http://www.resistenze.org/sito/os/mo/osmo5e15.htm
www.resistenze.org - osservatorio - mondo multipolare - 15-05-05

A Mosca! a Mosca!

di Mauro Gemma


Com'era largamente prevedibile, la vittoria della "rivoluzione
arancione" in Ucraina (e quella "a metà" della "rivoluzione dei
tulipani" in Kirghizia (1) ) ha dato ulteriore impulso all'offensiva
imperialista nello spazio post-sovietico, dissipando ogni dubbio sui
reali obiettivi della campagna avviata dall'amministrazione Bush, a
sostegno dell'esportazione dei "valori della democrazia occidentale"
negli stati dell'ex URSS: da un lato, il definitivo assoggettamento
degli stati della CSI agli interessi economici e geopolitici della
massima potenza imperialista, e, dall'altro, il totale disinnesco
delle capacità competitive della Federazione Russa, attraverso
l'assalto diretto al potere politico, da realizzarsi probabilmente
addirittura (come molti segnali lascerebbero ad intendere) con
l'estromissione dello stesso attuale gruppo dirigente di Mosca.

All'inizio di aprile, il nuovo leader ucraino Juschenko ha suggellato
il proprio trionfo, con una serie di viaggi in Occidente e, in
particolare, negli USA, dove, al termine di una serie di incontri con
il presidente americano, ha avuto modo di esplicitare, con chiarezza
inequivocabile, la funzione che gli viene attribuita dai padroni
occidentali del suo paese. Basta leggere il testo del comunicato
congiunto, rilasciato al termine della sua visita:
"Impegniamo anche le nostre nazioni a sostenere insieme le
trasformazioni, la democrazia, la tolleranza e il rispetto reciproco
in tutti i paesi, attraverso il regolamento pacifico dei conflitti in
Georgia e Moldavia e la promozione della libertà in paesi come la
Bielorussia e Cuba".

Accomunando Bielorussia e Cuba, il nemico storico nel "cortile di
casa" USA, Juschenko lascia chiaramente intendere quali saranno le
direttrici della politica estera dell'Ucraina "rivoluzionaria", che
nutre velleità di leadership regionale nell'ambito della nuova
alleanza. Scrive l'intellettuale marxista russo Dmitrij Jakushev:
"Le continue dichiarazioni di Juschenko in merito al fatto che
l'Ucraina è pronta a diventare leader regionale, vale a dire il
principale gendarme locale, fanno presagire enormi sciagure a tutti i
vicini, nonché allo stesso popolo dell'Ucraina…La politica estera (di
Juschenko) porterà a un duro confronto con la Russia e la Bielorussia,
fino alla creazione di alleanze militari, prima di tutto con la
Georgia e la Moldavia, dirette contro la Russia e le repubbliche ad
essa amiche della Transdnistria, dell'Abkhazia e dell'Ossezia" (2).

A distanza di pochissime settimane dall'incontro Bush-Juschenko, c'è
stato, alla fine di aprile, il viaggio del Segretario di Stato USA
Condoleeza Rice a Mosca. In quell'occasione, abbandonata completamente
ogni ipocrisia diplomatica, la dirigente USA, senza perifrasi, ha
inteso esprimere con brutalità le finalità della sua visita,
provocando, tra l'altro, una durissima reazione della controparte
russa. Incontrando nella stessa capitale russa, in aperto spregio di
ogni etichetta, gli esponenti della tanto insignificante quanto
prepotente opposizione "democratica" bielorussa e assicurando il
proprio contributo morale e materiale (è di questi giorni uno
stanziamento americano di decine di milioni di dollari a sostegno
dell' "offensiva democratica" in Bielorussia), la responsabile della
politica estera USA ha addirittura indicato precise scadenze temporali
(le elezioni del 2006) alla nuova tappa della scalata aggressiva
indirizzata al rovesciamento di quello che è attualmente considerato
il principale alleato della Russia nell'ambito della Confederazione
degli Stati Indipendenti e il più conseguente sostenitore delle
esigenze di integrazione economica, politica e militare dello spazio
ex sovietico: il presidente Aleksandr Lukashenko.

