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- imperialismo e globalizzazione - 15-07-08 -
n. 236
Separatismo e costruzione
dell’impero nel secolo XXI
di
James Petras
24/06/2008
Introduzione. Il contesto
storico
Nella
storia
moderna, il ‘divide et impera’ è stato
l’ingrediente essenziale
che ha
permesso che i paesi europei,
relativamente piccoli e poveri di
risorse, conquistassero nazioni molto più
grandi e popolose, e
più
ricche di risorse naturali. Si dice che
per ogni ufficiale britannico
in India, ci fossero cinquanta sikh,
gurka, musulmani e indù. La
conquista europea dell'Africa e dell’Asia
fu comandata da ufficiali
bianchi, combattuta da soldati neri,
ambrati e gialli, affinché
il
capitale bianco potesse sfruttare i suoi
lavoratori e quelli di colore.
Le differenze regionali, etniche,
religiose, settarie, tribali,
comunitarie ed altre, furono politicizzate
e sfruttate in modo da
permettere agli eserciti imperiali la
conquista dei popoli guerrieri.
Negli ultimi decenni, i grandi promotori
della strategia del ‘divide et
impera’ nel mondo sono diventati i
costruttori dell'impero
statunitense. Negli anni ‘70, la Cia smise
di promuovere le dubbie
virtù del capitalismo e della democrazia
e, finanziandole e
dirigendole, passò a legarsi con le élite
religiose,
etniche e
regionali che si opponevano ai regimi
nazionali indipendenti od ostili
all’edificazione dell’impero statunitense
nel mondo.
La
chiave
della costruzione imperiale per via
militare degli Stati Uniti segue
due principi: l'invasione militare diretta
e la fomentazione di
movimenti separatisti che possano portare
allo scontro militare.
La
costruzione imperiale nel XXI secolo ci
mostra la pratica estesa di
entrambi i principi in Iraq, Afghanistan,
Iran, Libano, Cina
(Tíbet),
Bolivia, Ecuador, Venezuela, Somalia,
Sudan, Birmania e Palestina.
Cioè, in ogni paese nel quale gli Stati
Uniti non riescono ad
instaurare un governo clientelare stabile
ricorrono a finanziare e
promuovere organizzazioni e leader
separatisti che utilizzano pretesti
etnici, religiosi e regionali per
rovesciare il governo costituito
Coerentemente
ai principi tradizionali della costruzione
imperiale, Washington
appoggia solamente i separatisti nei paesi
che si rifiutano di
sottomettersi al suo dominio imperiale,
mentre si oppone ai separatisti
che offrono resistenza all'impero ed i
suoi alleati. Quindi, gli
ideologi imperialisti non sono ipocriti né
utilizzano un doppio
standard (come sono accusati di fare dai
loro critici di sinistra) ma
mantengono pubblicamente il principio di
preferenza imperiale come
criterio di valutazione per i movimenti
separatisti, nel concedere o
negare il loro appoggio. Invece, molti
presunti critici progressisti
dell'impero fanno dichiarazioni universali
a favore del diritto di
autodeterminazione e lo applicano perfino
ai gruppi separatisti
più
irranciditi e reazionari sostenuti
dall'impero, con risultati
catastrofici. Le nazioni indipendenti e i
popoli che si oppongono ai
gruppi separatisti appoggiati dagli Usa,
vengono bombardati fino alla
distruzione e sono additati come criminali
di guerra. Le persone che
vivono nel ‘nuovo stato’ e si oppongono ai
separatisti vengono uccise o
costrette all'esilio. I ‘paesi liberati’
subiscono la tirannia e
l'impoverimento indotto dai separatisti
appoggiati dagli Stati Uniti, e
molti per la loro sopravvivenza economica
si vedono costretti ad
emigrare in altri paesi.
Nessuno,
o
quasi, dei critici progressisti dell'URSS
che appoggiavano
l’indipendenza delle sue repubbliche, ha
finora espresso pubblicamente
qualche ripensamento e tantomeno ha fatto
delle riflessioni
autocritiche, anche di fronte a decenni di
catastrofi socioeconomiche e
politiche negli stati secessionisti.
Tuttavia, oggi questi stessi
progressisti continuano a predicare grandi
principi morali a quelli che
contestano e respingono alcuni movimenti
separatisti perché sono
originati e crescono nell’intento di
estendere l'impero statunitense.
In
queste
ultime decadi, il successo di Washington
nella cooptazione dei
così
detti ‘progressisti liberali’ in appoggio
ai movimenti separatisti,
pronti a diventare clienti
dell’imperialismo, è stato notevole e
le
conseguenze per i diritti umani nefaste.
I
principali gruppi sostenuti dai
progressisti europei e statunitensi
sono i seguenti:
1.
I
fondamentalisti bosniaci, appoggiati dagli
Usa, neofascisti croati e
terroristi albano-kosovari, col risultato
delle pulizie etniche e della
conversione dei loro stati, prima sovrani,
in basi militari Usa, in
regimi clientelari e in disastri
economici, distruggendo totalmente il
welfare multinazionale iugoslavo.
2.
I
fondamentalisti islamici afgani,
appoggiati dagli Usa, che hanno
distrutto il regime politico afgano, laico
e riformista, promotore
dell'uguaglianza della donna e di
importanti campagne anti-feudali che
coinvolgevano sia uomini sia donne, di una
riforma agraria generale e
di ampi programmi sanitari ed educativi.
Come risultato dei successi
militari Usa/tribal-islamici, milioni di
persone risultano morte,
sfollate ed espropriate, mente i signori
della guerra tribali,
medievali, fanatici anticomunisti, hanno
distrutto l'unità del
paese.
3.
L'invasione dell'Iraq da parte degli Usa,
che ha distrutto uno stato
nazionale moderno e il sistema
socioeconomico laico ed avanzato di quel
paese. Durante l'occupazione, l'appoggio
degli Usa a movimenti
religiosi e tribali, clan e movimenti
etnici separatisti ha condotto
all'espulsione di più del 90% della sua
moderna classe
scientifica e
professionale ed al massacro di più di un
milione di iracheni…
tutto in
nome della sostituzione di un regime
repressivo e, soprattutto, della
distruzione di un stato che si opponeva
all'oppressione israeliana
della Palestina.
È
evidente
che l'intervento militare statunitense
promuove il separatismo come
mezzo per instaurare una base di appoggio
regionale. Il separatismo
facilita la creazione di governi fantoccio
minoritari e ha funzione di
contrasto verso i paesi vicini che si
oppongono alle spoliazioni
dell'impero. Nel caso dell'Iraq, il
separatismo curdo appoggiato dagli
Usa ha preceduto la campagna di isolamento
di un avversario, la
creazione di coalizioni internazionali per
premere e debilitare il
governo centrale. Washington evidenzia
come ‘atrocità dei
regimi’ i
casi di diritti umani, per alimentare
campagne di propaganda globali.
Più recentemente, ciò è diventato evidente
nelle
proteste teocratiche
tibetane finanziate dagli Stati Uniti
contro la Cina.
I
separatisti
sono sostenuti come truppe da usare per
potenziali colpi terroristici,
per attaccare settori economici strategici
e provvedere informazioni,
reali o fabbricate, come nel caso dei
curdi e di altri gruppi di
minoranza etnica rispetto all'Iran.
Perché il separatismo?
Gli
imperialisti non ricorrono necessariamente
ai gruppi separatisti,
specialmente quando hanno clienti a
livello nazionale che controllano
lo stato. È solo quando il loro potere è
limitato a
gruppi,
territorialmente o etnicamente
concentrati, che i loro servizi segreti
ricorrono a promuovere i movimenti
‘separatisti’. Gli Stati Uniti
appoggiano il movimento separatista in un
processo graduale,
cominciando dal fare appello all'esigenza
di una maggiore autonomia e
decentramento, mosse tattiche essenziali
per acquisire una base di
potere politico locale, accumulare risorse
economiche, contrastare
gruppi anti-separatisti e minoranze
etniche o religiose e politiche
locali legate al Governo centrale (come la
repressione delle
comunità
cristiane nell’Iraq settentrionale,
represse dai separatisti curdi per
i loro annosi legami con il Partito
Centrale Baath, o i rom del Kosovo,
espulsi e uccisi dagli albano-kosovari a
causa del loro appoggio al
sistema federale iugoslavo)
Il
tentativo
di usurpare forzosamente le risorse
nazionali e l’estromissione degli
alleati locali del governo centrale dà
luogo a scontri e
conflitti con
il potere legittimo del governo centrale.
È a questo punto che
l'appoggio esterno (imperialista) diventa
cruciale per mobilitare i
mass media a denunciare la repressione di
‘pacifici movimenti
nazionali’, ‘che esercitano semplicemente
il diritto
all'autodeterminazione’. Una volta che la
macchina imperiale
propagandistica dei mezzi di comunicazione
di massa tocca la nobile
retorica dell'autodeterminazione e
dell'autonomia, la
decentralizzazione e l'autogoverno, la
grande maggioranza delle Ong
finanziate da Usa ed Europa si uniscono in
coro ad attaccare gli sforzi
del Governo per mantenere stabile un
stato-nazione unificato.
