dittatura militare transitoria, della durata di uno o due anni, affidata all’Arma dei carabinieri.

Secondo un documento britannico dell’11 agosto ‘47, (Movimento italiano di estrema destra: assistenza americana, paragrafo Visita di un rappresentante americano), l’ex capo dell’Amgot (il governo militare alleato dal ‘43 al ‘45), il colonnello Charles Poletti, arriva in Italia nel mese di giugno ‘47 “in missione speciale per conto del governo americano”, in coincidenza con le stragi siciliane:


Il signor Poletti è arrivato in Italia a giugno in missione speciale per conto del governo americano. Ha incontrato il signor Jacini a Roma e, dopo un attento esame dell’organizzazione dei movimenti italiani di estrema destra, ha promesso da parte del governo americano armi per il movimento e un supporto finanziario sia per le attività in Italia sia sul confine orientale (Udine). […] Poletti ha posto come condizione per l’assistenza americana che il movimento dell’estrema destra in tutta Italia sia collocato sotto un comando unificato.

Con ogni probabilità, il Jacini in questione è Stefano Jacini, ministro della Guerra nel governo Parri e ambasciatore straordinario in Argentina dal settembre ‘47. È con lui che Poletti instaura un rapporto fiduciario.

Il percorso eversivo (iniziato nell’estate ’46) appare ora più maturo sotto la spinta degli Usa, che forniscono un poderoso scudo protettivo costituito da appoggi politici, denaro e armi. Ecco perché l’8 maggio ’47, una settimana dopo la strage di Portella della Ginestra, troviamo Mike Stern (un celebre giornalista americano, in Sicilia da molte settimane) a pranzo con la famiglia di Salvatore Giuliano, a Montelepre. Stern è il garante in Sicilia, per conto di Poletti, della corretta esecuzione del piano golpista, che dovrà in breve espandersi a tutta l’Italia? Su questo argomento, il supplemento n. 24 di Propaganda (Pci, 1949), al paragrafo I banditi e gli agenti americani (pp. 16 -18), denuncia senza mezzi termini:

Il giorno 8 maggio 1947, a una settimana di distanza dall’eccidio di Portella della Ginestra, il capitano dell’esercito americano Stern si recava, a quanto scrive egli stesso, nel covo di Giuliano e riceveva dalle mani del bandito un proclama indirizzato al presidente Truman.


Dopo qualche settimana, nelle tasche di un bandito caduto in mano della polizia, veniva trovata una lettera autentica di Giuliano diretta al suo amico Stern a Roma, via della Mercede 53 (sede della Associazione della stampa estera), nella quale il fuorilegge chiedeva armi pesanti e dava consigli circa la maniera di mantenere i contatti con l’ufficiale americano.

Due circostanze colpiscono a prima vista: il fatto che, proprio all’indomani di Portella, lo Stern senta il bisogno di andare a fare visita al “re di Montelepre” ed il fatto che quest’ultimo si permetta, nella sua lettera intercettata dalla polizia, di chiedere armi ad un ufficiale dell’esercito americano.


Ma tutto ciò ormai non ha più nulla di strano. È chiaro che l’iniziativa dello Stern non è frutto di una curiosità individuale, ma che la sua visita a Giuliano ed i suoi rapporti con il bandito sono frutto di precise istruzioni diramate dall’Ufficio servizi strategici [Oss], allo scopo di agganciare il bandito alla politica americana nel Mediterraneo. A conferma di questa tesi, è facile ricordare l’atteggiamento del governo di De Gasperi in questa circostanza. Il governo italiano, infatti, si guarda bene di intervenire presso l’ambasciatore americano a Roma per protestare o almeno per chiedere spiegazioni dell’attività del capitano Stern, uno straniero che promette ad un bandito armi ed aiuto.


In sintesi, i rapporti britannici (inaccessibili fino a un anno fa) ci dicono che i mandanti delle stragi siciliane del maggio -giugno ’47 sono da ricercare nel governo degli Stati Uniti d’America, presieduto dall’aprile ‘45 da Harry Truman. Di conseguenza, i tramiti sono Charles Poletti, James Angleton, Philip J. Corso e, forse, Mike Stern. Non a caso, un documento del 13 agosto ‘47 afferma:

Il maresciallo Messe ha assunto la direzione militare di tutto il movimento anticomunista nel nord Italia (…). Il movimento riceve dieci milioni di lire al mese dalla Confederazione degli industriali dell’Italia settentrionale (…). Jacini mantiene costantemente informate le autorità americane sugli sviluppi del movimento anticomunista.

Altri due dispacci britannici (2 giugno e 5 agosto ’47, spediti da Roma a Londra) riferiscono ampiamente sui finanziamenti erogati dalla Banca nazionale dell’agricoltura (Bna) al movimento clandestino monarchico -fascista, che punta alla costituzione “di squadre armate per opporsi alle formazioni comuniste”. Si fanno i nomi dell’avvocato Carlo Jurghens, presidente della Bna, e del condirettore della banca, conte Armenise. Il denaro arriva anche ai rappresentanti dell’Umi (Unione monarchica italiana) con sede a Roma in via Quattro Fontane, luogo frequentato anche dagli emissari della banda Giuliano.

Ed è molto probabile che sia proprio questa la “fonte unica” a cui attinge il “Nuovo comando generale” (Far, Eca e Sam) per sviluppare le attività terroristiche del maggio -giugno ’47 in Sicilia (cfr. i due documenti Sis del 25 giugno ’47, già esaminati). Secondo Londra, Umberto II (in esilio da un anno a Cascais, in Portogallo) è al corrente dell’operazione eversiva in atto.


Non è casuale che nelle stesse settimane l’ex re incontri Eva Perón, consorte del presidente argentino Juan Perón, dalla quale (secondo il giornalista Jorge Camarasa) riceve un grosso quantitativo di pietre preziose (cfr. il capitolo I del volume Tango Connection, cit.). Il rapporto britannico del 5 agosto riporta infatti che le formazioni nere cercano di ottenere finanziamenti, oltre che dalla Bna, anche dagli industriali e dai neofascisti italiani emigrati in Argentina. Nel ‘47, denaro e armi arrivano in Italia senza problemi. Il comando militare del Partito nazionale monarchico (Pnm), guidato dal generale Scala, dispone a Roma di tre depositi d’armi clandestini con seicento mitragliatrici e cinquemila bombe a mano. Ma l’afflusso di armi inizia nell’autunno ’46.


I gruppi monarchici hanno ricevuto dall’America del Nord ingentissime somme e armi di ogni specie. Fra le armi, vi sono dei fucili mitragliatori di nuovo tipo con cartuccia molto lunga e di grosso calibro. Il morale è elevatissimo. Notizia assolutamente certa (Sis, b. 43, f. L25/Attività monarchica, 9 ottobre ’46).