Abbattuto l'ultimo bastione della CSI, che con ostinazione si oppone
ai progetti di espansione della NATO verso est, alle armate
dell'Occidente non si frapporrebbe più alcun ostacolo in direzione di
Mosca. In tal modo, dopo l'ingresso di tutti i paesi dell'Europa
orientale e baltica nell'alleanza nord-atlantica e il definitivo
sbilanciamento in senso filo-occidentale dell'Ucraina, la Russia
verrebbe a trovarsi completamente sguarnita sul versante europeo, con
una virtuale "linea del fronte" fissata a poche centinaia di
chilometri dalla capitale federale.

Certo, il cammino verso Minsk, potrebbe rivelarsi più difficile del
previsto. La Bielorussia non è certo un qualsiasi paese della CSI. In
Bielorussia, il consenso attorno alle scelte operate negli ultimi anni
da Lukashenko pare, secondo le testimonianze più obiettive, ben più
vasto di quanto non cerchino di far credere le operazioni
propagandistiche occidentali (3)che, in generale, parlano della
presenza di un oppressivo regime dittatoriale. A tal proposito vale la
pena citare l'analista russo Jurij Krupnov che, intendendo smentire le
argomentazioni largamente utilizzate per giustificare il pressing in
corso ai danni della Bielorussia, osserva:
"La repubblica di Belarus rappresenta attualmente il leader indiscusso
nello spazio dell'ex URSS. Persino coloro che non amano il regime
politico in Bielorussia o il suo presidente, non possono negare
l'evidenza. A differenza di tutte le altre ex repubbliche dell'URSS,
la Bielorussia sotto la direzione di Lukashenko è stata in grado di
conservare le realizzazioni del periodo sovietico e di avviare una
prudente e assennata ristrutturazione dell'economia e del sistema
sociale. L'anno scorso l'economia della Bielorussia è rientrata nei
parametri raggiunti dalla Bielorussia sovietica del 1990 (nella
Federazione Russa si pensa di realizzare tale obiettivo nel giro di
dieci, quindici anni). La quota delle esportazioni di macchinari e
tecnologie e il PIL superano di alcune volte gli analoghi indicatori
della Federazione Russa. Nella repubblica è stata conservata
interamente la rete delle strutture sanitarie e degli istituti
scolastici e vengono sostenute con la massima cura le infrastrutture
di base (…) Nella repubblica è assente qualsiasi scontro nella sfera
civile, etno-nazionale o religiosa, la gente vive dignitosamente e
dispone di un lavoro…" (4).

A qualcuno questa analisi potrà anche sembrare eccessivamente
ottimistica. Ma una cosa è certa. Se tale quadro corrispondesse a
verità e se il consenso plebiscitario di cui apparentemente ha goduto
Lukashenko in questi anni tra i settori meno privilegiati della
popolazione, in particolare nelle campagne, non rappresentasse solo
un'operazione di propaganda di regime, allora il tentativo di
estromettere la dirigenza bielorussa potrebbe non essere una
passeggiata e l'intera Europa rischierebbe di trovarsi di fronte a
scenari imprevisti e drammatici, a causa del probabile coinvolgimento
diretto in una nuova impresa di Washington. D'altronde anche la Russia
non sembra certo intenzionata a "scaricare" con leggerezza l'ultimo
alleato sicuro che le rimane (con il quale è vincolata da un patto di
"Unione", che dovrebbe sfociare nell'unificazione tra i due paesi),
come testimoniano le più recenti prese di posizione dello stesso
presidente Putin. L'alleanza è stata consolidata in un recente
incontro tra Putin e Lukashenko a Soci, sul Mar Nero, al punto che il
leader bielorusso, anche per sottolineare l'avvicinamento oggettivo in
corso tra i due paesi, ha voluto ringraziare pubblicamente le autorità
russe "per il sostegno senza precedenti che ci stanno accordando
nell'arena internazionale" (5).

Del resto, la Rice non ha mancato di accompagnare sempre i suoi
attacchi alla Bielorussia con una serrata polemica nei confronti della
stessa amministrazione russa, lasciando chiaramente intendere chi è il
vero bersaglio strategico della "campagna d'oriente" di Washington.
Confortata dal sostegno del solito coro di associazioni umanitarie
("Reporters sans frontières" le ha indirizzato una "lettera aperta"
per chiedere un suo pesante intervento), il cui compito sembra essere
sostanzialmente quello di offrire giustificazioni etiche ad ogni
iniziativa aggressiva dell'imperialismo, si è esibita nella solita
sequela di recriminazioni in merito alla "regressione della democrazia
in Russia", alla "persecuzione" del malversatore Khodorkovskij
(definito "prigioniero politico del Cremlino") e alla "concentrazione
eccessiva di poteri nelle mani di Putin". In questo caso, la Rice, più
prosaicamente, aveva a mente la decisione che, in quei giorni, Putin
aveva assunto di incaricare il governo russo dell'elaborazione, entro
il 1 novembre prossimo, di un disegno di legge volto a limitare
l'accesso dei potenziali investitori stranieri ai settori e alle
infrastrutture legati alla sicurezza nazionale, all'industria per la
difesa e ai monopoli naturali, e della preparazione di una lista di
giacimenti strategici, il cui sfruttamento verrebbe concesso
esclusivamente a compagnie nazionali.