In
nome della
‘diversità’ e di uno ‘stato multietnico’,
le Ong di obbedienza
occidentale provvedono un supporto
ideologico ai separatisti
filo-imperialisti. Quando i separatisti
hanno successo, arrivando ad
assassinare e realizzare pulizie delle
minoranze etniche e religiose
legate al governo centrale precedente, le
Ong stanno stranamente zitte
o sono perfino complici nel giustificare i
massacri come ‘reazioni
eccessive alla precedente repressione’. La
macchina propagandistica
occidentale arriva a celebrare
l'espulsione da parte dello stato
separatista di centinaia di migliaia di
persone, come avvenne nel caso
dei serbi rom del Kosovo e della regione
croata della Krajina con
titoli come: "I serbi in fuga: se lo
meritano", accompagnati da foto di
truppe della Nato che sorvegliano il
trasloco di famiglie indigenti dai
loro paesi e città atavici verso squallidi
campi nella Serbia
bombardata. I politici occidentali
trionfanti hanno biascicato
devozioni sui massacri di civili serbi da
parte del Kla; per esempio
l'ex ministro degli Esteri tedesco,
Joschka Fischer, (Verdi) disse:
"Comprendo il vostro dolore (a quelli del
Kla), ma non dovreste
lanciare granate a bambini (serbi) in età
scolare"
Il
passaggio
da ‘autonomia’ all’interno di uno stato
federale ad uno ‘stato
indipendente’, si basa sull'aiuto fornito
ed amministrato dallo stato
imperialista alla regione autonoma, che
consolida con ciò la sua
esistenza ‘de facto’ come stato
indipendente. Questo è successo
chiaramente nel Kurdistan, passato dal
1991 ad oggi, da no-fly-zone
dell'Iraq settentrionale a regione
autonoma.
Il
medesimo
principio di autodeterminazione
rivendicato dagli Usa e dai loro
clienti separatisti è negato ad altre
minoranze dello stesso
territorio- mentre la propaganda mediatica
statunitense fa riferimento
ad essi come ‘agenti’o cavalli di Troia
del Governo centrale.
Rafforzato
dall'aiuto esterno imperiale, e dalle
relazioni imprenditoriali con le
imprese transnazionali Usa e Ue,
appoggiato da forze di polizia locali
paramilitari e quasi-militari (come pure
da bande organizzate
criminali), il regime autonomo dichiara la
sua indipendenza, ed
è
riconosciuto poco dopo dai suoi padroni
imperiali. Dopo l'indipendenza,
il regime separatista offre concessioni
territoriali ed installazioni
per la costruzione di basi militari agli
Usa. Il modello imperiale gode
di privilegi di investimento,
compromettendo seriamente la
sovranità
nazionale.
L'esercito
di
Ong locali ed internazionali raramente
formula qualche obiezione a
questo processo di incorporazione
dell'entità separatista
nell'Impero,
neanche quando è lo stesso popolo liberato
ad opporsi. Nella
maggioranza dei casi il grado di
‘governance locale’ e di
libertà di
azione del regime ‘indipendente’ è minore
di quanto lo fosse
quando era
una regione autonoma o federale nel
precedente stato unitario
nazionale. Spesso i regimi separatisti
fanno parte di movimenti
irredentisti legati a controparti in altri
stati. Quando movimenti
irredentistici trasversali transnazionali
sfidano gli stati vicini che
sono anch’essi obiettivo dei costruttori
dell’impero statunitensi,
servono come piattaforme per gli attacchi
militari di bassa
intensità
statunitensi e per le attività
terroristiche delle Forze
Speciali.
Per
esempio,
quasi tutte le organizzazioni separatiste
curde hanno elaborato una
mappa di ‘Grande Kurdistan’ che copre un
terzo della zona sud-orientale
della Turchia, l’Iraq settentrionale, un
quarto dell'Iran, parti della
Siria e di ogni altro posto dove si possa
trovare un'enclave curda. I
reparti speciali statunitensi operano al
fianco dei separatisti curdi
terrorizzando le popolazioni iraniane in
nome dell'autodeterminazione,
e gruppi di curdi, con forte appoggio
militare statunitense, hanno
occupato e governano l'Iraq settentrionale
e forniscono truppe
mercenarie peshmerga per massacrare la
popolazione arabo-irachena nelle
città e nei paesi delle regioni centrali,
occidentali e
meridionali che
si oppongono all'occupazione americana.
Questi gruppi hanno iniziato la
rimozione forzata dei popoli non curdi
(arabi, cristiano-caldei,
turcomanni, etc.) dal così detto Kurdistan
iracheno confiscando
loro
case, poderi ed esercizi commerciali. I
separatisti curdi appoggiati
dagli Usa hanno creato conflitti col
vicino Governo turco, e
Washington, mentre cerca di tenersi i suoi
clienti curdi per
utilizzarli in Iraq, Iran e Siria evita di
inimicarsi questo suo
alleato strategico della Nato: la Turchia.
Tuttavia gli attivisti
separatisti turco-curdi del PKK hanno
lodato gli Usa per quello che
qualificano ‘colonialismo progressista’,
per lo smantellamento
effettivo dell'Iraq e per la formazione
delle fondamenta di un stato
curdo.
La
decisione
degli Usa di collaborare con l'esercito
turco, o per lo meno di
tollerare i suoi attacchi militari contro
certe zone occupate dai
separatisti curdi del PKK con sede in
Iraq, fa parte della loro
politica globale di dare priorità alle
alleanze imperiali
strategiche
ed ai loro alleati contro qualunque
movimento separatista che li
minacci. Pertanto, mentre gli Usa
appoggiano i separatisti kosovari
contro la Serbia, si oppongono ai
separatisti dell’Abkhazia che lottano
contro il loro governo clientelare della
Repubblica della Georgia. Gli
Usa, mentre appoggiano i separatisti
ceceni contro il governo di Mosca,
si oppongono ai separatisti baschi e
catalani nella loro lotta contro
la Spagna, alleata di Washington nella
Nato. Mentre Washington ha
finanziato con larghezza i separatisti
boliviani guidati dagli
oligarchi di Santa Cruz contro il governo
centrale di La Paz, appoggia
la politica del governo cileno di
repressione delle richieste degli
indigeni Mapuche di diritto alla terra e
alle risorse nel centro-sud
del Cile.
È
evidente
che l’autodeterminazione e l’indipendenza
non sono principi universali
che definiscono la politica estera
statunitense, né lo sono mai
stati,
come testimoniano le guerre degli Stati
Uniti contro le nazioni
indiane, i negrieri secessionisti
meridionali e le invasioni ricorrenti
di stati indipendenti latinoamericani,
asiatici ed africani. Ciò
che
conta nella politica degli Usa è se un
movimento separatista, i
suoi
leader e i suoi programmi siano funzionali
o no alla costruzione
dell'impero. Tuttavia la domanda inversa è
sollevata di rado dai
così
detti progressisti di sinistra o
antimperialisti: il movimento
separatista o indipendentista debilita
l'impero e consolida le forze
antimperialiste o no? Se accettiamo che la
questione determinante sia
la sconfitta della macchina per ammazzare
milioni di persone chiamata
imperialismo statunitense, allora è
legittimo valutare ed
appoggiare
determinati movimenti indipendentisti,
come respingerne altri. Non
c'è
niente di più ipocrita o meno conveniente
di sollevare alti
principi
nel prendere queste decisioni politiche. È
noto che Hitler
giustificò
l'invasione della Cecoslovacchia in difesa
dei separatisti dei Sudeti,
e che una serie di presidenti statunitensi
hanno motivato la
spartizione dell'Iraq in nome della difesa
dei curdi, o sunniti, o
sciiti, o di chiunque siano i leader
tribali che si prestano alla
costruzione dell’impero degli Usa. Ciò che
definisce la politica
antimperialista non sono i principi
astratti di autodeterminazione,
bensì la definizione esatta dei
riferimenti specifici.
Ad
esempio,
oggi in Bolivia, in nome
dell'autodeterminazione e dell'autonomia,
un'oligarchia di destra razzista, padrona
del settore dell'esportazione
agricola, si sta impadronendo del
controllo della regione più
fertile e
ricca in risorse energetiche, che
comprende il 75% delle risorse
naturali del paese, espellendo e
brutalizzando gli indigeni impoveriti
nel processo. Bisogna domandarsi su quale
base il movimento di sinistra
o antimperialista possa opporsi a ciò, se
non perché il
contenuto di
classe, di razza e di nazione di queste
rivendicazioni è
antitetico ad
un principio più importante: la sovranità
popolare basata
sui principi
democratici di potere della maggioranza e
di eguale accesso alla
ricchezza pubblica.
Separatismo in America Latina:
Bolivia, Venezuela ed Ecuador
In
questi
ultimi anni, in America Latina i candidati
sostenuti dagli Usa hanno
vinto e perso le elezioni nazionali. È
chiaro che gli Stai Uniti
hanno
mantenuto l'egemonia sulle élite al
governo in Messico,
Colombia,
America Centrale, Perù, Cile, Uruguay ed
in alcuni stati
insulari dei
Caraibi. Negli stati dove l'elettorato ha
sostenuto gli oppositori
della dominazione statunitense, come
Venezuela, Ecuador, Bolivia e
Nicaragua, l'influenza di Washington si
appoggia su funzionari eletti a
livello regionale, provinciale e locale. È
prematuro affermare,
come
dichiara il Council for Foreign Relations,
che l'egemonia statunitense
in America Latina sia cosa del passato.