Le gravi responsabilità del governo americano nelle vicende eversive italiane emergono anche da un questionario dei servizi segreti Usa (tradotto in italiano dal Sis).

Gli elementi che potrebbero opporsi in combattimento contro il comunismo armato provengono quasi totalmente dai quadri degli ufficiali dell’esercito regolare, devoti alla monarchia, nonché da elementi fascisti che non si siano piegati al comunismo (Sis, b. 44, f. LP39/Movimento anticomunista, 17 ottobre ’47).

Alle soglie dell’inferno

Non vi è dubbio che il Pci di Togliatti, ovvero il “partito nuovo” che inizia a formarsi all’indomani della Liberazione, dispone di un’organizzazione armata occulta (il celebre “apparato”) pronta a entrare in azione soprattutto nell’Italia centrale e settentrionale.

Ma possiamo affermare senza ombra di dubbio che tale “apparato” non ha funzioni eversive. Il suo compito è semmai di “vigilanza rivoluzionaria”, come si diceva in quegli anni, con l’obiettivo legittimo di impedire che un colpo di Stato neofascista provochi l’annientamento delle sinistre e delle conquiste democratiche successive al 25 aprile ‘45. Truman teme che i comunisti e i socialisti assumano il potere mediante regolari elezioni politiche, un modello che potrebbe diffondersi rapidamente in altre parti del mondo e mettere in crisi le basi ideologiche della nascente guerra fredda tra i blocchi dell’est e dell’ovest. L’ostentazione ossessiva del cosiddetto “fantasma rosso” e la sua demonizzazione sono quindi strumentali al patto scellerato che si stabilisce tra servizi segreti Usa, corpi dello Stato italiano, neofascisti e mafia fin dal ‘43 e che tanti lutti provocherà nei decenni successivi. Sono i servizi segreti statunitensi a sancire questo connubio, con l’obiettivo di bloccare il processo democratico che inizia a svilupparsi in Italia a partire dall’8 settembre ‘43 e, in modo più deciso, dopo il 25 aprile ‘45.


L’ottima affermazione delle sinistre nelle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno ‘46 (comunisti e socialisti sfiorano il 40 per cento dei voti, contro il 37, 2 della Dc) e la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, sono i moventi di un colpo di Stato antidemocratico che mira ad instaurare una dittatura gestita unicamente dall’Arma dei carabinieri. Tra gli obiettivi urgenti, vi è la messa fuori legge del Pci. In sintesi, le stragi siciliane della primavera ’47 altro non sono che l’innesco di una bomba che dovrà portare alla reazione popolare e alla conseguente risposta armata guidata dall’intelligence americana. L’esecuzione del golpe è affidato all’Arma dei carabinieri e alle squadre armate neofasciste, con la complicità dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica.

Sono molti i nominativi che ricorrono nel lungo documento Sis del 25 giugno ‘47, riportato all’inizio di questo dossier. A parte Salvatore Giuliano, incontriamo un certo “tenente della Gnr Martina, già di stanza a Novara”, definito “capo effettivo della banda”. Nell’interrogatorio condotto dal Sim di Napoli il 12 maggio ’45, intitolato Magistrelli Dante, agente nemico, si legge:

Il 16 giugno 1944 i comandi italiani e tedeschi arrivano a Porto d’Ascoli, dove rimangono per tutto il giorno. Qui, assieme a Console Pino, il soggetto decide di disertare per raggiungere Partinico, provincia di Palermo. I due ricevono l’aiuto di un certo Francesco Martina, nativo anche lui di Palermo, elemento che incontrano per caso presso la famiglia Caratella, originaria di Franca Villa Mare, ma sfollata a Porto d’Ascoli.

È quindi lecito ipotizzare che il Martina al quale si accenna nel documento Sis, sia lo stesso che accompagna i fratelli Console e Magistrelli a Palermo nell’estate ’44.

Scorrendo il documento del 25 giugno ’47, compare più volte il Partito fusionista italiano (Pfi). In particolare, si menzionano i suoi dirigenti: Pietro Marengo, l’avvocato Ciarrapico e “il noto dottor Cappellato, ex medico di Mussolini, agente provocatore numero uno in Sicilia, comandante del vecchio Partito fascista democratico prima, e delle formazioni nere dopo, in seno alla sezione romana del Partito fusionista”. Di Marengo scrive il Cic in un rapporto del 27 gennaio ‘47 intitolato Attività neofasciste a Bari: “Pietro Marengo, che è il direttore dell’organo del partito Il Manifesto, ha assicurato il nostro informatore che la piattaforma del partito è fascista”. E poco prima: “Cerapico [si tratta probabilmente di Ciarrapico] ha istruito un membro siciliano del partito nei seguenti termini: ‘Dobbiamo assolutamente vincere le elezioni in Sicilia in via pacifica, altrimenti dovremo cominciare a spezzare le ossa con cazzotti e bastoni’ ”. Su questa formazione, i servizi segreti britannici riferiscono:

Il Partito fusionista italiano, in origine un piccolo fronte neofascista camuffato in Sicilia, sta trasferendo la sua base di operazioni a Roma. Nuove forze organizzative ne hanno preso il controllo e che ora servirà da fronte per i vari elementi ex fascisti, un tempo disorganizzati, e per i vari elementi nazionalistici. Il suo programma sarà basato sull’attività anticomunista (18 ottobre ‘46).

La riorganizzazione del Pfi avviene nell’autunno ’46 quando, secondo i documenti Sis, si inizia a parlare di un colpo di Stato guidato dall’intelligence Usa e dall’Upa. La sperimentazione eversiva in Sicilia assume, quindi, un carattere nazionale e si colloca all’interno del più generale progetto golpista attuato delle squadre paramilitari neofasciste, che cominciano la lunga marcia che le porterà a scatenare, qualche mese dopo, l’“incidente” terroristico di Portella della Ginestra. Sul Pfi leggiamo ancora:

Scorza [ex segretario Pnf] ha diretti rapporti col generale Messe [generale dei Cc, capo dell’Upa] e tali rapporti si riferiscono all’eventualità di un’azione anticomunista di carattere interno [il colpo di Stato dell’Upa] o contro le forze di Tito nella Venezia Giulia. Sono organi politici del partito [Pfd]: il Partito fusionista italiano; la frazione Patrissi dell’Uq (Uomo qualunque); […] le organizzazioni neofasciste indipendenti, create in Calabria e in Sicilia dal principe Pignatelli; i nuclei reduci della Decima Mas del principe Borghese (Sis, b.13, f. Turati Augusto, titolo: Partito fascista democratico: quadro dell’organizzazione a tutto il 26 settembre 1946, 30 settembre ‘46).