In seguito, le intenzioni aggressive nei confronti di Minsk sono state
confermate dallo stesso presidente Bush durante il suo ultimo viaggio
europeo. Ma Bush non si è limitato a questo. Evocando gli spettri
della guerra fredda, Bush ha azzardato una provocazione senza
precedenti nei confronti dell'interlocutore russo, impegnato nei
preparativi delle celebrazioni della vittoria contro il nazi-fascismo.
Bush, parlando a Riga, di fronte ad interlocutori che non esitano a
riabilitare il passato nazista delle dirigenze baltiche, quasi
accusando di viltà il suo predecessore Roosevelt per non avere avviato
la guerra contro l'Unione Sovietica, è arrivato al punto di definire
"un errore" persino il patto di Yalta concluso dalle potenze
vincitrici della seconda guerra mondiale, dando evidentemente ad
intendere che oggi egli non esclude affatto la possibilità di
riprendere la guerra allora interrotta, per assestare un colpo
definitivo allo storico nemico.
"Siamo alla sostanza di una dichiarazione di guerra con l'obiettivo di
un impero mondiale. Il disegno annunciato è questo. Finita la guerra
fredda si stanno mettendo le premesse per un'azione di conquista", ha
giustamente fatto notare, in un suo editoriale, Valentino Parlato(6).

Non è poi certo casuale che Bush abbia concluso il suo giro di visite
proprio a Tbilisi, capitale della Georgia uscita dalla prima delle
"rivoluzioni colorate", la cosiddetta "rivoluzione delle rose".
Con Saakashvili, al di là dei discorsi di circostanza sulle "conquiste
democratiche" del nuovo governo del disastrato paese caucasico (di
fronte ad una folla in realtà di molto inferiore alle aspettative, a
testimonianza di quanto stiano "sbollendo" gli ardori "rivoluzionari"
della prima ora), il presidente USA ha definito i particolari della
stretta cooperazione in corso tra i due paesi, in vista dell'ormai
quasi certo ingresso di Tbilisi nei ranghi della NATO. Lo ha
confermato il 10 maggio davanti ai giornalisti di tutto il mondo
convenuti nella capitale georgiana. Per rendere più rapidi i tempi
dell'integrazione nei meccanismi dell'alleanza nord-atlantica, qualche
settimana prima della visita di Bush, il parlamento georgiano aveva
chiesto al governo un pronunciamento unilaterale in merito al ritiro
integrale delle truppe russe che stazionano nelle due basi di Batumi,
sul Mar Nero, e Akhalkalaki, al confine con l'Armenia, già a partire
dal gennaio del 2006, nel caso non venga raggiunto un accordo a
riguardo con Mosca, che, invece, ha annunciato di avere in programma
la chiusura delle installazione entro un lasso di tempo non inferiore
a 11 anni. Una vera e propria provocazione, quella delle autorità
georgiane, che non ha mancato di aumentare il già incandescente clima
delle relazioni tra i due stati e che si è aggiunta alla mancata
presenza di Saakashvili alle celebrazioni di Mosca.

