Mi chiedo
spesso perché il comunismo
continui ad ossessionare le menti di tante
persone che pure lo danno per morto, è
questo che ho pensato
anche leggendo
“Alla cieca” di Claudio Magris, il libro
di cui Moni Ovadia ha
intenzione di
fare lettura integrale al Mittelfest 2005.
Lettura integrale pubblica
di un
testo che è già dura leggere fino a pag.
50 da soli e con
calma. Un libro
sostanzialmente noioso, che dice per 335
pagine sempre la stessa cosa
in modo
quasi maniacale. Un libro che ha l’unico
merito – nel mondo del
pensiero unico
– di essere intriso di anticomunismo, con
un lessico ironicamente
aggressivo o
anche violento tout court contro il PCI e
i comunisti. Un libro anche
razzista,
nei confronti degli jugoslavi (dei serbi,
dei croati…).
Magris pensa
(deve aver la memoria corta e deformante)
che la storia dei comunisti
italiani
e jugoslavi sia solo una storia di sangue
e orrore (con la tipica
tecnica da
guerra psicologica: insistenza ad ogni
pagina su rosso = sangue,
bandiera rossa
vello insanguinato, per esempio, il
fazzoletto rosso che strangola, la
similitudine con il macellaio di Orlec
imbrattato di sangue che
costringe la
moglie a far l’amore…).
Io mi sono sentita offesa, leggendo
questo libro, e non capisco come
possa Moni
Ovadia, che dovrebbe sapere i meccanismi
dello sputtanamento razzista o
religioso o politico,
dell’emarginazione, della damnatio
memoriae, non
capirlo.
Se Magris avesse scritto degli ebrei o
anche dei rom o dei gay un
decimo di
quello che scrive di comunisti e di
jugoslavi non sarebbe mai stato
letto a
Mittelfest. Invece dei comunisti si può
dire di tutto e di
più al di là di
qualsiasi analisi documentale e di
qualsiasi ragionamento logico.
Soltanto
un borghese
come Magris (mi si perdoni l’espressione
obsoleta, ma non
ho trovato una migliore nel vocabolario
dei sinonimi e contrari)
può aver
trasformato il Partito in un dio,
un’entità dal mondo separata e
che domina gli
iscritti. Solo un borghese può pensare che
gli operai di
Monfalcone fossero “mandati”
dal Partito (rigorosamente con la P
maiuscola). Quelli che ho
conosciuto io
avevano invece scelto di andare, e non si
sentirono traditi dal partito
per il
semplice fatto che si sentivano essi
stessi il partito (anche con la p
minuscola, volendo). Gli operai del
cantiere di Monfalcone, di cui
il Cippico non mi sembra un
rappresentante,
erano classe operaia e nello stesso tempo
intellettuali, se anche
avessero
considerato il partito come un dio, non
sarebbe stato un dio
trascendente, ma
casomai immanente. Per cui non avrebbero
mai detto, come non hanno
detto se non
nelle ricostruzioni di “intellettuali”
tipo Magris e Pansa, che sono
stati
traditi “dal Partito”.
Difficile immaginare per uno come Magris
che un operaio potesse proprio
decidere di testa propria di andare in
Jugoslavia, come successe alla
gran
parte dei monfalconesi. L’immagine che dà
dei comunisti è
quella presentata da
sempre dalla propaganda da guerra fredda:
gente che esegue ordini.
Invece le
testimonianze dicono che volevano proprio
andare, e per svariati
motivi, non
tutti e non solo ideali, anche concreti.
Nel libro si attribuisce continuamente al
PCI la responsabilità
di aver mandato
i militanti in Jugoslavia e dopo di averli
lasciati completamente soli,
quando
invece i documenti storici – se uno va a
guardarli e non si accontenta
della
propaganda da guerra fredda – dicono che
il PCI non voleva che i
militanti
andassero massicciamente in Jugoslavia, e
che poi comunque non li ha
affatto
lasciati soli e che il trattamento
riservato ad alcuni di essi nelle
prigioni
jugoslave fu denunciato già nel 1953, per
esempio in una serie
di articoli sul
Lavoratore, il giornale comunista di
Trieste.
