Con il passare
degli anni,
diventano sempre più numerose le opere di
Peter Handke - il più grande scrittore
contemporaneo di lingua
tedesca
- sulla questione jugoslava.
Aveva cominciato, subito dopo lo "shock" del
1991, con il pezzo breve
"Addio al
sognatore del
Nono Paese" (1991, in italiano
all'interno di
"Jugoslavia perchè", a cura di Tommaso di
Francesco),
polemizzando
duramente con Milan Kundera per avere,
quest'ultimo, proclamato il suo
sostegno alla secessione slovena nel nome
della "Mitteleuropa".
Un'intervista in proposito rimane pubblicata
su "Ai
confini e nei
dintorni del
nono paese",
del 1994 (ed. Braitan). Più importante, il
libro "Viaggio
d'inverno sui fiumi
Danubio, Sava, Morava e Drina,
ovvero:
Giustizia per la
Serbia", e poi l' "Appendice
estiva ad un
viaggio
d'inverno"
- entrambi apparsi in Italia con Einaudi nel
1996
e 1997. In seguito, nel 1999, si teneva la
prima rappresentazione
della piéce "Viaggio
in
canoa, ovvero: Piéce su di un film di
guerra",
amaramente sarcastica sul teatrino (quello si:
teatrino delle
marionette) del giornalismo, della diplomazia
e dell'interventismo
"umanitari".
Dopo la aggressione della NATO su Belgrado
uscivano "Domandando
tra le
lacrime"
(2000),
su due viaggi compiuti in Serbia nel 1999 -
tradotto
in italiano come: "Un disinvolto
mondo di criminali" (di nuovo per
Einaudi, 2002). Ed infine: "Attorno
al Grande Tribunale" (2003, che
non ci risulta essere ancora apparso in
Italia), a mo' di relazione
come osservatore al "processo Milosevic". Il
tutto inframezzato da
ulteriori sporadiche interviste. E da
polemiche. Recentemente, Handke
è stato di nuovo soggetto ad un violento
attacco di stampa - per
l'esattezza, di nuovo da parte della Frankfurter
Allgemeine Zeitung -
per aver devoluto la metà degli incassi di una
sua piéce
teatrale per
la causa intentata contro la NATO dalle
vittime del bombardamento del
ponte di Varvarin (10 morti e ben più feriti).
Il
testo "Le
Tablas di Daimiel - relazione di un
testimone di
passaggio
sul processo contro Slobodan
Milosevic", risale al gennaio
2005, ma appare solo adesso, nel
fascicolo estivo del bimestrale
"Literaturen".
Handke sente di dover spiegare, con
questo nuovo pezzo breve, la sua
rinuncia a comparire come testimone "a
difesa" di Slobodan Milosevic.
Di fatto però lo scrittore prende
spunto piuttosto dalla sua
personale
esperienza di visitatore del Grande
Tribunale per riassumere e
rielaborare, in queste venti pagine in
lingua tedesca, un pò
tutti i
suoi lavori e le sue considerazioni
precedenti sul tema Jugoslavia. |
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Handke è uno dei
circa 1600 testimoni citati "a difesa" da
Milosevic.
Tuttavia: <<non mi va. Non
voglio. Non posso>> comparire
come
testimone per il Grande Tribunale, scrive
Handke. Egli spiega di non
riconoscere la legittimità di un "tribunale"
del tutto
auto-referenziale, la cui procedura cioè
non ha precedenti
ne' metri
di paragone. Esso è stato creato con un atto
inedito, al di
là di ogni
consuetudine giurisprudenziale nazionale ed
internazionale: è
dunque
al di fuori di ogni controllo. Al di là degli
Stati, al di
là delle
istituzioni, nato e confinato in uno spazio
astratto, lontano
centomila miglia da qualsiasi società e senza
alcun rispetto per
la
divisione dei poteri nelle società reali.
Una Gilda, quella dei giudici - raffigurati in
toga uno per uno in una
schiera di ritratti fotografici all'inizio
della scalinata che porta
alla grande Aula 1, come fosse la galleria
privata di un potente - che
non deve rispondere a nessuno.