La visita di Bush, che non poteva che assumere il significato di
ulteriore sfacciato atto di sfida nei confronti di Putin, si proponeva
in realtà di ottenere assicurazioni circa il grado di realizzazione
degli obiettivi stabiliti dal cosiddetto "Piano di azione individuale
per il partneriato" (IPAP), in base al quale la Georgia si è impegnata
solennemente a modernizzare il proprio apparato militare, in linea con
i requisiti richiesti per l'adesione all'alleanza nord-atlantica. Dal
2002 al 2004 gli USA hanno stanziato 64 milioni di dollari per
progetti di assistenza militare e hanno inviato oltre 200 esperti per
addestrare l'esercito georgiano (i cui effettivi dovrebbero passare da
16.000 a 23.000 unità) destinato oggi prevalentemente a supportare le
forze USA, impegnate in vari scenari bellici, a cominciare da quello
iracheno (tra l'altro, proprio nel momento in cui assistiamo al ritiro
dei soldati di altri paesi), ma che, domani, potrebbe costituire un
agguerrito contingente sul fronte del Caucaso, in funzione anti-russa,
finalmente in grado di risolvere alla radice lo spinoso problema delle
repubbliche separatiste, amiche di Mosca, dell'Abkhazia e dell'Ossezia
del Sud. Non è, inoltre, un mistero che il versante georgiano della
catena caucasica costituisce ormai da anni il retroterra logistico
delle attività militari del terrorismo ceceno, che, a differenza di
quanto sostengono alcuni propagandisti dei "diritti umani", che
invocano irresponsabilmente un massiccio coinvolgimento dell'Occidente
a fianco della "resistenza cecena" e lamentano il "silenzio" della
"comunità internazionale", gode del massiccio sostegno di apparati
politici e militari negli USA, in Europa e in Turchia, nonché delle
oligarchie russe (7).

C'è da dire che, al pressing americano sulla Russia, si aggiunge
naturalmente quello rappresentato dall'intensificazione delle attività
del variegato fronte interno, coordinato dai gruppi oligarchici
estromessi da Putin, che non nasconde certamente la propria intenzione
di rimuovere dal potere, in un modo o nell'altro, il presidente e gli
uomini a lui più vicini. A tal proposito, appaiono di un certo
interesse i probabili, inquietanti futuri scenari descritti in un
articolo di Mikhail Cernov, giornalista dell'agenzia RBC. Vi si
possono leggere considerazioni di questo tenore:
"Un tentativo di estromettere dal potere il presidente della Russia
Vladimir Putin verrà realizzato entro la primavera del 2008. Di ciò è
convinta la maggior parte degli esperti, indipendentemente dalle
personali simpatie politiche…I giocatori cominciano a puntare.
Recentemente ha fatto così il proprietario del gruppo "Menatep" Leonid
Nevslin. Egli ha dichiarato che sosterrà l'ex primo ministro Kasjanov
(estromesso da Putin e definito "Juschenko russo", si è autocandidato
alla presidenza). "Se avrà bisogno di aiuto, naturalmente, siamo
pronti"…Gli oligarchi hanno detto "pora" ("è arrivato il momento",
slogan della "rivoluzione arancione" di Kiev), "occorre passare
all'azione" e sono passati all'azione". Cernov sottolinea come,
attraverso il finanziamento di movimenti politici di destra e di
sinistra e facendo leva su ambienti della stessa amministrazione
presidenziale e del partito di governo "Russia Unitaria" (e "non è
neppure escluso che alla guida delle sinistre possa venirsi a trovare
lo stesso Mikhail Khodorkovskij, che ha avuto modo di meditare in
carcere sugli errori commessi dagli oligarchi russi"), si intenda
"sferrare un attacco simultaneo da entrambi i fianchi…L'obiettivo dei
processi avviati è la ristrutturazione dello spettro politico russo,
la creazione di un sistema che possa rappresentare uno strumento
efficace per l'ulteriore destabilizzazione della nave "Stato Russia"
fino al punto di farla affondare…Tale schema potrebbe funzionare molto
efficacemente: una parte si occuperebbe della lotta parlamentare,
mentre i "reparti combattenti" scenderebbero dietro a parole d'ordine
incitanti al rovesciamento del potere nei "maydan" (il luogo simbolo
della "rivoluzione arancione" ucraina) di Mosca e di San Pietroburgo" (8).