Basta leggere i documenti
economici e politici che registrano i
crescenti vincoli economici e
militari tra Washington ed il regime di
Calderon in Messico, i regimi
di García in Perù, Bachelet in Cile ed
Uribe in Colombia
per registrare
il fatto che l'egemonia statunitense
prevale ancora in importanti
regioni dell'America Latina.
Se
guardiamo
oltre il livello governativo nazionale,
perfino in stati non
egemonizzati dagli Usa, l'influenza
statunitense è tuttavia un
fattore
potente nel condizionare il comportamento
politico della facoltosa ala
destra del business, delle élite politiche
finanziarie e
regionali in
Venezuela, Ecuador, Bolivia ed Argentina.
Dalla fine di maggio del
2008, i movimenti regionalistici sostenuti
dagli Usa sono stati
all'offensiva, instaurando ‘de facto’ un
regime secessionista a Santa
Cruz, in Bolivia. In Argentina, le élite
dell'agro-business
hanno
organizzato una serrata della produzione e
della distribuzione su scala
nazionale, appoggiate dalle grandi
confederazioni industriali,
finanziarie e commerciali, contro
un'imposta sull'esportazione promossa
dal governo di centro-sinistra di Cristina
Kirchner. In Colombia, gli
Usa stanno negoziando con il presidente
paramilitare Álvaro
Uribe la
collocazione di una base militare alla
frontiera con lo stato
venezuelano ricco di petrolio di Zulia,
che sembra avere l'unico
governatore in carica opposto a Chávez,
uno strenuo difensore
dell'autonomia o della secessione. In
Ecuador, il sindaco di Guayaquil,
appoggiato dai media di destra e dagli
screditati partiti politici
tradizionali, ha proposto ‘l'autonomia’
dal Governo centrale del
presidente Rafael Correa.
Il
processo
di smembramento nazionale guidato
dall'impero è molto diseguale,
a
causa del diverso grado dei rapporti di
forza politici tra il Governo
centrale ed i secessionisti regionali. I
secessionisti boliviani di
destra sono quelli più avanzati, essendo
arrivati ad organizzare
e
vincere un referendum, dichiarandosi
un'unità governativa
indipendente
con il potere di riscuotere tasse,
formulare la politica economica
estera e creare una propria forza di
polizia.
Il
successo
secessionista di Santa Cruz è dovuto
all'incapacità
politica e alla
totale incompetenza del regime di Evo
Morales e del suo vicepresidente
Álvaro García Linera che, promuovendo
l'autonomia per le
molte
‘nazioni’ indio impoverite (indianismo),
hanno finito con il favorire
che gli oligarchi razzisti bianchi
cogliessero l'opportunità di
stabilire la loro propria base di potere
separatista. Man mano che i
separatisti ottenevano il controllo della
popolazione locale,
procedevano ad intimorire gli indios e i
sindacalisti favorevoli al
governo di Evo Morales, a sabotare
violentemente l'Assemblea
Costituzionale e respingere la
Costituzione, strappando continuamente
concessioni al debole e conciliatorio
governo centrale di Morales. I
separatisti, mentre liquidavano la
Costituzione e ponevano il loro
controllo sui principali mezzi di
produzione e sull’esportazione, si
presero altre 5 province, formando un arco
geografico di sei province,
più l'influenza su altre due, nel
tentativo di degradare il
Governo
nazionale. Il regime ‘indianista’ di
Morales-García Linera,
composto in
gran parte di ex impiegati meticci di Ong
finanziati dall'estero, non
ha mai usato il suo potere costituzionale
formale né il
monopolio
legittimo della forza per fare eseguire
l'ordine costituzionale e per
dichiarare fuori legge e perseguitare le
violazioni
dell'integrità
nazionale da parte dei secessionisti ed il
loro rifiuto dell'ordine
democratico.
Morales
non
ha mai mobilitato il paese, la maggioranza
delle organizzazioni
popolari della società civile, e non è
nemmeno ricorso
all'esercito per
sconfiggere i secessionisti. Ha invece
continuato a fare impotenti
appelli al dialogo, e compromessi nei
quali le sue concessioni
all'autogoverno dell'oligarchia ha
solamente confermato la loro guida
del potere regionale. Come caso esemplare
di mancanza di governance di
fronte ad una minaccia reazionaria
separatista alla nazione, il governo
di Morales-García Linera rappresenta un
deplorevole fallimento
nel
difendere la sovranità popolare e
l'integrità della
nazione.
Le
lezioni
boliviane di mancanza di governance devono
servire da severo monito a
Chávez in Venezuela e a Correa in Ecuador:
a meno che non
agiscano con
tutta la forza della costituzione per
frenare i movimenti separatisti
in embrione, prima che ottengano una base
di potere, dovranno
affrontare anche loro la rovina dei loro
paesi. La minaccia più
grande
è in Venezuela, dove i militari
statunitensi e colombiani hanno
costruito basi nella frontiera con lo
stato limitrofo venezuelano di
Zulia, infiltrando reparti d’assalto e
forze paramilitari nella
provincia, e considerano il possesso di
questa provincia ricca in
petrolio come una testa di ponte per
privare lo stato venezuelano delle
sue rimesse vitali provenienti dal
petrolio e destabilizzare il governo
centrale.
Oggi
i
movimenti separatisti promossi in America
Latina dagli Usa sono attivi
per lo meno in tre paesi. In Bolivia,
l’arco di province di Santa Cruz,
Beni, Pando e Tarija, hanno indetto con
successo referenda provinciali
per ‘l’autonomia’, che qui è il termine
utilizzato per
secessione. Il 4
maggio del 2008 i separatisti di Santa
Cruz hanno avuto successo: con
una partecipazione di quasi il 50% degli
elettori censiti, hanno
ottenuto l’80% di voti favorevoli. Il 15
maggio, l'elite
politico-imprenditoriale di destra ha
annunciato la formazione di
ministeri per il commercio esterno e la
sicurezza interna, assumendo
così i poteri effettivi di un stato
secessionista. Il governo
degli
Stati Uniti, rappresentato
dall'ambasciatore Goldberg, ha fornito
appoggio finanziario e politico alle
organizzazioni ‘civili’
secessioniste di destra, attraverso 125
milioni $ di aiuto ai loro
programmi gestiti dall’Aid, e decine di
milioni di $ del programma
anti-droga, ed attraverso il Ned (National
Endowment for Democracy) ha
finanziato le Ong favorevoli alla
secessione. Nelle riunioni
dell'Organizzazione degli Stati Americani
ed in altre riunioni
regionali, gli Usa si sono rifiutati di
condannare i movimenti
separatisti.
A
causa della
completa incompetenza e mancanza di guida
politica nazionale del
presidente Evo Morales e del suo
vicepresidente Álvaro
García Linera,
lo stato boliviano si sta disintegrando in
una serie di cantoni
autonomi, perché già diversi altri
governatorati
provinciali cercano di
usurpare il potere politico e gestirsi le
loro risorse economiche. Fin
dall'inizio, il regime Morales-García
Linera firmò
diversi patti
politici, adottò una serie di politiche ed
approvò una
quantità di
concessioni alle élite oligarchiche di
Santa Cruz, che permisero
loro
di ricostruire efficacemente la loro
naturale base politica di potere,
di sabotare un'assemblea costituzionale
eletta e minare decisamente
l'autorità del Governo centrale. Il
successo della destra si
è prodotto
in meno di due anni e mezzo, fatto
particolarmente sorprendente, se si
tiene in conto che nel 2005 il paese visse
un'importante insurrezione
popolare che depose un presidente di
destra, mentre milioni di
lavoratori, minatori, contadini ed indios
si impadronivano delle
strade. È dovuto all'assoluto malgoverno
di Morales e
García Linera se
il paese è passato tanto rapidamente e
decisamente da un stato
di
potere insurrezionale popolare ad un paese
frammentato e diviso, nel
quale un'elite agro-finanziaria
separatista si è impadronita del
controllo dell’80% delle risorse
produttive del paese, mentre il
Governo centrale solleva flebili proteste.
Il
successo
della classe dirigente regionale
secessionista boliviana ha
incoraggiato ‘movimenti autonomisti’
simili, guidati dal sindaco di
Guayaquil (Ecuador) e dal governatore di
Zulia (Venezuela). In altre
parole, la sconfitta politica, costruita
dagli Stati Uniti, del governo
di Morales e García Linera in Bolivia, ha
portato il movimento
autonomista ad associarsi con gli
oligarchi in Ecuador e Venezuela per
ripetere l'esperienza di Santa Cruz in un
processo di “separatismo
contro-rivoluzionario permanente”.
Il separatismo e l'ex URSS
La
sconfitta
del comunismo nell'URSS ha avuto poco a
che vedere con quello che l'ex
responsabile della sicurezza nazionale
statunitense Zbigniew Brzezinski
qualificò come una "bancarotta del sistema
a causa della corsa
al
riarmo." Fino alla fine nell’URSS, le
condizioni di vita sono rimaste
relativamente stabili, i programmi di
welfare hanno continuato a
funzionare a livelli quasi ottimali ed i
programmi scientifici e
culturali a ricevere una parte cospicua
della spesa pubblica. Invece le
elite che hanno governato dopo il sistema
comunista non hanno
corrisposto alla propaganda statunitense
sulle virtù del libero
mercato
e della democrazia, come proclamavano i
presidenti Ronald Reagan,
George Bush padre e Bill Clinton: lo prova
in modo evidente il fatto
che quando hanno preso il potere hanno
imposto un sistema politico ed
economico né democratico né basato sulla
competizione del
mercato.
