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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



 
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L'ULTIMO GIORNO DI SANJA


di Jürgen Elsässer

Da Kriegslügen ("Menzogne di guerra"),  di Jürgen Elsässer - Edizione 2004.
Traduzione a cura del CNJ di Torino e Milano



In luogo di postfazione

L’ultimo giorno di Sanja

Cosa racconterebbe della guerra una ragazza serba


“Accadde una notte che una stellina impazzita nel cielo luminoso lasciò la sua costellazione e cominciò a cadere per tutto l’inconoscibile cosmo, a cadere..., a cadere...
E così cadendo, giunse al sistema solare e si posò infine sul pianeta Terra. Su di un continente di nome Europa... In una città, dove mai prima era caduta una stella, e perciò questa era una vera meraviglia.
Un uomo, che accendeva i lampioni stradali voleva acchiapparla, perché rilucesse in essi.
Un generale voleva attaccarsela al petto, come decorazione.
Ma la stella non si fece prendere da nessuno, anzi andò a cadere giusto nella sala parto di un ospedale di periferia...
Proprio a mezzanotte, quando nacque una bambina di nome Sanja...
Sul suo ginocchio sinistro, la stellina impazzita si mutò in una piccola, amabile voglia...”

(Momo Kapor, Sanja)

* * *

Sanja Milenkovic nacque il 30 novembre 1983 a Krusevac, nella Serbia centrale.
All’inizio dell’aggressione della NATO aveva 15 anni ed era alta 1,80. I suoi occhi scuri avevano scintille dorate nel sole. I capelli scuri, di media lunghezza, erano divisi a sinistra, e spesso un paio di ciocche le ombreggiavano l’alta fronte.
Portava ornamenti poco vistosi – una catenina, un anello semplice, piccoli orecchini tondi. Speciale nel suo viso era la bocca, un ben disegnato labbro superiore e piene labbra inferiori, con denti che brillavano nel largo sorriso.
Una piccola voglia ce l’aveva, ma non sul ginocchio, sul braccio.
Si potrebbe dire, alla buona, che d’aspetto fosse l’edizione femminile di Leonardo Di Caprio. Ce l’aveva in camera, il suo poster, come tutti cercava nel suo preferito qualcosa di proprio. Sanja e Leonardo sarebbero stati una coppia di sogno, perché avrebbe dovuto mettersi di mezzo un iceberg, a scontrarsi col Titanic? Sanja era romantica, leggeva sempre romanzi d’amore, e volentieri ascoltava la musica di Whitney Houston, Luna o di Hari Mata Hari. Sempre canticchiava con loro: Znam pricu o sreci, so una storia sulla felicità.

Però cuore e dolore erano presto scordati da Sanja, quando si trattava di simboli e numeri, di Algebra, Logaritmi, Formule binomiali. Chi sarà mai Di Caprio davanti ad Albert Einstein? E poi: forse che la Teoria della Relatività non ha vinto Spazio e Tempo e quindi reso possibile che in un qualche Universo parallelo il Titanic non sia affondato? Inoltre, c’era già stata una Serba, Mileva Maric, che come prima moglie di Einstein aveva scoperto la Teoria della relatività assieme a lui. Perché non poteva succedere anche a lei, Sanja, qualcosa del genere? In ogni caso la matematica era stata la passione di Sanja fin dal principio, forse c’entrava anche che papà Zoran avesse una laurea in Matematica. Nella scuola di Varvarin era sempre la migliore, sempre con un “dieci” in Mate. D’altro canto, Sanja era tutt’altro che una bestia da lavoro. Proprio per nulla. La mamma Vesna le diceva sempre: “Sei il mio maggiolino pigro”, quando si trattava dei lavori di casa. “Ti costruirò poi una macchina – rispondeva Sanja – che farà tutto premendo un solo bottone”. Ma a scuola era attenta. E quando, a gennaio del 1998, al termine del ciclo della scuola primaria di otto anni, cominciarono le verifiche di Matematica, lei rimase in cucina fino a tardi, la sera. E mamma dovette sederle vicino, e spesso s’addormentò al tavolo... Sanja si ravvivava solo quando riusciva a risolvere qualche problema difficile. Negli intervalli, facevano assieme ginnastica. Sanja pensava, come tutte le adolescenti, di dover dimagrire. Comunque, agli esami andò così bene che nella primavera del 1998 le riuscì il salto al Ginnasio, e non uno qualsiasi, ma al “Ginnasio Matematico” di Belgrado. Fu accettata senza esame d’ammissione. Pensate: al Ginnasio! A Belgrado! Senza esame d’ammissione! Tutti i sogni si avveravano. Znam pricu o sreci, so una storia sulla felicità.

