|
<<
Violenza sulle donne in Bosnia
... Il 1993 è ... l'anno
delle "rivelazioni" di Roy Gutman, giornalista
destinato a vincere il Premio Pulitzer, sui "campi
di sterminio", e del Ministro degli Esteri
bosniaco-musulmano Haris Silajdzic sulle "decine
di migliaia di donne musulmane fatte oggetto di
violenza sessuale a scopo di pulizia etnica"
(dichiarazione rilasciata alla Conferenza di Pace
di Ginevra). Nell'ottobre 1993 la Commissione ONU
per i crimini di guerra sarà in grado di contare
in tutto 330 casi di stupro, relativamente cioe' a
tutte e tre le parti in conflitto... (fonte)
Il Manifesto, mercoledì 17 febbraio
1993
Jela e le altre
JEANIE TOSCHI M. VISCONTI *
Dalla Bosnia Erzegovina, storie di
donne violentate dal «nemico». Lo stupro di
un' «etnia» che è solo quella degli indifesi
Un comitato di donne deputate al Parlamento
europeo, dopo un viaggio nella ex-Jugoslavia, ha
presentato lunedì 1 febbraio una proposta per
ottenere il riconoscimento dello stupro come
crimine di guerra e violazione dei diritti
umani. Fino ad oggi era stato sempre ritenuto un
semplice incidente implicito alla guerra. Mentre
i soldati sono garantiti dagli accordi di
Ginevra per i prigionieri di guerra, le vittime
più evidenti di un conflitto non sono protette
da alcuno statuto ufficiale che preservi i loro
diritti di esseri umani. Le violenze
sistematiche contro le donne in
Bosnia-Erzegovina hanno finalmente portato il
problema dell'attenzione del consesso europeo.
Sembra un racconto medievale, ma si svolge oggi
e poco lontano da noi: odii e vendette che per
50 anni il regime di Tito aveva sopito sono
riscoppiati con tutta la violenza latente in
popolazioni che vivono con il peso di un tragico
e sanguinoso passato. Le tre etnie della Bosnia,
i musulmani (in grande parte serbi convertiti
all'Islam durante i 500 anni di impero
ottomano), i croati cattolici e i serbi
ortodossi si sono ritrovati, indietro nel tempo,
alla fine della seconda guerra mondiale, al
ricordo di tutte le atrocità che gli uni avevano
perpetrato sugli altri, culminate con lo
sterminio di centinaia di migliaia di serbi
da parte del regime fascista croato
di Ante Pavelic.
Figlio del nemico
I fantasmi di famiglie barbaramente trucidate,
le torture, lo stupro sono ritornati ad essere
una realtà. Per antica tradizione quest'ultimo è
sempre stato praticato come mezzo per colpire il
nemico: violentano la donna per oltraggiare
l'onore dell'uomo e se rimane incinta il
risultato è raggiunto.
Una serba, una musulmana e una croata daranno
vita ad un nemico, poiché è tradizione che il
figlio prenda l'etnia del padre. Siamo però nel
profondo dell'inconscio storico collettivo,
qualcosa di poco programmabile a tavolino e
razionale politicamente come invece sembrerebbe
denunciare la commissione Warburton della
Cee, contraddetta da Amnesty International,
dai medici dell'Onu e dal Comitato
internazionale della Croce rossa
che, nell'infamia del crimine di guerra
rappresentato dallo stupro, non individuano il
meccanismo della «pulizia etnica».
Almeno per un motivo: le donne, cosiddette
«musulmane» violentate in Bosnia Erzegovina, da
un punto di vista etnico altro non sono che
donne serbo-slave, appartengono insomma anche
loro alla stessa etnia dei violentatori
serbo-bosniaci. Senza dimenticare che il tema
dello «stupro etnico» è stata una menzogna
alimentata per la prima volta proprio dai serbi
che l'hanno utilizzata per disattendere ancora
le aspirazioni degli albanesi del Kosovo.
Continuare ad alimentare la denuncia dello
stupro legandola al di scorso della «pulizia
etnica», riduce la portata del grido di denuncia
necessario contro gli orrori della guerra in
corso nell'ex Jugoslavia e rischia di far
dimenticare che in questa guerra di uomini
l'unica vera «etnia» realmente violentata è
quella delle donne e degli indifesi, i bambini e
gli anziani.