L’imminenza di un’azione anticomunista risulta anche da un altro rapporto Sis:


Ha avuto luogo ieri sera alla sede del Pfi, via Regina Giovanna di Bulgaria, n. 95 (interno 20), una riunione limitata ai dirigenti fascisti dello stesso partito. Erano presenti: il dott. Cappellato che presiedeva (…). Cappellato ha fatto le seguenti testuali dichiarazioni: ‘Abbiamo preso noi fascisti le redini del Pfi che ormai è letteralmente nelle nostre mani (…). Un’azione monarchica tendente a capovolgere radicalmente la situazione pare imminente con l’intervento di corpi armati. In questo caso il Pfi si terrà a stretto contatto di gomito, al centro e alla periferia, col nostro partito (alludeva al Pfd) per la funzione che questo ha da svolgere di movimento risolutivo della situazione’ (b. 56, f. MP44/Attività fascista nel Lazio, titolo: Partito fusionista italiano, 9 ottobre ‘46) .

La riunione si svolge pochi giorni dopo quella -ben più importante -tra Turati, Corso (sottosegretario agli Interni nel secondo governo De Gasperi), Ferrari, Santoro, Agrifoglio e Philip J. Corso (cfr. documento britannico dell’8 ottobre ’46, già visto). A conferma di queste manovre, una nota Sis del 2 novembre ‘46 (b. 56, f. MP44/Attività fascista nel Lazio) riferisce: “Personalità dell’Alto comando alleato incoraggiano questi piani [golpisti] ‘da un punto di vista soprattutto antibolscevico’. Il passaporto internazionale rilasciato dagli Alleati a Turati è parte integrante del suddetto programma d’azione”.

Emerge in modo netto il progetto di colpo di Stato, che vede in cima alla piramide il Comando alleato e i servizi segreti statunitensi (Angleton, Philip J. Corso e altri). Costoro inviano ordini a rappresentanti del governo italiano e degli apparati dello Stato (Agrifoglio, Corso, Santoro, Ferrari) nonché a Turati.

Quest’ultimo controlla le varie organizzazioni del clandestinismo fascista sparse in tutta l’Italia. Tra queste, il Pfi di Marengo, Ciarrapico e Cappellato. La militarizzazione neofascista è “conseguenza degli incontri di cui sopra. (…) Si tratta di formazioni che avranno in dotazione armi e munizioni”. Le riunioni si tengono ai primi di ottobre tra “Bastiano” (definito “un cugino del re”, ovvero Laderchi), il principe Ruspoli ei neofascisti Gray, Nunzi, Turati e Pini. Agli incontri partecipa anche Resio. Il documento Sis del 2 novembre ’46 è molto esplicito sulle finalità di questi gentiluomini: “Stringere un più omogeneo patto d’azione tra fascisti e monarchici, in previsione delle agitazioni popolari che verranno promosse simultaneamente in tutte le città d’Italia, per imporre il ritorno al regime monarchico e alla legalità”.


Le riunioni, nel corso delle quali è sancita la nascita dell’Upa, affidata al generale Messe (Cc), si svolgono a Roma in una casa di via Due Macelli (di proprietà della duchessa Caffarelli), che dista appena cinquanta metri dal bar Traforo, un locale frequentato da Giuliano. Nel documento del 25 giugno ‘47 leggiamo che “il bandito Giuliano vi è stato più volte segnalato, anche e soprattutto in ordine ai suoi contatti con le formazioni clandestine di Roma. Vi fu precisato il luogo degli incontri con i capi del neofascismo (bar sito a via del Traforo, all’angolo di via Rasella)”. E via Due Macelli non è lontana dal bar con servizio esterno situato a piazza San Silvestro (angolo con via della Mercede). Qui, come abbiamo visto, ha sede l’Associazione della stampa estera dove lavora Mike Stern.

Nella gerarchia golpista il Pfi assume un’importanza fondamentale, in quanto garantisce i contatti logistici tra la capitale e il sud nelle persone di Marengo, Pini, Cappellato e altri. Francesco Garase assicura il rapporto col gruppo monteleprino (nota Sis del 28 luglio ‘47) ed è definito, il 2 agosto successivo, “emissario a Roma della nota banda Giuliano”. Frequenta il bar di piazza San Silvestro allo scopo di “tenere i collegamenti con i rappresentanti romani delle varie organizzazioni clandestine”, sostituendo Giuliano quando questi è impegnato in Sicilia. A Roma, Garase è in contatto con elementi dei Far di Romualdi (in particolare con Walter Di Franco, che è solito incontrare Puccioni, 28 luglio ’47) ma anche con pericolosi neofascisti come Armando Di Rienzo, Marco Fossa e Antonio Di Legge.

Quest’ultimo è segnalato dal Sis in rapporti con il Centro informazioni Pro Deo, ovvero l’intelligence vaticana diretta dal frate domenicano belga Felix Morlion. Secondo un documento Sis dell’8 luglio ‘47 “c’è un movimento, l’Eca, che fa capo a un certo Muratori, e del cui servizio informazioni è a capo un certo Puccioni”. In sintesi, emerge che i Far e l’Eca, tramite Di Franco, Garase e Puccioni, inviano ordini alla banda Giuliano in Sicilia e in Calabria.


Come abbiamo visto, l’Eca è stata fondata da Nino Buttazzoni, ai cui ordini opera Muratori. Altri rapporti Sis descrivono Buttazzoni e Di Franco come elementi neofascisti coinvolti nelle azioni eversive dell’estate ‘47. Da un dispaccio del 6 dicembre ’46 (Sis) apprendiamo che anche Alfredo Covelli è alla testa del movimento clandestino monarchico -fascista di Laderchi, Callegarini, Resio e Infante. Si segnalano poi le attività eversive di Spinetti, Pollini e Cappellato, che agiscono all’interno del Pfi, sorto a Bari nell’aprile ‘46. Il loro campo di azione si estende a Roma, Milano, Agrigento, Brindisi, Caltanissetta, Cagliari, Catania, Palermo, Firenze, Lecce, Messina e Potenza. Come si vede, le città siciliane interessate sono ben cinque. Nei rapporti, anche alcune perifrasi alludono al colpo di Stato. Ad esempio, i termini “azione diretta” e “movimento risolutivo della situazione”. La formula “azione diretta” compare in una circolare del Fronte internazionale antibolscevico riportata dal Sis il 18 luglio ‘47 (in cui si illustrano le fasi dell’imminente insurrezione neofascista) e in un documento datato 13 agosto ’47, in cui si afferma “che i Far sono per l’azione diretta, non rifuggono dalla violenza e fanno ricorso ad atti terroristici”. L’espressione “movimento risolutivo della situazione”, che troviamo in un altro rapporto del 25 giugno ’47, ricorre per la prima volta il 9 ottobre ‘46, come abbiamo già visto. Si parla del Pfi, del dottor Cappellato e di “un’azione monarchica tendente a capovolgere radicalmente la situazione con l’intervento di corpi armati”. La stessa formula compare il 14 ottobre ‘46 riferita al Pfd di Turati, Nunzi e Gray, che proprio in quei giorni decide di “fiancheggiare il movimento monarchico”. Le disposizioni sono impartite anche agli uomini di Romualdi e del Pfi in tutta Italia, isole comprese. Altri personaggi ricorrono nel documento del 25 giugno ’47. I loro nomi sono Alfredo Misuri, la principessa Bianca Pio di Savoia, Gioacchino Cipolla e “Anna Maria Romani”:


