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ROSSO XXI°

Periodico del Movimento per la Confederazione dei Comunisti
http://www.confederazionecomunisti.it/ROSSOXXI.htm
N° 12 - SETTEMBRE 2002

IL "PROCESSO MILOSEVIC" E L'IMPERIALISMO

di Aldo Bernardini
(terza parte)

(La prima e la seconda parte sono state da noi ricavate dall'unico lungo
articolo apparso sul n° 11 di Rosso XXI - che si trova alla URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo.htm
La quarta ed ultima parte segue invece nel prossimo messaggio. CNJ)



5. Si sarebbe solo dovuta attendere la prossima crisi, già
programmata, perché ordita da tempo nei quartieri generali
occidentali, nell?intento pervicace di combattere la
(restante) Jugoslavia, uno Stato indipendente e sovrano,
sottraendo ad essa foglia a foglia parti del territorio, e
con l?ulteriore obiettivo parimenti illecito di provocare
mutamenti nella sua dirigenza, refrattaria - con pieno
diritto - a rendersi subalterna agli Stati dominanti, a
differenza da quelle delle Repubbliche secessioniste
(fallirono allora in definitiva i tentativi di porre anche
alla testa della Jugoslavia governanti Quisling del tipo di
Milan Panic, all?epoca neppure cittadino jugoslavo, che la
pressione occidentale era riuscita a far nominare primo
ministro federale il 14 luglio 1992, ma che nelle elezioni
presidenziali serbe del 20 dicembre dello stesso anno, come
visto, aveva perduto di larga misura nei confronti di
Milosevic e dové abbandonare la scena jugoslava).
Come da copione ormai sperimentato nella graduale distruzione
della Jugoslavia, gli Stati occidentali si sono inseriti
nella crisi del Kosovo, fomentando al solito e sostenendo in
tutti i modi le spinte secessionistiche di una parte della
componente albanese, sempre in nome di un distorto concetto
di autodeterminazione. Qui va spesa una parola per
rettificare un?altra delle tante vulgate occidentali:
l?autonomia del Kosovo, provincia autonoma della Repubblica
serba, a sua volta membro federato della Jugoslavia, non era
stata annullata nel 1989, bensì solo riportata alla misura
pre-Costituzione federale del 1974, che - lo abbiamo già
visto - l?aveva ampliata in modo non compatibile con lo
status di entità autonoma di secondo grado (provincia, non
Repubblica federata): una situazione, della quale parte della
componente albanese, stimolata anche dall?esterno, aveva
profittato per pretese secessionistiche pure condite con
episodi di terrorismo. Va qui menzionato che uno squilibrio
demografico tra serbi e albanesi, a favore di questi ultimi,
in Kosovo, una ?regione? storicamente legata alla Serbia pur
fra travagliate vicissitudini, era stato accentuato durante
l?occupazione fascista nella seconda guerra mondiale e non
riparato, anche per esigenze di politica internazionale, da
Tito nel dopoguerra. Appunto nel regime della Costituzione
del 1974 di autonomia quasi repubblicana i kosovaro-albanesi
sviluppano una politica, anche con episodi di violenza (nel
1981, poco dopo la morte di Tito, i primi gravi moti vengono
repressi con il concorso delle stesse autorità
kosovaro-albanesi), che squilibra ulteriormente il rapporto
(dal 27,5% del 1948 i serbi cadono nel 1981 al 13,2%). In
situazioni del genere, e purché vi sia un regime di
autonomia, la maggioranza di una ?regione? non acquisisce
peraltro sul piano internazionale un ?diritto di
autodeterminazione?, nel senso della secessione (si pensi
all?Alto Adige-Sud Tirolo).
Apparve inevitabile, nell?aggravarsi delle tensioni in Kosovo
e fra i già forti segnali di disgregazione nella Jugoslavia,
la modifica costituzionale del 1989: ma questa avvenne, sulla
base costituzionale jugoslava dell?epoca (fu in particolare
accettata, il 23 marzo, dall?assemblea provinciale kosovara -
pur se qualcuno ha rilevato forzature - e, il 28, da quella
repubblicana serba): non dunque, come si pretende, solo
decisione serba e addirittura del solo Milosevic; ed essa
riguardò poi anche, ovviamente, la Vojvodina (Costituzione
serba del 1990). Del resto, fu la presidenza federale a
decretare, il 12 maggio 1989, lo stato di emergenza nel
Kosovo. Che anche da parte dei serbi possano esservi stati
errori ed eccessi, non può negarsi: che una restrizione
dell?autonomia precedente quasi repubblicana sia stata
risentita sfavorevolmente da gran parte della componente
kosovaro-albanese, può essere comprensibile. E? un fatto però
che la sostanza dell?autonomia per questa componente restò in
vita e che soltanto (e di nuovo!) un eccesso di umori
nazionalistici - interni, ma ancora eccitati e favoriti
dall?esterno - spinse larga parte della componente
kosovaro-albanese a non avvalersi degli istituti di
quell?autonomia, bensì a rifugiarsi in istituzioni
?parallele? (si arrivò, dopo vari passi, alla proclamazione,
da parte della maggioranza dell?assemblea di Pristina, della
?separazione politica? dalla Serbia, con la conseguenza dello
scioglimento - 5 luglio - dell?assemblea stessa per decisione
delle autorità serbe, che assunsero i pieni poteri nella
provincia; l?assemblea però formalmente sciolta si riunì in
località segreta, e si arrivò a una ?Costituzione? del Kosovo
approvata dagli albanesi il 7 settembre e alla proclamazione
del Kosovo come repubblica sovrana il 12 settembre 1990 e
quindi, il 22 settembre 1991, alla dichiarazione
dell?indipendenza del Kosovo stesso confermata da un
referendum nella componente albanese tra il 26 e il 30
settembre, con successive elezioni di un parlamento e di un
presidente - Rugova, 22 maggio 1992 -, il tutto ovviamente
fuori dal quadro costituzionale jugoslavo). Si trattò di
operazioni anch?esse sostenute dall?esterno: tutto ciò
certamente non fonda sul piano giuridico un ?diritto di
autodeterminazione?. E? vero che neppure ne risultò favorita
la pacificazione: seguirono tensioni e incidenti e misure
jugoslave ?di ordine pubblico?, anche fortemente restrittive.
Ma ciò non avrebbe consentito agli occidentali di arrogarsi
di entrare in una questione interna di uno Stato sovrano -
tale certamente: così viene considerata per la Russia, ad
es., la questione cecena, per la quale gli occidentali hanno
rinunciato a velleitarie ingerenze, almeno sul piano
ufficiale, e si tratta di una questione che presenta
fortissima analogia con quella del Kosovo -, cercando di
ostacolare gli sforzi jugoslavi di comporre la crisi anche
con l?inevitabile impiego dell?esercito federale:
retrospettivamente, secondo quanto chi voleva vedere già
sapeva, ma che oggi si impone a tutti, dovendosi riconoscere
che perdite umane e danni sarebbero stati infinitamente
minori senza l?azione degli occidentali. Ma non era il minor
danno la finalità dell?ingerenza. Dobbiamo comunque ricordare
che il II Protocollo del 1977, aggiunto alle Convenzioni di
Ginevra del 1949 sul diritto di guerra, e mirante ad
estendere i trattamenti umanitari ai ?conflitti interni?,
vieta espressamente qualunque ingerenza e intervento esterno