Questi nuovi governi su base-etnica si
sono rivelati simili a monarchie
dispotiche, predatrici e nepotiste che
hanno regalato (con le
privatizzazioni) ad un pugno di oligarchi
e monopoli stranieri la
pubblica ricchezza accumulata durante i
precedenti 70 anni di lavoro
collettivo e di investimenti.
La
principale
forza ideologica che spinge l’attuale
politica separatista è la
politica di identità etnica, fomentata e
finanziata dagli
organismi di
intelligence e propaganda degli Usa. La
politica di identità
etnica che
ha rimpiazzato il comunismo, è basata su
vincoli verticali tra
le elite
e le masse. Le nuove elite governano per
mezzo di un nepotismo di tipo
clánico-famigliar-religioso-mafioso,
finanziato e spinto con la
rapina
e la privatizzazione della ricchezza
pubblica creata sotto il
Comunismo. Una volta al potere, le nuove
élite politiche
‘privatizzano’
la ricchezza pubblica trasformandola in
ricchezza familiare e
convertono se stessi ed i loro complici,
in una classe governante
oligarchica. In non pochi casi, i vincoli
etnici tra le élite e
i
sottoposti si dissolvono davanti al
declino delle condizioni di vita,
le disuguaglianze profonde di classe, i
brogli elettorali e la
repressione dello stato.
In
tutti gli
stati dell'ex URSS, l'unica rivendicazione
delle nuove classi dirigenti
in materia di legittimità sociale si basa
sull'appartenenza ad
un'identità etnica comune. Hanno
rispolverato simboli medievali
e
monarchici del lontano passato, tirando
fuori dell'armadio monarchi
assolutisti, gerarchie religiose
parassitarie, signori della guerra
pre-capitalisti, imperatori sanguinari e
bandiere nazionali dei giorni
del feudalesimo proprietario terriero per
forgiare una storia ed
un'identità comuni con le masse appena
‘liberate’. Il ripetuto
ricorso
ai simboli reazionari del passato è del
tutto appropriato: le
attuali
politiche di dispotismo, la rapina e i
culti della personalità
hanno
assonanze con i guerrieri ‘storici’ del
passato, i signori e le
pratiche feudali.
Man
mano che
i nuovi despoti post-URSS perdono il loro
lustro etnico in seguito alla
pubblica disillusione generata dal rapace
saccheggio nazionale e
straniero della ricchezza nazionale, i
leader ricorrono
sistematicamente alla forza.
Il
maggior
successo della strategia statunitense di
promozione del separatismo
è
stata la distruzione dell'URSS, non la
promozione di democrazie
capitaliste indipendenti vitali.
Washington è riuscita
nell'esacerbazione di conflitti etnici tra
i russi e le restanti
nazionalità, incoraggiando alcuni capi
comunisti locali a
separarsi
dall'Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche ed a formare stati
indipendenti nei quali i nuovi governanti
potessero spartirsi la cassa
del tesoro locale con i loro nuovi soci
occidentali. Gli sforzi di
destabilizzazione realizzati dagli Usa nei
paesi comunisti,
specialmente dopo gli anni ‘70 non si è
misurata su un miglior
standard
di vita, maggior crescita industriale o su
programmi di welfare
più
generosi. La propaganda occidentale si è
concentrata invece
sulla
solidarietà etnica, un tema che spezza la
solidarietà di
classe e la
lealtà allo stato e all'ideologia
comunista, e ha rafforzato
alcune
elite filo-occidentali, specialmente tra i
‘pubblici intellettuali’ e i
capi comunisti convertitisi in ‘salvatori
della patria’.
Il
punto
chiave della strategia occidentale è stato
soprattutto fare a
pezzi
l'URSS per mezzo di movimenti separatisti,
senza riguardo se questi
fossero formati da fondamentalisti
religiosi fanatici, gangster
politici, economisti liberali formati in
Occidente o signori della
guerra con aspirazioni ambiziose. L’unica
cosa che importava era che
inalberassero il bandiera separatista
dell'autodeterminazione. In
seguito, nel periodo post-sovietico, le
nuovi elite filo-capitaliste al
potere furono elevate al rango di membri
Nato e stati satelliti.
Le
politiche
di Washington nel periodo post-separatista
seguirono un processo in due
tappe: nella prima fase, predominò
l'appoggio indifferenziato a
chiunque patrocinasse la disintegrazione
dell'URSS; nella seconda fase,
gli Stati Uniti cercarono di promuovere la
fazione più
favorevole alla
Nato ed al libero mercato, attraverso le
così dette ‘rivoluzioni
colorate’, in Georgia e in Ucraina. Il
separatismo fu considerato come
un passo preliminare verso una tappa
successiva di subordinazione
all'impero statunitense. La nozione di
stati indipendenti è
virtualmente inesistente per i costruttori
di questo impero. Nel
migliore dei casi esiste come tappa
transitoria da una costellazione di
poteri al nuovo impero diretto dagli Usa.
Nel
periodo
seguente la disintegrazione dell'URSS, i
successivi tentativi di
Washington di reclutare nuove élite
filo-capitaliste e di creare
stati
satelliti, ebbero un relativo successo.
Alcuni paesi aprirono le loro
economie ad uno sfruttamento sfrenato
specialmente delle loro risorse
energetiche. Altri, offrirono collocazioni
per basi militari. In molti
casi, i governanti locali cercarono di
fare affari con le potenze
mondiali mentre accrescevano le loro
fortune private con il saccheggio.
Nessuna
delle
repubbliche ex sovietiche è arrivata a
sviluppare un stato
democratico
indipendente che permetta di recuperare i
livelli di vita che la
rispettiva popolazione possedeva ai tempi
sovietici. Alcuni governi
sono diventati dittature teocratiche,
nelle quali i notabili religiosi
ed i dittatori si appoggiano mutuamente.
Altri si sono convertiti in
turpi dittature a base familiare. Nessuno
di essi ha mantenuto la rete
di previdenza sociale o i sistemi
educativi di elevata qualità
dell'era
sovietica. Tutti i regimi post-sovietici
hanno magnificato le
disuguaglianze sociali e moltiplicato la
quantità di imprese a
carattere mafioso. I delitti violenti sono
cresciuti geometricamente,
fomentando l'insicurezza del cittadino.
Il
successo
del separatismo indotto dagli Usa, nella
maggioranza dei casi, ha
creato grandi opportunità per la rapina
occidentale ed asiatica
di
materie prime, specialmente di risorse
petrolifere. L'esperienza dei
‘nuovi stati indipendenti’, nel migliore
dei casi, è stata
un'illusione
transitoria, mentre le elite governanti o
passavano direttamente nella
sfera di influenza occidentale o
diventavano un mero paravento della
profonda subordinazione strutturale ai
circuiti di esportazione di
materie prime e finanziari dominati
dall’Occidente.
Dopo
il
crollo dell'URSS, gli stati occidentali si
allearono con le repubbliche
che più rispondevano ai loro interessi. In
alcuni casi firmarono
accordi con i loro governanti per
stabilire basi militari, riempiendo a
tal fine di prestiti le tasche del
dittatore di turno. In altri casi,
si assicurarono un accesso privilegiato
alle risorse economiche per
mezzo di imprese miste. In altri,
ignorarono semplicemente agli stati
con meno risorse e li lasciarono cadere in
miseria e nel dispotismo.
Separatismo: Europa dell’est,
Balcani e paesi baltici
L'aspetto
più
sorprendente della disintegrazione del
blocco sovietico fu la
rapidità
e la sollecitudine con le quali i paesi
passarono dal Patto di Varsavia
alla Nato, e dal dominio politico
sovietico al controllo economico di
Usa e Ue in quasi tutti i settori
economici importanti. Il passaggio da
una forma di subordinazione politica,
economica e militare ad un'altra
sottolinea la natura transitoria
dell'indipendenza politica, la
superficialità del suo significato
operativo e la spettacolare
ipocrisia della nuova classe dominante-
che denunciava allegramente la
dominazione sovietica mentre consegnava al
capitale occidentale la
maggior parte dei settori economici, e
destinava una parte del suo
territorio alla basi Nato, fornendo
contemporaneamente battaglioni di
soldati mercenari per combattere nelle
guerre imperiali statunitensi in
una quantità assai maggiore a qualunque
altra registrata durante
il
periodo sovietico.
Il
separatismo in queste aree è stata
un'ideologia utile per
debilitare la
coalizione egemone avversaria, tanto più
in quanto incorporava i
suoi
membri in una coalizione di costruzione
imperialista più
virulenta ed
aggressiva.
Iugoslavia e Kosovo:
separatismo forzato
Il
successo
nella disintegrazione dell'URSS e
dell'alleanza del Patto di Varsavia
incoraggiò gli Usa e l'Ue a distruggere la
Iugoslavia, l'ultimo
paese
rimasto indipendente fuori dal loro
controllo nell’Europa Occidentale.
Lo smantellamento della Iugoslavia fu
iniziato dalla Germania dopo la
sua annessione della Germania Orientale e
la demolizione della sua
economia. In seguito si estese nelle
repubbliche di Slovenia e Croazia.