Il Fronte antibolscevico costituito recentemente a Palermo, al quale dette la sua adesione incondizionata l’onorevole Alfredo Misuri in proprio, e quale capo del gruppo di via Savoia 86 (capitano Pietro Arnod, principessa Bianca Pio di Savoia, ecc.), non è una sezione del Fronte anticomunista a voi nota. Il Cipolla che a Palermo dirigerebbe il fronte è del tutto sconosciuto al Fronte unico anticomunista, di cui alle nostre reiterate segnalazioni confidenziali. Il Fronte antibolscevico di Palermo è però collegato con Anna Maria Romani, ospite della principessa Pio di Savoia sedicente segretaria particolare di Misuri, cucita in tutto a filo doppio del noto colonnello Paradisi, detto anche Minelli (piazza Tuscolo) ed è pei suoi buoni uffici che Misuri e i camerati del comitato anticomunista di Torino, a Voi noto, appoggiarono e appoggiano il progetto di azione diretta di cui Paradisi è autore.

Alfredo Misuri è un collaboratore stretto di Covelli. Alla fine del ’47 ricopre l’incarico di presidente dell’Umi in via dell’Umiltà 83, a Roma. Vicepresidente è il conte Luigi Benedettini, che nel maggio ‘46 incontra Garase, Cannamela e Caterina Bianca proprio in via dell’Umiltà. Risulta quindi evidente che, almeno dalla primavera ’46, esponenti monarchici di prima grandezza sono in contatto con la banda Giuliano, in maniera diretta o tramite emissari.

A proposito del colonnello Paradisi, alias Minelli, che opera presso la cellula neofascista del rione Tuscolo a Roma, leggiamo:

“In via Britannia, di fronte alla caserma dei carabinieri esisterebbe un bar ove si terrebbero riunioni della cellula neofascista, il cui locale verrebbe fra l’altro frequentato da tale Bianchini, da un maggiore dell’esercito e da un professore” (Sis, busta 56, f. MP44/Attività fascista nel Lazio, 19 ottobre ‘46). E in un altro rapporto del 21 ottobre ‘46: “Dal gruppo neofascista Tuscolo ho avuto l’incarico - scrive l’anonimo agente - di funzionare da tratto di unione tra il gruppo stesso e il capitano Nebulante, comandante di settore del movimento monarchico romano”. Si fa riferimento anche all’attività clandestina dei carabinieri. Infine, in un dispaccio Sis del 2 novembre ‘46 si parla di “contatti tra monarchici clandestini e neofascisti/qualunquisti del rione Tuscolo, per un’azione in comune nell’imminenza dell’azione di piazza di cui si farebbe promotore il Partito monarchico per il ritorno al potere del re. Il piano di tale alleanza sarebbe stato propugnato col consenso della federazione romana del Partito fascista democratico”.


È chiaro, come recita un altro documento Sis redatto il 2 novembre (già citato), che tale fermento punta a “stringere un più omogeneo patto di azione tra fascisti e monarchici in previsione delle agitazioni popolari che verranno promosse”. Il Bianchini in questione è Domenico Bianchini (classe 1896), figura di spicco nel Pfd dell’epoca assieme ai colonnelli Mariani e Pollini, che tra la fine del ’46 e l’estate ’47 operano al sud. Ma sappiamo anche che Pollini è in Sicilia prima della fine dell’estate: “Il colonnello Pollini Gianni, già in collegamento con Pucci e Del Massa [esponenti di primo piano dei servizi segreti della Rsi], è attualmente a Napoli in attesa di trasferirsi in Sicilia con altri elementi” (Sis, b. 38 f. HP40/Penne stilografiche esplosive, 11 agosto ‘46). L’affermazione è confermata da un passo (già visto) del rapporto del 25 giugno ‘47 che stiamo esaminando: “Anche il colonnello Pollini e Spinetti Ottorino (già abitanti a Roma, in via Castro Pretorio 24, piano ultimo), sono stati, pochi giorni prima dell’arresto del Pollini e dell’inizio dell’azione della banda [Giuliano], in Sicilia e a Palermo per conto dell’Ecla diretta da Muratori”. Per quanto riguarda Mariani, colonnello dei carabinieri ed ex Gnr, è presente al sud tra il ’46 e il ‘47 e agisce in sintonia con i generali Bencivenga e Caracciolo. In quei mesi, Napoli è un punto di riferimento cruciale per l’eversione monarchico fascista nel meridione e nelle isole. I contatti con l’Arma dei carabinieri sono costanti. Si citano, ad esempio, il maggiore Giovannini, il maresciallo Milanesi e il capitano Bernardi dell’Ufficio informazioni (Sis, b. 43, f. L25/Attività monarchica, 20 settembre ‘46).

Un personaggio importante è la principessa Bianca Pio di Savoia, cognata del colonnello Laderchi (Cc), dal quale la nobildonna è incaricata di occuparsi delle formazioni nere meridionali. La sua abitazione, in via Savoia 86 a Roma, è un centro di organizzazione anticomunista per le attività eversive al sud nei primi mesi del ’47 nonché punto di riferimento per la nobiltà siciliana nella capitale, di cui sono esponenti non secondari le principesse di Ganci e di Niscemi. Bianca Pio di Savoia ospita “Anna Maria Romani”, uno dei nomi di copertura di Selene Corbellini, esponente delle Sam e frequentatrice degli ambienti eversivi palermitani collegati al “noto Martina, capo della banda Giuliano”.


La Corbellini mantiene i contatti con l’Associazione patriottica anticomunista (Apa) di Torino. Qui troviamo Valletta, Pirelli, Falck, Piaggio e Costa, che finanziano i movimenti eversivi neri almeno dall’immediato dopoguerra (cfr. documento britannico del 30 giugno ‘45).

Tra il ’46 e il ’47, la capitale sabauda diventa il crocevia dei movimenti clandestini monarchico fascisti, che ricevono denaro e armi per le attività terroristiche in tutta l’Italia. A Torino, nei primi mesi del ’47, sono operativi il generale Infante, Covelli, Misuri, il principe Alliata di Montereale (poi coinvolto nelle trame nere degli anni 60’ e ’70), Tommaso Leone Marchesano, Selene Corbellini, Tullio Abelli (Decima Mas/Far), Mario Tedeschi (Decima Mas/Far) e, secondo il documento del 25 giugno ’47 che stiamo esaminando, Salvatore Giuliano in persona (“Vi parlammo dei suoi viaggi Roma -Torino”). Sappiamo inoltre che, dal dopoguerra, Tedeschi e Abelli lavorano come confidenti per l’intelligence americana.