Le prime settimane a Belgrado furono dure. Al pensionato femminile “Jelica Milanovic”, la sentirono spesso piangere, le parlarono, la rassicurarono. Telefonava a casa ogni giorno. Ciò la aiutava ad abituarsi. Peraltro, la scuola le piaceva. Nessuno più le dava fastidio alle spalle, perché la “secchiona” sapeva tutto, come a volte succedeva a Varvarin. A volte, non sapeva proprio tutto. Allora gli altri allievi, piccoli geni della matematica come lei, la aiutavano.

E dopo la suola, conquistavano la città, strada per strada. Passeggiare e prendere un gelato nella zona pedonale di Knez Mihajlova – proprio quello che ci vuole dopo la fatica. Quando c’erano un paio di dinari in più in tasca, per comprare le eleganti cosucce: Armani, Versace, Eccada, allora c’era proprio tutto.
E poi, su al Kalemegdan – l’antica fortezza turca – sulle mura si vede ancora qualcuno dei patiboli, a cui furono appesi i Serbi ribelli. Davvero terribile! In fondo alla Francuska, giù dal colle, nel quartiere Skadarlija dei musicisti, dove i Tamburaši spesso suonavano i mandolini già nel pomeriggio – peccato solo che mamma le avesse sempre ripetuto di tornare presto al pensionato.

“Per te sono un nulla le nostre pene,
Tu getti nella polvere le nostre perle di pianto,
Ma su di te passano i tuoi mattini rosati,
Di cui mi innamorai, giovane e lieto.”
                   
(Milos Crnjanski, Elegia su Belgrado)

* * *

“Non voglio tornare a casa, mamma, non ci sono abituata!”
“Tu devi, è troppo pericoloso!”
Già, dopo mezzo anno, nell’ottobre del ’98, Vesna Milenkovic si riprese la figlia a Varvarin. La NATO aveva presentato un ultimatum alla Jugoslavia, e mobilitato l’aeronautica. I primi colpi sarebbero stati per la grande città, era chiaro. Sanja fece come voleva la mamma. A Varvarin, lei passeggiava, come prima, mano nella mano, nonostante l’ansia. E poi, l’annunzio: l’americano Holbrooke aveva concluso l’accordo con Milosevic. Era andata bene anche stavolta. Sanja tornò a Belgrado. Nel gennaio 1999, apparve un’intervista a lei sulla rivista “Nova Nada”, la si diceva una “speranza”. Nova Nada vuol dire “speranza nuova”, e così pareva anche Sanja, che sperava di nuovo nella sua fortuna.

Ma sperava invano. “Non solo a Bruxelles, cresce il numero di coloro che pensano che un intervento militare nel Kosovo sia inevitabile”, annotava il ministro tedesco della Difesa, Scherping, il 17 gennaio ’99 sul suo diario. Le notizie da Rambouillet non suonavano favorevoli. Sul giornale comparivano foto, più eloquenti dei comunicati infuocati: la ministra degli Esteri americana abbraccia Hashim Thaci, un terrorista affannosamente ricercato da Belgrado. Il ministro degli Esteri tedesco agita il pugno contro Milan Milutinovic, il presidente serbo. Il 23 marzo Vesna ebbe da un’amica a Paracin la notizia dello stato d’emergenza. Con sua madre, la sera stessa fu a Belgrado a caricare Sanja con la sua roba sulla vecchia Mercedes del nonno. All’una di notte del 24 marzo, avevano preso tutto e partirono: poche ore dopo ululavano le sirene di Belgrado, sopra la città rombavano i bombardieri, gli F-16  e F-18 ultrasonici, gli F117 ritenuti invisibili, i lenti e grossi A 10 con i loro proiettili all’uranio, gli ECR Tornado tedeschi, irraggiungibili per la contraerea jugoslava. Per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, c’erano i Tedeschi a bombardare, per la terza volta nel XX secolo c’erano loro ad attaccare la Serbia. Nel viaggio di ritorno a Varvarin, Vesna abbracciava forte la figlia: “Ora sei al sicuro, figliola” – consolava così Sanja.

“E’ un dato di fatto irrevocabile, che noi stasera non torneremo nel nostro letto, che domattina non andremo a suola, che non sappiamo chi dei nostri congiunti è ancora in vita, chi dei compagni di scuola, degli insegnanti, dei vicini, dei compagni di gioco di questo o di quel quartiere. Tutto si annebbia nel fumo che sale e nella crescente oscurità. Nelle orecchie, il rumore degli aerei, le giunture si scuotono sotto le esplosioni, i colpi dell’aria si ripercuotono sotto terra, la polvere turbina, e poi segue il rombo della distruzione, che esce dagli spazi sotterranei. Nella testa dei piccoli spettatori nessun pensiero migliore, o più utile che – fuggire, scappare, correre lontano da questa malefica gara, nella quale ognuno si sente come inseguito dalla coda di un drago, a cui non si può sfuggire. Per la prima volta, ci rendiamo conto della completa vulnerabilità, dell’essere abbandonati al male, contro cui nulla può il nostro fragile corpo, oltre che andare in pezzi, o scappare. Chi vuole, si rende conto che Satana ha preso il sopravvento.”   