<<La
Giustizia è la
Giustizia, è stata la dichiarazione di uno
degli
attuali,
episodici,
fittizi detentori del potere in Serbia,
dichiarazione
con la
quale egli ha salutato il Tribunale
Internazionale
e lo ha
sostenuto. No, la Giustizia non è la
Giustizia.
Ed "un
testimone è
un testimone?" No, un testimone non è un
testimone.
Al limite,
io mi
considero un testimone di passaggio. Ed uno
così -
forse non è
il
niente, ma certo è niente per il Tribunale.>>
D'altronde, un senso profondo di estraniazione
assale chiunque, con
occhi innocenti, si avvicini al Grande
Tribunale: lo spreco inaudito
di risorse (Handke ricorda l'insistenza con
cui fu spinto a servirsi
delle automobili di servizio con conducente)
da un lato, l'assenza dei
cittadini (le sale quasi senza pubblico, meno
che mai olandese)
dall'altro; lo scenario asettico ed
ipersorvegliato (le grandi
vetrate, le telecamere ed i grandi schermi) da
un lato, il senso di
abbandono (la grande Aula 1 in penombra, per
il solo Milosevic: <<in
effetti...
benchè
al primo piano, dà fortemente l'impressione
di un
sotterraneo>>)
dall'altro.
Chi è che frequenta questo brutto palazzone,
ex sede della
Camera di
Commercio olandese ma più simile ad un teatro
in crisi di
pubblico?
Sono solo pochissimi studenti di
giurisprudenza di passaggio, assai
raramente i conoscenti degli imputati o
persone interessate ai fatti,
singoli funzionari prezzolati di
organizzazioni "non" governative,
pochissimi diplomatici. I giornalisti
(qualcuno capita, ogni tanto, ma
si ferma con la sua troupe televisiva
all'esterno dell'edificio) non
hanno bisogno di seguire le udienze -
innanzitutto perchè non
sono
interessati ad un reale approfondimento dei
fatti (si limitano a
ripetere in centomila salse la stessa identica
versione
dell'Imperatore), e poi perchè possono
usufruire, se proprio
vogliono
o devono, delle connessioni web e tv a
circuito chiuso.
Handke spiega di
essere
comunque voluto andare a visitare Milosevic in
cella nell'estate 2004 - quasi
contemporaneamente alla visita da parte
del giornalista del quotidiano francese Figaro
(vedi l'edizione del 6
agosto 2004: "Parla Milosevic") - più che
altro per un "dovere"
(testuale), un dovere di conoscenza e di
chiarimento con l'ex
presidente jugoslavo.
Per parlare del suo incontro, Handke si avvale
in gran parte di (e
commenta) l'articolo del Figaro, con le sue
incongruenze ed
ambivalenze.
Di fatto, durante l'incontro con Handke, era
stato <<quasi solo
Milosevic a
parlare, con
tutta l'energia, la presenza di spirito, che
ben
conoscevo avendo
assistito al suo processo, ma con in più
forse
una specie
di
tranquillità, non dovendo, qui nell'ufficio,
contraddire
nulla o
dimostrare
qualcosa a qualcuno...>>
Milosevic si esprimeva in una maniera che
<<non
era ne' privata ne'
pubblica,
piuttosto una
combinazione, anzi una unione di entrambe,
una
maniera così
ovvia, così naturale, come non mi era ancora
mai capitato
da nessun
politico...
mentre tutt'attorno alla prigione
imperversava
una
implacabile tempesta
da Mare del Nord, e mi veniva da pensare
alla
giornalista
di
Libération, che aveva contestato il mio
pezzo "Attorno
al Grande
Tribunale" - in
cui avevo messo sotto accusa il suo giornale
- bollandolo
come "non
professionale" perchè io lì avevo menzionato
anche certi
fiori di
Scheveningen...>>
Milosevic si dilunga, dinanzi allo scrittore,
seduto vicino ad un muro
con una sola finestra in alto, una finestra
"senza vista" - così
aveva
già notato il giornalista del Figaro -, a
spiegare in che cosa
avessero consistito le sue famose, per alcuni
famigerate, di fatto
completamente fraintese, visite e
manifestazioni in Kosovo nel 1987 e
1989.