Sull’importante ruolo golpista ricoperto dall’Apa nel ’47, il Sis non potrebbe essere più esplicito: “Formazioni clandestine anticomuniste preparano in Sardegna moti rivoluzionari per la defenestrazione violenta delle autorità locali e la proclamazione di un governo nazionale nell’isola. Le formazioni, collegate con altre organizzazioni della penisola, riceverebbero ordini e denaro da un Comitato anticomunista di Torino” (b. 44, f. LP39/Movimento anticomunista, 8 agosto ’47). Secondo il Sis, l’Apa di Torino “è un movimento che mira ad un colpo di Stato e che è incoraggiato e finanziato dall’Argentina” (cfr. documenti del 10 giugno ’47, 13 agosto ’47, 19 settembre ’47 e il capitolo I del volume Tango Connection, cit.). Elemento fondamentale dei circuiti eversivi e finanziari neofascisti è Giuseppe Cambareri, gran massone, capo dei Rosacrociati d’America e del Fronte internazionale antibolscevico (Fia) e collaboratore dei servizi segreti americani dal ‘39. Non a caso, un dispaccio Sis del 27 ottobre ’47 riferisce che “Cambareri ha rapporti con l’estero, principalmente con le Americhe con la Spagna, ed è stato fra i dirigenti della rivoluzione che ha portato al potere Perón”.


Nel giugno ’47, come abbiamo visto, sbarcano in Italia due personaggi di prima grandezza nella storia eversiva del Belpaese. Il primo è Charles Poletti, che promette soldi e armi da parte del governo americano a condizione che si istituisca un comando unico delle forze paramilitari neofasciste. Il secondo è Eva Perón. Giunge in Italia con un carico di lingotti d’oro, pietre preziose e denaro che sono distribuiti (tra giugno e luglio) in varie città della penisola, in Svizzera e in Portogallo. Nelle stesse settimane, anche Covelli viaggia a Lisbona per incontrarsi con Umberto II. Che i fondi per l’eversione nera provengano in gran parte dal paese sudamericano, ce lo conferma il quotidiano La Repubblica d’Italia del 22 giugno ‘47, a proposito della retata della polizia ai danni dei Far (di cui parleremo tra poco): “L’organizzazione a carattere terroristico farebbe capo a un governo provvisorio fascista in Argentina”.


Si può ora ipotizzare il seguente schema finanziario per il golpe neofascista del ’47 in Italia: il denaro (proveniente dalle casse dall’Internazionale nera di Bormann e Skorzeny) parte dall’Argentina di Perón tramite il “governo provvisorio fascista” con sede a Buenos Aires (composto anche da tre ministri della ex Rsi: Moroni, Spinelli e Pellegrini Giampietro; sul tema, cfr. il settimanale L’Europeo del 10 luglio ‘49); viaggia con Eva Perón (cioè con valigia diplomatica) nel giugno ’47; arriva in Italia dove è suddiviso tra gerarchie vaticane e banche. Ne beneficiano l’ex re d’Italia, l’Upa e, probabilmente, anche la Bna. A sua volta, quest’ultima lo distribuisce alle squadre paramilitari monarchico fasciste di Turati, Scorza, Covelli, Fresa e Patrissi. I soldi finiscono così nei circuiti del “Nuovo comando generale” (Far, Eca, Sam) per le azioni terroristiche siciliane del maggio -giugno ‘47, ovvero “il bagno di sangue” messo in atto dallo squadrone della morte agli ordini di Salvatore Giuliano.

Il rapporto del 25 giugno ’47 si sofferma anche sul duca di Spadafora:


Nel mese di marzo, se ben si rammenta, fu segnalato che il duca Spadafora, capo del gruppo commerciale agrario del sud, fu a Roma ed ebbe colloqui con rappresentanti del Fronte clandestino. Chiese di poter versare un milione in conto, a condizione che si facesse in Sicilia “un lago di sangue”. Mormini, del Fronte, avrebbe dovuto raggiungere in Sicilia la banda Giuliano, a contatto anche colla mafia locale in parte a disposizione del suo gruppo. La proposta non fu accettata, sembrò orribile… Da allora, da notizie certe e sicure, Spadafora ha contatti diretti col Martina, che finanzia direttamente e al quale impartisce disposizioni. Elementi ricercati sono stati ammessi a far parte della banda.


Qualche mese prima, il Sis scrive:

Il principe Spadafora, neofascista monarchico che fu collaboratore della Repubblica di Salò, sottosegretario di Stato e detenuto a Regina Coeli da dove venne liberato per il personale intervento di re Umberto, si trova presentemente in missione in Sicilia, a contatto con i dirigenti separatisti e con i neofascisti aderenti ai gruppi autonomi (6 ottobre ’46).

Le attività stragiste del duca sono dunque documentate almeno dall’autunno ’46, in coincidenza con l’inizio delle mattanze in Sicilia (eccidio di Alia) e con gli accordi golpisti siglati nei palazzi romani. Vi è inoltre un legame diretto tra il duca e Martina, ritenuto dal Sis il capo della banda Giuliano e al quale Spadafora invia ordini e denaro.

In merito al “lago di sangue”, una nota Sis del 17 settembre ‘47 afferma:

Altri emissari di Ambrosini [capo delle formazioni militari neofasciste del Pfr] si recarono a Milano e incassarono la somma elargita (…) per il lago di sangue voluto dagli industriali. In casa Ambrosini fu compilata una lista di coloro che dovrebbero comporre il nuovo governo (…). Si sta provvedendo alla distribuzione di armi automatiche nuove e di munizionamento (…). Certo Di Franco andrà in questi giorni in Umbria per impartire ai camerati le ultime disposizioni. Parteciperà al raduno di Napoli (…). Lavorano attivamente per la detta azione: generale Navarra Viggiani, generale Muratori, Venturi (…), il capitano Italo Nebulante (…), il colonnello Festi, il colonnello Buttazzoni (b. 39, f. HP68/Partito fascista repubblicano).

Alla fine dell’estate ’47, Walter Di Franco continua ad essere molto attivo nella preparazione del “lago di sangue” che dovrà condurre al colpo di Stato. Tornano alla ribalta il capitano Nebulante (già visto in collegamento con il gruppo neofascista di piazza Tuscolo, a Roma) e Buttazzoni, che è arrestato dalla polizia nel settembre ’47. L’azione golpista, dunque, non si ferma dopo le stragi siciliane e mira con insistenza a provocare il famoso “incidente” di cui scrivono numerosi rapporti italiani e britannici.


Un altro documento Sis del 25 giugno ’47, già esaminato, recita infatti:


Il comando generale dei Far ha ordinato questa mattina, in conseguenza dell’operazione di polizia in corso, di accelerare i tempi.