Ma veniamo ai fatti. E i fatti si svolgono
sempre nello stesso modo: le avanguardie
paramilitari, le più dure, conquistano una
località, stuprano le donne, nel migliore dei
casi, altrimenti le prendono come ostaggi
chiudendole in palestre o scuole nelle immediate
retrovie del fronte dove le tengono a
disposizione delle truppe. E questo avviene
sistematicamente ad ogni spostamento della linea
dei combattimenti. Spesso delle poverette sono
state stuprate dall'ex vicino di casa o dal
compagno di scuola trasformatosi in implacabile
persecutore.
Nessuno è fuori
Quando una donna, ostaggio in uno di quei luoghi
di «detenzione», resta incinta, i suoi
carcerieri la trattengono fino a superare il
numero di mesi necessario per rendere l'aborto
impossibile.
Di questa flagrante violazione dei diritti della
donna nessuna etnia è innocente, lo provano il
Caffé Monika, l'Hotel Zagreb a Sarajevo,
Bosanski-Brod, il Campo di Zenica, di Konjic in
mano ai musulmani; scuole e palestre di Orasje,
Odzak, villaggi tenuti dai croati; motel sulle
alture intorno a Sarajevo, a Brcko, Derventa in
territorio controllato dai serbi.
Questa, come tante altre, è la storia di Jela,
una ragazza serbo-bosniaca di Brcko, infermiera,
28 anni, intelligente, parla un buon inglese.
Appena divorziata, dopo pochi anni di
matrimonio, si era regalata una vacanza in
Germania presso una zia. Il 30 gennaio 1992 al
suo rientro a casa, l'autobus su cui viaggiava
veniva fermato a Slavonski Brod, al confine fra
Croazia e Bosnia. Fatta scendere con gli altri
passeggeri e costretta a consegnare il
passaporto, veniva dichiarata prigioniera di
guerra.
Alcuni ustascia (gruppo paramilitare
croato del leader di estrema destra di Paraga)
la portavano in una palestra di Slavonski Brod,
vicino ad una raffineria, dove si trovavano 500
donne fra i 15 ed i 60 anni. Durante le prime 24
ore aveva dovuto subire un interrogatorio,
durante il quale, spogliata dei vestiti, era
stata insultata, picchiata e più volte
violentata dagli uomini presenti.
Con voce calma e distaccata, inframmezzata da
profondi sospiri, Jela ha descritto gli abusi e
le sanguinose violenze subite e quello di cui
era stata testimone durante il periodo di
detenzione.
Particolarmente drammatica, ha sottolineato, era
la condizione di terrore in cui vivevano le
donne giovani e senza esperienza. Spesso
dibattendosi e urlando avevano provocato l'ira
del loro aguzzino fino a venirne uccise.
Rinchiuse nella palestra, le prigioniere erano
sempre a disposizione dei soldati. Fra questi,
ha raccontato l'infermiera, i più giovani erano
restii ad approfittarsi di loro ma venivano
convinti dal pesante scherno e dall'esempio
degli anziani.
Alla fine del mese di aprile, incinta, Jela
veniva spostata con altre 50 donne a Bosanski
Brod oltre il confine bosniaco in territorio
musulmano. Anche qui aveva dovuto subire un
«interrogatorio» nelle prime 24 ore.
In seguito la vita aveva ripreso come prima.
Jela aveva notato una differenza nel
comportamento dei musulmani e dei croati: mentre
i primi soddisfacevano dei «semplici» bisogni
fisiologici, gli altri abusavano delle
prigioniere aggiungendo pesanti insulti e
torture fisiche. Spesso obbligavano degli
anziani serbi a presenziare allo stupro delle
loro donne, obbligandoli ad annusare e leccare
il risultato dello scempio.
Storie di crudeltà
In agosto Jela fu scambiata con altri
prigionieri, arrivò a Belgrado dove chiese
immediatamente di abortire pur essendo al
settimo mese. I medici rifiutarono e in ottobre
diede alla luce una creatura che abbandonò senza
nemmeno conoscerne il sesso.
Dopo un periodo di supporto psicologico, Jela ha
trovato un lavoro ed un alloggio a Belgrado. Non
è più tornata a casa perché non vuole che la
famiglia sappia la verità sulla sua prigionia.
Ripensando all'accaduto, sostiene di essersi
salvata dal peggio probabilmente perché era
un'infermiera, aveva già conosciuto un uomo e
soprattutto era riuscita a separare la mente dal
corpo. Per le più giovani senza esperienza le
brutalità continue a cui venivano sottoposte
causavano tali crisi di disperazione da
rasentare la follia. Jela, ora, vuole soltanto
dimenticare.
Un altro caso penoso è quello di una vecchia
contadina di Urbovacki Lipik, un villaggio
vicino alla zona del fronte croato.