Gli Usa, ultimi arrivati nella divisione
dei Balcani, si concentrarono
in Bosnia, Macedonia e Kosovo. Mentre la
Germania estendeva la
conquista per via economica, gli Usa,
fedeli alla loro missione
militarista, ricorrevano alla guerra in
alleanza con noti gangsters
terroristici albano-kosovari, organizzati
nella formazione paramilitare
Kla (Kosovo Liberation Army). Sotto la
leadership di Bernard Kouchner,
le forze della Nato facilitarono la
pulizia etnica, l'assassinio e la
sparizione di decine di migliaia di serbi,
rom e dissidenti
albano-kosovari non separatisti.
La
distruzione della Iugoslavia è completa:
la restante Repubblica
della
Serbia, colpita ripetutamente e divisa, è
ora alla mercè
degli Usa e
dei loro alleati europei. Dal 2008 è
risultata eletta una
coalizione
appoggiata dall'Ue e dagli Usa, favorevole
alla Nato, e gli ultimi
resti dalla Iugoslavia e della sua eredità
storica di socialismo
autonomo sono cancellati.
Conseguenze del separatismo
nell'URSS, nell’Europa Orientale
e nei Balcani
In
tutte le
regioni nelle quali ha trionfato il
separatismo sponsorizzato e
finanziato dagli Usa, le condizioni di
vita sono precipitate, si
è
prodotto un massiccio saccheggio delle
risorse pubbliche in nome della
privatizzazione, e si sono raggiunti
livelli di corruzione politica
senza precedenti. Una cifra vicina ad un
terzo della popolazione
è
emigrata nell’Europa Occidentale ed in
Nord America, fuggendo dalla
fame, dall'insicurezza personale
(crimine), dalla disoccupazione e da
un futuro incerto.
Politicamente,
il tasso straordinario di gangsterismo e
di crimini ha portato gli
imprenditori che svolgevano attività
legittime a pagare somme
esorbitanti di estorsione, mentre una
nuova classe di delinquenti
riconvertiti in impresari si faceva carico
dell'economia e firmava
dubbi accordi di investimento e joint
venture con imprese
transnazionali dell'Ue, degli Usa e
dell’Asia.
I
paesi ex
sovietici ricchi in risorse energetiche
dell'Asia del centro-sud sono
passati sotto il potere di dittatori
opulenti, che hanno accumulato
fortune di miliardi di dollari nel
processo di smantellamento delle
preesistenti norme ugualitarie, sanità
generalizzata,
istituzioni
scientifiche e culturali. Le istituzioni
religiose hanno acquisito un
potere superiore alle associazioni
scientifiche e professionali e,
contro queste, hanno annullano i progressi
educativi dei precedenti
settanta anni. La logica del separatismo
si è estesa dalle
repubbliche
a livello sub-nazionale, in un processo in
cui i signori della guerra e
i capi etnici rivaleggiano nella creazione
di una loro propria
entità
autonoma, col risultato di guerre
sanguinose, nuovi episodi di pulizie
etniche e nuovo flusso di rifugiati delle
zone in conflitto.
Le
promesse
degli Usa riguardo i benefici che il
separatismo avrebbe apportato alle
diverse popolazioni non si sono
minimamente realizzate. Nel migliore
dei casi l’esigua elite governante con i
suoi soci hanno mietuto
ricchezza, potere e privilegio a spese
della grande maggioranza.
Qualsiasi fossero le iniziali
soddisfazioni simboliche che la
popolazione delle classi inferiori ha
potuto provare durante la sua
effimera indipendenza, la nuova bandiera
ed il potere religioso
restaurato sono stati erosi dalla
paralizzante povertà e dalle
violente
lotte interne per il potere che hanno
perturbato le loro vite. La
verità è che milioni di persone sono
fuggite dai loro
stati da poco
indipendenti e hanno preferito
trasformarsi in rifugiati e cittadini di
seconda classe in paesi stranieri.
Conclusione
La
maggiore
mancanza delle Ong pseudo-progressiste e
liberali nella loro difesa
dell'autonomia, della decentralizzazione e
dell'autodeterminazione,
consiste nel fatto che questi concetti
astratti eludono la fondamentale
domanda storica e la concreta questione
politica: verso quale classe,
razza o blocco politico si sta spostando
il potere? Per più di
un
secolo negli Usa, la bandiera dei
proprietari terrieri del Sud,
razzisti, di destra, che governavano con
la forza ed il terrore sui
neri poveri era un ‘Diritto dello Stato’,
ovvero la supremazia della
legge e dell'ordine locale sull'autorità
del governo federale e
della
costituzione nazionale. La lotta tra i
federali contro i diritti degli
stati è avvenuta tra un'oligarchia sudista
reazionaria ed una
diffusa
coalizione civica progressista del nord
formata dai lavoratori e dalla
classe media.
C'è
una
fondamentale necessità di demistificare la
nozione di autonomia,
esaminando le classi che la richiedono, le
conseguenze della
decentralizzazione del potere nei termini
della distribuzione di
potere, di ricchezza e di potere
decisionale popolare, nonché
guardando
chi sono i benefattori esterni di un
cambiamento dallo stato nazionale
alle elite di potere locali e regionali.
Invece il modo indiscriminato
con cui alcuni libertari abbracciano ogni
richiesta di
autodeterminazione ha condotto ad alcuni
dei più atroci crimini
dei
secoli XX e XXI. In molti casi i movimenti
separatisti hanno fomentato
o si sono prodotti in guerre imperialiste
sanguinarie, come avvenne
seguendo l’annessionismo nazista, le
invasioni statunitensi dell'Iraq e
dell’Afghanistan, l’invasione israeliana
del Libano e la distruzione
della Palestina.
Per
chiarire
il senso di termini come autonomia,
decentralizzazione ed
autodeterminazione, ed ottenere che queste
devoluzioni di potere si
muovano nella direzione storica
progressista, è essenziale porsi
alcune
domande preventive: questi cambiamenti
politici, favoriscono il potere
ed il controllo della maggioranza dei
lavoratori e dei contadini sui
mezzi di produzione? Portano ad un
maggiore potere popolare nello stato
e nei processi elettorali o rafforzano
invece i clienti demagoghi che
difendono degli interessi dell'impero, per
il quale la disintegrazione
di un stato costituito porta
all'incorporazione dei frammenti etnici in
un impero folle e distruttivo?
Introduction: The
Historical Context
Throughout
modern imperial history, ‘Divide and Conquer’
has been the essential
ingredient in allowing relatively small and
resource-poor European
countries to conquer nations vastly larger in
size and populations and
richer in natural resources. It is said
that for every British
officer in India, there were fifty Sikhs,
Gurkhas, Muslims and Hindus
in the British Colonial Army. The European
conquest of Africa and
Asia was directed by white officers, fought by
black, brown and yellow
soldiers so that white capital could exploit
colored workers and
peasants. Regional, ethnic, religious,
clan, tribal, community,
village and other differences were politicized
and exploited allowing
imperial armies to conquer warring
peoples. In recent decades,
the US empire builders have become the grand
masters of ‘divide and
conquer’ strategies throughout the world.
By the 1970’s, the CIA
made a turn from promoting the dubious virtues
of capitalism and
democracy, to linking up with, financing and
directing, religious,
ethnic and regional elites against national
regimes, independent or
hostile to US world empire building.
The
key to US military empire building follows two
principles: direct
military invasions and fomenting separatist
movements, which can lead
to military confrontation.
Twenty-first
century empire building has seen the extended
practice of
both principles in Iraq, Afghanistan, Iran,
Lebanon, China (Tibet),
Bolivia, Ecuador, Venezuela, Somalia, Sudan,
Burma and Palestine – any
country in which the US cannot secure a stable
client regime, it
resorts to financing and promoting separatist
organizations and leaders
using ethnic, religious and regional pretexts.
Consistent
with traditional empire building principles,
Washington only
supports separatists in countries that refuse to
submit to imperial
domination and opposes separatists who resist
the empire and its
allies. In other words, imperial
ideologues are neither
‘hypocrites’ nor resort to ‘double standards’
(as they are accused by
liberal critics) – they publicly uphold the
‘Empire first’ principle as
their defining criteria for evaluating
separatist movements and
granting or denying support. In contrast, many
seemingly progressive
critics of empire make universal statements in
favor of the ‘right to
self-determination’ and even extend it to the
most rancid, reactionary,
imperial-sponsored ‘separatist groups’ with
catastrophic results.
Independent nations and their people, who oppose
US-backed separatists,
are bombed to oblivion and charged with ‘war
crimes’. People, who
oppose the separatists and who reside in the
‘new state’, are killed or
driven into exile. The ‘liberated people’
suffer from the tyranny
and impoverishment induced by the US-backed
separatists and many are
forced to immigrate to other countries for
economic survival.
Few
if any of the progressive critics of the USSR
and supporters of the
separatist republics have ever publicly
expressed second thoughts, let
alone engaged in self-critical reflections, even
in the face of decades
long socio-economic and political catastrophes
in the secessionist
states. Yet it was and is the case that
these self-same
progressives today, who continue to preach high
moral principles to
those who question and reject some separatist
movements because they
originate and grow out of efforts to extend the
US empire.
Washington’s
success in co-opting so-called progressive
liberals in
support of separatist movements soon to be new
imperial clients in
recent decades is long and the consequences for
human rights are ugly.
Most
European and US progressives supported the
following:
1.
US-backed Bosnian
fundamentalists, Croatian neo-fascists and
Kosova-Albanian terrorists,
leading to ethnic cleansing and the conversion
of their once sovereign
states into US military bases, client regimes
and economic basket cases
– totally destroying the multinational
Yugoslavian welfare state.