pur motivato da asserite violazioni del Protocollo stesso.
Non possiamo ripercorrere le tappe di un?azione ancora una
volta criminalmente illecita. Basta segnalare il salto
qualitativo della trasformazione, proclamata a un certo punto
dagli Stati occidentali, dell?organizzazione paramilitare
secessionistica kosovaro-albanese, per lungo tempo
stigmatizzata come terroristica, e cioè l?Uck (Esercito per
la liberazione del Kosovo - o Kosova, secondo la dizione
albanese) - notoriamente da sempre finanziata da ambienti
occidentali -, in organismo di lotta per
l?autodeterminazione! Prime azioni terroristiche dell?Uck con
uccisione di serbi in Kosovo vengono segnalate già
nell?aprile 1996.
Non va dimenticato che, a partire da metà anni ?90, su spinta
del Partito socialista e di Milosevic, era stata arrestata,
almeno in Serbia, l?ondata liberistica in economia che, ai
primi del decennio, aveva investito anche la residua
Jugoslavia: venne sostituito l?ultraliberista banchiere
centrale Abramovic, lo Stato riprese il controllo
dell?industria farmaceutica, colpendo interessi in
particolare americani e così via.
E? in questo contesto che il Consiglio di sicurezza (C.d.s.)
riprende ad occuparsi della Jugoslavia: precisamente, della
questione interna del Kosovo, della c.d. guerra civile, in
realtà attività terroristica. E? noto che soprattutto dal
1998 la guerriglia dell?Uck albanese - che la Jugoslavia nel
1997 aveva quasi risolto - si intensificò, sotto precise
spinte occidentali (si ricordi la nota Védrine; e la
dichiarazione di Madeleine Albright del 9 marzo 1998, per cui
?la questione del Kosovo non è affare interno della
Jugoslavia?!). La reazione jugoslava fu in linea di principio
assolutamente legittima: è peraltro verosimile che in alcuni
casi, soprattutto da parte dei gruppi paramilitari, vi
possano essere stati degli eccessi anche gravi, del resto
controbilanciati da azioni di parte kosovaro-albanese. Nel
1998 furono prese talune risoluzioni del C.d.s. che, nel
complesso, condannavano contemporaneamente l??uso eccessivo
della forza? ad opera della polizia jugoslava e gli atti di
terrorismo di parte albanese e definivano i principi per una
soluzione della questione del Kosovo, un?operazione che, al
di là del merito, appare formalmente un?ingerenza nei fatti
interni jugoslavi (si trattava comunque della riaffermazione
dell?integrità territoriale della Jugoslavia e di un maggior
livello di autonomia per il Kosovo): fino alla ris. 1203 del
24 ottobre 1998 che ribadiva la condanna degli atti di
violenza da ogni parte e l?esigenza di impedire una
catastrofe umanitaria e prendeva poi atto di accordi firmati
il 16 ottobre 1998 da Jugoslavia e OSCE e il 15 ottobre 1998
da Jugoslavia e NATO, relativi alla verifica degli
adempimenti jugoslavi. Si sottolineava da ultimo l?urgenza
che Jugoslavia e dirigenti albanesi del Kosovo entrassero in
un dialogo effettivo senza precondizioni e con coinvolgimento
internazionale per una soluzione politica negoziata della
crisi. Quest?ultima clausola si riferisce a futuri negoziati,
che saranno poi quelli tragici e grotteschi di Rambouillet:
fu naturalmente allarmante l?imposizione del ?coinvolgimento
internazionale?, che preparò l?ingerenza dei ?soliti noti?
con le conseguenze estreme che si sono poi avute.
E? un fatto che la Jugoslavia iniziava ad adempiere le
esigenze prospettate, per quanto, ribadiamo, secondo noi, a
suo danno illecite: ma l?Uck profittò del ritiro delle forze
jugoslave per riprendere e rafforzare le sue posizioni. Fu
questo che costrinse la Jugoslavia ad un?azione di
contenimento e di controffensiva.
In un clima di tensione e di totale partigianeria dei
?dominanti?, anche della stessa missione OSCE (si scatena una
campagna per l?asserito eccidio di Racak del 5 gennaio 1999,
dove si svolse un combattimento, e si ebbero 45 morti
albanesi, a proposito del quale successivamente emergeranno
elementi di grave mistificazione ai danni degli jugoslavi),
riprende l?esorbitante pressione occidentale e si aprono le
c.d. trattative di Rambouillet fra i principali Stati NATO
(il Gruppo di contatto), la Jugoslavia, i dirigenti
secessionisti kosovaro-albanesi (da parte occidentale si
parla sempre di ?accordo? di Rambouillet, pur se nessuna
formale conclusione vi sia stata: sembra patetico dover
segnalare gli abusi sinanco linguistici provenienti da quella
parte). La Jugoslavia si dimostrò pronta ad accettare molte
delle clausole del regolamento progettato (si direbbe meglio,
comminato dai ?soliti noti?): questo sfociò in una bozza di
accordo del 23 febbraio 1999, nella quale furono inserite
all?ultimo momento condizioni assolutamente inaccettabili,
quali una, sia pur larvata nei termini, prefigurazione di un
distacco del Kosovo dalla Jugoslavia (nonostante una formale
dichiarazione di principio sul rispetto dell?integrità di
questa) e la completa libertà di ingresso e circolazione,
addirittura con totale esenzione giurisdizionale, delle forze
NATO - a quell?organizzazione veniva affidato il compito di
costituire e guidare una forza militare multinazionale per
assicurare l?adempimento dell?accordo - in tutto il
territorio della Federazione jugoslava: un?occupazione cioè
dell?intero Stato. Il rifiuto di firma da parte jugoslava,
veniva espressamente detto, sarebbe stato sanzionato con
bombardamenti. Dunque, un diktat che si commenta da solo.
La Jugoslavia non si piegò: un rifiuto inevitabile e, va
detto senza esitazioni, eroico.
I selvaggi bombardamenti aerei scatenati dal 24 marzo 1999
sulla Jugoslavia da parte di 10 Stati della NATO agenti nel
quadro dell?organizzazione atlantica, durati 78 giorni
(operazione Determinate Force, marzo-giugno 1999) provocarono
perdite umane civili jugoslave (anche kosovaro-albanesi!),
distruzioni, catastrofi ambientali, pure con l?uso di
proiettili all?uranio impoverito (e dunque clamorose ferite
anche dello jus in bello, concretanti crimini di guerra e
contro l?umanità da parte degli Stati NATO e dei loro
dirigenti, sono stati iniziati persino senza l?avallo formale
del C.d.s., che non venne neppure previamente convocato. I
piani NATO erano già stati elaborati dal giugno 1998; nel
gennaio 1999 il segretario generale Solana dichiarò che la
NATO avrebbe potuto colpire senza preavviso (quindi, anche ad
esclusione delle N.U.). Si deve sottolineare che le ultime
risoluzioni del C.d.s. sulla questione non avevano sancito in
alcun modo il ricorso alla forza e consideravano ugualmente
responsabili le due parti del conflitto civile. Una riunione
del 26 marzo 1999, due giorni dopo l?inizio dell?aggressione
aerea, vedeva i delegati statunitense e britannico
giustificare i bombardamenti al fine - come dichiaravano - di
prevenire ?un?enorme catastrofe umanitaria?, che ambedue
riconoscevano però non in atto, bensì ?imminente?. Era facile
per il delegato russo esprimersi in questi termini: ?i membri
della NATO non hanno titolo per decidere il destino di altri