(Miodrag Pavlovic, Gli usurpatori del Cielo)

* * *

Satana era lontano da Varvarin. Davvero era impossibile figurarsi un rifugio migliore. Il paese con i suoi 4000 abitanti è a circa 160 km a sud-est di Belgrado. La guerra lo aveva allora solo sfiorato: un poliziotto di Varvarin era stato ammazzato dagli albanesi nel Kosovo, l’8 febbraio, in un borgo chiamato Racak, che sarebbe in seguito diventato in Occidente un sinonimo di assassinio, ma non certo per l’uccisione di poliziotti serbi, che in Occidente non interessavano nessuno.

La maggior parte degli abitanti sono contadini, sono calzolai e sarti e panettieri, un paio di medici e poi farmacie, osterie, l’hotel Plaza. Industrie non se ne sono insediate, tranne che per una piccola azienda tessile che fabbrica stuoie per la Zastava. Nel centro abitato e nelle sue vicinanze, non ci sono installazioni militari, la più prossima ne dista 22 km, ed è l’aeroporto di Cuprija. L’unico combattimento nella storia di Varvarin ha avuto luogo nel 1810, quando i turchi hanno affrontato gli insorti Serbi. Persino le due guerre mondiali hanno risparmiato la cittadina. Solo nel 1944, i nazisti hanno distrutto il ponte sulla Morava, per ritardare l’avanzata dell’Armata Rossa. Gli abitanti erano stati avvisati il giorno prima. Tutt’altra cosa, nella vicina Kragujevac: lì, fra il 18 e il 21 ottobre 1941, unità dell’esercito tedesco avevano eliminato 7000 “comunisti, Ebrei e Serbi”, 100 per ogni soldato tedesco caduto, come dicevano nel loro gergo. Fra gli uccisi, 300 studenti del Ginnasio e 15 ragazzi fra gli otto e i dodici anni. Il Museo, inaugurato nel 1976, è stato visitato da cinque milioni di persone.

“Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un solo giorno morì
di morte gloriosa.
 
Cinquantacinque minuti
prima che la morte se li portasse via
sedevano sui banchi di scuola
i ragazzi della piccola compagnia,
e con lo stesso compito assillante:
andando a piedi, quanto
impiega un viandante
e così via.
 
Erano pieni delle stesse cifre
i loro pensieri,
e nei quaderni, dentro la cartella,
giacevano assurdi innumerevoli
i cinque e gli zeri
 
Stringevano in saccoccia con ardore
una manciata di comuni sogni,
di comuni segreti
patriottici e d'amore.
E ognuno, lieto della propria aurora,
credeva di poter correre molto
tanto ancora
sotto l'azzurro tetto rotondo
fino a risolvere
tutti i compiti di questo mondo.

Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.”

 (Desanka Maksimovic, Fiaba cruenta)

* * *

Che la Seconda guerra mondiale abbia risparmiato Varvarin non vuol dire però che abbia risparmiato la sua gente. Dal 1914 al 1918 persero la vita 2000 uomini e donne, la metà degli abitanti. Durante l’occupazione tedesca, dopo l’invasione del 1941, 2000 persone si rifugiarono nei boschi, con i partigiani. 500 furono fucilati e impiccati dai tedeschi. Nella riconquista della regione del 1944, un ruolo importante lo ebbe la Quarta brigata proletaria montenegrina, e il suo comandante è ancora cittadino onorario di Varvarin. Però, queste sono cose dimenticate da molto tempo, la famiglia Milenkovic non sapeva niente di questo cittadino onorario. La Brigata proletaria, una cosa da veterani. La Germania nazista, acqua passata. La guerra, era la storia. Così pensavano tutti, prima del 1999.

Quando cominciò la guerra, il 24 marzo 1999, subito fu bombardata Kragujevac, e la NATO distrusse subito, fra l’altro, il Monumento alla vittoria sui nazisti del 1941. Per contro, niente accadde a Varvarin; in aprile e maggio. La località è di nessuna importanza, non solo per la strategia militare, ma anche dal punto di vista del traffico: che va in direzione del Kossovo,  e in generale verso sud, aggira il paese, se non vuole perdere tempo. La strada E-75 conduce verso est a Nis, la E-761 va a Krusevac, verso ovest.