2.
The US funded and armed
overseas Afghan Islamic fundamentalists who
destroyed a secular,
reformist, gender-equal Afghan regime, carrying
out vast anti-feudal
campaigns involving both men and women, a
comprehensive agrarian reform
and constructing extensive health and
educational programs. As a
result of US-Islamic tribal military successes,
millions were killed,
displaced and dispossessed and fanatical
medieval anti-Communist tribal
warlords destroyed the unity of the country.
3.
The US invasion destroyed
Iraq’s modern, secular, nationalist state and
advanced socio-economic
system. During the occupation, US backing
of rival religious,
tribal, clan and ethnic separatist movements and
regimes led to the
expulsion of over 90% of its modern scientific
and professional class
and the killing of over 1 million Iraqis... all
in the name of ousting
a repressive regime and above all in destroying
a state opposed to
Israeli oppression of Palestinians.
Clearly US
military intervention promotes separatism as a
means of establishing a
regional ‘base of support’. Separatism
facilitates setting up a
minority puppet regime and works to counter
neighboring countries
opposed to the depredations of empire. In
the case of Iraq,
US-backed Kurdish separatism preceded the
imperial campaign to isolate
an adversary, create international coalitions to
pressure and weaken
the central government. Washington
highlights regime atrocities
as human rights cases to feed global propaganda
campaigns. More
recently this is evident in the US-financed
‘Tibetan’ theocratic
protests at China.
Separatists are
backed as potential terrorist shock troops in
attacking strategic
economic sectors and providing real or
fabricated ‘intelligence’ as is
the case in Iran among the Kurds and other
ethnic minority groups.
Why Separatism?
Empire builders
do not always resort to separatist groups,
especially when they have
clients at the national levels in control of the
state. It is
only when their power is limited to groups,
territorially or ethnically
concentrated, that the intelligence operatives
resort to and promote
‘separatist’ movements. US backed
separatist movements follow a
step-by-step process, beginning with calls for
‘greater autonomy’ and
‘decentralization’, essentially tactical moves
to gain a local
political power base, accumulate economic
revenues, repress
anti-separatist groups and local
ethnic/religious, political minorities
with ties to the central government (as in the
oppression of the
Christian communities in northern Iraq repressed
by the Kurdish
separatists for their long ties with the Central
Baath Party or the
Roma of Kosova expelled and killed by the Kosova
Albanians because of
their support of the Yugoslav federal
system). The attempt to
forcibly usurp local resources and the ousting
of local allies of the
central government results in confrontations and
conflict with the
legitimate power of the central
government. It is at this point
that external (imperial) support is crucial in
mobilizing the mass
media to denounce repression of ‘peaceful
national movements’ merely
‘exercising their right to
self-determination’. Once the imperial
mass media propaganda machine touches the noble
rhetoric of
‘self-determination’ and ‘autonomy’,
‘decentralization’ and ‘home
rule’, the great majority of US and European
funded NGO’s jump on
board, selectively attacking the government’s
effort to maintain a
stable unified nation-state. In the name
of ‘diversity’ and a
‘pluri-ethnic state’, the Western-bankrolled
NGO’s provide a moralist
ideological cover to the pro-imperialist
separatists. When the
separatists succeed and murder and ethnically
cleanse the ethnic and
religious minorities linked to the former
central state, the NGO’s are
remarkably silent or even complicit in
justifying the massacres as
‘understandable over-reaction to previous
repression’. The
propaganda machine of the West, even gloats over
the separatist state
expulsion of hundreds of thousands of ethnic
minorities – as in the
case of the Serbs and Roma from Kosova and the
Krijina region of
Croatia... with headlines blasting – “Serbs on
the Run: Serves Them
Right!’ followed by photos of NATO troops
overseeing the ‘transfer’ of
destitute families from their ancestral villages
and towns to squalid
camps in a bombed out Serbia. And the
triumphant Western
politicians mouthing pieties at the massacres of
Serb civilians by the
KLA, as when former German Foreign Minister
"Joschka" Fischer (Green
Party) mourned, “I understand your (the KLA’s)
pain, but you shouldn’t
throw grenades at (ethnic Serb) school
children.”
The shift from
‘autonomy’ within a federal state to an
‘independent state’ is based on
the aid channeled and administered by the
imperial state to the
‘autonomous region’, thus strengthening its ‘de
facto’ existence as a
separate state. This has clearly occurred
in the Kurdish run
northern Iraq ‘no fly zone’ and now ‘autonomous
region’ from 1991 to
the present.
The same
principle of self-determination demanded by the
US and its separatist
client is denied to ‘minorities’ within the
realm. Instead, the
US propaganda media refer to them as ‘agents’ or
‘trojan horses’ of the
central government.
Strengthened by
imperial ‘foreign aid’, and business links with
US and EU MNCs, backed
by local para-military and quasi-military police
forces (as well as
organized criminal gangs), the autonomous regime
declares its
‘independence’. Shortly thereafter it is
recognized by its
imperial patrons. After ‘independence’,
the separatist regime
grants territorial concessions and building
sites for US military
bases. Investment privileges are granted
to the imperial patron,
severely compromising ‘national’ sovereignty.
The army of
local and international NGO’s rarely raise any
objections to this
process of incorporating the separatist entity
into the empire, even
when the ‘liberated’ people object. In
most cases the degree of
‘local governance’ and freedom of action of the
‘independent’ regime is
less than it was when it was an autonomous or
federal region in the
previous unified nationalist state.
Not infrequently
‘separatist’ regimes are part of irredentist
movements linked to
counterparts in other states. When cross
national irredentist
movements challenge neighboring states which are
also targets of the US
empire builders, they serve as launching pads
for US low intensity
military assaults and Special Forces terrorist
activities.
For example,
almost all of the Kurdish separatist
organizations draw a map of
‘Greater Kurdistan’ which covers a third of
Southeastern Turkey,
Northern Iraq, a quarter of Iran, parts of Syria
and wherever else they
can find a Kurdish enclave. US commandos
operate along side
Kurdish separatists terrorizing Iranian villages
(in the name of
self-determination; Kurds with powerful US
military backing have seized
and govern Northern Iraq and provide mercenary
Peshmerga troops to
massacre Iraqi Arab civilian in cities and towns
resisting the US
occupation in Central, Western and Southern
regions. They have
engaged in the forced displacement of non-Kurds
(including Arabs,
Chaldean Christians, Turkman and others) from
so-called Iraqi Kurdistan
and the confiscation of their homes, businesses
and farms.
US-backed Kurdish separatists have created
conflicts with the
neighboring Turkish government, as Washington
tries to retain its
Kurdish clients for their utility in Iraq, Iran
and Syria without
alienating its strategic NATO client,
Turkey. Nevertheless
Turkish-Kurdish separatist activists in the PKK
have lauded the US for,
what they term, ‘progressive colonialism’ in
effectively dismembering
Iraq and forming the basis for a Kurdish state.
The US decision
to collaborate with the Turkish military, or at
least tolerate its
military attacks on certain sectors of the
Iraq-based Kurdish
separatists, the PKK, is part of its global
policy of prioritizing
strategic imperial alliances and allies over and
against any separatist
movement which threatens them. Hence,
while the US supports the Kosova
separatists against Serbia, it opposes
the separatists in
Abkhazia fighting against its client in the
Republic of Georgia.
While the US supported Chechen separatist
against the Moscow
government, it opposes Basque and Catalan
separatists in their struggle
against Washington’s NATO ally, Spain.
While Washington has been
bankrolling the Bolivian separatists headed by
the oligarchs of Santa
Cruz against the central government in La Paz,
it supports the Chilean
government’s repression of the Mapuche Indian
claims to land and
resources in south-central Chile.
Clearly
‘self-determination’ and ‘independence’ are not
the universal defining
principle in US foreign policy, nor has it ever
been, as witness the US
wars against Indian nations, secessionist
southern slaveholders and
yearly invasions of independent Latin American,
Asian and African
states. What guides US policy is the
question of whether a
separatist movement, its leaders and program
furthers empire building
or not? The inverse question however is
infrequently raised by
so-called progressives, leftists or
self-described
anti-imperialists: Does the separatist or
independence movement
weaken the empire and strengthen
anti-imperialist forces or not?
If we accept that the over-riding issue is
defeating the multi-million
killing machine called US imperialism, then it
is legitimate to
evaluate and support, as well as reject, some
independence movements
and not others. There is nothing ‘hypocritical’
or ‘inconvenient’ in
raising higher principles in making these
political choices.
Clearly Hitler justified the invasion of
Czechoslovakia in the name of
defending Sudetenland separatists; just like a
series of US Presidents
have justified the partition of Iraq in the name
of defending the
Kurds, or Sunnis or Shia or whatever tribal
leaders lend themselves to
US empire building.
What defines
anti-imperialist politics is not abstract
principles about
‘self-determination’ but defining exactly who is
the ‘self’ – in other
words, what political forces linked to what
international power
configuration are making what political claim
for what political
purpose. If, as in Bolivia today, a
rightwing racist,
agro-business oligarchy seizes control of the
most fertile and energy
rich region, containing 75% of the country’s
natural resources, in the
name of ‘self-determination’ and autonomy,
expelling and brutalizing
impoverished Indians in the process – on what
basis can the left or
anti-imperialist movement oppose it, if not
because the class, race and
national content of that claim is antithetical
to an even more
important principle – popular sovereignty based
on the democratic
principles of majority rule and equal access to
public wealth?
