Da
Kriegslügen ("Menzogne
di
guerra"), di Jürgen
Elsässer - Edizione
2004.
Traduzione a
cura del CNJ di Torino e Milano
In luogo
di postfazione
L’ultimo
giorno di Sanja
Cosa
racconterebbe della guerra una ragazza
serba
“Accadde una
notte che una stellina impazzita nel cielo
luminoso lasciò la sua costellazione e
cominciò a cadere per tutto l’inconoscibile
cosmo, a cadere..., a cadere...
E così
cadendo, giunse al sistema solare e si posò
infine sul pianeta Terra. Su di un
continente di nome Europa... In una città,
dove mai prima era caduta una stella, e
perciò questa era una vera meraviglia.
Un uomo,
che accendeva i lampioni stradali voleva
acchiapparla, perché rilucesse in essi.
Un generale
voleva attaccarsela al petto, come
decorazione.
Ma la
stella non si fece prendere da nessuno, anzi
andò a cadere giusto nella sala parto di un
ospedale di periferia...
Proprio a
mezzanotte, quando nacque una bambina di
nome Sanja...
Sul suo
ginocchio sinistro, la stellina impazzita si
mutò in una piccola, amabile voglia...”
(Momo Kapor, Sanja)
* * *
Sanja Milenkovic nacque il 30 novembre 1983 a
Krusevac, nella Serbia centrale.
All’inizio dell’aggressione della NATO aveva
15 anni ed era alta 1,80. I suoi occhi scuri
avevano scintille dorate nel sole. I capelli
scuri, di media lunghezza, erano divisi a
sinistra, e spesso un paio di ciocche le
ombreggiavano l’alta fronte.
Portava ornamenti poco vistosi – una catenina,
un anello semplice, piccoli orecchini tondi.
Speciale nel suo viso era la bocca, un ben
disegnato labbro superiore e piene labbra
inferiori, con denti che brillavano nel largo
sorriso.
Una piccola voglia ce l’aveva, ma non sul
ginocchio, sul braccio.
Si potrebbe dire, alla buona, che d’aspetto
fosse l’edizione femminile di Leonardo Di
Caprio. Ce l’aveva in camera, il suo poster,
come tutti cercava nel suo preferito qualcosa
di proprio. Sanja e Leonardo sarebbero stati
una coppia di sogno, perché avrebbe dovuto
mettersi di mezzo un iceberg, a scontrarsi col
Titanic? Sanja era romantica, leggeva sempre
romanzi d’amore, e volentieri ascoltava la
musica di Whitney Houston, Luna o di Hari Mata
Hari. Sempre canticchiava con loro: Znam pricu
o sreci, so una storia sulla felicità.
Però cuore e dolore erano presto scordati da
Sanja, quando si trattava di simboli e numeri,
di Algebra, Logaritmi, Formule binomiali. Chi
sarà mai Di Caprio davanti ad Albert Einstein?
E poi: forse che la Teoria della Relatività
non ha vinto Spazio e Tempo e quindi reso
possibile che in un qualche Universo parallelo
il Titanic non sia affondato? Inoltre, c’era
già stata una Serba, Mileva Maric, che come
prima moglie di Einstein aveva scoperto la
Teoria della relatività assieme a lui. Perché
non poteva succedere anche a lei, Sanja,
qualcosa del genere? In ogni caso la
matematica era stata la passione di Sanja fin
dal principio, forse c’entrava anche che papà
Zoran avesse una laurea in Matematica. Nella
scuola di Varvarin era sempre la migliore,
sempre con un “dieci” in Mate. D’altro canto,
Sanja era tutt’altro che una bestia da lavoro.
Proprio per nulla. La mamma Vesna le diceva
sempre: “Sei il mio maggiolino pigro”, quando
si trattava dei lavori di casa. “Ti costruirò
poi una macchina – rispondeva Sanja – che farà
tutto premendo un solo bottone”. Ma a scuola
era attenta. E quando, a gennaio del 1998, al
termine del ciclo della scuola primaria di
otto anni, cominciarono le verifiche di
Matematica, lei rimase in cucina fino a tardi,
la sera. E mamma dovette sederle vicino, e
spesso s’addormentò al tavolo... Sanja si
ravvivava solo quando riusciva a risolvere
qualche problema difficile. Negli intervalli,
facevano assieme ginnastica. Sanja pensava,
come tutte le adolescenti, di dover dimagrire.
Comunque, agli esami andò così bene che nella
primavera del 1998 le riuscì il salto al
Ginnasio, e non uno qualsiasi, ma al “Ginnasio
Matematico” di Belgrado. Fu accettata senza
esame d’ammissione. Pensate: al Ginnasio! A
Belgrado! Senza esame d’ammissione! Tutti i
sogni si avveravano. Znam pricu o sreci, so
una storia sulla felicità.
Le prime settimane a Belgrado furono dure. Al
pensionato femminile “Jelica Milanovic”, la
sentirono spesso piangere, le parlarono, la
rassicurarono. Telefonava a casa ogni giorno.