Il 30 maggio 1999 era un giorno caldo, con cielo azzurro sulla Serbia centrale, ottimo per il volo degli aerei della NATO. Già dal mattino, provenienti dall’Adriatico, passavano ad alta quota sopra Varvarin, o mostravano le loro scie. Certamente, erano diretti, come nei giorni e nelle settimane precedenti, verso Novi Sad, o Nis, o Belgrado. Alle nove ulularono le sirene a Varvarin, allarme aereo. I più fecero spallucce. Routine. E in realtà, non successe nulla. Tuttavia Vesna si preoccupava. La Tanjug aveva riferito, due giorni prima, che Milosevic, dopo nove ore di discussione con l’inviato russo Cernomirdyn aveva accettato le basi del piano di pace del G8, cioè la condizione posta dalle sette potenze industriali e dalla Russia. Però, il 26 maggio il Tribunale per i crimini di guerra dell’Aja aveva reso note le sue accuse contro lo stesso Milosevic. Chiaramente, c’erano nella NATO degli elementi che non volevano la pace con la Jugoslavia, se no con chi avrebbero potuto accordarsi, se non con il suo presidente?

“Mia cara, bada a te, a non tornare tardi a casa!”, disse quel mattino la mamma a Sanja che usciva. Le altre due ragazze ridacchiavano e facevano i segni, anche le loro madri l’avevano detto, lo dicono sempre tutte le mamme. “Non essere ansiosa, mamma, chi attaccherebbe un piccolo paese? E di domenica, poi?” Tutte e tre si erano fatte belle, i capelli alti con un po’ di gel e di lacca, Sanja aveva preso la mattina il rossetto e l’ombretto alla mamma. La T-shirt azzurra, i pantaloni bianchi, le scarpe bianche da ginnastica le stavano bene. Forse avrebbe rivisto i ragazzi della vecchia classe? A queste feste in chiesa qualcosa succedeva sempre, anche adesso con la guerra, perché la guerra era lontana, e poi era estate.

“Questa estate nel ricordo di uno che qui la visse, rimarrà come la più bella e radiosa estate a memoria d’uomo, poiché nella coscienza essa splende e vince contro un forte e oscuro orizzonte di morte e di sventura, che si estende fino ai confini dell’invisibile. E questa estate nei fatti incominciò bene, meglio di molte altre prima.”

(Ivo Andric: Il ponte sulla Drina)

* * *

La strada per la chiesa portava le tre ragazze al ponte sulla Morava. Era stato fatto dopo la Seconda guerra mondiale dalla Germania, come riparazione per quello distrutto dai nazisti. Tuttavia, questa compensazione non l’avevano offerta direttamente i Tedeschi: erano stati i sovietici, che avevano smontato un ponte nella loro zona di occupazione in Germania, e l’avevano donato al popolo jugoslavo fratello. Esso era diritto  e aveva la carreggiata orizzontale su blocchi di calcestruzzo, niente di straordinario, niente cavi sospesi, archi o ornamenti marmorei, niente lampioni né panchine. Il ponte aveva poche analogie con i suoi fieri confratelli di New York, o con quelli romantici di Parigi, o col “Ponte sulla Drina” di Visegrad, di cui Ivo Andric nel suo famoso libro: e comunque era un ponte, ed è sempre un pochino eccitante che ci sia un “sopra” – noi – e un “sotto” – loro. I ragazzi ci passavano spesso. I giovani fischiavano dietro alle ragazze e queste si toccavano la fronte. Gli innamorati si appartavano nella vegetazione della riva o dietro gli alberi, con le foglie che sfiorano l’acqua e coprono la vista. Quando Sanja e le sue amiche Marina e Marijana arrivarono sul ponte, verso le dieci di mattina, la Morava rumoreggiava sotto di loro, come sempre. I molti anni di embargo avevano fermato le industrie della zona e tolto il lavoro alla gente, ma ora si poteva ancora fare il bagno. La Jugoslavia era diventata povera. Solo i pescatori erano contenti che le fabbriche fossero ferme, senza più scarichi nelle acque.

Tutte le domeniche, a Varvarin c’era il mercato, e questa domenica, in più, sulla piazza davanti alla chiesa, oltre il fiume, c’era la Festa della Trinità, la Pentecoste ortodossa. Da lontano, Sanja vide il movimento, sentì il richiamo dei venditori, il mercanteggiare dei compratori. Come sempre, offrivano patate e frutta, gli ambulanti eleganti straccetti, scarpe da ginnastica, ogni genere di attrezzi. 3000 persone si affollavano fra l’Hotel Plaza e la sponda del fiume, forse anche di più. Le tre ragazze andarono dapprima in chiesa, e Sanja accese una candela. Il parroco predicava come a Pentecoste lo Spirito Santo è disceso: quando erano passati cinquanta giorni dalla resurrezione di Cristo, venne un rumore dal cielo, anche gli Apostoli pregavano uniti come un’anima sola. Apparvero lingue di fuoco e scesero su ciascuno di loro. E così furono pieni di Spirito Santo. Le ragazze ne ascoltavano volentieri, ma lo sapevano già. Dopo la messa fecero visita ad un’amica e bevvero un succo di frutta.