Stati indipendenti e sovrani. Non devono dimenticare che non
sono soltanto membri della loro alleanza, ma anche membri
delle N.U. e che hanno l?obbligo di ottemperare alla Carta
delle N.U., in particolare all?art. 103, che chiaramente
stabilisce l?assoluta priorità, per i membri, degli obblighi
della Carta su ogni altro obbligo internazionale. I tentativi
di giustificare gli attacchi NATO con argomenti sulla
prevenzione di una catastrofe umanitaria sono del tutto
insostenibili. Essi non sono basati in alcun modo sulla Carta
o su altre norme generalmente riconosciute dal diritto
internazionale, mentre l?uso unilaterale della forza condurrà
precisamente a una situazione con conseguenze umanitarie
veramente devastanti??. Quanto al delegato indiano, rilevava
che ?ciò che è particolarmente irritante è che tanto il
diritto internazionale quanto l?autorità del C.d.s. vengono
irrisi da paesi che pretendono di essere campioni della norma
di diritto e che includono membri permanenti del C.d.s., il
cui interesse principale dovrebbe senza dubbio risiedere
nell?incrementare piuttosto che nel minare la preminenza del
C.d.s. nel mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali?. Da queste dichiarazioni si intende la
ragione reale dello scatenamento unilaterale: la facile
previsione che l?enormità di quanto si intendeva compiere e
che Rambouillet aveva lampantemente svelato agli occhi del
mondo, facendo intendere a chi non si chiudesse gli occhi che
ben altre erano le finalità dell?azione di violenza rispetto
a quelle ?umanitarie? gabellate, non avrebbe con tutta
probabilità consentito al C.d.s. di decidere nel senso che da
parte occidentale si voleva imporre. Il pretesto sbandierato
era stato, come detto, un?asserita catastrofe umanitaria, che
sarebbe stata provocata dall?azione jugoslava: dimenticandosi
che questa era in principio assolutamente legittima (ne fa
fede il già ricordato II Protocollo del 1977), pur forse con
eccessi dolorosi inevitabili in un conflitto interno, per di
più attizzato da fuori, ma attribuibili ad ambo le parti, gli
aggressori si fondarono sul pretesto di una catastrofe che a
quanto oggi si sa altro non fu che fola artificialmente
propalata e che nella sua realtà venne piuttosto provocata
dai bombardamenti aerei: riferire la tragedia dei profughi a
diabolici piani jugoslavi piuttosto che ai barbarici
bombardamenti NATO e magari a contromisure jugoslave di
guerra o anche a reazioni sempre jugoslave in episodi singoli
in sé talora non giustificabili, ma difficilmente
controllabili nel caos suscitato dall?aggressione aerea,
appare di un cinismo smisurato.
Un?aggressione, dunque, mascherata da intervento
?umanitario?, una figura tipica dell?epoca coloniale e
respinta dal diritto internazionale e dalla stessa Carta
delle N.U., nonostante correnti capziose interpretazioni
contrarie.
E? probabile ci si illudesse su un collasso jugoslavo dopo
tre o quattro giorni di bombardamenti. Ma certo ha avuto peso
il ricatto della continuazione dei bombardamenti: se ne deve
ritenere inficiata la validità giuridica delle soluzioni
imposte alla Jugoslavia con accordi armistiziali conclusi
sulla base di principi generali risultanti da una riunione
del 6 maggio 1999 degli Stati appartenenti al gruppo dei G-8:
Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Gran Bretagna,
Stati Uniti e Russia: escono allo scoperto in questo modo, a
parte il Giappone, i decisivi Stati NATO (i ?soliti noti?),
con il coinvolgimento della Russia che aveva tentato
un?azione mediatrice. Ci si potrebbe domandare che cosa il
G-8 avesse a che fare con la questione. Si arrivò comunque
all?accordo militare e tecnico del 9 giugno 1999 fra
Jugoslavia e NATO, con cui la prima accettava di ritirare le
sue forze armate dal Kosovo e la NATO, bontà sua, di
interrompere i bombardamenti aerei.
Ancora una volta (!) la sostanza di tale sistemazione veniva
trasferita in una risoluzione del C.d.s.: la 1244 del 10
giugno 1999, presa con l?astensione della Cina (che fra
l?altro si era pronunciata contro ogni riferimento al
Tribunale penale internazionale dell?Aja). A termini di
questa, la provincia serba del Kosovo, entro la Federazione
jugoslava, viene ?provvisoriamente? staccata dallo Stato
legittimo: si autorizzano gli Stati membri e ?le rilevanti
organizzazioni internazionali? (!) a istituire in Kosovo una
?presenza di sicurezza internazionale?, e il segretario
generale, ?con l?assistenza delle rilevanti organizzazioni
internazionali? (!!), a stabilire nella provincia ?una
presenza civile internazionale? per assicurare
l?amministrazione provvisoria del territorio (UNMIK: United
Nations Mission in Kosovo). Quanto alla forza di sicurezza
(KFOR: Kosovo Force), essa fu costituita con una ?sostanziale
partecipazione della NATO? (formula che ha consentito la
partecipazione della Russia, estranea alla NATO), sottoposta
?ad un comando e controllo unificato? e con il compito di
?stabilire un ambiente sicuro per tutta la popolazione in
Kosovo e facilitare il ritorno sicuro a casa di tutti i
profughi e rifugiati? (compito ampiamente disatteso). Se da
una parte si riafferma ?l?impegno di tutti gli Stati membri
per la sovranità e integrità territoriale della Jugoslavia?,
dall?altra viene previsto ?il sostanziale autogoverno del
Kosovo, tenendo pieno conto degli accordi di Rambouillet?:
cioè di quello strumento, che poi accordo non è, il quale
avrebbe aperto la strada ad un distacco del Kosovo dalla
Jugoslavia.
E? sotto gli occhi di tutti quanto sta avvenendo in Kosovo:
la stessa ris. 1244, come puntualmente rileva un memorandum
del governo jugoslavo, viene costantemente violata dagli
occupanti e dall?amministrazione civile, che ha nei fatti
consentito una vasta operazione di ?pulizia etnica? ai danni
non solo dei serbi ma di tutte le componenti non albanesi in
Kosovo (e contro gli stessi albanesi leali nei confronti di
Belgrado). L?aver affidato a forze esterne la soluzione di
una questione interna non si dimostra, neppure praticamente,
soluzione efficace. Ma l?ingresso consentito agli Stati NATO
e alla stessa organizzazione atlantica è ovviamente del tutto
illecito (la NATO nulla ha a che fare con i Balcani). Gli
occidentali hanno parzialmente raggiunto una delle loro
finalità, il (provvisorio?) distacco del Kosovo dalla Serbia
e quindi dalla Jugoslavia: ma, sia pur con la menzionata
ambiguità, per ora sul piano giuridico è sancita
l?appartenenza della provincia alla Federazione. Non hanno
invece né potuto occupare l?intera Jugoslavia attuale né
provocare subito la agognata caduta del legittimo presidente
Milosevic: contro il quale ogni tipo di manovra e
provocazione è stato considerato lecito, dalla strumentale
?incriminazione? da parte dell?abusivo Tribunale penale
internazionale dell?Aja ai complotti omicidi e, quindi, alla
replica di un copione secessionistico con riguardo al
Montenegro (quest?ultima manovra incappò per allora in
qualche colpo di freno).