Ciò la aiutava ad abituarsi. Peraltro, la
scuola le piaceva. Nessuno più le dava
fastidio alle spalle, perché la “secchiona”
sapeva tutto, come a volte succedeva a
Varvarin. A volte, non sapeva proprio tutto.
Allora gli altri allievi, piccoli geni della
matematica come lei, la aiutavano.
E dopo la suola, conquistavano la città,
strada per strada. Passeggiare e prendere un
gelato nella zona pedonale di Knez Mihajlova –
proprio quello che ci vuole dopo la fatica.
Quando c’erano un paio di dinari in più in
tasca, per comprare le eleganti cosucce:
Armani, Versace, Eccada, allora c’era proprio
tutto.
E poi, su al Kalemegdan – l’antica fortezza
turca – sulle mura si vede ancora qualcuno dei
patiboli, a cui furono appesi i Serbi ribelli.
Davvero terribile! In fondo alla Francuska,
giù dal colle, nel quartiere Skadarlija dei
musicisti, dove i Tamburaši spesso suonavano i
mandolini già nel pomeriggio – peccato solo
che mamma le avesse sempre ripetuto di tornare
presto al pensionato.
“Per te sono
un nulla le nostre pene,
Tu
getti nella polvere le nostre perle di
pianto,
Ma su
di te passano i tuoi mattini rosati,
Di
cui mi innamorai, giovane e lieto.”
(Milos Crnjanski, Elegia su Belgrado)
* * *
“Non voglio tornare a casa, mamma, non ci
sono abituata!”
“Tu devi, è troppo pericoloso!”
Già, dopo mezzo anno, nell’ottobre del ’98,
Vesna Milenkovic si riprese la figlia a
Varvarin. La NATO aveva presentato un
ultimatum alla Jugoslavia, e mobilitato
l’aeronautica. I primi colpi sarebbero stati
per la grande città, era chiaro. Sanja fece
come voleva la mamma. A Varvarin, lei
passeggiava, come prima, mano nella mano,
nonostante l’ansia. E poi, l’annunzio:
l’americano Holbrooke aveva concluso l’accordo
con Milosevic. Era andata bene anche stavolta.
Sanja tornò a Belgrado. Nel gennaio 1999,
apparve un’intervista a lei sulla rivista
“Nova Nada”, la si diceva una “speranza”. Nova
Nada vuol dire “speranza nuova”, e così pareva
anche Sanja, che sperava di nuovo nella sua
fortuna.
Ma sperava invano. “Non solo a Bruxelles,
cresce il numero di coloro che pensano che un
intervento militare nel Kosovo sia
inevitabile”, annotava il ministro tedesco
della Difesa, Scherping, il 17 gennaio ’99 sul
suo diario. Le notizie da Rambouillet non
suonavano favorevoli. Sul giornale comparivano
foto, più eloquenti dei comunicati infuocati:
la ministra degli Esteri americana abbraccia
Hashim Thaci, un terrorista affannosamente
ricercato da Belgrado. Il ministro degli
Esteri tedesco agita il pugno contro Milan
Milutinovic, il presidente serbo. Il 23 marzo
Vesna ebbe da un’amica a Paracin la notizia
dello stato d’emergenza. Con sua madre, la
sera stessa fu a Belgrado a caricare Sanja con
la sua roba sulla vecchia Mercedes del nonno.
All’una di notte del 24 marzo, avevano preso
tutto e partirono: poche ore dopo ululavano le
sirene di Belgrado, sopra la città rombavano i
bombardieri, gli F-16 e F-18
ultrasonici, gli F117 ritenuti invisibili, i
lenti e grossi A 10 con i loro proiettili
all’uranio, gli ECR Tornado tedeschi,
irraggiungibili per la contraerea jugoslava.
Per la prima volta, dopo la seconda guerra
mondiale, c’erano i Tedeschi a bombardare, per
la terza volta nel XX secolo c’erano loro ad
attaccare la Serbia. Nel viaggio di ritorno a
Varvarin, Vesna abbracciava forte la figlia:
“Ora sei al sicuro, figliola” – consolava così
Sanja.
“E’ un dato
di fatto irrevocabile, che noi stasera non
torneremo nel nostro letto, che domattina
non andremo a suola, che non sappiamo chi
dei nostri congiunti è ancora in vita, chi
dei compagni di scuola, degli insegnanti,
dei vicini, dei compagni di gioco di questo
o di quel quartiere. Tutto si annebbia nel
fumo che sale e nella crescente oscurità.
Nelle orecchie, il rumore degli aerei, le
giunture si scuotono sotto le esplosioni, i
colpi dell’aria si ripercuotono sotto terra,
la polvere turbina, e poi segue il rombo
della distruzione, che esce dagli spazi
sotterranei. Nella testa dei piccoli
spettatori nessun pensiero migliore, o più
utile che – fuggire, scappare, correre
lontano da questa malefica gara, nella quale
ognuno si sente come inseguito dalla coda di
un drago, a cui non si può sfuggire. Per la
prima volta, ci rendiamo conto della
completa vulnerabilità, dell’essere
abbandonati al male, contro cui nulla può il
nostro fragile corpo, oltre che andare in
pezzi, o scappare. Chi vuole, si rende conto
che Satana ha preso il sopravvento.”