“Vieni, dobbiamo andare a casa, devo preparare qualcosa per la nonna, che vuole fare una torta”, spingeva Sanja le altre due. “Ma perché, non è nemmeno l’una”, disse Marina che non aveva voglia. Ma erano amiche e si tennero insieme come sempre. Forse potranno tornare ancora nel tardo pomeriggio alla festa? Dalla chiesa al fiume ci sono solo 150 metri. Sul ponte, delle ragazze vendevano roba usata, scherzando sugli altri passanti, un ragazzo sputò nell’acqua, e questo forse fu sbagliato. Si guardarono un attimo, e non si resero conto di quel che accadeva: due aviogetti volavano su Varvarin verso nord e giravano oltre l’orizzonte, tornavano da sud sopra la cittadina, andavano verso est, completavano la curva scivolando verso sud. Tornavano!

L’orologio al campanile della chiesa batteva l’una. I genitori di Sanja trafficavano in cucina, preparavano il pranzo festivo per l’indomani. All’improvviso, sentirono una potente detonazione. Zoran pensò ad un attacco a Cuprija, Vesna lo sentì più vicino. Corse al telefono, fece un numero locale – il telefono era muto. Ciò significava che era stato colpito il ponte perché il cavo vi scorreva dentro. A Vesna mancò l’aria, il collo era come stretto, suo marito Zoran dovette tenerla su, perché non cadesse. Che fare? Andare giù nelle cantine che avevano attrezzato come rifugio d’emergenza? No, non senza Sanja. Poiché Zoran aveva le gambe malconce per la pallavolo, Vesna corse dalla vicina, la mamma di Marina. A volte è difficile far partire un’auto, se le mani tremano ma stavolta non ci furono problemi, le due donne partirono con gran stridio di gomme, verso la Morava. Per strada scrutavano il viso di tutti quelli che venivano in direzione opposta, c’erano tra loro molti ragazzi, ma non Marina, non Marijana, non Sanja. Nei pressi di Varvarin, dei passanti confermarono che il ponte era stato colpito, proprio quando s’erano viste delle ragazze su di esso. Vesna si turbò, ma si fece forza, accelerò. Ora, niente pensieri. Cambiare le marce, usare la frizione, premere sui pedali. Si trattò di secondi. Sul fiume c’era un silenzio spettrale, scuro sull’acqua per le nuvole di polvere causate dalle esplosioni. Le madri gridarono i nomi delle loro care: Marina, Marijana e Sanja.

“Il magnifico paese... fu d’un colpo rimosso come una sottile  e ingannevole cortina, e lì davanti stava il lupo con gli occhi lampeggianti, con la coda arrotolata,  e i suoi denti erano atteggiati ad sorriso amaro, più pauroso di quanto la madre avesse mai immaginato. Ad Aska si gelò il sangue e le gambe divennero dure come legno. Le venne in mente che avrebbe dovuto chiamare i suoi in soccorso, aprì pure la bocca, ma nessuna voce ne venne fuori. La morte le stava dinanzi, invisibile e unica e pesante, crudele  e incredibile nella sua crudeltà”.

(Ivo Andric: Aska e il lupo)

Le automobili sul ponte facevano chiasso, perciò le ragazze hanno sentito gli aerei solo quando era troppo tardi. All’1.01 esse sono a metà del ponte e vedono due caccia bombardieri direttamente contro di loro. Dove andare ora? Avanti o indietro? Il cervello matematico di Sanja cede, il calcolo della traiettoria e dell’angolo di incidenza dei colpi non sarebbe riuscito neanche ad Einstein. Dio non gioca a dadi. Forse ci aiuta un pochino? O Dio, aiutami. I piloti sono ancora a 300 metri, a 100 metri, a queste distanze e col bel tempo devono veder ogni cosa, il mercato, la piazza della chiesa piena di gente, le auto sul ponte. Lanciano due missili AGM 65, Sanja ricorda la predica di poco prima, in chiesa: “Venne un rumore dal cielo, mentre gli apostoli riuniti pregavano come un’anima sola. E apparvero lingue di fuoco, e ristettero su ciascuno di loro. Ed essi furono colmi dello Spirito Santo...”. Ma questo non è lo Spirito Santo, pensa Sanja, questo è l’inferno. Sente ancora un sibilo, quindi un urto pauroso la scaraventa in aria. Si sente bruciare, un intollerabile calore. D’improvviso è ben leggera, si muove nell’aria.