E Milosevic sciorina, davanti al
sostanzialmente estraneo, benchè
noto, scrittore, dettagli ed estratti da
articoli di giornali
occidentali.
Tre ore a spiegarsi, davanti ad un ospite che
in fondo non glielo
richiedeva, quasi come per allenamento, oppure
quasi come per non
perdere l'occasione, visto che questo
"tribunale", di occasioni per
spiegare essendo ascoltati davvero, non ne
fornisce.
Lunghe spiegazioni che sfiniscono
l'ascoltatore, mentre Milosevic:
<<non
un tremito della voce,
non un tremore nella mano, ne' un rossore
sul volto>>
-
nonostante i noti problemi di pressione alta.
Ed in più,
nel corso di tre ore, Milosevic fuma un paio
di sigarette, ed il
caffé, preparato da lui stesso, lo offre ai
suoi visitatori.
Handke vorrebbe porre domande su tutt'altro,
per parlare d'altro - gli
chiede della marca di sigarette, e se senta la
mancanza dei fiumi Sava
e Morava, e gli accenna alle sue visite a
Pozarevac, al museo
civico... ma a Milosevic interessa portare
fino in fondo il suo
discorso, il suo ragionamento. Quando Handke
lo definisce "un
personaggio tragico" (pentendosene poi),
Milosevic tradisce una
smorfia di irrigidimento. Addirittura appare
"patetico", Milosevic,
quando - sempre nel suo tono uguale, serio,
senza accenti esclamativi
- afferma che non si tratta della sua persona,
ma della verità: "sarà
la verità a
vincere."
<<Quello
che io,
sulla verità destinata a vincere, pensassi,
me lo
sono tenuto
per me; e non
intendo parlarne nemmeno qui.>>
"Lei ritiene
che sia
stato solo un caso se l'accusa contro di me
è
stata resa
pubblica
mentre gli aerei della NATO bombardavano il
mio
paese?" (il
26
maggio 1999), aveva chiesto Milosevic al
giornalista
del Figaro. Quest'ultimo spiegava invece
candidamente al lettore che,
ci mancherebbe!, il Grande Tribunale può
lavorare liberamente, in
totale autonomia, come solo nelle democrazie
occidentali... Ah! Ma
Milosevic, che viene da un paese e da un
partito "comunista", ai
tribunali imparziali non ci crede - dice il
giornalista del Figaro.
Handke vede le cose con altri occhiali.
<<La
mia "intima convinzione"
mi porta non solo a ritenere che
Slobodan
Milosevic sia di
fronte alla corte sbagliata, ma anche che
egli sia -
"innocente"
proprio no (questa, come ho già detto, non è
cosa che mi
riguardi), ma
sicuramente: "non colpevole nel senso
dell'accusa",
e neanche
nel senso dell'organizzazione del processo.>>
Alcune immagini, toni ed impressioni sono
bastate allo scrittore per
formarsi quella "intima convinzione": le
immagini, i toni e le
impressioni dello scrittore, appunto, quelle
che in letteratura dicono
tutto, condensando le verità e le personalità
più
profonde in poche
parole rivelatrici.
Il linguaggio
sperimentale
e poetico dell'Handke narratore, il suo
argomentare per impressioni, che non sente il
bisogno di discernere
rigorosamente le cause dagli effetti, lo stile
"girovagante" tipico di
questo autore, sono ben noti. Handke "gira
attorno" ("Umkreisen")
-
tra le nuvole? senza verificare l'ancoraggio
col terreno? -, lasciando
cadere come gocce di pioggia queste
impressioni che hanno la struttura
e la consistenza dei pensieri. Lo dice lui
stesso: solo scrivendo ha
chiarito a se stesso i suoi pensieri.