Separatism in
Latin America: Bolivia,
Venezuela and Ecuador
In recent years
the US backed candidates have won and lost
national election in Latin
America. Clearly the US has retained
hegemony over the governing
elites in Mexico, Colombia, Central America,
Peru, Chile, Uruguay and
some of the Caribbean island states. In
states where the
electorate has backed opponents of US dominance,
such as Venezuela,
Ecuador, Bolivia and Nicaragua, Washington’s
influence is dependent on
regional, provincial and locally elected
officials. It is
premature to state, as the Council for Foreign
Relations claims, that
‘US hegemony in Latin America is a thing of the
past.’ One only
has to read the economic and political record of
the close and growing
military and economic ties between Washington
and the Calderon regime
in Mexico, the Garcia regime in Peru, Bachelet
in Chile and Uribe in
Colombia to register the fact that US hegemony
still prevails in
important regions of Latin America. If we
look beyond the
national governmental level, even in the
non-hegemonized states, US
influence still is a potent factor shaping the
political behavior of
powerful right-wing business, financial and
regional political elites
in Venezuela, Ecuador, Bolivia and
Argentina. By the end of May
2008, US backed regionalist movements were on
the offensive,
establishing a de facto secessionist regime in
Santa Cruz in
Bolivia. In Argentina, the agro-business
elite has organized a
successful nationwide production and
distribution lockout, backed by
the big industrial, financial and commercial
confederations, against an
export tax promoted by the ‘center-left’
Kirchner government. In
Colombia, the US is negotiating with the
paramilitary President Uribe
over the site of a military base on the frontier
with Venezuela’s oil
rich state of Zulia, which happens to be ruled
by the only anti-Chavez
governor in power, a strong promoter of
‘autonomy’ or secession.
In Ecuador, the Mayor of Guayaquil, backed by
the right wing mass media
and the discredited traditional political
parties have proposed
‘autonomy’ from the central government of
President Rafael
Correa. The process of imperial driven
nation dismemberment is
very uneven because of the different degrees of
political power
relations between the central government and the
regional
secessionists. The right wing
secessionists in Bolivia have
advanced the furthest – actually organizing and
winning a referendum
and declaring themselves an independent
governing unit with the power
to collect taxes, formulate foreign economic
policy and create its own
police force.
The
success of the Santa Cruz secessionist is due to
the political
incapacity and total incompetence of the Evo
Morales-Garcia Linera
regime which promoted ‘autonomy’ for the scores
of impoverished Indian
‘nations’ (or indianismo)
and
ended up laying the groundwork for the white
racist oligarchs to
seize the opportunity to establish their own
‘separatist’ power
base. As the separatist gained control
over the local population,
they intimidated the ‘indians’ and trade union
supporters of the
Morales regime, violently sabotaged the
constitutional assembly,
rejected the constitution, while constantly
extracting concession for
the flaccid and conciliatory central government
of the Evo
Morales. While the separatists trashed the
constitution and used
their control over the major means of production
and exports to recruit
five other provinces, forming a geographic arc
of six provinces, and
influence in two others in their drive to
degrade the national
government. The Morales-Garcia Linera ‘indianista’
regime, largely made up
of mestizos formerly employed in NGOs funded
from abroad, never used
its formal constitutional power and monopoly of
legitimate force to
enforce constitutional order and outlaw and
prosecute the
secessionists’ violation of national integrity
and rejection of the
democratic order.
Morales
never mobilized the country, the majority of
popular
organizations in civil society, or even called
on the military to put
down the secessionists. Instead he
continued to make impotent
appeals for ‘dialog’, for compromises in which
his concessions to
oligarch self-rule only confirmed their drive
for regional power.
As a case study of failed governance, in the
face of a reactionary
separatist threat to the nation, the
Morales-Garcia Linera regime
represents an abject failure to defend popular
sovereignty and the
integrity of the nation.
The
lessons of failed governance in Bolivia stand as
a grim reminder to
Chavez in Venezuela and Correa in Ecuador:
Unless they act with
full force of the constitution to crush the
embryonic separatist
movements before they gain a power base, they
will also face the
break-up of their countries. The biggest
threat is in Venezuela,
where the US and Colombian militaries have built
bases on the frontier
bordering the Venezuelan state of Zulia,
infiltrated commandos and
paramilitary forces into the province, and see
the takeover of the
oil-rich province as a beach-head to deprive the
central government of
its vital oil revenues and destabilize the
central government.
Several
years into a Washington-backed and financed
separatist movement
in Bolivia, a few progressive academics and
pundits have taken notice
and published critical commentaries.
Unfortunately these articles
lack any explanatory context, and offer little
understanding of how
Latin American ‘separatism’ fits into long-term,
large-scale US empire
building strategy over the past quarter of
a century.
Today
the US-promoted separatist movements in Latin
American are
actively being pursued in at least three Latin
American counties.
In Bolivia, the ‘media luna’
or ‘half-moon’ provinces of Santa Cruz, Beni,
Pando and Tarija have
successfully convoked provincial ‘referendums’
for ‘autonomy’ – code
word for secession. On May 4, 2008 the
separatists in Santa Cruz
succeeded, securing a voter turnout of nearly
50% and winning 80% of
the vote. On May 15, the right-wing big
business political elite
announced the formation of ministries of foreign
trade and internal
security, assuming the effective powers of a
secession state. The
US government led by Ambassador Goldberg,
provided financial and
political support for the right-wing
secessionist ‘civic’ organizations
through its $125 million dollar aid programs via
AID, its tens of
millions of dollar ‘anti-drug’ program, and
through the NED (National
Endowment for Democracy) funded pro-separatist
NGOs. At meetings
of the Organization of American States and other
regional meetings the
US refused to condemn the separatist movements.
Because
of the total incompetence and lack of national
political
leadership of President Evo Morales and his Vice
President Garcia
Linera, the Bolivian State is splintering into a
series of ‘autonomous’
cantons, as several other provincial governments
seek to usurp
political power and take over economic
resources. From the very
beginning, the Morales-Garcia regime signed off
on a number of
political pacts, adopted a whole series of
policies and approved a
number of concessions to the oligarchic elites
in Santa Cruz, which
enabled them to effectively re-build their
natural political power
base, sabotage an elected Constitutional
Assembly and effectively
undermine the authority of the central
government. Right-wing
success took less than 2 ½ years, which is
especially amazing
considering that in 2005, the country witnessed
a major popular
uprising which ousted a right-wing president,
when millions of workers,
miners, peasants and Indians dominated the
streets. It is a
tribute to the absolute misgovernment of the
Morales-Garcia regime,
that the country could move so quickly and
decisively from a state of
insurrectionary popular power to a fragmented
and divided country in
which a separatist agro-financial elite seizes
control of 80% of the
productive resources of the country... while the
elected central
government meekly protests.
The
success of the secessionist regional ruling
class in Bolivia has
encouraged similar ‘autonomy movements’ in
Ecuador and Venezuela, led
by the mayor of Guayaquil (Ecuador) and Governor
of Zulia
(Venezuela). In other words, the
US-engineered political debacle
of the Morales-Garcia regime in Bolivia has led
it to team up with
oligarchs in Ecuador and Venezuela to repeat the
Santa Cruz
experience... in a process of “permanent
counter-revolutionary
separatism.”
Separatism and
the Ex-USSR
The defeat of
Communism in the USSR had little to do with the
‘arms race bankrupting
the system’, as former US National Security
Adviser Zbigniew Brzyenski
has claimed. Up to the end, living
standards were relatively
stable and welfare programs continued to operate
at near optimal levels
and scientific and cultural programs retained
substantial state
expenditures. The ruling elites who
replaced the communist system
did not respond to US propaganda about the
virtues of ‘free markets and
democracy’, as Presidents Ronald Reagan, George
H.W. Bush and Bill
Clinton claimed: The proof is evident in
the political and
economic systems, which they imposed upon taking
power and which were
neither democratic nor based on competitive
markets. These new
ethnic-based regimes resembled despotic,
predatory, nepotistic
monarhies handing over (‘privatizing’) the
public wealth accumulated
over the previous 70 years of collective labor
and public investment to
a handful of oligarchs and foreign monopolies.
The
principle ideological driving force for the
current policy of
‘separatism’ is ethnic
identity politics, which is fostered
and financed by US
intelligence and propaganda agencies.
Ethnic identity politics,
which replaced communism, is based on vertical
links between the
elite and the masses. The new elites rule
through
clan-family-religious-gang based nepotism,
funded and driven through
pillage and privatization of public wealth
created under
Communism. Once in power, the new
political elites ‘privatized’
public wealth into family riches and converted
themselves and their
cronies into an oligarchic ruling class.
In most cases the ethnic
ties between elites and subjects dissolved in
the face of the decline
of living standards, the deep class
inequalities, the crooked vote
counts and state repression.
In
all of the ex-USSR states, the new ruling
classes only claim to mass
legitimacy was based on appeals to sharing a
common ethnic
identity. They trotted out medieval and
royalist symbols from the
remote past, dredging up absolutist monarchs,
parasitical religious
hierarchies, pre-capitalist war lords,
bloody emperors and
‘national’ flags from the days of feudal
landlords to forge a common
history and identity with the ‘newly liberated’
masses. The
repeated appeal to past reactionary symbols was
entirely
appropriate: The contemporary policies of
despotism, pillage and
personality cults resonated with past ‘historic’
warriors, feudal lords
and practices.