(Miodrag Pavlovic, Gli usurpatori del Cielo)
* * *
Satana era lontano da Varvarin. Davvero era
impossibile figurarsi un rifugio migliore. Il
paese con i suoi 4000 abitanti è a circa 160
km a sud-est di Belgrado. La guerra lo aveva
allora solo sfiorato: un poliziotto di
Varvarin era stato ammazzato dagli albanesi
nel Kosovo, l’8 febbraio, in un borgo chiamato
Racak, che sarebbe in seguito diventato in
Occidente un sinonimo di assassinio, ma non
certo per l’uccisione di poliziotti serbi, che
in Occidente non interessavano nessuno.
La maggior parte degli abitanti sono
contadini, sono calzolai e sarti e panettieri,
un paio di medici e poi farmacie, osterie,
l’hotel Plaza. Industrie non se ne sono
insediate, tranne che per una piccola azienda
tessile che fabbrica stuoie per la Zastava.
Nel centro abitato e nelle sue vicinanze, non
ci sono installazioni militari, la più
prossima ne dista 22 km, ed è l’aeroporto di
Cuprija. L’unico combattimento nella storia di
Varvarin ha avuto luogo nel 1810, quando i
turchi hanno affrontato gli insorti Serbi.
Persino le due guerre mondiali hanno
risparmiato la cittadina. Solo nel 1944, i
nazisti hanno distrutto il ponte sulla Morava,
per ritardare l’avanzata dell’Armata Rossa.
Gli abitanti erano stati avvisati il giorno
prima. Tutt’altra cosa, nella vicina
Kragujevac: lì, fra il 18 e il 21 ottobre
1941, unità dell’esercito tedesco avevano
eliminato 7000 “comunisti, Ebrei e Serbi”, 100
per ogni soldato tedesco caduto, come dicevano
nel loro gergo. Fra gli uccisi, 300 studenti
del Ginnasio e 15 ragazzi fra gli otto e i
dodici anni. Il Museo, inaugurato nel 1976, è
stato visitato da cinque milioni di persone.
“Avvenne in un
paese di contadini
nella
Balcania montuosa:
una
compagnia di alunni
in un solo
giorno morì
di morte
gloriosa.
Cinquantacinque
minuti
prima che
la morte se li portasse via
sedevano
sui banchi di scuola
i ragazzi
della piccola compagnia,
e con lo
stesso compito assillante:
andando a
piedi, quanto
impiega un
viandante
e così via.
Erano pieni
delle stesse cifre
i loro
pensieri,
e nei
quaderni, dentro la cartella,
giacevano
assurdi innumerevoli
i cinque e
gli zeri
Stringevano
in saccoccia con ardore
una
manciata di comuni sogni,
di comuni
segreti
patriottici
e d'amore.
E ognuno,
lieto della propria aurora,
credeva di
poter correre molto
tanto
ancora
sotto
l'azzurro tetto rotondo
fino a
risolvere
tutti i
compiti di questo mondo.
Avvenne in
un paese di contadini
nella
Balcania montuosa:
una
compagnia di alunni
in un
giorno solo morì
di morte
gloriosa.”
(Desanka Maksimovic, Fiaba cruenta)
* * *
Che la Seconda guerra mondiale abbia
risparmiato Varvarin non vuol dire però che
abbia risparmiato la sua gente. Dal 1914 al
1918 persero la vita 2000 uomini e donne, la
metà degli abitanti. Durante l’occupazione
tedesca, dopo l’invasione del 1941, 2000
persone si rifugiarono nei boschi, con i
partigiani. 500 furono fucilati e impiccati
dai tedeschi. Nella riconquista della regione
del 1944, un ruolo importante lo ebbe la
Quarta brigata proletaria montenegrina, e il
suo comandante è ancora cittadino onorario di
Varvarin. Però, queste sono cose dimenticate
da molto tempo, la famiglia Milenkovic non
sapeva niente di questo cittadino onorario. La
Brigata proletaria, una cosa da veterani. La
Germania nazista, acqua passata. La guerra,
era la storia. Così pensavano tutti, prima del
1999.
Quando cominciò la guerra, il 24 marzo 1999,
subito fu bombardata Kragujevac, e la NATO
distrusse subito, fra l’altro, il Monumento
alla vittoria sui nazisti del 1941. Per
contro, niente accadde a Varvarin; in aprile e
maggio. La località è di nessuna importanza,
non solo per la strategia militare, ma anche
dal punto di vista del traffico: che va in
direzione del Kossovo, e in generale
verso sud, aggira il paese, se non vuole
perdere tempo. La strada E-75 conduce verso
est a Nis, la E-761 va a Krusevac, verso
ovest.