(3, segue. URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo2.htm )

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/files/
MemorialeKragujevac.html

PER NON DIMENTICARE: 21. ottobre 1941- 21. ottobre 2002
L'invito da Milja, Rajka e Dragan del Sindacato "Samostalni" della
Zastava Kragujevac, a non dimenticare

ROSSO XXI

Periodico del Movimento per la Confederazione dei Comunisti
http://www.confederazionecomunisti.it/ROSSOXXI.htm
N° 12 - SETTEMBRE 2002

IL "PROCESSO MILOSEVIC" E L'IMPERIALISMO

di Aldo Bernardini
(quarta ed ultima parte)

(Per leggere l'articolo nella sua interezza si vedano le URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo.htm
e
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo2.htm )




6. Non cessava però l?azione antijugoslava. L?imperialismo
non aveva conseguito tutti i suoi scopi. L?Unione Europea per
parte sua riprendeva dunque in questa fase l?azione di
embargo contro la Jugoslavia. Ad es., si vietavano le
forniture di prodotti petroliferi alla Serbia con eccezioni,
se autorizzate, per il Montenegro e il Kosovo;
successivamente si consentiva, sempre previa autorizzazione,
la fornitura di prodotti petroliferi soltanto alle città di
Nis e di Pirot, amministrate dall?opposizione jugoslava, nel
quadro di un progetto ?energia in cambio della democrazia?!
L?eliminazione di Milosevic restava all?ordine del giorno,
per gli occidentali. L?obiettivo venne perseguito con la
gravissima, inammissibile pressione nei confronti delle
elezioni jugoslave del 24 settembre 2000: o la ?democrazia?
(come la intendono lorsignori, e cioè l?asservimento) o ogni
sorta di guai. Il 18 settembre 2000, a Bruxelles, i ministri
degli esteri dell?Unione europea hanno approvato un inaudito
?messaggio al popolo serbo?, invitandolo a ?ricusare
chiaramente e pacificamente la politica di Milosevic?
attraverso le elezioni. ?Una scelta elettorale che conducesse
a un cambiamento democratico (la consueta solfa: democratico
come lo intendono lorsignori o i ?soliti noti?: n.d.a.)
provocherebbe un mutamento radicale della politica
dell?Unione europea nei confronti della Serbia?. Pur senza
verifica di eventuali precedenti, si può affermare che è
entrato così sulla scena mondiale il ?gangsterismo
internazionale? con un infame ricatto, che prosegue quello di
Rambouillet, contro la libera scelta elettorale del popolo
jugoslavo.
La turpe vicenda delle elezioni jugoslave del 24 settembre
2000 è stata dunque connotata dalla prosecuzione
dell?ingerenza degli Stati NATO, esercitata a tutto campo,
nonostante una vana denuncia del governo jugoslavo al C.d.s.,
con i finanziamenti ingenti alle opposizioni, campagne
massicce di propaganda e falsificazioni attraverso i media
radio-televisivi dall?esterno, manovre militari e navali in
tutti gli spazi circostanti e il dichiarato ricatto sugli
elettori jugoslavi, dopo gli ottanta giorni di bombardamenti,
attraverso la minaccia di mantenere e aggravare le sanzioni e
di eventuali altre misure, nel caso il risultato del voto non
fosse stato quello voluto dall?Occidente. Proprio perché
l?esito elettorale non è apparso subito appagante
(nell?elezione al Parlamento federale la maggioranza è stata
presa dal Partito socialista e dagli alleati di Milosevic),
si è innescato un vero e proprio ?colpo di stato?,
mimetizzato come esito di manifestazioni popolari, in realtà
finanziate e pilotate anch?esse in larga misura dall?estero:
il risultato elettorale tra i due candidati presidenziali ha
visto il prevalere di non eccessiva misura di Kostunica, ma
anche sulla base dell?annullamento delle votazioni relative
al Kosovo, ciò che avrebbe imposto la ripetizione di tali
votazioni ?regionali?: con tutta e maggiore probabilità si
sarebbe dovuta tenere una votazione di ballottaggio a livello
federale, ma questo è stato impedito anche dagli organizzati
e foraggiati (pure dall?estero) moti di piazza, con lo scopo
pure di ?disintegrare? nei fatti il successo del Partito
socialista di Milosevic. Cosicché in Serbia è divenuto
premier il principale agente dell?imperialismo, Djindjic. La
violazione del divieto di ingerenza e di attentato
all?indipendenza politica della Federazione jugoslava (art.
2, punto 4, Carta) è stata ancora una volta mostruosa e
toglie ogni validità ?democratica? e giuridica alle elezioni
presidenziali e ai cambiamenti fattuali susseguiti.
La nuova dirigenza jugoslava, voluta dagli Stati NATO, ha fra
l?altro, pure con violazioni costituzionali, compromesso la
posizione della Jugoslavia quale membro originario delle
N.U.. Il presidente federale Kostunica ha presentato domanda
di ammissione della Jugoslavia alle N.U. come nuovo membro,
infrangendo quindi la corretta posizione della continuità
dello Stato. Ciò fra l?altro espone la Jugoslavia a gravi
problemi in tema di continuità di trattati e rapporti
internazionali e a richieste di risarcimento da parte
soprattutto delle altre repubbliche ex jugoslave. Non basta.
Proprio Kostunica ha firmato con il presidente montenegrino
Djukanovic (a quanto si dice implicato in affari di
contrabbando e aspirante secessionista) un?intesa per
l?allentamento dei vincoli federali tra Serbia e Montenegro,
con la prospettiva di un?eventuale separazione allo scadere
di un triennio, e inoltre la sottoposizione ad arbitrato
dell?Unione europea delle questioni attinenti all?attuazione
dell?intesa: che peraltro sta incontrando difficoltà nelle
assemblee parlamentari jugoslave competenti.
Si comprende come la vicenda elettorale del settembre 2000
possa plausibilmente considerarsi sfociata in un colpo di
stato promosso dalle forze imperialistiche. Anche qui
ingerenza esterna e violazioni costituzionali interne
attestano lo stravolgimento del diritto e la distorsione dei
fatti.