Pensieri, immagini, impressioni,
ahinoi confinate su di un bimestrale di
letteratura, nel circuito
sostanzialmente chiuso del dibattito
letterario contemporaneo (tra
"iniziati" dunque?), che aiutano a ristabilire
elementi di conoscenza
solo indirettamente, in maniera traslata - per
le questioni che
evocano, per la curiosità ed il discorso che
suscitano, negli
ambiti
in cui lo suscitano.
Questa è d'altronde l'opera artistica di
Handke, ed insieme
è la sua
testimonianza come intellettuale sincero -
neanche "impegnato":
più
semplicemente "sincero", che ritrasmette
esperienze sue reali. Tanto
che Handke si dichiara esplicitamente
contrario alla scrittura di una
qualsivoglia "relazione" ("Expertenzeugnis")
attorno ai fatti di cui è
accusato Milosevic, relazione che pure gli era
stato richiesto di
scrivere da uno degli "avvocati d'ufficio" di
Milosevic. Del tutto
diffidente verso gli "specialisti" dei
Balcani, Handke
comprensibilmente contesta quelle <<analisi,
inevitabilmente
incatenate
alle opinioni
- e non semplicemente opinioni, ma vere e
proprie
prese di
posizione.>>
Ma si può evitare di prendere posizione? E se
anche si potesse,
sarebbe lecito?
Infatti nemmeno Handke si sottrae dal prendere
posizione, a modo suo:
andando a zonzo, come è uso fare, in
letteratura e nella vita.
Racconta di essersi fatto lasciare apposta,
dopo la visita,
dall'autista del "tribunale" (per la sorpresa
di quest'ultimo) in
mezzo ad un bel nulla, per fare quattro passi.
Racconta il suo
girovagare per Pristina, nella primavera 1996,
ed il suo raccogliere
parole, sensazioni ed immagini, il comprendere
da queste in maniera
subitanea la condizione di isolamento, di
esclusione, di minoranza di
quelli che, su quel territorio, usavano
l'alfabeto cirillico. Racconta
di incontri a Srebrenica nel 1993, di aver
saputo dalla voce dei suoi
ospiti e dai canti del guslar
delle devastazioni di Nasir Oric, del
massacro di Kravica (natale ortodosso 1993),
della rabbia, di averne
parlato con i parenti delle vittime, serbi,
illusi che il mondo
sappia! (e che contrasto con le "madri di
Srebrenica", quelle
organizzate ed attivate come orologi a carica
ad uso e consumo della
opinione pubblica occidentale).
Racconta dell'incontro con i profughi dal
Kosovo, in una camera di un
albergo di provincia riadattata a rifugio,
nella città di
Negotin,
verso la Romania: nei loro spazi angusti,
rinchiusi tra camere e
corridoi, senza contatti o prospettive fuori
da quelle mura, senza
alcuna speranza, "assenti" per chi è
all'esterno ed in qualche
modo
anche a loro stessi, a sognare di riunirsi con
familiari "più
fortunati" lontanissimo, in Brasile o Canada.
Racconta di aver
visitato profughi anche sulla Fruska Gora, e
di avere scoperto
l'atelier di un pittore, e di avere scoperto i
suoi quadri viceversa
forti di speranza come quelli di Max Beckmann.
Con questo
perciò in
effetti termina il contributo dato da Handke
al
"ristabilimento della verità": la verità di
Handke
è una verità
artistica. La sua può essere dunque solo una
testimonianza
artistico-letteraria, non valida dal punto di
vista giudiziario.
E dal punto di vista storico-politico?
Di analoga letteratura sulla distruzione della
Jugoslavia, stranamente
(o forse no), c'è poco di fruibile per noi. La
maggiorparte
è opera di
altri "testimoni di passaggio", trovatisi ad
essere scrittori per
caso, talvolta addirittura controvoglia, per
la impellente
necessità
di raccontare. Ci sono soprattutto, infatti,
altri diari di viaggio
(in senso stretto o in senso lato) - Kurt
Koepruner, Mariella Cataldo,
Jean Toschi Marazzani Visconti, Babsi Jones -
che miscelano
informazione preziosa e testimonianza
personale; e quest'ultima ha
necessariamente un risvolto lirico. C'è poi la
poesia di Bruna
Sibille-Sizia. Sono tutti contributi di
conoscenza - meglio laddove,
come questo di Handke, hanno un grande valore
artistico aggiunto.