Il 30 maggio 1999 era un giorno caldo, con
cielo azzurro sulla Serbia centrale, ottimo
per il volo degli aerei della NATO. Già dal
mattino, provenienti dall’Adriatico, passavano
ad alta quota sopra Varvarin, o mostravano le
loro scie. Certamente, erano diretti, come nei
giorni e nelle settimane precedenti, verso
Novi Sad, o Nis, o Belgrado. Alle nove
ulularono le sirene a Varvarin, allarme aereo.
I più fecero spallucce. Routine. E in realtà,
non successe nulla. Tuttavia Vesna si
preoccupava. La Tanjug aveva riferito, due
giorni prima, che Milosevic, dopo nove ore di
discussione con l’inviato russo Cernomirdyn
aveva accettato le basi del piano di pace del
G8, cioè la condizione posta dalle sette
potenze industriali e dalla Russia. Però, il
26 maggio il Tribunale per i crimini di guerra
dell’Aja aveva reso note le sue accuse contro
lo stesso Milosevic. Chiaramente, c’erano
nella NATO degli elementi che non volevano la
pace con la Jugoslavia, se no con chi
avrebbero potuto accordarsi, se non con il suo
presidente?
“Mia cara, bada a te, a non tornare tardi a
casa!”, disse quel mattino la mamma a Sanja
che usciva. Le altre due ragazze ridacchiavano
e facevano i segni, anche le loro madri
l’avevano detto, lo dicono sempre tutte le
mamme. “Non essere ansiosa, mamma, chi
attaccherebbe un piccolo paese? E di domenica,
poi?” Tutte e tre si erano fatte belle, i
capelli alti con un po’ di gel e di lacca,
Sanja aveva preso la mattina il rossetto e
l’ombretto alla mamma. La T-shirt azzurra, i
pantaloni bianchi, le scarpe bianche da
ginnastica le stavano bene. Forse avrebbe
rivisto i ragazzi della vecchia classe? A
queste feste in chiesa qualcosa succedeva
sempre, anche adesso con la guerra, perché la
guerra era lontana, e poi era estate.
“Questa
estate nel ricordo di uno che qui la visse,
rimarrà come la più bella e radiosa estate a
memoria d’uomo, poiché nella coscienza essa
splende e vince contro un forte e oscuro
orizzonte di morte e di sventura, che si
estende fino ai confini dell’invisibile. E
questa estate nei fatti incominciò bene,
meglio di molte altre prima.”
(Ivo Andric: Il ponte sulla Drina)
* * *
La strada per la chiesa portava le tre ragazze
al ponte sulla Morava. Era stato fatto dopo la
Seconda guerra mondiale dalla Germania, come
riparazione per quello distrutto dai nazisti.
Tuttavia, questa compensazione non l’avevano
offerta direttamente i Tedeschi: erano stati i
sovietici, che avevano smontato un ponte nella
loro zona di occupazione in Germania, e
l’avevano donato al popolo jugoslavo fratello.
Esso era diritto e aveva la carreggiata
orizzontale su blocchi di calcestruzzo, niente
di straordinario, niente cavi sospesi, archi o
ornamenti marmorei, niente lampioni né
panchine. Il ponte aveva poche analogie con i
suoi fieri confratelli di New York, o con
quelli romantici di Parigi, o col “Ponte sulla
Drina” di Visegrad, di cui Ivo Andric nel suo
famoso libro: e comunque era un ponte, ed è
sempre un pochino eccitante che ci sia un
“sopra” – noi – e un “sotto” – loro. I ragazzi
ci passavano spesso. I giovani fischiavano
dietro alle ragazze e queste si toccavano la
fronte. Gli innamorati si appartavano nella
vegetazione della riva o dietro gli alberi,
con le foglie che sfiorano l’acqua e coprono
la vista. Quando Sanja e le sue amiche Marina
e Marijana arrivarono sul ponte, verso le
dieci di mattina, la Morava rumoreggiava sotto
di loro, come sempre. I molti anni di embargo
avevano fermato le industrie della zona e
tolto il lavoro alla gente, ma ora si poteva
ancora fare il bagno. La Jugoslavia era
diventata povera. Solo i pescatori erano
contenti che le fabbriche fossero ferme, senza
più scarichi nelle acque.
Tutte le domeniche, a Varvarin c’era il
mercato, e questa domenica, in più, sulla
piazza davanti alla chiesa, oltre il fiume,
c’era la Festa della Trinità, la Pentecoste
ortodossa. Da lontano, Sanja vide il
movimento, sentì il richiamo dei venditori, il
mercanteggiare dei compratori. Come sempre,
offrivano patate e frutta, gli ambulanti
eleganti straccetti, scarpe da ginnastica,
ogni genere di attrezzi. 3000 persone si
affollavano fra l’Hotel Plaza e la sponda del
fiume, forse anche di più. Le tre ragazze
andarono dapprima in chiesa, e Sanja accese
una candela. Il parroco predicava come a
Pentecoste lo Spirito Santo è disceso: quando
erano passati cinquanta giorni dalla
resurrezione di Cristo, venne un rumore dal
cielo, anche gli Apostoli pregavano uniti come
un’anima sola. Apparvero lingue di fuoco e
scesero su ciascuno di loro. E così furono
pieni di Spirito Santo. Le ragazze ne
ascoltavano volentieri, ma lo sapevano già.