7. Ben si intende come per portare avanti questi disegni
fosse necessario fiaccare il Partito socialista serbo e
togliere dalla scena politica il suo presidente Slobodan
Milosevic. Questa è stata la mira di lungo tempo dei centri
imperialistici, che pure di Milosevic si erano serviti per
compromessi inevitabili (e per i quali Milosevic stesso verrà
criticato dagli jugoslavi o serbi più intransigenti). Forse
può apparire esagerato ritenere che il Tribunale dell?Aja sia
stato costituito proprio con il lontano e primario bersaglio
costituito dagli jugoslavi resistenti e dalla loro componente
più tenace, quella serba, e dunque da Milosevic come leader
più prestigioso di tali forze. Se si scorrono le cronache, si
vedrà che la minaccia di incriminazione contro Milosevic e i
suoi principali collaboratori è stata agitata da tempo,
mentre nulla di serio è stato mai incombente sul leader
croato Tudjiman (ora defunto) e su quello bosniaco-musulmano
Izebetgovic, così che talune incriminazioni di croati e
bosniaci-musulmani possono dare l?impressione di azioni di
copertura.
L?incriminazione formale di Milosevic da parte del Tribunale
dell?Aja è avvenuta durante i bombardamenti della primavera
1999: incriminazione di un capo di stato in carica, con
l?evidente scopo immediato di giustificare l?illegale azione
degli Stati NATO. Atto gravissimo e fuori da ogni regola
internazionale. La stessa incriminazione di Milosevic e
l?ordine di arresto di un capo di stato in funzione hanno
urtato contro specifiche norme internazionali sulle immunità
degli individui-organi, come può desumersi dalla recente
sentenza del 14 febbraio 2002 della Corte internazionale di
giustizia in una controversia tra Congo e Belgio: norme che,
certamente, nessuna decisione del C.d.s. avrebbe potuto
validamente intaccare.
La nuova dirigenza jugoslava, oltre ad avere intrapreso una
via liberistica rovinosa per il popolo, si è piegata - con
qualche contrasto fra Kostunica e Djindjic - persino a una
collaborazione con l?illegittimo Tribunale dell?Aja per i
crimini nella ex Jugoslavia (il quale ha, oltretutto,
dimostrato la sua partigianeria, ?archiviando? senza esame -
l?ineffabile procuratore Carla Del Ponte - le denunce
presentate contro i crimini della NATO, condannati invece in
precedenza dalla sentenza del Tribunale distrettuale di
Belgrado del 21 settembre 2000).
L?incarcerazione a Belgrado del presidente Slobodan
Milosevic, nel marzo 2001, è avvenuta, tra proteste popolari
che forse proprio Milosevic ha impedito sfociassero in
episodi cruenti, sulla base di accuse di reati finanziari, a
quanto pare del tutto inconsistenti. In realtà si trattava di
mettere sotto custodia l?ex presidente per la successiva
ignominiosa operazione: la consegna di Milosevic (28 giugno
2001) all?illegale ?Tribunale internazionale dell?Aja per i
crimini nella ex Jugoslavia? è avvenuta, dietro promessa di
danaro (si ripercorra l?intervista a Djindjic all?inizio di
questo scritto), con l?infamia di una implicita, nella
sostanza falsa, assoluzione dei crimini occidentali e NATO a
sfregio delle vittime e dei sacrifici del popolo jugoslavo: è
stata addirittura ignorata una pronuncia della Corte
costituzionale jugoslava, che aveva sospeso - era stato
impossibile votare una legge che in realtà avrebbe poi dovuto
aver rango costituzionale! - un decreto governativo federale
sulla cooperazione con il Tribunale dell?Aja, in quanto
contrastante con il divieto dell?estradizione di cittadini
stabilito dall?art. 27 della Costituzione federale. In
realtà, la consegna dell?(ex) presidente Milosevic è stata
effettuata sulla base di un successivo decreto del governo
serbo, cioè di un?entità federata assolutamente incompetente
(e comunque addirittura in violazione dell?art. 47 della
stessa Costituzione serba, anch?esso vietante l?estradizione
dei cittadini). Dopo l?avvenuta consegna di Milosevic, la
Corte costituzionale jugoslava ha consolidato in annullamento
(6 novembre 2001) la sospensione, del 28 giugno 2001, del già
ricordato decreto governativo federale. Come è chiaro,
assolutamente illegittimo è il decreto serbo.
Rapimento e sequestro di persona: in un mondo di media
civiltà giuridica verrebbe così classificata la cattura e la
consegna del presidente Slobodan Milosevic.
Per completezza, si ricorda che recentemente il parlamento
federale ha approvato una legge (non costituzionale) sulla
cooperazione con il Tribunale dell?Aja, legge alla quale si
vorrebbe dare effetto retroattivo e che appare comunque
viziata sotto diversi profili costituzionali: nuove pressioni
soprattutto statunitensi sul piano dei promessi aiuti
finanziari hanno ottenuto questo risultato, in base al quale
taluni collaboratori di Milosevic si sono ?spontaneamente?
consegnati al Tribunale dell?Aja.