Le bombe a guida laser tagliano il ponte nel mezzo, esso si spezza, le ragazze cadono nel vuoto, perdono conoscenza. Due o tre minuti più tardi, Marina torna in sé, vede dapprima la sua mano che sanguina, la gamba destra è tutta fracassata sotto il ginocchio, la coscia è collegata al corpo solo da brandelli di carne. Dove sono le altre due? Marijana grida, chiede aiuto. Cerca di issarsi sulla massicciata, ma si accorge che dal braccio viene fuori un osso e non ha più forza, Sanja ha la mano sul petto, gli occhi aperti, respira con difficoltà, vorrebbe dire qualcosa, ma non ce la fa. Giace con le spalle a terra, ferite non se ne vedono (i passanti vengono a portare aiuto).

Dopo cinque minuti, qualcuno: “Tornano!” Sanja guarda in alto, vede le scie di condensazione e i due missili, che sibilando le vengono contro, girando come ubriachi: questa è la guida laser, ma Sanja non lo sa. Quel che resta del ponte viene colpito di nuovo. La seconda esplosione è ancora più forte della prima, la si sente persino a Krusevac, a sedici chilometri di distanza. Un pezzo di calcestruzzo del ponte, grosso come un carro armato, è lanciato cento metri lontano, nel cimitero oltre la chiesa. Sanja scivola in basso, la testa pendente, di poco sopra l’acqua. Essa sente crescere un iceberg dentro. Il bacino, la pancia, l’intestino sono già ghiacciati. Adesso il freddo sale verso il cuore. Dev’essere stato così quando è affondato il Titanic, vicino al circolo polare. Dov’è la lancia di salvataggio? Improvvisamente vede Leonardo Di Caprio. E’ proprio lui, lui la salverà. Sanja sorride. Znam pricu o sreci, io so una storia sulla felicità.

Marina striscia verso Sanja, striscia aiutandosi con i gomiti, le gambe fracassate non le può più usare. Quindi, prende la testa della ragazza svenuta, saldamente che non vada sott’acqua. Prende una bottiglia dal sacco, spruzza il viso di Sanja. Marina è lì accanto, nell’acqua, ma la corrente è così forte, fa presa anche sui lembi di carne che sono ancora attaccati alla coscia, tanto che lei teme che si strappi la gamba. Comunque la gamba si piega sotto il carico, e fa male atrocemente. Marina deve uscire dall’acqua, si attacca al relitto del ponte. Lei e Marijana chiedono aiuto, aspettano. Non succede nulla. Finalmente sentono voci, le voci delle loro madri.

Alcune ore più tardi è ancora chiaro e fa caldo, otto corpi senza vita giacciono all’obitorio di Varvarin, quasi tutti crudelmente conciati. Vojkan Stankovic, gli arti slogati, forse rotti. La gamba di Zoran Marinkovic è troncata al bacino, qualcuno gliel’ha adagiata per benino sulla spalla sinistra, la scarpa lustra è ancora bene allacciata. Le gambe di Milan Savic stanno troncate sopra il ventre. Nel cranio di Dragoslav Terzic c’è un buco. Al prete Milivoje Ciric manca la testa, un pezzo di ferro volante gliel’ha staccata. Sette degli otto morti sono morti al secondo attacco. Così anche Milan Savic: voleva prestare aiuto alle tre ragazze nel fiume, un amico lo avvertì: “Tornano, fanno sempre così, me l’hanno detto amici miei di Belgrado”. Milan gli gridò:” Sei un vigliacco, dobbiamo aiutarle!”. Furono le sue ultime parole.

“Abbracciami ora,
forte, come solo tu sai fare,
e non lasciarmi al nero uccello,
no, non preoccuparti
tra un attimo sarà finita
………
Mi spaventa lo splendore di milioni di luci,
quando il cielo si accende.
Dov’è una fine,
per chi hanno scavato una fossa profonda?
E’ l’uomo che risolve un problema,
oppure no ci siamo solo
per l’equilibrio tra le stelle?

(Djordje Balasevic, Canto slavo)

* * *

Fra i morti all’obitorio Sanja non c’è. Dopo che sua madre l’ha trovata, essa è stata messa su di una tavola e portata da un’autoambulanza. Ci sale anche Vesna. La sua bambina non è cosciente, anche se muove gli occhi, e la bocca è aperta. “Sii forte, ci sono io con te”, dice Vesna. E al dottore: “Faccia qualcosa, la giri sul dorso, non posso restare a guardare come la mia bambina mi muore tra le mani”. Dopo cinque minuti di strada, Sanja chiude gli occhi piano piano. Il medico ordina all’autista di cambiare direzione e di prendere la guida dell’ambulanza successiva. A Sanja viene praticata un’iniezione di adrenalina, le palpebre si muovono, gli occhi si riaprono. Vesna sale su di un auto, l’ambulanza con Sanja e il medico corre a Krusevac, all’ospedale. Quando la madre arriva, un po’ più tardi vede uscire un medico da una camerata, togliendosi i guanti. Come in un film Vesna sa cosa vuol dire. “Voglio vedere mia figlia”. “No, non è sua figlia è una ragazza più grande, guardi pure”. Vesna si precipita nella stanza, tra timore e speranza, ma il terribile presentimento si avvera. Il cadavere sul lenzuolo verde è la sua Sanja. Vesna si slancia, si butta su Sanja, sente qualcosa che batte. “Dottore, il cuore batte ancora, non è morta”. Il dottore la allontana delicatamente, la guarda negli occhi, abbassa lo sguardo. “Sì”.