Dopo la messa fecero visita ad un’amica e
bevvero un succo di frutta.
“Vieni, dobbiamo andare a casa, devo preparare
qualcosa per la nonna, che vuole fare una
torta”, spingeva Sanja le altre due. “Ma
perché, non è nemmeno l’una”, disse Marina che
non aveva voglia. Ma erano amiche e si tennero
insieme come sempre. Forse potranno tornare
ancora nel tardo pomeriggio alla festa? Dalla
chiesa al fiume ci sono solo 150 metri. Sul
ponte, delle ragazze vendevano roba usata,
scherzando sugli altri passanti, un ragazzo
sputò nell’acqua, e questo forse fu sbagliato.
Si guardarono un attimo, e non si resero conto
di quel che accadeva: due aviogetti volavano
su Varvarin verso nord e giravano oltre
l’orizzonte, tornavano da sud sopra la
cittadina, andavano verso est, completavano la
curva scivolando verso sud. Tornavano!
L’orologio al campanile della chiesa batteva
l’una. I genitori di Sanja trafficavano in
cucina, preparavano il pranzo festivo per
l’indomani. All’improvviso, sentirono una
potente detonazione. Zoran pensò ad un attacco
a Cuprija, Vesna lo sentì più vicino. Corse al
telefono, fece un numero locale – il telefono
era muto. Ciò significava che era stato
colpito il ponte perché il cavo vi scorreva
dentro. A Vesna mancò l’aria, il collo era
come stretto, suo marito Zoran dovette tenerla
su, perché non cadesse. Che fare? Andare giù
nelle cantine che avevano attrezzato come
rifugio d’emergenza? No, non senza Sanja.
Poiché Zoran aveva le gambe malconce per la
pallavolo, Vesna corse dalla vicina, la mamma
di Marina. A volte è difficile far partire
un’auto, se le mani tremano ma stavolta non ci
furono problemi, le due donne partirono con
gran stridio di gomme, verso la Morava. Per
strada scrutavano il viso di tutti quelli che
venivano in direzione opposta, c’erano tra
loro molti ragazzi, ma non Marina, non
Marijana, non Sanja. Nei pressi di Varvarin,
dei passanti confermarono che il ponte era
stato colpito, proprio quando s’erano viste
delle ragazze su di esso. Vesna si turbò, ma
si fece forza, accelerò. Ora, niente pensieri.
Cambiare le marce, usare la frizione, premere
sui pedali. Si trattò di secondi. Sul fiume
c’era un silenzio spettrale, scuro sull’acqua
per le nuvole di polvere causate dalle
esplosioni. Le madri gridarono i nomi delle
loro care: Marina, Marijana e Sanja.
“Il
magnifico paese... fu d’un colpo rimosso
come una sottile e ingannevole
cortina, e lì davanti stava il lupo con gli
occhi lampeggianti, con la coda
arrotolata, e i suoi denti erano
atteggiati ad sorriso amaro, più pauroso di
quanto la madre avesse mai immaginato. Ad
Aska si gelò il sangue e le gambe divennero
dure come legno. Le venne in mente che
avrebbe dovuto chiamare i suoi in soccorso,
aprì pure la bocca, ma nessuna voce ne venne
fuori. La morte le stava dinanzi, invisibile
e unica e pesante, crudele e
incredibile nella sua crudeltà”.
(Ivo Andric: Aska e il lupo)
Le automobili sul ponte facevano chiasso,
perciò le ragazze hanno sentito gli aerei solo
quando era troppo tardi. All’1.01 esse sono a
metà del ponte e vedono due caccia bombardieri
direttamente contro di loro. Dove andare ora?
Avanti o indietro? Il cervello matematico di
Sanja cede, il calcolo della traiettoria e
dell’angolo di incidenza dei colpi non sarebbe
riuscito neanche ad Einstein. Dio non gioca a
dadi. Forse ci aiuta un pochino? O Dio,
aiutami. I piloti sono ancora a 300 metri, a
100 metri, a queste distanze e col bel tempo
devono veder ogni cosa, il mercato, la piazza
della chiesa piena di gente, le auto sul
ponte. Lanciano due missili AGM 65, Sanja
ricorda la predica di poco prima, in chiesa:
“Venne un rumore dal cielo, mentre gli
apostoli riuniti pregavano come un’anima sola.
E apparvero lingue di fuoco, e ristettero su
ciascuno di loro. Ed essi furono colmi dello
Spirito Santo...”. Ma questo non è lo Spirito
Santo, pensa Sanja, questo è l’inferno. Sente
ancora un sibilo, quindi un urto pauroso la
scaraventa in aria. Si sente bruciare, un
intollerabile calore. D’improvviso è ben
leggera, si muove nell’aria.