8. In una guerra civile accadono fatti orribili da tutti i
lati ma attribuirne la responsabilità ad una parte sola e
soprattutto direttamente a un determinato dirigente è prova
di fondamentale, radicale mancanza di senso storico e
sentimento di giustizia, questa rivelandosi solo come
giustizia dei vincitori (ben singolari ?vincitori? peraltro,
nel caso jugoslavo). La praticamente nulla considerazione
riservata ai comportamenti dei croati e dei bosniaci
musulmani, dirigenti compresi, dal Tribunale dell?Aja
(l?autodeterminazione negata ai serbi di Krajina e di Bosnia
e la relativa ?pulizia etnica?), nonché ancora a quelli
dell?Uck (con la massiccia cacciata dei serbi dal Kosovo) e
in modo particolarmente rivelatore il già ricordato non luogo
a procedere in rapporto alla denuncia degli evidentissimi
crimini NATO (78 giorni di bombardamenti anche all?uranio
impoverito su ogni tipo di obiettivi in Jugoslavia), ne
costituiscono definitiva dimostrazione. Nella consegna
dell?ex Presidente Milosevic, il volgare baratto monetario
(un uomo contro danaro? bene ha detto Raniero La Valle,
quella moneta al cambio vale ?trenta denari?) attesta che non
di ?giustizia internazionale? si tratta (ammesso e non
concesso che questa possa esistere), bensì della svendita di
un uomo da sacrificare, acciocché l?umanità creda di aver
trovato il colpevole di tutto e i veri aggressori risultino
mondati.
Personalmente ritengo per tanti motivi, che qui non possono
neppure sfiorarsi, che prevalgano nell?attuale contesto
mondiale le considerazioni di inopportunità rispetto a
meccanismi di c.d. giustizia penale internazionale nei
confronti di individui e in particolare di organi titolari di
funzioni statali. Senza dubbio, una legittimità formale in
tali meccanismi può riconoscersi, qualora basati su accordi
tra Stati che vengano ratificati nel rispetto delle relative
Costituzioni (vengono infatti spesso in gioco garanzie
costituzionali). Ma tale legittimità è del tutto carente in
organismi creati in decisioni del C.d.s. delle N.U.: si
tratta dei due casi del Tribunale per la ex Jugoslavia e di
quello per il Ruanda.
Tralasciamo quest?ultimo. Per il primo, forti perplessità
furono sollevate in C.d.s. da alcuni Stati, come la Cina, che
peraltro, malauguratamente e diremmo sciaguratamente, non
esitarono ad avallare con il voto una soluzione non
ammissibile in diritto internazionale, l?istituzione del
Tribunale.
Singolare (ma forse non troppo) è che furono gli Stati Uniti
a mostrarsi assolutamente determinati, e ad essere
determinanti, per l?istituzione del Tribunale: proprio dunque
lo Stato che rifiuta oggi categoricamente di sottoporsi alla
recentemente costituita Corte penale internazionale (di Roma)
sui crimini di diritti internazionale. Si vuole per altri,
anzi si impone, ciò che si respinge per se stessi. Vero è che
anche nei riguardi del Tribunale dell?Aja gli USA cominciano
a manifestare impazienza e a ventilare termini per la
cessazione della sua attività: a supporto, se ce ne fosse
bisogno, della conclamata indipendenza di quell?organismo e
probabilmente perché l?iniziativa si sta rivelando
controproducente proprio nel caso Milosevic. Va però tenuta
d?occhio con molta cautela l?alternativa, non sempre
internazionalmente lecita, che stanno oggi privilegiando
taluni centri imperialistici, a cominciare dagli Stati Uniti:
l?estensione ?universale? della propria giurisdizione penale
statale per certe categorie di reati (contro l?umanità,
terrorismo ecc.) per l?arbitrarietà basata sulla forza che
impronta di sé tali iniziative (anche se talora rivolte
contro effettivi criminali internazionali?).
Il Tribunale penale internazionale (dell?Aja) per i crimini
nella ex Jugoslavia (giudice ad hoc, quindi ?speciale?, in
parte funzionante retroattivamente, con norme processuali
discutibilissime, finanziato anche da privati come Soros e da
singoli Stati come gli USA, che impiega come polizia
giudiziaria forze della NATO, cioè occupanti e aggressori
della Jugoslavia, e utilizza i servizi segreti degli stessi
paesi), non ha fondamento normativo. A parte questo aspetto
basilare, non appare difficile riscontrare nel suo
funzionamento, tanto per le relative norme quanto per la
prassi e la giurisprudenza sviluppate, violazione di
importanti principi sui diritti dell?uomo (quelli
dell?imputato Milosevic sono ampiamente violati, e per questo
si agita il problema di un ricorso alla Corte europea dei
diritti dell?uomo di Strasburgo) e distorsioni della realtà
di fatto e giuridica. Non dimentichiamo certo le
incriminazioni ?segrete? o i veri e propri sequestri di
persona per catturare gli incriminati, che non hanno escluso
scontri sanguinosi e perdite di vite umane! D?altra parte, se
la competenza per materia appare ritagliata in modo da
escludere i crimini contro la pace (pur se non, formalmente,
gli altri crimini in ipotesi ascrivibili a soggetti diversi
da quelli jugoslavi, come gli Stati occidentali operanti o
non nel quadro della NATO), tale mutilazione incide sul
generale contesto di riferimenti assunto dallo stesso
Tribunale rispetto alle vicende jugoslave: queste vengono
acriticamente valutate secondo la corrente interpretazione
occidentale (sull?autodeterminazione, sull?estinzione dello
Stato jugoslavo, sulla Jugoslavia federale come aggressore,
ecc.).
Nella sua dichiarazione sulla illegittimità del Tribunale
dell?Aja, resa davanti a questo il 30 agosto 2001, Milosevic
sintetizza in modo chiaro i tre fondamentali vizi che
inficiano l?azione di tale organo ?giudiziario?: la Carta
delle N.U. non dà al C.d.s. il potere di creare un tribunale
penale; un tribunale che riguarda un unico contesto temporale
e politico e prende di mira un singolo Paese ed è stato
creato dal ?potere politico internazionale? per servire i
propri interessi geo-politici, non è idoneo ad operare con
criteri di uguaglianza e conduce a divisioni e violenza; il
tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è
incapace di proteggere i diritti fondamentali o di garantire
un giusto processo.
Nessuna norma della Carta delle N.U. (nonostante gli sforzi
di tanti internazionalisti, degni di miglior causa) ne può
stare a fondamento: solo, e con qualche dubbio, come detto,
una convenzione internazionale, debitamente e
costituzionalmente ratificata dagli Stati interessati,
avrebbe potuto dare una base a un Tribunale internazionale
con giurisdizione su individui. Una convenzione del genere
non può ritenersi surrogata (e solo poi per i fatti di
Bosnia-Erzegovina) dal complesso di accordi di Dayton e di
Parigi (1995) sulla cessazione delle ostilità in
Bosnia-Erzegovina: accordi c.d. in forma semplificata e
comunque non debitamente ratificati (essi comunque
genericamente prevedono non una collaborazione con il
Tribunale dell?Aja, come viene propalato, bensì la normale
cooperazione fra Stati nel perseguimento dei crimini di
guerra), che quindi sono inidonei allo scopo e forse anche
viziati da violenza a danno della parte jugoslava. Le Nazioni
Unite non sono una federazione, non hanno potere diretto
sugli individui; il Consiglio di sicurezza non è un
supergoverno e non ha sugli individui poteri né normativi né
giurisdizionali. Altrimenti, se si seguissero le correnti
interpretazioni estensive di comodo, dovremmo accettare che
il Consiglio di sicurezza possa stabilire, con il pretesto di
una situazione di minaccia alla pace discrezionalmente
pronunciata, qualunque cosa anche nell?ordine interno degli
Stati, la cui indipendenza e sovranità è invece presupposto
invalicabile della loro partecipazione alle Nazioni Unite:
potrebbe dichiarare decaduti i capi di stato e altri titolari
di organi o colpire i cittadini degli Stati (membri o no) e
così via. Saremmo di fronte alla prospettiva spaventosa di
una dittatura mondiale del C.d.s., mentre la Carta delle N.U.
enuncia limiti precisi rispetto ai vincoli assunti dagli
Stati. Il Consiglio di sicurezza non può, al posto di misure
specifiche (di c.d. polizia internazionale) per il
mantenimento o ripristino della pace - quelle indicate come
tipologie dagli artt. 41 e 42 Carta N.U. o similari o al più
l?invio di corpi di pace, salva sempre la riserva delle
questioni interne -, emanare un proprio ?ordine?, con cui si
istituisce un organismo (il Tribunale dell?Aja) dotato di un
potere giurisdizionale su individui (e ancor più
individui-organi), cioè di un potere che il Consiglio di
sicurezza per sé non possiede: una misura che urta
frontalmente con l?ordine costituzionale degli Stati, in
particolare di quello nel caso maggiormente interessato (la
Jugoslavia), e cioè con il ricordato presupposto
dell?indipendenza e sovranità, sulla base del quale gli Stati
divengono membri delle N.U.. Ha giustamente osservato
Milosevic, in uno dei suoi così pertinenti e dignitosi
interventi di fronte al Tribunale dell?Aja, che se la Carta
delle N.U. avesse previsto simili possibilità, le N.U. stesse
non sarebbero mai sorte. Come negare che anche qui si abbia
un totale travolgimento di principi internazionali basilari?