Se quanto denuncia Cernov fosse vero, non ci vuole molta fantasia per
immaginare quale alternativa a Putin si stia preparando. Non certo,
dunque, un impetuoso sviluppo dei processi democratici e una
fuoruscita "da sinistra" (oltretutto, in presenza di un movimento
comunista ed operaio ai suoi minimi storici, incapace di iniziativa di
massa, e solcato da profonde divisioni), ma, piuttosto, la rivincita
della "borghesia compradora" e il probabile avvento alla direzione del
paese di uno "Juschenko russo" (non importa se Kasjanov o altri),
l'interruzione drastica dei processi di riappropriazione da parte
dello stato delle risorse strategiche, la fine di una politica estera
indipendente che contribuisca a fare da contrappeso all'egemonia USA,
e il conseguente veloce assorbimento negli ingranaggi delle alleanze
occidentali. La ripresa, insomma, del corso filo-occidentale e
perfettamente funzionale agli interessi imperialistici avviato con la
vittoria controrivoluzionaria dell'agosto del 1991, proseguito per
quasi un decennio con tenacia (ed esiti disastrosi) dal "clan Eltsin"
e interrotto con la penosa uscita di scena del suo capofila e
l'affermazione della politica "nazionalista" di Putin (non priva di
richiami non solo strumentali al passato della potenza sovietica, la
cui caduta è stata proprio da lui definita "la più grande tragedia
geopolitica del XX secolo"), tesa a riaffermare un ruolo di primo
piano per la Russia nell'ambito di una dimensione "multipolare" delle
relazioni internazionali.


Per tutte queste ragioni, ci permettiamo allora di dubitare che
l'insieme del movimento antimperialista mondiale possa trarre qualche
utile da simili sviluppi della situazione.



NOTE

(1) Del parziale fallimento della "rivoluzione dei tulipani", condotta
con dovizia di mezzi e di personale forniti dall'amministrazione e
dalle fondazioni USA, che ha portato alla destituzione del presidente
kirghiso Askar Akayev, sembra convinto lo studioso cubano Rodolfo
Humpierre Alvarez del Centro di Studi Europei, quando afferma che:
"esistono ragioni per pensare che tale strategia (dell'Amministrazione
USA) questa volta ha presentato serie lacune, in ragione delle quali i
risultati non sono stati gli stessi degli esperimenti precedenti (…)
Non esistono i presupposti politico-ideologici, né tanto meno
religiosi (…) Non si pone il dilemma "a favore della Russia o
dell'Occidente" (…). Bakiev (il presidente provvisorio) ha confermato
il proposito non solo di mantenere, ma anche di sviluppare le buone
relazioni con la Russia e ha sollecitato aiuto materiale (…) La Russia
ha promesso ed ha iniziato immediatamente ad inviare aiuti (…)
Possiamo affermare che le incertezze derivanti dalla futura evoluzione
degli avvenimenti in Kirghizia, sommate alle reiterate assicurazioni
date dalle nuove autorità circa il mantenimento e lo sviluppo dei
legami con la Russia, fanno registrare al momento differenze
sostanziali rispetto a quanto è avvenuto nelle altre "rivoluzioni dei
colori" attuate nello spazio postsovietico (…)"
"La Kirghizia come parte della Teoria del Domino",
http://www.cubasocialista.cu ,aprile 2005
La versione italiana in
www.resistenze.org - popoli resistenti – kirghisia – 06-05-05

(2) http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml
La traduzione della seconda parte dell'articolo di Dmitrij Jakushev,
con il titolo "Juschenko negli USA", in
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – russia –27-04-05

(3) Va segnalato il particolare attivismo delle varie ONG
"umanitarie", religiose, ecc. (compresi gruppi organizzati italiani)
che, dopo avere operato in Serbia, Ucraina, Georgia e Kirghizia, oggi
stanno convergendo massicciamente in Bielorussia.

(4) Jurij Krupnov, "Perché la Bielorussia non diventerà la
Kirghizia?", http://www.contrtv.ru/common/1110/

(5) http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml

(6) "Il Manifesto", 10 maggio 2005
C'è da dire che altri esponenti della "sinistra alternativa" non
sembrano prendere nemmeno in considerazione la lucida analisi
formulata dal giornalista del "Manifesto". E' il caso, ad esempio, di
Salvatore Cannavò ("Liberazione", 10 maggio 2005) che, a dispetto
dell'evidenza e sottovalutando le velleità egemoniche ed
espansioniste, con tratti fascisti, dell'attuale amministrazione USA,
appare persuaso che all'ultimo insidioso attacco di Bush alla Russia
possano solo " seguire accordi e mediazioni che permettano ai due
progetti di rimanere complementari e di non scornarsi troppo".

(7) Sull'entità del massiccio sostegno americano e occidentale al
terrorismo ceceno: John Laughland, "The Cechens' American friends",
The Guardian, September 8 2004,
http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,1299318,00.html

(8) Mikhail Cernov, "Come cercheranno di rovesciare Putin",
http://www.contrtv.ru/common/1091
La traduzione in italiano in
www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 03-05-05