Le bombe a guida laser tagliano il ponte nel
mezzo, esso si spezza, le ragazze cadono nel
vuoto, perdono conoscenza. Due o tre minuti
più tardi, Marina torna in sé, vede dapprima
la sua mano che sanguina, la gamba destra è
tutta fracassata sotto il ginocchio, la coscia
è collegata al corpo solo da brandelli di
carne. Dove sono le altre due? Marijana grida,
chiede aiuto. Cerca di issarsi sulla
massicciata, ma si accorge che dal braccio
viene fuori un osso e non ha più forza, Sanja
ha la mano sul petto, gli occhi aperti,
respira con difficoltà, vorrebbe dire
qualcosa, ma non ce la fa. Giace con le spalle
a terra, ferite non se ne vedono (i passanti
vengono a portare aiuto).
Dopo cinque minuti, qualcuno: “Tornano!” Sanja
guarda in alto, vede le scie di condensazione
e i due missili, che sibilando le vengono
contro, girando come ubriachi: questa è la
guida laser, ma Sanja non lo sa. Quel che
resta del ponte viene colpito di nuovo. La
seconda esplosione è ancora più forte della
prima, la si sente persino a Krusevac, a
sedici chilometri di distanza. Un pezzo di
calcestruzzo del ponte, grosso come un carro
armato, è lanciato cento metri lontano, nel
cimitero oltre la chiesa. Sanja scivola in
basso, la testa pendente, di poco sopra
l’acqua. Essa sente crescere un iceberg
dentro. Il bacino, la pancia, l’intestino sono
già ghiacciati. Adesso il freddo sale verso il
cuore. Dev’essere stato così quando è
affondato il Titanic, vicino al circolo
polare. Dov’è la lancia di salvataggio?
Improvvisamente vede Leonardo Di Caprio. E’
proprio lui, lui la salverà. Sanja sorride.
Znam pricu o sreci, io so una storia sulla
felicità.
Marina striscia verso Sanja, striscia
aiutandosi con i gomiti, le gambe fracassate
non le può più usare. Quindi, prende la testa
della ragazza svenuta, saldamente che non vada
sott’acqua. Prende una bottiglia dal sacco,
spruzza il viso di Sanja. Marina è lì accanto,
nell’acqua, ma la corrente è così forte, fa
presa anche sui lembi di carne che sono ancora
attaccati alla coscia, tanto che lei teme che
si strappi la gamba. Comunque la gamba si
piega sotto il carico, e fa male atrocemente.
Marina deve uscire dall’acqua, si attacca al
relitto del ponte. Lei e Marijana chiedono
aiuto, aspettano. Non succede nulla.
Finalmente sentono voci, le voci delle loro
madri.
Alcune ore più tardi è ancora chiaro e fa
caldo, otto corpi senza vita giacciono
all’obitorio di Varvarin, quasi tutti
crudelmente conciati. Vojkan Stankovic, gli
arti slogati, forse rotti. La gamba di Zoran
Marinkovic è troncata al bacino, qualcuno
gliel’ha adagiata per benino sulla spalla
sinistra, la scarpa lustra è ancora bene
allacciata. Le gambe di Milan Savic stanno
troncate sopra il ventre. Nel cranio di
Dragoslav Terzic c’è un buco. Al prete
Milivoje Ciric manca la testa, un pezzo di
ferro volante gliel’ha staccata. Sette degli
otto morti sono morti al secondo attacco. Così
anche Milan Savic: voleva prestare aiuto alle
tre ragazze nel fiume, un amico lo avvertì:
“Tornano, fanno sempre così, me l’hanno detto
amici miei di Belgrado”. Milan gli gridò:” Sei
un vigliacco, dobbiamo aiutarle!”. Furono le
sue ultime parole.
“Abbracciami
ora,
forte, come
solo tu sai fare,
e non
lasciarmi al nero uccello,
no, non
preoccuparti
tra un
attimo sarà finita
………
Mi spaventa
lo splendore di milioni di luci,
quando il
cielo si accende.
Dov’è una
fine,
per chi
hanno scavato una fossa profonda?
E’ l’uomo
che risolve un problema,
oppure no
ci siamo solo
per
l’equilibrio tra le stelle?
(Djordje Balasevic, Canto slavo)
* * *
Fra i morti all’obitorio Sanja non c’è. Dopo
che sua madre l’ha trovata, essa è stata messa
su di una tavola e portata da
un’autoambulanza. Ci sale anche Vesna. La sua
bambina non è cosciente, anche se muove gli
occhi, e la bocca è aperta. “Sii forte, ci
sono io con te”, dice Vesna. E al dottore:
“Faccia qualcosa, la giri sul dorso, non posso
restare a guardare come la mia bambina mi
muore tra le mani”. Dopo cinque minuti di
strada, Sanja chiude gli occhi piano piano. Il
medico ordina all’autista di cambiare
direzione e di prendere la guida
dell’ambulanza successiva. A Sanja viene
praticata un’iniezione di adrenalina, le
palpebre si muovono, gli occhi si riaprono.