Ma gli anni passano, le "sedute" del Grande
Tribunale pure, e noi
abbiamo ancora drammaticamente bisogno
di conoscenza puntuale dei
fatti, oltre che di conoscenza artistica, e da
queste (entrambe, se
vogliamo) abbiamo bisogno di passare
immediatamente alla politica,
alla lotta politica; perchè solo "la politica"
significa uscire
dalla
dimensione individuale, personale o
inter-personale dell'avvenimento,
per entrare in una dimensione collettiva e
storica, e per potere
interpretare e dunque raccontare l'avvenimento
nel suo complesso,
descrivendolo per quello che esso è
oggettivamente - nel senso
proprio
di: "al di là della esperienza individuale" -
così che
esso sia
conoscibile da tutti.
Noi abbiamo dunque ancora o avremmo
drammaticamente bisogno di dati,
di date, di nomi e cognomi, luoghi, articoli
di legge, circostanze:
abbiamo bisogno di uno sforzo titanico di
organizzazione delle
conoscenze su questo avvenimento, su questo
oggetto di analisi
(storica, politica, o artistica): "la
distruzione della Jugoslavia".
E su questo invece abbiamo solo dei pezzi, dei
brandelli di discorso.
Non sto parlando più solamente di Handke: sto
parlando di tutti
quelli
che sono, che sanno di essere testimoni (ad
esempio in quanto vittime
- troppi - o in quanto conoscenti,
frequentatori di vittime - troppo
inutili) del crimine epocale commesso con la
distruzione della
Jugoslavia. A tutti costoro vorrei dire:
usciamo dal fatto privato,
dall'"impressione sconvolgente", dallo shock
di essere stati ed essere
tuttora testimoni del crimine e di non trovare
mezzi, o un uditorio
adeguato, per comunicare l'esperienza
traumatica - del tipo di quelle
che bisogna comunicare subito, per una
esigenza direi compulsiva, per
non diventare pazzi -, e trasformiamo
l'esperienza personale ed
individuale (viaggio, incontro, rabbia,
adozione o amore, girovagare o
fare teatro, insomma: il "vissuto") in azione
collettiva, dunque in
azione politica. Se vogliamo non solo
"testimoniare", ma finalmente
rendere giustizia - che sia "per la Serbia",
per Milosevic, ma meglio
ancora: per la Jugoslavia.
Le "Tablas" sono
delle
placide pozze d'acqua risorgiva, che affiora
nei pressi di Daimiel, nella Mancha, vicino
Toledo. Frutto di un
fenomeno carsico, esse sono immerse nel verde
come grandi pupille,
specchi d'acqua che nascondono le sorgenti del
rio Guadiana. Lo
scrittore era a Daimiel due o tre anni fa:
secondo le locandine
turistiche, per le Tablas non c'era alcun
collegamento regolare via
bus o treno, perciò Handke prese una vettura
privata. L'autista
era
stranamente ritroso, come se la destinazione -
le Tablas - fosse
insufficiente.
Quando arrivarono sul posto, le Tablas erano
solo dei fantasmi: il
conducente spiegò che erano scomparse da
secoli, a causa degli
interventi operati dall'uomo, per portare
l'acqua sui terreni
agricoli: rimanevano solo delle zone più scure
nel verde,
chiazze di
umido in un terreno altrimenti asciutto che
pareva la steppa. La gente
del luogo si era opposta ad una ricostruzione
artificiale delle Tablas
di una volta; ed in effetti, tutto questo
veniva spiegato, in fondo in
fondo, nel depliant dell'agenzia del turismo.
<<"Mi
hanno tolto qualcosa -
disse il guidatore - e non solo a me: a
noi." Ed
involontariamente, sorpreso dalla mia stessa
domanda, gli
chiesi
allora della
Jugoslavia... L'uomo di Daimiel si disse
"informato".