Le operazioni di polizia cercano di arginare gli attacchi terroristici neofascisti, che avvengono in Calabria e in Sicilia a partire dal 18 giugno ‘47. Si tratta di una retata di ampio respiro che porta all’arresto di numerosi capi dei Far (cfr. Pier Giuseppe Murgia, Il vento del nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la resistenza, 1945 -1950, Milano, Sugarco, 1975, pp. 288 -292). La strage di Portella della Ginestra (1° maggio) non ha sortito l’effetto desiderato, ovvero l’insurrezione delle sinistre. neofascisti dei Far tentano quindi il tutto per tutto. Ecco perché il 22 giugno ’47 attaccano con mitra e bombe a mano le Camere del lavoro della provincia di Palermo (due sindacalisti perdono la vita e i feriti si contano a decine). Nelle settimane precedenti atti analoghi si registrano in tutta Italia, soprattutto a Milano e a Roma. Si punta a provocare soprattutto il Pci, costi quel che costi. Lo conferma Pasquale Pino Sciortino, membro autorevole della banda Giuliano, nel suo discorso ai banditi radunati la sera del 21 giugno ’47 a Testa di Corsa, una contrada di Montelepre.

Sciortino istruisce i suoi uomini agli assalti del giorno dopo. È presente il “picciotto” Giuseppe Di Lorenzo, già veterano dei moti del “Non si parte”. Questi, in un verbale d’interrogatorio datato 16 luglio ‘47, riporta l’intervento (poi ripreso dal Rapporto giudiziario del 4 settembre ‘47): “Lo Sciortino concluse dicendo che questa seconda parte del loro programma [la prima era stata la strage del 1° maggio] tendeva specificamente alla distruzione delle sedi dei partiti di sinistra, site nella zona di influenza del Giuliano, in modo da creare lo scompiglio e far sì che anche negli altri comuni gli aggressori trovassero imitatori”. È una frase che ricorda da vicino il documento del 25 giugno ’47, a proposito dei Far: “Anticipare l’azione di piazza per la conquista del potere”. Il Sis torna sull’argomento due settimane più tardi, il 10 luglio ‘47 (b. 44, f. LP40/Arditi): “Con le annunciate manifestazioni degli Arditi (…), si vorrebbe provocare incidenti di piazza per dare modo al Partito comunista di scendere in campo con le sue forze, per una offensiva anticomunista in grande stile da parte delle organizzazioni militari clandestine [neofasciste]”.


Infine, di “iniziative di piazza” parla anche il conte Armenise (condirettore della Bna), nell’ambito del “movimento anticomunista armato” da lui finanziato (cfr. MI5 britannico, 16 giugno ’47).

Il progetto di insurrezione golpista, che doveva innescarsi con l’eccidio di Portella, fallisce perché il Pci e il Psi non reagiscono alla grave provocazione. Togliatti e Nenni sanno benissimo che la strage altro non è che una gigantesca trappola destinata ad annientare i partiti storici della sinistra italiana. Già l’8 maggio ’47, il Sis rileva che vi è una spaccatura tra l’Upa e i Far, che diventa definitiva con la nascita del quarto governo De Gasperi, il 31 maggio ‘47, quando comunisti e socialisti sono estromessi dal governo. L’Upa avverte che non è più necessaria una insurrezione violenta perché il “pericolo comunista” comincia finalmente ad allontanarsi. Non così la pensano i Far, che proseguono imperterriti sulla strada delle azioni terroristiche che dovranno portare al golpe. Ma è un pesante atto di disubbidienza nei confronti delle potenti gerarchie eversive della capitale, uno sgarro che Romualdi e le sue squadre armate pagano a caro prezzo. Tra il 26 e il 27 giugno ’47 si scatena la micidiale rappresaglia dell’Upa. In poche ore, in Sicilia, sono massacrati a colpi di mitra Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo (il vice di Giuliano), e altri otto banditi. È l’inizio della fine per lo squadrone della morte monteleprino e per le Sam, l’Eca e i Far. La sconfitta del “Nuovo comando generale” segna il decollo definitivo dell’Upa -l’organizzazione parallela interna allo Stato che veglierà sul “pericolo comunista” per i successivi cinquant’anni -e della destra “istituzionale” dell’Msi di Giorgio Almirante.

Secondo il documento Sis del 25 giugno ’47, Giuliano è in rapporti anche con la mafia. A questo proposito, occorre precisare che il bandito, dal ’43, agisce sotto il controllo dei vari capifamiglia delle zone in cui opera: Vincenzo Rimi (Alcamo), Santo Fleres (Partinico), Domenico Albano (Borgetto), Salvatore Celeste (San Cipirello), Giuseppe Troia (San Giuseppe Jato), don Ciccio Cuccia (Piana degli Albanesi), don Calcedonio Miceli (Monreale).


Sono questi padrini a determinare la particolare insorgenza del gruppo monteleprino e la scomparsa di tutte le altre bande di tipo tradizionale in Sicilia. Giuliano rappresenta un fatto nuovo nell’organizzazione criminale del territorio. Ne segna un salto qualitativo nella direzione dei più alti livelli istituzionali e politici del tempo, a cominciare dagli ambienti più disponibili a sperimentare il terrorismo di Stato e l’eversione antidemocratica: “Mormini del Fronte -leggiamo nel lungo rapporto -avrebbe dovuto raggiungere in Sicilia la banda Giuliano, a contatto anche con la mafia locale in parte a disposizione del suo gruppo”. Non sappiamo chi sia questo Mormini, ma il documento ci dice che lavora per il Fronte antibolscevico nell’isola, cioè per il “Nuovo comando generale” neofascista. Più sfumato appare il quadro che l’estensore del documento presenta circa le relazioni tra la mafia e il bandito. Probabilmente, gli sfugge lo status di dipendenza del gruppo terroristico dal più attrezzato (anche sotto il profilo sociale) controllo mafioso del territorio. Sono infatti i padrini locali a determinare l’esistenza, la durata e persino i modi di essere di qualsiasi organizzazione criminale all’interno della nicchia di potere che esse si costruiscono. Fino alla vigilia di Portella, le famiglie mafiose sembrano paghe del loro tradizionale controllo territoriale. Sono in rapporti con autorevoli esponenti del mondo istituzionale ma non hanno ancora compiuto il salto verso lo Stato. Stentano a percepire il terrorismo come strategia di lotta politica ma non disdegnano di contribuire alla decapitazione delle leadership del movimento democratico. Nell’imminenza dell’evento stragista, i vecchi padrini nutrono ancora molti dubbi sul da farsi. A tutti loro pensa Salvatore Lucania (Lercara Freddi, 1897), alias Lucky Luciano, il super boss della mafia siculo -americana che arriva per la prima volta a Palermo nella primavera ‘46 (aprile, maggio e giugno) per poi ripartire durante l’estate per il Sud America (Brasile, Colombia e Venezuela).