Vesna sale su di un auto, l’ambulanza con
Sanja e il medico corre a Krusevac,
all’ospedale. Quando la madre arriva, un po’
più tardi vede uscire un medico da una
camerata, togliendosi i guanti. Come in un
film Vesna sa cosa vuol dire. “Voglio vedere
mia figlia”. “No, non è sua figlia è una
ragazza più grande, guardi pure”. Vesna si
precipita nella stanza, tra timore e speranza,
ma il terribile presentimento si avvera. Il
cadavere sul lenzuolo verde è la sua Sanja.
Vesna si slancia, si butta su Sanja, sente
qualcosa che batte. “Dottore, il cuore batte
ancora, non è morta”. Il dottore la allontana
delicatamente, la guarda negli occhi, abbassa
lo sguardo. “Sì”.
Molto più tardi Vesna siede sul sedile
posteriore della macchina, con Sanja tra le
braccia, come il 24 marzo, quando tornavano da
Belgrado, ma ora è tutto diverso. A casa, lava
e bagna la salma. Essa ha una ferita all’anca
sinistra, dal dorso alla gamba, e una
scheggia alla nuca. Frammenti del ponte sono
penetrati in tutto il corpo, nella schiena,
nelle gambe, persino nelle dita dei piedi.
Tutti gli organi interni sono stati colpiti,
soprattutto i polmoni. Sul davanti, il corpo
sembra intatto. Zoran procura una bara bianca.
Vesna cerca gli abiti preferiti di sua figlia
e glieli stende addosso. Vesna dice: “Non so
cosa farò senza di te”.
“Pilota: Ora lascio le nuvole. Non vedo ancora
nulla.
Base: Proseguite il volo. Rotta nord 4280
Pilota: Sono sotto 3000 piedi. Sotto, ho una
colonna di automezzi, una specie di trattori.
Cos’è? Chiedo istruzioni.
Base: Dove sono i carri armati?
Pilota: Io vedo trattori. Non mi pare che i
Rossi abbiano mascherato i carri armati da
trattori.
Base: Cosa sono queste storielle? Che
stupidaggini ci sono i Serbi di certo!
Distruggete l’obbiettivo!
Pilota: Che devo distruggere? I trattori? I
soliti automezzi? Ripeto: non vedo nessun
carro armato. Chiedo ulteriori informazioni.
Base: E’ un obiettivo militare! Distruggetelo!
Ripeto: distruggete l’obiettivo!”
* * *
Questi estratti dal traffico radio tra cabina
di guida e stazione di comando NATO
intercettati dalla contraerea jugoslava, si
riferiscono ad un altro attacco. Se anche a
Varvarin le cose sono andate così, non lo
sappiamo. La versione ufficiale della NATO è
incerta: “Due F16 hanno attaccato il ponte con
quattro bombe a guida laser di 2000 libbre,
molto ravvicinate. Il primo attacco ha
distrutto la parte centrale del ponte, il
secondo attacco ha demolito il resto”. Il
tenente Michael Kammerer, alla centrale per le
comunicazioni del Comando Supremo NATO per
l’Europa a Mons (Belgio meridionale),
responsabile per i rapporti con la stampa
tedesca, ha comunque ammesso che Varvarin era
“Un obbiettivo secondario”. In altre parole:
l’obbiettivo effettivamente scelto era già
stato distrutto e si era quindi cercato un
obiettivo di ripiego.
Nell’opinione pubblica occidentale sono state
formulate critiche a causa dei danni
collaterali del 30 maggio: La NATO li ha
giustificati, parlando di un “attacco
legittimo ad una linea di rifornimento
primaria dell’esercito serbo”. Il portavoce
NATo per la stampa Jamie Shea ha definito
Varvarin “Un obiettivo selezionato e
giustificato”.
Chi ha selezionato Varvarin come obiettivo da
bombardare? La NATO ha rifiutato a Reiner
Luyken della “Zeit” di fare il nome dei
piloti, e delle loro nazionalità. Il nonno di
Sanja è convinto che è stato un pilota tedesco
ad uccidere sua nipote. Un esperto di
questioni militari come John Erickson indica i
piloti americani, perché si sa che solo loro
hanno avuto “la competenza operativa
sull’impiego di armi a guida laser”. E chi ha
dato gli ordini ai piloti? Gli obiettivi di
ogni missione venivano stabiliti dagli
ufficiali responsabili al Combined Allied
Operations Command di Vicenza, in Italia. La
base erano le liste di obiettivi che, secondo
il “Washington Post”, aveva preparato il
Comando delle operazioni NATO, e che erano
state approvate dai capi politici degli stati
della NATO, da Clinton, Blair, Jospin e pure
Schroder. Si sa pure che il governo francese
in alcuni casi aveva posto il veto, con
successo, al bombardamento di obiettivi
civili, di qualche ponte sul Danubio. Nel
Diario di guerra del ministro Scharping si può
leggere che la scelta degli obiettivi era
costantemente all’ordine del giorno del
Consiglio della NATO. Poiché questo Consiglio
può decidere solo all’unanimità, anche il
Governo tedesco avrebbe potuto bloccare con il
suo “No” determinati attacchi.