9. Il Presidente Milosevic, pur con qualche errore che possa
ascriverglisi, è stato il difensore accanito della Jugoslavia
precedente e di quella ?residua? e della stessa idea
(progressista) jugoslava, persino quando ha assunto le difese
della componente serba, dalla quale non avrebbe potuto non
prendere le mosse per salvare il salvabile a fronte delle
secessioni e dell?aggressione anzitutto economica e politica
di chi le sosteneva dall?esterno. La sua violenta e
fraudolenta estromissione non ha fornito soluzioni di sorta:
la crisi dei Balcani è lungi da una conclusione (la Macedonia
insegna e tutti gli altri casi restano in realtà aperti).
Solo il mantenimento di un?idea e di una realtà
?jugoslavista? avrebbe potuto consentire esiti diversi.
Il discorso di Milosevic a Kosovo Polie del 28 giugno 1989,
nell?anniversario della storica battaglia del 1389 tra serbi
e turchi, che viene indicato da chi non l?ha mai letto come
un?arringa di fanatico nazionalismo, contiene certo una
difesa dei serbi e il rifiuto di consentire una secessione
del Kosovo, ma esplicitamente associa tali obiettivi ad un
alto apprezzamento della tradizione socialista, del
multiculturalismo e pluralismo nazionali (si conclude con
?viva la Serbia, viva la Jugoslavia!?). Tutto ciò ha trovato,
come è stato già accennato, riflesso normativo nella
Costituzione serba del 1990 e in quella jugoslava del 1992: a
differenza ad es. da quella croata (?la Croazia è lo Stato
dei croati?), queste carte costituzionali fanno riferimento a
coloro che vivono nella Repubblica federata serba o nella
Jugoslavia federale, la Costituzione di quest?ultima è poi
espressamente aperta all?adesione di altre Repubbliche.
Incertezze, errori tattici, forzature non sono mancate, e
neppure probabilmente situazioni di oggettiva formale non
aderenza al precedente dettato costituzionale jugoslavo:
spiegabili peraltro nella congiuntura di disgregazione e
sfacelo progredienti della Federazione di allora e di fronte
all?evidente ostilità non solo platonica delle forze estere
decisive. Ciò può anche avere destato, in altre componenti
della Jugoslavia, timori di volontà serbe egemoniche, volontà
del resto in effetti presenti in talune forze serbe
ultranazionalistiche.
Ma quel che conta è la linea che emerge gradualmente:
Milosevic, pur dovendo prendere atto della sconfitta storica
del socialismo in Europa, ha operato per difendere il
difendibile nel contesto europeo e mondiale e per seminare
quindi per una prospettiva futura, per sostenere una
concezione di indipendenza e di socialità avanzata pur nel
complessivo pauroso arretramento provocato dalla caduta dei
Paesi socialisti europei e dalla piena restaurazione di
rapporti capitalistici, per verità però già anticipata dal
revisionismo a cominciare proprio dalla Jugoslavia. Conta il
mantenimento dell?idea ?internazionalista? jugoslava e
l?apertura costituzionale e pratica a tutte le etnie, difesa
proprio da Milosevic contro gli estremisti. Certo, merita
riflessione il fatto che proprio nel Paese che per primo
aveva conosciuto il revisionismo al potere, o almeno in una
parte fondamentale di esso, vi sia stata la resistenza più
tenace contro l?imperialismo con scandalo di tanti
?comunisti? nostrani, che tuttora professano ammirazione più
o meno dichiarata per il liquidatore Gorbaciov (tutt?altro
che apprezzato da Milosevic) e per questo partecipano ancora,
in modo tante volte subdolo, alla campagna di denigrazione e
di demonizzazione di Milosevic.
E? invece precisamente alla resistenza guidata da Milosevic
e, sinora, al suo esemplare comportamento nel vergognoso
?processo? dell?Aja che riteniamo doversi in larga misura il
fatto che la Jugoslavia e particolarmente la Serbia non
possano considerarsi - nonostante i Quisling che attualmente
la reggono - totalmente domate e, per ora almeno, non
integralmente acquisite all?imperialismo. Se ripercorriamo i
cenni iniziali dell?intervista a Djindjic, siamo ora forse
maggiormente in grado di valutare la portata della condotta
processuale di Milosevic, del suo rifiuto di riconoscere,
come è giuridicamente ineccepibile, lo pseudo-tribunale
speciale che pretende di giudicare l?eroica resistenza di uno
Stato e di un popolo, avendo assolto preventivamente i
crimini dell?imperialismo, del quale quindi quell?organismo
si rivela strumento arbitrario di violenza mascherata da
diritto. Per ora, a quanto si sa, Milosevic sta smontando i
?teoremi giudiziari?, in base ai quali egli dovrebbe apparire
l?artefice, e il principale se non addirittura l?unico
artefice, dei mali della Jugoslavia. Tali ?teoremi? si
fondano su assunti dati per certi e incontrovertibili:
qualunque fosse stata o fosse la sua posizione formale o la
carica rivestita, Milosevic dalla fine degli anni ?80 avrebbe
controllato e organizzato tutto in Jugoslavia e naturalmente
avrebbe anche organizzato, deciso, fatto eseguire o almeno
non impedito, dato che non avrebbe potuto non sapere, i
crimini di guerra e contro l?umanità e addirittura i genocidi
ascritti ai serbi (delle altre componenti quasi non si
parla). Ma indubitabilmente vi è una logica (perversa) in
tutto ciò: la vera colpa è di aver preteso di resistere
all?imperialismo, che quindi è stato ?costretto? a ricorrere
alla guerra! E? merito di Milosevic, e non è un caso che i
media abbiano dopo i giorni iniziali oscurato il processo,
aver disvelato il carattere tutto politico e di parte degli
avvenimenti ?giudiziari? dell?Aja: quia lupus sum, la
?morale? delle forze imperialistiche è stata messa a nudo.
Milosevic, come mi è stato chiaro nell?incontro che ho avuto
con lui il 16 agosto 2001 nell?ingiusto carcere di
Scheveningen, sa bene (sono sue parole) che ?globalizzazione
è nuovo imperialismo, è dominio mondiale, non fondandosi
sull?eguaglianza fra popoli e fra Stati?.
Occorre che le forze antimperialistiche diano maggior
solidarietà a questo dirigente e a tutti gli jugoslavi che
resistono: è dovere e interesse comune.

(4. Fine)

PER "IL MANIFESTO" - RUBRICA LETTERE
Con preghiera di pubblicazione

"Il Manifesto" ingoia la pillola, ed affida a Tiziana Boari una
recensione dello scomodo libro "Menzogne di guerra". Tiziana -
ex inviata OSCE in Kosovo, collaboratrice di Limes e di molte
altre testate - svolge alla perfezione il compito affidatole. Primo:
minimizza sul contenuto del libro, insinuando dubbi su presunte
imprecisioni ma senza entrare nel merito. Secondo: coglie
l'occasione per presentare *un altro* libro, "di ben altro spessore
e rigore scientifico" certo, nemmeno tradotto in italiano, scritto
da un militare "buono" - poiche' europeo: gli americani sono
cattivi, gli europei sono buoni. Terzo, evita accuratamente di
citare i curatori del volume e l'esistenza di un Coordinamento
Nazionale per la Jugoslavia, che - dopo avere organizzato i
ben 5 appuntamenti di presentazione del libro di Elsaesser in
giro per l'Italia insieme all'autore (a due dei quali la stessa
Tiziana ha partecipato) - prosegue nella sua crescita e nel
suo impegno di smascheramento e di chiarificazione sulle
cause e sulle dinamiche reali - non "giornalistiche" - dello
squartamento della Repubblica Federativa Socialista di
Jugoslavia. E le politiche europee, in queste cause ed in
queste dinamiche reali di squartamento, ci sono implicate
fino al collo.
Quarto - per l'appunto, e piu' grave di tutto il resto - usa
lo spazio della recensione per propagandare "la proposta
[che, lo garantiamo, e' aborrita da Elsaesser in primis!]
della creazione di una forza europea d'intervento rapido
preventivo per la risoluzione e la prevenzione dei conflitti,
composta da esperti civili, ben addestrati e pronti
a essere dislocati dove necessario con la stessa rapidità di
dispiegamento delle truppe militari." Sara' divertente vederli,
questi militari fare a gara con i loro colleghi in abito
borghese, a chi arriva prima...