Dall’ottobre ’46 al marzo ’47 è a Cuba e il 12 aprile ’47 arriva a Genova a bordo di un piroscafo turco. Il 30 aprile è a Palermo, dove giunge con un treno speciale scortato da sei carabinieri. Il 22 giugno lascia l’hotel delle Palme per recarsi a Napoli. La data di arrivo e quella di partenza sono illuminanti: la presenza di Lucky Luciano è ritenuta imprescindibile dall’intelligence Usa (Angleton in testa) per appianare le divergenze che potrebbero svilupparsi tra i vari capifamiglia dell’isola nell’attuazione del golpe.


Ad assicurare la necessaria tranquillità sul piano delle cosiddette “forze dell’ordine” troviamo un personaggio come Ettore Messana. Ma non è da questo versante che può arrivare la certezza sulle future coperture istituzionali e sociali di cui l’operazione stragista ha bisogno. La mafia garantisce non solo l’omertà necessaria ma anche la prospettiva del controllo interno agli stessi apparati dello Stato. E, al contempo, costituisce il deterrente al disvelarsi di eventuali anelli deboli. Messana è l’uomo giusto al posto giusto, forte delle sue esperienze di criminale di guerra per gli atti genocidi compiuti tra il ‘41 e il ‘42 nella Slovenia occupata dalle truppe italiane. Ma non subisce alcun processo. Al contrario, nell’autunno ’44 è scelto ispettore generale di Ps in Sicilia dal secondo governo Bonomi, in straordinaria coincidenza con la nomina di Angleton a capo assoluto dello Special counter intelligence (Sci), il controspionaggio alleato in Italia. Si può quindi ipotizzare che il Comando alleato utilizzi i moti siciliani della fine del ’44 (ispirati e in gran parte organizzati dai servizi segreti di Salò) come contraltare al “pericolo rosso” che si sviluppa al nord (lotta partigiana) e al sud (leggi di riforma agraria del ministro comunista Fausto Gullo). Tuttavia, appaiono gravi le responsabilità del capo del governo, Ivanoe Bonomi, che nell’inverno ’44 -’45 ricopre ad interim la carica di ministro dell’Interno. È lui a mettere Messana a capo della Ps in Sicilia, pur sapendo che questi figura negli elenchi dei criminali di guerra ricercati dalle Nazioni unite per “assassinio, massacri, terrorismo sistematico, torture di civili, violenza carnale, deportazioni di civili, internamento di civili in condizioni inumane, tentativi di denazionalizzazione degli abitanti dei territori occupati” (cfr. Repubblica Slovena, Archivio nazionale di Lubiana, b. 1551, 14 luglio ’45).

Altrettanto sconcertanti risultano le mosse di Alcide De Gasperi. Durante il suo secondo governo (13 luglio ’46 -20 gennaio ‘47), si registra la fase matura degli accordi tra intelligence Usa, clandestinismo neofascista e corpi dello Stato (ottobre -novembre ‘46).


Questi ultimi fanno riferimento al ministero dell’Interno, al Sim, alla Ps e all’Arma dei carabinieri. È evidente che il Sis riferisce, per dovere d’ufficio, al ministro dell’Interno, carica ricoperta ad interim proprio da De Gasperi. Come abbiamo visto, la circostanza è denunciata in quelle settimane da una serie di preoccupati rapporti top secret redatti a Roma dall’intelligence britannica.


Mario Scelba diventa ministro dell’Interno con il terzo governo De Gasperi (2 febbraio -13 maggio ‘47) e tale carica ricopre in maniera ininterrotta fino al ‘54. Il ministro è perfettamente a conoscenza del retroscena eversivo neofascista che porta alle stragi siciliane del maggio -giugno ‘47.


Le migliaia di rapporti Sis prodotti nella primavera -estate ’47, e che riconducono in maniera inequivocabile all’alleanza tra servizi segreti statunitensi, squadre armate neofasciste, Arma dei carabinieri ed Esercito, sono ovviamente diretti proprio a lui. Tuttavia il 2 maggio ‘47, in piena Assemblea costituente, Scelba pronuncia un accalorato discorso nel quale nega l’esistenza di mandanti nella strage di Portella della Ginestra, definendola un fenomeno da collegare all’arretratezza feudale della Sicilia. In Italia si avvia così un’altra storia tra mistificazioni, inganni e omertà istituzionali. Quella della doppia lealtà, del doppio Stato.


Bibliografia

Per ulteriori approfondimenti, si rinvia alle seguenti opere:

Giuseppe Casarrubea, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, Milano, Franco Angeli, 1997;

Idem, Fra’ Diavolo e il governo nero. Doppio Stato e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1998;

Provincia Regionale di Palermo, Comune di Piana degli Albanesi, Biblioteca comunale “G. Schirò”, Portella della Ginestra. 50 anni dopo (1947 -1997), Caltanissetta -Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1999, vol. I (atti del Convegno); vol. II (documenti raccolti, annotati e introdotti da Giuseppe Casarrubea); vol. III (documenti raccolti, scelti e introdotti da Giuseppe Casarrubea, 2001);

Giuseppe Casarrubea, Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, Milano, Franco Angeli, 2001;

Nicola Tranfaglia, Come nasce la repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani, 1943 -1947, Milano, Bompiani, 2004;

Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Milano, Bompiani, 2005;

Idem, Morte di un agente segreto, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale; 2006;

Giuseppe Casarrubea -Mario J. Cereghino, Tango Connection. L’oro nazifascista, l’America latina e la guerra al comunismo in Italia. 1943 -1947, Milano, Bompiani, 2007.


Ricerche negli archivi italiani, sloveni, statunitensi e britannici:
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino.


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En pleine Guerre froide, l'Occident avait envisagé un coup d'Etat en Italie

ITALIE. Des archives britanniques déclassifiées, présentées dans «La Repubblica», révèlent qu'en 1976 les puissances occidentales étaient prêtes à utiliser la force pour empêcher les communistes italiens d'accéder au gouvernement.

Stéphane Bussard
Le Temps, Mardi 15 janvier 2008


En 1967, il y a le putsch des colonels en Grèce. En septembre 1973, le président chilien Salvador Allende est renversé par les militaires. Aujourd'hui, on découvre, dans les archives britanniques récemment déclassifiées et présentées par La Repubblica dans son édition du 13 janvier, que l'Occident, les Etats-Unis, la Grande-Bretagne, la France et l'Allemagne, avait envisagé un coup d'Etat en Italie en 1976. Rien de moins.