Tuttavia, come ha detto il tenente Kammerer
all’autore della “Zeit” Luyken, gli obiettivi
secondari venivano definiti senza controllo di
tipo politico. Secondo Paul Beaver della
rivista specialistica “Jane’s Defense Weekly”
le coordinate di questi obiettivi di ripiego
erano comunicati dagli aerei radar Awac, cioè
dalle centrali di comando volanti. A bordo
c’erano anche ufficiali e specialisti
tedeschi. La SPD aveva tentato inutilmente,
nel 1994, di vietare questa partecipazione in
base alla Costituzione tedesca.
Anche l’allora ispettore generale della NATO,
Klaus Naumann, si è pronunciato molto
chiaramente sulla legalità, anzi sulle
necessità, del bombardamento di obiettivi
civili: “Dove colpisco in modo più efficace il
nemico? E cosa avrebbe fatto danni a
Milosevic? Non la distruzione di truppe al
suolo. Per un dittatore comunista, non importa
quanta gente muore. Ciò che lo tocca è la
perdita di quei mezzi che sostengono il suo
potere. Questi sono la polizia, il controllo
dei mezzi di comunicazione e sono i padroni
delle industrie che lo sostengono con i loro
soldi e naturalmente anche i loro impianti.
Quando noi abbiamo distrutto questi obiettivi
con precisione fantastica, allora è iniziato
il processo con cui l’abbiamo messo alle
strette”. “Precisione fantastica”? In 78
giorni di bombardamenti la NATO ha distrutto
solo 14 carri armati jugoslavi, ma ben 48
ospedali, 74 stazioni televisive e 422 scuole.
20.000 bombe a frammentazione ancora si
trovano chissà dove sepolte e possono
esplodere in qualsiasi momento. I resti dei
proiettili all’uranio irradieranno ancora per
molte migliaia di anni. Oltre 2000 civili
jugoslavi sono morti, un terzo dei quali
bambini.
Dopo la guerra il ponte di Varvarin è stato
ricostruito, con i soldi dei Serbi della
Svizzera. Il governo di Belgrado dell’epoca ha
istituito una Fondazione “Sanja Milenkovic”,
che aiuta studenti dotati per la matematica.
Per molto tempo Vesna ha continuato a dormire
nel letto della figlia morta. Non sa piangere
sulla tomba, per farlo va nella camera di
Sanja. Non si rallegra quando splende il sole,
le ricorda troppo l’assolato 30 maggio del
1999. Quando, tempo dopo, ha saputo che i suoi
genitori avevano avuto un grave incidente, è
rimasta calma. Se muoiono stanno con Sanja, ha
pensato. Per Marijana e Marina, la vita, in
qualche modo, continua, hanno ancora delle
schegge in corpo, che non possono essere
rimosse. Anche per Schroder e Fischer, la vita
continua, sono ancora al potere; Clinton, la
Albright, Scharping e Naumann si godono la
pensione.
Le vittime serbe dell’aggressione della NATO,
i sopravvissuti e i feriti di Varvarin
come la madre di Sanja, alla fine hanno fatto
causa al governo tedesco, per avere almeno un
rimborso materiale, per qualcosa che non è
rimborsabile. Essi hanno avuto il sostegno di
un piccolo gruppo di attivisti tedeschi,
guidato dall’uomo di affari berlinese Harald
Kampffmexer e da sua moglie Cornelia, che
hanno impegnato il loro patrimonio per il
finanziamento del procedimento. Ma questo
genere di bastian contrario non piace nel
paese dei vincitori, la stampa li ha molto
criticati. Ci vorrà una generazione, prima che
qualcuno se ne ricordi. E’ possibile che
allora gli sia concessa la Croce al merito
federale, post mortem.
L’accusa dei Serbi è stata respinta in prima
istanza, nel dicembre 2003, dal tribunale di
Bonn: sarebbe stato miracoloso un esito
diverso. Comunque ciò che è stato ottenuto, è
già tanto: la ragazza morta, e anche le
altre vittime senza nome sono state strappate
dall’oblio almeno per la durata del processo.
Ma doveva proprio essere così? In questa
dannata Germania non c’è una sola
amministrazione scolastica, un solo consiglio
di docenti, disposto a battersi, perché la
scuola porti il nome di Sanja Milenkovic? Non
c’è un prete cattolico, né un pastore
evangelico che il 30 maggio dica una messa per
Sanja Milenkovic o promuova una colletta per
le spese del processo? Nessun consiglio di
fabbrica, nessun gruppo di Verdi che decida
uno sciopero, o almeno un minuto di silenzio?
Una ragazza deve essere dimenticata, dopo
essere morta per l’unica ragione che era
Serba? Devono essere dimenticati i Serbi,
perché per tre volte nel XX secolo si sono
trovati sulla strada dei Tedeschi? Davvero, in
casa del boia, non si deve parlare di corda?
Allora, hanno ragione i Serbi di accusare con
le parole dello scrittore Pavlovic:
“Belle città
non ci saranno più
nel
nostro paese.
Lunghe
notti vogliamo e boschi fondi
dove
si veda anche senz’occhi.
Lasciateci
cantare e pensare su noi stessi,
ché
gli altri ci hanno scordati”
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