Ma il suo
essere informato, laggiù lontano, era
diverso
da quello
dei vicini...
diverso anche da quello del suo connazionale
di
Bruxelles, quello che,
con l'eterna smorfia sul viso, aveva avuto a
che fare con
la Guerra
Umanitaria della NATO contro la Jugoslavia,
con
commandos di
bombe e
missili, e da allora aveva continuato a
portare e
portava
tuttora quella
smorfia nelle sue ripetute azioni umanitarie
in
giro per il
mondo. La
risposta del mio interlocutore me la tengo
per
me. Quella
domanda magari
non gliel'avrei posta, se non avessi intuito
in anticipo
la risposta.>>
Handke
interviene sulla
questione jugoslava con ricorrenza carsica:
episodicamente, quando qualcosa del suo lavoro
e delle sue riflessioni
riesce peraltro a filtrare dallo schermo dei
mass-media e di un
sistema-mercato culturale sostanzialmente
totalitario, privo di
generosità, privo di libertà. Ecco: il lavoro
di Handke,
il suo
girovagare, a ben vedere non è "tra le
nuvole", non è in
una qualche
intellettualistica "torre d'avorio", ma
proprio al contrario,
simmetricamente: è sotterraneo, è
speleologico. Le sue
scoperte di
"testimone di passaggio" sono come le
risorgive del Carso. Il fiume
però, quello che la nostra rabbia vorrebbe
veder non solo
affiorare,
ma straripare, quello rimane inesorabilmente
sottoterra.
Mi si lasci
aggiungere
qualcosa ancora, che Handke non dice.
Dentro. La sensazione, per chi entra nel
Grande Tribunale, è
quella di
una dimensione surreale. Vi si svolge qualcosa
che dovrebbe entrare
nella Storia, ma in una maniera tanto recitata
e falsa, e nel
disinteresse totale non solo del mondo
attorno, ma anche, e
sostanziale, degli addetti ai lavori,
indifferenti, che resta un senso
grande di disagio. Gli argomenti affrontati
nelle aule dovrebbero
essere sconvolgenti, avendo segnato il destino
di circa 23 milioni di
persone: eppure il giovane borsista sorosiano
che, seduto davanti alla
vetrata in quasi perfetta solitudine, segue
l'udienza, sbadiglia.
Fuori. L'Olanda non ha alcun rapporto con
quello che succede nel
"tribunale". L'Olanda vede o sente il
"tribunale" in TV, come tutti:
se, come, e quando la TV ne da notizia.
L'Olanda è un paese
nuvoloso
come i cieli di Vermeer van Delft (dei quali
Handke infatti parla), ma
la vita sociale sembra vivace. Ma che vita è?
Per qualsiasi
viandante
(ma Handke non ne parla) l'Olanda è
innanzitutto il paese dei
traffici, in senso stretto ed in senso lato. È
la prima cosa che
si
nota! I porti, le navi, i treni, i tram, le
autostrade, gli aerei e le
biciclette. I traffici: ad esempio, lo
sfruttamento della
prostituzione (siete mai stati ad Amsterdam?);
la compravendita di
preziosi e di droghe (leggere e pesanti), il
consumo dissennato delle
merci nei grandi magazzini (ad esempio
nell'area pedonale centro
dell'Aia); il riciclaggio di denaro nei grandi
casino' e nei
grandissimi hotel. Quel lusso ostentato,
proprio al lido dell'Aia:
proprio a Scheveningen, proprio su quelle dune
del Mare del Nord su
cui hanno appoggiato il castelletto in cui ora
è rinchiuso, con
altri,
Milosevic - tra un boschetto, le casette basse
dei ricchi, e la
spiaggia. Quel castelletto che 60 anni fa era
usato dai nazisti per
rinchiudere i resistenti.
Fuori da quella prigione è l'Occidente
corrotto come le puttane,
viziato come i drogati, opportunista come i
giornalisti ed ipocrita
come i ricchi - l'Occidente al suo massimo
stadio di cinismo. Ecco
perchè l'edificio del "tribunale" è lì, e non
altrove.
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