Motif? Empêcher l'accès des communistes italiens au gouvernement. Tout se résume dans une formule: lutter contre le «facteur K», pour communisme. Les craintes résultent d'une montée en puissance du Parti communiste, qui, lors des élections du 20 juin 1976, obtient 34,3% des suffrages contre 38,7% pour la Démocratie chrétienne. Les inquiétudes reposent aussi sur le compromesso storico concocté à partir de 1972 par Enrico Berlinguer, le leader de ce que l'on appellera l'eurocommunisme (voir ci-dessous). Le compromis historique consiste à ne pas profiter à des fins révolutionnaires du chaos social et économique de l'Italie plongée dans les années de plomb, mais à «s'associer à l'effort démocratique», voire au gouvernement.

Nous sommes alors en pleine Guerre froide. L'Italie constitue un enjeu géostratégique important et un champ de bataille majeur entre les deux superpuissances. En mai 1996, l'ex-directeur de la CIA William Cosby l'avouera: Washington a versé des sommes considérables en Italie pour prévenir le péril rouge et pour soutenir la Démocratie chrétienne. Selon Mauro Cerutti, professeur d'histoire à l'Université de Genève, des documents américains déclassifiés des années1950 révèlent d'ailleurs que même en cas de victoire communiste par les urnes en 1948, les Etats-Unis n'auraient jamais accepté un tel résultat.

Les archives britanniques récemment déclassifiées comprennent des centaines de documents relatant des réunions diplomatiques de haut niveau, de la correspondance entre les grands de ce monde, des analyses de risques. Dans l'un d'eux, intitulé Italy and the communists: options for the West, il est question d'une action en «soutien d'un coup d'Etat ou d'autres actions subversives».

Cinq scénarios sont échafaudés pour barrer la route des communistes: des mesures d'ordre administratif, des pressions économiques par le biais de la Communauté européenne et du Fonds monétaire international. A cet égard, Mauro Cerutti souligne que pour bénéficier du plan Marshall, «l'Italie avait dû garantir qu'il n'y aurait pas de communistes dans son gouvernement».

Parmi les options les plus dures figurent des opérations secrètes pour «soutenir les forces démocratiques» et encourager un «coup d'Etat». Après évaluation, ce projet sera abandonné. Trop risqué. Un coup de force ferait fi de l'influence du Parti communiste dans les syndicats. Il pourrait même le renforcer dans sa volonté d'accéder au gouvernement. Il pourrait aussi provoquer une guerre civile en Italie ainsi que mettre à dos les opinions publiques occidentales et créer des tensions considérables entre les Etats-Unis et les alliés européens de l'OTAN.

Avec des communistes dans le gouvernement italien, les Occidentaux, en première ligne le secrétaire d'Etat américain Henry Kissinger, craignent pour la sécurité de l'OTAN. Des documents sensibles, notamment dans le domaine nucléaire, pourraient «finir à Moscou». A Bruxelles, on parle de «catastrophe» si Berlinguer accède au pouvoir. On redoute aussi que les bases de l'OTAN en Italie soient infiltrées par des «fonctionnaires communistes». On envisage d'expulser l'Italie de l'Alliance atlantique. Mais cette hypothèse comportait elle aussi de sérieux risques: elle pouvait inciter la Grèce et la Turquie à quitter l'OTAN. En sapant la VIe Flotte en Méditerranée, elle pouvait compromettre la capacité d'action des Etats-Unis au Moyen-Orient. «Le retrait de l'Italie de l'OTAN se transformerait de fait en une défaite de l'Occident devant le monde entier.»

Professeur de la pensée politique à l'Université de Bologne, Carlo Galli a lu l'article de La Repubblica. «Le scoop ne m'a pas surpris. Je me souviens que dans les années 1970, on parlait beaucoup des risques de coups d'Etat. L'Italie représentait un intérêt géostratégique majeur pour l'Europe.» Finalement, il n'y aura pas de coup d'Etat et les communistes de Berlinguer n'accéderont jamais au pouvoir. Le 16 mars 1978, jour où Giulio Andreotti devait annoncer l'entrée des communistes au gouvernement, Aldo Moro, leader de la Démocratie chrétienne et chantre de l'ouverture vers le Parti communiste, est enlevé par les Brigades rouges. Il sera assassiné. «Ce qui a stoppé les communistes et fait échouer le compromis historique, ce n'est pas un coup d'Etat, mais une stratégie plus subtile pour mettre fin à la collaboration entre PC et DC.»

Pour Carlo Galli, aucune preuve ne permet d'identifier formellement les assassins d'Aldo Moro. Les Brigades rouges ont pu être téléguidées par Washington, mais aussi par Moscou. L'Occident avait un intérêt dans l'affaire. Mais l'Union soviétique aussi. Elle voyait d'un mauvais œil la participation d'un Parti communiste sans lien direct avec Moscou dans un gouvernement bourgeois. Et Carlo Galli de conclure avec une pointe d'ironie: «Que le temps passe! Imaginez: il y a trente ans, des Etats européens avaient envisagé un coup d'Etat dans un autre Etat européen. Une chose impensable aujourd'hui.»


Eurocommunisme, une spécialité italienne

Les communistes italiens ont voulu éviter un scénario à la chilienne.

Stéphane Bussard


Vocable apparu pour la première fois dans un journal milanais en 1975 sous la plume du politologue yougoslave Frane Barbieri, l'eurocommunisme a été décrit comme une «variante occidentale» du communisme. Bien que porté un instant par l'Espagnol Santiago Carillo et évoqué en France, il ne prend racine qu'en Italie dans les années1970. Son avènement procède de plusieurs facteurs. La crise du stalinisme en est un. Celle de la société libérale démocratique en est un autre. De plus, face à des problèmes sociaux spécifiques, les communistes italiens refusent la théorie du socialisme dans un seul pays développé par Staline.

«Giunte rosse»

Si l'eurocommunisme a inquiété les Occidentaux, en tête desquels les Américains, c'est parce qu'il était difficilement identifiable à ses débuts. Professeur d'histoire à l'Université de Genève, Mauro Cerutti analyse: «Les communistes italiens sous Berlinguer ont abandonné toute stratégie révolutionnaire pour miser sur les urnes.» La stratégie graduelle fonctionnera. En 1975, les communistes s'emparent des municipalités de Bologne, Naples, Turin, Rome qui seront connues sous le nom de giunte rosse. Mais, contrairement au gradualisme de Karl Kautsky, les eurocommunistes ne cherchent pas à appliquer une stratégie de l'épuisement. Au contraire, ils veulent participer au gouvernement. C'est le fameux compromis historique qui a été porté par Enrico Berlinguer et que Palmiro Togliatti avait inspiré en 1956 déjà.

«Les communistes italiens ont tiré les leçons du renversement d'Allende au Chili, ajoute Mauro Cerutti. En constatant que la Démocratie chrétienne chilienne avait soutenu les putschistes, ils ont voulu éviter un tel scénario et décidé de soutenir la démocratie italienne.» L'eurocommunisme est néanmoins mort avec le décès de Berlinguer.

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