Ma Magris fa letteratura non storia. Cioè
vuole che gli si creda
come alla
verità, se poi gli si dimostra che non è
vero, magari ti
dice che lui non
voleva fare storia, ma letteratura. Come
il regista Negrin che ha
voluto raccontare la “verità” ma non
la “realtà” delle foibe. Come tutti gli
opportunisti
intellettuali di sempre.
Non si preoccupa di andare a vedere come
stanno le cose. Ripete
semplicemente
quello che la propaganda ha detto in
questi anni. Con la suggestione
delle
parola artistica: “quel giorno a Trieste
sotto la pioggia, mentre
risalivo via
Madonnina andando alla sede del Partito e
alla voragine della mia
vita”...
A Magris, come a tutti i piccolo borghesi
(termine obsoleto anche
questo) di
tutte le epoche, dà fastidio
sostanzialmente che la gente si
organizzi.
Trasforma il suo Cippico in un eroe che si
erge solitario e orgoglioso
dalle
urne infuocate come Farinata, lo trasforma
in uno sconfitto che
recrimina sul
dio-partito.
La sua efficacia letteraria, prof. Magris,
è una efficacia
puramente
propagandistica, lei non può rappresentare
artisticamente
Cippico, perché non
fa parte della sua stessa classe, né ha
l’umiltà per
mettersi nei suoi panni.
Di questo, se lei fosse un po’ più umile,
avrebbe dovuto avere
consapevolezza
nell’atto di accingersi a scrivere un
libro del genere. Invece, nel
mentre
rende Cippico o anche Jorgensen
protagonisti, riesce solo a trattarli
come eroi
tragici. Lei vede la storia come un ciclo
continuo di sofferenze e
ingiustizie
senza senso.
Immagini
invece se non ci fossero
stati quelli come gli operai di
Monfalcone,
se non ci fossero stati quelli come
Jorgensen, se il mondo fosse fatto
solo di
gente come lei, che quando c’era ancora un
movimento comunista forte,
erano
“vicini” ai comunisti (certo, sempre
indipendenti, perché quelli
che si
schierano categoricamente sono gli scemi,
che non sanno che bisogna
tenere sempre
un piede un po’ fuori come via di fuga,
appena scappano i buoi) e ora
ci
tartassano la testa con le loro
elucubrazioni da crociati del
“pentitevi”.
Con questo
testo Magris si affianca
alla schiera di tutti coloro che praticano
da anni un vero e proprio bojkot
psicologico nei confronti dei
comunisti. Da
comunista io mi sento moralmente e
psicologicamente come Cippico, solo
che i
“picchiatori”, con le parole e con i gesti
martellanti, in questa
grande Goli
Otok che è diventato il mondo dopo il
trionfo dell’Occidente,
siete voi e tutta
la schiera di pentiti che in questi anni
si preoccupano solo di
decretare la
propria distanza dal movimento comunista
così come si è
nel Novecento
concretizzato. E non mi si dica che qui
c’è un ragionamento per
salvare il comunismo
ideale separandolo da quello “reale”, e
che è necessario che
ragioniamo sul
nostro passato ecc. Io sono stata iscritta
al PCI dal 1967 e mi ricordo
solo di
pentimenti e di prese di distanza
dall’URSS e di studi che hanno
rianalizzato
la nostra storia, anche ai limiti del
masochismo. I libri come questo
di Magris
per me non sono altro che il prodotto di
un kapò intellettuale
nel grande Lager
del pensiero unico.
Rifletta
anche
Ovadia, che ha deciso di spendere una
parte dei soldi e
dell’immagine di Mittelfest “Alla cieca”.
Non sente offensiva la
similitudine
che viene fatta da Magris a ogni piè
sospinto fra Dachau e Goli
Otok? Non le
sembra un pò maniacale il tutto? Quale il
senso di insistere
ancora su questa
vicenda (Magris ne aveva già scritto, e
tanti ne hanno scritto)
quando nel
mondo oggi gli oppressori sono ben altri.
Quando sono Guantanamo, Abu
Ghraib i
campi di concentramento.
Quando è
altro il potere criminale che ci domina
tutti. Corpi e menti.
Alessandra
Kersevan, Udine