Nel maggio 1992 l'anziana donna viveva con la
figlia e due nipotine. La località dove si
trovava il suo paese era esposta alle continue
avanzate e ritirate dei gruppi paramilitari
delle diverse fazioni. Così una prima volta
degli ustascia presero sua figlia e
l'ammazzarono, alcuni giorni dopo, altri
entrarono in casa e presero la nipotina di 10
anni, minacciando di portarle via anche la
piccola di sei anni.
Tra le lacrime la donna ha raccontato come è
stata ritrovata, ore dopo, la nipote
semi-stuprata e in stato di shock. Da allora la
bambina è ricoverata in ospedale a Zrenjanin.
A Belgrado, il dottor Slobodan Jaculic,
direttore del maggiore ospedale
neuropsichiatrico jugoslavo, il Lazar
Lazarevic, negli ultimi mesi ha visitato
nel reparto di psichiatria d'urgenza oltre 100
donne stuprate.
La maggiore difficoltà consiste nel riuscire a
far parlare queste donne; quasi tutte negano
disperatamente il fatto per timore della
famiglia o della gente. In caso di gravidanza,
tutte indistintamente vogliono abortire. Quando
non è possibile abbandonano la creatura appena
nata, incapaci di sopportare la vista della loro
onta vivente.
Logicamente ogni donna reagisce in modo diverso
alla violenza: le donne sposate hanno maggiore
possibilità di superare il trauma, molto
difficile e delicato per le più giovani che si
sono trovate a subire brutalità inimmaginabili.
In questo caso il recupero diventa lungo e
difficile.
Al momento il reparto ospitava 4 casi di cui 2
molto gravi se non irreversibili.
Da Sarajevo era giunta pochi giorni prima
una studentessa di architettura di 24 anni.
Esile, delicata, in un buon inglese ha detto di
ignorare la ragione del suo soggiorno in
ospedale. Alcuni mesi prima, uscendo di casa per
trovare del cibo, era stata stuprata sotto il
portone. La famiglia dopo qualche tempo si era
insospettita vedendola uscire spesso come
attirata da qualche cosa che la terrorizzava ma
a cui non poteva sottrarsi. Era diventata
anoressica e aveva tentato più volte di
togliersi la vita senza dare mai una spiegazione
sulle cause del suo profondo sconvolgimento.
Il caso di B., 22 anni, una ragazza di
Brcko (la cittadina che si trova lungo il
corridoio serbo fra il fronte croato e quello
musulmano, teatro di feroci combattimenti) è
forse il più sconvolgente.
Errava fra rovine
Era stata trovata dalle avanguardie serbe mentre
errava in stato di stupore fra le rovine con gli
abiti strappati. B. era stata testimone
dell'uccisione della sua famiglia e stuprata
numerose volte. Ora, ischeletrita, senza età, lo
sguardo vacuo, giaceva legata per i polsi al
letto. Ripeteva con voce strozzata il proprio
nome come se chiamasse qualcuno assente. Aveva
tentato numerose volte di soffocarsi mettendosi
ambedue le mani in bocca. Per lei ci sono poche
speranze di ripresa perché la realtà la
terrorizza.
Davanti alla disperazione muta di queste ragazze
vittime di una violenza barbara e cieca ci si
rende conto dell'importanza che lo stupro venga
ufficialmente riconosciuto come un crimine di
guerra e che coloro che l'hanno perpetrato
vengano giudicati e condannati.
Per fare questo, però, bisogna che tutte le
donne che hanno subito questo oltraggio abbiano
il coraggio di parlare e indicare i colpevoli.
Questo si augurava il deputato europeo
Anna-Marie Lizin, membro della commissione
presieduta da Simone Weil, durante un dibattito
sui diritti dell'uomo alla Radio televisione
belga.
Soprattutto le donne musulmane, che in maggior
numero sono state vittime di questo crimine
devono trovare il coraggio di parlare sapendo di
poter contare sull'aiuto di un équipe di dottori
e di donne pronte ad ascoltarle ed aiutarle.
Allo stesso tempo un organismo apposito si
occuperà di trovare una famiglia a tutte quelle
povere creature abbandonate prima ancora di
venire al mondo che non dovranno conoscere mai
la loro tragica origine. Così l'Europa cerca di
riparare le proprie mancanze verso la
Bosnia-Erzegovina.
* coautrice dei libro sulla crisi
jugoslava «Il tempo del risveglio», edito in
Francia da «L'Age de l'homme» '92, scritto
insieme a Daniel S. Schiffer, collaboratore
del premio Nobel per la pace Eli Wiesel.
>>
|
|