Andrea Martocchia (Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia)

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http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/18-Ottobre-2002/art80.html

il manifesto - 18 Ottobre 2002 - pagina 15


Le bugie hanno le guerre lunghe

La costruzione del consenso dell'opinione pubblica internazionale
all'intervento prima statunitense e poi Nato nel Kosovo. «Menzogne di
guerra», un libro del giornalista tedesco Jürgen Elsaesser
TIZIANA BOARI

L'abbattimento del muro di Berlino nel 1989 avrebbe dovuto portare una
nuova era di pace e democrazia, secondo le speranze di molti, e invece è
stato l'inizio di una catena perversa di conflitti mondiali sempre più
pericolosi per l'umanità intera: l'Iraq, l'ex Jugoslavia, l'Afghanistan
e ora di
nuovo l'Iraq, per non parlare dei conflitti «dimenticati», come quelli
in corso nella Costa d'Avorio, in Liberia, in Sudan, in Colombia.
Chissà perché questi venti di guerra che spirano nel mondo occidentale
nei confronti dell'Iraq ricordano tanto situazioni del passato ed errori
da non ripetere,
riserve da non tenere nei confronti della pace. Nel frattempo, la
macchina delle menzogne di guerra è ripartita anch'essa puntuale, come
ogni autunno. Ricordate una certa, esilarante quanto tragica,
filmografia americana degli ultimi anni, che denunciava i meccanismi di
disinformazione allo
scopo di creare le guerre virtuali fino a farle diventare reali? C'è da
chiedersi se sia servita a cambiare le coscienze, la consapevolezza
delle strumentalizzazioni in atto, a far aprire gli occhi. Così non
appare in questi giorni del tutto fuori luogo il contributo che fornisce
alla loro comprensione, seppur guardando alla guerra nella e contro la
ex-Jugoslavia, il giornalista tedesco Jürgen Elsaesser con il suo libro
Menzogne di guerra (trad. Mara Oneta, ed. «La Città del Sole»).
Elsaesser, 45 anni,
redattore del mensile tedesco di sinistra Konkret, con un metodo che lui
stesso ha definito «da criminologo», ripercorre i passaggi essenziali
della campagna massmediatica che demonizzò Milosevic, l'imputato numero
uno del Tribunale Speciale dell'Aja che di brani di questo libro (già
tradotto in serbo e in uscita nella sua traduzione francese) si è
avvalso per la propria difesa. Malgrado il lavoro e lo sforzo
encomiabile, l'autore pecca di imprecisione filologica e bibliografica,
cade su alcune citazioni imprecise e su non poche approssimazioni che
automaticamente, con un effetto a domino, rendono il lettore scettico
sulla credibilità di tutte le altre interessanti informazioni riportate
nel testo. Le operazioni di controinformazione, per essere efficaci,
ovvero considerate serie e credibili, non possono permettersi scivoloni
di questo tipo.

Il libro tratta in particolare le «menzogne di guerra» che diffuse il
governo tedesco per giustificare il primo intervento di sue truppe fuori
dai confini nazionali dalla II guerra mondiale. Ma si inizia dalla
Bosnia , dalle cifre ballerine sui morti di Srebrenica (1995) fornite
dall'allora ministro della difesa
Rudolf Scharping: si parlò di 30mila assassinati dalle truppe serbe,
quando nell'estate del 2000, alla luce degli ultimi dati e della
improvvisa <<resurrezione>> di circa 3.000 persone nelle liste degli
elettori presentate dagli osservatori elettorali dell'Osce in occasione
delle elezioni del 1997, si parlò invece di 3.000 vittime,
ridimensionando l'episodio, uno dei numerosi capi d'accusa contro i
quali Milosevic è chiamato a difendersi proprio in questi giorni dal
Tribunale dell'Aja. Certo è che non sono le cifre a due o tre zeri a
fare la differenza su un crimine; è tuttavia importante illustrare
alcune dinamiche perché poi è comunque sui numeri che si giocano alcune
partite, che le guerre vengono approvate dall'opinione pubblica.

Nel marzo 1999 non fu importante, anzi passò sotto silenzio il dato di
quei profughi, di tutte le etnie, che attraversarono alla spicciolata il
confine tra Kosovo e Macedonia, nei giorni che seguirono l'evacuazione
dell'Osce e precedettero i bombardamenti. Questione di qualche giorno, è
quello che pensavano tutti. Quanto fu abile e scaltra invece la
sovrapposizione semantica tra i treni piombati, le deportazioni, le
vittime sacrificali e la Pasqua cattolica che si celebrava di lì a poco
da una parte e i profughi kosovaro albanesi in fuga. Così, nel giro di
pochissimi giorni, coloro che fuggivano dalle bombe (e cominciarono ad
essere numerosi dal 30 marzo soltanto) e venivano evacuati per ragioni
di sicurezza divennero gli agnelli pasquali, vittime della ferocia
serba. A Pasqua scoppiò lo «scandalo» di Blace e in molti si chiesero
come mai l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati non avesse previsto
una tale emergenza. Rimase un mistero, poco chiaro anche a coloro che in
quei giorni e poco prima in quei luoghi c'erano stati.

Di ben altro spessore e rigore scientifico è invece l'opera, molto
citata dallo stesso Elsaesser, del generale Heinz Loquai, già
consigliere militare presso la rappresentanza tedesca all'Osce, Il
conflitto del Kosovo. Percorsi di una guerra evitabile (Der Kosovo
Konflikt. Wege in einenvermeidbaren Krieg,
Baden Baden 2000), uno studio e insieme una testimonianza molto rigorosi
nella trattazione dei documenti e della storia più recente, un'opera
alla quale dovrebbero andare le attenzioni di un editore coraggioso e di
un pubblico attento proprio perché rilancia anche la proposta della
creazione di una forza europea d'intervento rapido preventivo per la
risoluzione e la prevenzione dei conflitti, composta da esperti civili,
ben addestrati e pronti a essere dislocati dove necessario con la stessa
rapidità di dispiegamento delle truppe militari.

E' inquietante comunque rileggere oggi i meccanismi con i quali una
guerra ormai decisa da tempo fu resa «accettabile» all'opinione pubblica
mondiale. I tempi sono peggiorati rispetto ad allora, quando già in
molti si additava con sdegno alla palese violazione del diritto
internazionale che la
guerra, angloamericana prima e Nato poi, contro uno stato sovrano come
la Federazione Jugoslava aveva rappresentato: il primo attacco militare
internazionale partito senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza
dell'Onu. Con l'attacco all'Afghanistan si passa alla fantomatica
risposta al
terrorismo, alla «caccia all'uomo» (bin Laden che sembra avere nove vite
e il dono dell'ubiquità: roba da studi Disney...), alla «guerra
infinita». Si distrugge un paese per colpire un individuo e i suoi
adepti. Oggi andiamo verso lo stravolgimento completo del diritto in
quanto tale. Assistiamo al rovesciamento completo del principio di
presunzione di innocenza fino a prova contraria: oggi sono colpevoli di
terrorismo tutti quegli stati che sono sulla lista nera degli Usa e sono
colpevoli finché non provano, attraverso il loro assoggettamento
completo agli interessi economici e geopolitici americani, di essere
«innocenti».

Gli Usa soffrono di una gravissima recessione economica, la guerra è
paradossalmente, come è sempre stata, un modo per salvarsi dal disastro
economico interno e per l'amministrazione Bush uno strumento di
propaganda politica. In Europa oggi è la Germania a dire fermamente «No»
alla guerra preventiva contro Baghdad. Lo dice anche la Francia, ma la
posizione tedesca oggi ha un valore diverso perché fu proprio la
Germania il primo paese Ue a cedere alle pressioni statunitensi nel
negoziato di Rambouillet che precedette la guerra contro la Federazione
Jugoslava. La guerra è evitabile, parafrasando Loquai, perché è davvero
una scelta: di mezzi, di modalità, di tempi. E la consapevolezza del
valore di una scelta di pace si sta facendo strada nelle coscienze
dell'Europa ogni giorno di più. Forse la lezione del Kosovo è servita a
qualcosa. A impedire che la menzogna entri ancora una volta nella storia
e diventi verità.