Molto più tardi Vesna siede sul sedile posteriore della macchina, con Sanja tra le braccia, come il 24 marzo, quando tornavano da Belgrado, ma ora è tutto diverso. A casa, lava e bagna la salma. Essa ha una ferita all’anca sinistra, dal dorso alla gamba,  e una scheggia alla nuca. Frammenti del ponte sono penetrati in tutto il corpo, nella schiena, nelle gambe, persino nelle dita dei piedi. Tutti gli organi interni sono stati colpiti, soprattutto i polmoni. Sul davanti, il corpo sembra intatto. Zoran procura una bara bianca. Vesna cerca gli abiti preferiti di sua figlia e glieli stende addosso. Vesna dice: “Non so cosa farò senza di te”.

“Pilota: Ora lascio le nuvole. Non vedo ancora nulla.
Base: Proseguite il volo. Rotta nord 4280
Pilota: Sono sotto 3000 piedi. Sotto, ho una colonna di automezzi, una specie di trattori. Cos’è? Chiedo istruzioni.
Base: Dove sono i carri armati?
Pilota: Io vedo trattori. Non mi pare che i Rossi abbiano mascherato i carri armati da trattori.
Base: Cosa sono queste storielle? Che stupidaggini ci sono i Serbi di certo! Distruggete l’obbiettivo!
Pilota: Che devo distruggere? I trattori? I soliti automezzi? Ripeto: non vedo nessun carro armato. Chiedo ulteriori informazioni.
Base: E’ un obiettivo militare! Distruggetelo! Ripeto: distruggete l’obiettivo!”

* * *

Questi estratti dal traffico radio tra cabina di guida e stazione di comando NATO intercettati dalla contraerea jugoslava, si riferiscono ad un altro attacco. Se anche a Varvarin le cose sono andate così, non lo sappiamo. La versione ufficiale della NATO è incerta: “Due F16 hanno attaccato il ponte con quattro bombe a guida laser di 2000 libbre, molto ravvicinate. Il primo attacco ha distrutto la parte centrale del ponte, il secondo attacco ha demolito il resto”. Il tenente Michael Kammerer, alla centrale per le comunicazioni del Comando Supremo NATO per l’Europa a Mons (Belgio meridionale), responsabile per i rapporti con la stampa tedesca, ha comunque ammesso che Varvarin era “Un obbiettivo secondario”. In altre parole: l’obbiettivo effettivamente scelto era già stato distrutto e si era quindi cercato un obiettivo di ripiego.

Nell’opinione pubblica occidentale sono state formulate critiche a causa dei danni collaterali del 30 maggio: La NATO li ha giustificati, parlando di un “attacco legittimo ad una linea di rifornimento primaria dell’esercito serbo”. Il portavoce NATo per la stampa Jamie Shea ha definito Varvarin “Un obiettivo selezionato e giustificato”.

Chi ha selezionato Varvarin come obiettivo da bombardare? La NATO ha rifiutato a Reiner Luyken della “Zeit” di fare il nome dei piloti, e delle loro nazionalità. Il nonno di Sanja è convinto che è stato un pilota tedesco ad uccidere sua nipote. Un esperto di questioni militari come John Erickson indica i piloti americani, perché si sa che solo loro hanno avuto “la competenza operativa sull’impiego di armi a guida laser”. E chi ha dato gli ordini ai piloti? Gli obiettivi di ogni missione venivano stabiliti dagli ufficiali responsabili al Combined Allied Operations Command di Vicenza, in Italia. La base erano le liste di obiettivi che, secondo il “Washington Post”, aveva preparato il Comando delle operazioni NATO, e che erano state approvate dai capi politici degli stati della NATO, da Clinton, Blair, Jospin e pure Schroder. Si sa pure che il governo francese in alcuni casi aveva posto il veto, con successo, al bombardamento di obiettivi civili, di qualche ponte sul Danubio. Nel Diario di guerra del ministro Scharping si può leggere che la scelta degli obiettivi era costantemente all’ordine del giorno del Consiglio della NATO. Poiché questo Consiglio può decidere solo all’unanimità, anche il Governo tedesco avrebbe potuto bloccare con il suo “No” determinati attacchi.