As
the new post-USSR despots lost their ethnic
luster as a consequence of
public disillusion with local and foreign
predatory pillage of the
national wealth, the leaders resorted to
systematic force.
The
principle success of the US strategy of
promoting separatism was in
destroying the USSR – not in promoting viable
independent capitalist
democracies. Washington succeeded in
exacerbating ethnic
conflicts between Russians and other
nationalities, by encouraging
local communist bosses to split from the Union
of Soviet Socialist
Republics and to form ‘independent states’ where
the new rulers could
share the booty of the local treasury with new
Western partners.
The US de-stabilization efforts in the Communist
countries, especially
after the 1970’s did not compete over living
standards, greater
industrial growth or over more generous welfare
programs. Rather,
Western propaganda focused on ethnic solidarity,
the one issue that
undercut class solidarity and loyalty to the
communist state and
ideology and strengthened pro-Western elites,
especially among ‘public
intellectuals’ and recycled Communist
bosses-turned ‘nationalist
saviors.’
The
key point of Western strategy was to first and
foremost break-up the
USSR via separatist movements no matter if they
were fanatical
religious fundamentalists, gangster-politicians,
Western-trained
liberal economists or ambitious upwardly mobile
warlords. All
that mattered was that they carried the Western
separatist banner of
‘self-determination’. Subsequently, in the
‘post Soviet period’,
the new pro-capitalist ruling elites were
recruited to NATO and client
state status.
Washington’s
post-separatism politics followed a two-step
process: In the first phase there was an
undifferentiated support
for anyone advocating the break-up of the
USSR. In the second
phase, the US sought to push the most pliable
pro-NATO, free market
liberals among the lot – the so-called ‘color
revolutionaries’, in
Georgia and the Ukraine. Separatism was
seen as a preliminary
step toward an ‘advanced’ stage of
re-subordination to the US
Empire. The notion of ‘independent states’
is virtually
non-existent for US empire builders. At
best it exists as a
transitional stage from one power constellation
to a new US-centered
empire.
In
the period following the break-up of the USSR,
Washington’s subsequent
attempts to recruit the new ruling elites to
pro-capitalist,
client-status was relatively
successful. Some countries opened their
economies to unregulated
exploitation especially of energy
resources. Others offered sites
for military bases. In many cases local
rulers sought to bargain
among world powers while enhancing their own
private
fortune-through-pillage.
None
of the ex-Soviet Republics evolved into secular
independent democratic
republics capable of recovering the living
standards, which their
people possessed during the Soviet times.
Some rulers became
theocratic despots where religious notables and
dictators mutually
supported each other. Others evolved into
ugly family-based
dictatorships. None of them retained the
Soviet era social safety
net or high quality educational systems.
All the post-Soviet
regimes magnified the social inequalities and
multiplied the number of
criminal-run enterprises. Violent crime
grew geometrically
increasing citizen insecurity.
The
success of US-induced ‘separatism’ did create,
in most cases, enormous
opportunities for Western and Asian pillage of
raw materials,
especially petroleum resources. The
experience of ‘newly
independent states’ was, at best, a transitory
illusion, as the ruling
elite either passed directly into the orbit of
Western sphere of
influence or became a ‘fig leaf’ for deep
structural subordination to
Western-dominated circuits of commodity exports
and finance.
Out
of the break-up of the USSR, Western states
allied with those republics
where it suited their interests. In some cases
they signed agreements
with rulers to establish military base lining
the pockets of a dictator
through loans. In other cases they secured
privileged access to
economic resources by forming joint
ventures. In others they
simply ignored a poorly endowed regime and let
it wallow in misery and
despotism.
Separatism:
Eastern Europe, Balkans
and the Baltic Countries
The most
striking aspect of the break-up of the Soviet
bloc was the rapidity and
thoroughness with which the countries passed
from the Warsaw Pact to
NATO, from Soviet political rule to US/EU
economic control over almost
all of their major economic sectors. The
conversion from one form
of political economic and military subordination
to another highlights
the transitory nature of political independence,
the superficiality of
its operational meaning and the spectacular
hypocrisy of the new ruling
elite who blithely denounced ‘Soviet domination’
while turning over
most economic sectors to Western capital, large
tracts of territory for
NATO bases and providing mercenary military
battalions to fight in US
imperial wars to a far greater degree than was
ever the case during
Soviet times.
Separatism in
these areas was an ideology to weaken an
adversarial hegemonic
coalition, all the better to reincorporate its
members in a more
virulent and aggressive empire building
coalition.
Yugoslavia
and Kosova:
Forced Separatism
The successful
breakup of the USSR and the Warsaw Pact alliance
encouraged the US and
EU to destroy Yugoslavia, the last remaining
independent country
outside of US-EU control in West Europe.
The break-up of
Yugoslavia was initiated by Germany following
its annexation and
demolition of East Germany’s economy.
Subsequently it expanded
into the Slovenian and Croatian republics.
The US, a relative
latecomer in the carving up of the Balkans,
targeted Bosnia, Macedonia
and Kosova. While Germany expanded via
economic conquest, the US,
true to its militarist mission, resorted to war
in alliance with
recognized terrorist Kosova Albanian gangsters
organized in the
paramilitary KLA. Under the leadership of
French Zionist Bernard
Kouchner, the NATO forces facilitated the ethnic
purging, assassination
and disappearances of tens of thousands of
Serbs, Roma and dissident
non-separatist Kosova Albanians.
The destruction
of Yugoslavia is complete: the remaining
fractured and battered
Serb Republic was now at the mercy of US and its
European allies.
By 2008 a EU-US backed pro-NATO coalition was
elected and the last
remnants of ‘Yugoslavia’ and its historical
legacy of self-managed
socialism was obliterated.
Consequences
of ‘Separatism’ in
USSR. East Europe and the Balkans
In
every region where US sponsored and financed
separatism succeeded,
living standards plunged, massive pillage of
public resources in the
name of privatization took place, political
corruption reached
unprecedented levels. Anywhere between a
quarter to a third of
the population fled to Western Europe and North
America because of
hunger, personal insecurity (crime),
unemployment and a dubious future.
Politically,
gangsterism and extraordinary murder rates drove
legitimate businesses to pay exorbitant
extorsion payments, as a ‘new
class’ of gangsters-turned-businessmen took over
the economy and signed
dubious investment agreements and joint ventures
with EU, US and Asian
MNCs.
Energy-rich
ex-Soviet countries in south central Asia were
ruled by
opulent dictators who accumulated billion dollar
fortunes in the course
of demolishing egalitarian norms, extensive
health, and scientific and
cultural institutions. Religious
institutions gained power over
and against scientific and professional
associations, reversing
educational progress of the previous seventy
years. The logic of
separatism spread from the republics to the
sub-national level as rival
local war lords and ethnic chiefs attempted to
carve out their
‘autonomous’ entity, leading to bloody wars, new
rounds of ethnic
purges and new refugees fleeing the contested
areas.
The
US promises of benefits via ‘separatism’ made to
the diverse
populations were not in the least
fulfilled. At best a small
ruling elite and their cronies reaped enormous
wealth, power and
privilege at the expense of the great
majority. Whatever the
initial symbolic gratifications, which the
underlying population may
have experienced from their short-lived
independence, new flag and
restored religious power was eroded by the
grinding poverty and violent
internal power struggles that disrupted their
lives. The truth of
the matter is that millions of people fled from
‘their’ newly
‘independent’ states, preferring to become
refugees and second-class
citizens in foreign states.
Conclusion
The major
fallacy of seemingly progressive liberals and
NGOs in their advocacy of
‘autonomy’, ‘decentralization’ and
‘self-determination’ is that these
abstract concepts beg the fundamental concrete
historical and
substantive political question – to what
classes, race, political blocs
is power being transferred? For over a
century in the US the
banner of the racist right-wing Southern
plantation owners ruling by
force and terror over the majority of poor
blacks was ‘States Rights’ –
the supremacy of local law and order over the
authority of the federal
government and the national constitution.
The fight between
federal versus states rights was between a
reactionary Southern
oligarchy and a broader based progressive
Northern urban coalition of
workers and the middle class.
There is a
fundamental need to demystify the notion of
‘autonomy’ by examining the classes
which demand it, the consequences
of devolving power in terms of the distribution
of power, wealth and
popular power and the external
benefactors of a shift from the
national state to regional local
power elites.
Likewise,
the mindless embrace by some libertarians of
each and every claim for
‘self-determination’ has led to some of the most
heinous crimes of the
20-21st centuries – in many cases separatist
movements have encouraged
or been products of bloody imperialist wars, as
was the case in the
lead up to and following Nazi annexations, the
US invasion of Iraq and
Afghanistan and the savage Israeli invasion of
Lebanon and breakup of
Palestine.
To make
sense of ‘autonomy’, ‘decentralization’ and
‘self-determination’ and to
ensure that these devolutions of power move in
progressive historic
direction, it is essential to pose the prior
questions: Do these
political changes advance the power and control
of the majority of
workers and peasants over the means of
production? Does it lead
to greater popular power in the state and
electoral process or does it
strengthen demagogic clients advancing the
interests of the empire, in
which the breakup of an established state leads
to the incorporation of
the ethnic fragments into a vicious and
destructive empire?
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