Tuttavia, come ha detto il tenente Kammerer all’autore della “Zeit” Luyken, gli obiettivi secondari venivano definiti senza controllo di tipo politico. Secondo Paul Beaver della rivista specialistica “Jane’s Defense Weekly” le coordinate di questi obiettivi di ripiego erano comunicati dagli aerei radar Awac, cioè dalle centrali di comando volanti. A bordo c’erano anche ufficiali e specialisti tedeschi. La SPD aveva tentato inutilmente, nel 1994, di vietare questa partecipazione in base alla Costituzione tedesca.

Anche l’allora ispettore generale della NATO, Klaus Naumann, si è pronunciato molto chiaramente sulla legalità, anzi sulle necessità, del bombardamento di obiettivi civili: “Dove colpisco in modo più efficace il nemico? E cosa avrebbe fatto danni a Milosevic? Non la distruzione di truppe al suolo. Per un dittatore comunista, non importa quanta gente muore. Ciò che lo tocca è la perdita di quei mezzi che sostengono il suo potere. Questi sono la polizia, il controllo dei mezzi di comunicazione e sono i padroni delle industrie che lo sostengono con i loro soldi e naturalmente anche i loro impianti. Quando noi abbiamo distrutto questi obiettivi con precisione fantastica, allora è iniziato il processo con cui l’abbiamo messo alle strette”. “Precisione fantastica”? In 78 giorni di bombardamenti la NATO ha distrutto solo 14 carri armati jugoslavi, ma ben 48 ospedali, 74 stazioni televisive e 422 scuole. 20.000 bombe a frammentazione ancora si trovano chissà dove sepolte e possono esplodere in qualsiasi momento. I resti dei proiettili all’uranio irradieranno ancora per molte migliaia di anni. Oltre 2000 civili jugoslavi sono morti, un terzo dei quali bambini.

Dopo la guerra il ponte di Varvarin è stato ricostruito, con i soldi dei Serbi della Svizzera. Il governo di Belgrado dell’epoca ha istituito una Fondazione “Sanja Milenkovic”, che aiuta studenti dotati per la matematica. Per molto tempo Vesna ha continuato a dormire nel letto della figlia morta. Non sa piangere sulla tomba, per farlo va nella camera di Sanja. Non si rallegra quando splende il sole, le ricorda troppo l’assolato 30 maggio del 1999. Quando, tempo dopo, ha saputo che i suoi genitori avevano avuto un grave incidente, è rimasta calma. Se muoiono stanno con Sanja, ha pensato. Per Marijana e Marina, la vita, in qualche modo, continua, hanno ancora delle schegge in corpo, che non possono essere rimosse. Anche per Schroder e Fischer, la vita continua, sono ancora al potere; Clinton, la Albright, Scharping e Naumann si godono la pensione.

Le vittime serbe dell’aggressione della NATO, i sopravvissuti  e i feriti di Varvarin come la madre di Sanja, alla fine hanno fatto causa al governo tedesco, per avere almeno un rimborso materiale, per qualcosa che non è rimborsabile. Essi hanno avuto il sostegno di un piccolo gruppo di attivisti tedeschi, guidato dall’uomo di affari berlinese Harald Kampffmexer e da sua moglie Cornelia, che hanno impegnato il loro patrimonio per il finanziamento del procedimento. Ma questo genere di bastian contrario non piace nel paese dei vincitori, la stampa li ha molto criticati. Ci vorrà una generazione, prima che qualcuno se ne ricordi. E’ possibile che allora gli sia concessa la Croce al merito federale, post mortem.

L’accusa dei Serbi è stata respinta in prima istanza, nel dicembre 2003, dal tribunale di Bonn: sarebbe stato miracoloso un esito diverso. Comunque ciò che è stato ottenuto, è già tanto: la ragazza morta,  e anche le altre vittime senza nome sono state strappate dall’oblio almeno per la durata del processo.

Ma doveva proprio essere così? In questa dannata Germania non c’è una sola amministrazione scolastica, un solo consiglio di docenti, disposto a battersi, perché la scuola porti il nome di Sanja Milenkovic? Non c’è un prete cattolico, né un pastore evangelico che il 30 maggio dica una messa per Sanja Milenkovic o promuova una colletta per le spese del processo? Nessun consiglio di fabbrica, nessun gruppo di Verdi che decida uno sciopero, o almeno un minuto di silenzio? Una ragazza deve essere dimenticata, dopo essere morta per l’unica ragione che era Serba? Devono essere dimenticati i Serbi, perché per tre volte nel XX secolo si sono trovati sulla strada dei Tedeschi? Davvero, in casa del boia, non si deve parlare di corda?

Allora, hanno ragione i Serbi di accusare con le parole dello scrittore Pavlovic:

“Belle città non ci saranno più
nel nostro paese.
Lunghe notti vogliamo e boschi fondi
dove si veda anche senz’occhi.
Lasciateci cantare e pensare su noi stessi,
ché gli altri ci hanno scordati”




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