La seguente recensione di ?Italiani senza onore?, di Costantino Di Sante,
è apparsa sull'ultimo numero de L'ERNESTO (2/2005 - per l'indice vai a:
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=4 )

Stefano G. Azzarà

I crimini italiani in Jugoslavia e il paradigma antifascista

E? probabile che l?idea di un?egemonia marxista sulla cultura italiana del
secondo dopoguerra sia stata niente più di una leggenda alla quale, per autocompiacimento,
molti di noi hanno finito per credere. Per tanti aspetti, la storia della
reale incidenza del materialismo storico sul mondo delle lettere e delle
arti, dell?università e della ricerca, dell?intellettualità in senso lato
del nostro Paese, andrebbe scritta per intero. Andrebbe fatta, in altre parole,
un?accurata ricognizione di tipo gramsciano, capace di mettere in questione
anche e in primo luogo gli stessi ceti intellettuali ? per così dire - ?di
sinistra? e di mostrarne le reali radici culturali e la reale collocazione
nell?ambito della lotta ideologica. Tuttavia, tra tanti dubbi una cosa sembra
certa: in Italia, e più in generale anche in ambito internazionale, è esistita
una salda ?egemonia? del paradigma antifascista di interpretazione delle
vicende storiche della Seconda guerra mondiale e, per analogia, dell?intera
storia del Novecento che ne è seguita. Non soltanto nel campo degli studi
storiografici, proprio questa impostazione, molto più che ogni fondato e
consapevole riferimento al marxismo, è stata la cifra dell?appartenenza e
del riconoscimento culturale ?di sinistra?.
Se si guarda appena al di sotto della superficie e delle stanche retoriche
celebrative, non è difficile vedere come tale impostazione ? che pure ha
avuto una sua nobile legittimità e ha consentito al PCI di incontrare numerosi
?compagni di strada? - sia oggi a pezzi e difficilmente possa essere ricostruita,
se mai fosse utile farlo. L?offensiva culturale delle classi dominanti, a
lungo inosservata o sottovalutata, si è soffermata infatti in particolar
modo proprio sulla sua destrutturazione. Il prevalere di una classe nei rapporti
di forza tra i grandi raggruppamenti sociali (e i simultanei riaggiustamenti
nell?ambito dei rapporti tra le nazioni) si consolida dando vita gradualmente
ad una mentalità diffusa e non è affatto vero che le visioni del mondo passino
in maniera lineare, nella loro formazione, dall?alta cultura al senso comune
? dalla storiografia accademica alla cultura di massa. I meccanismi dell?egemonia
sono più complessi ed ogni livello di produzione ed elaborazione delle forme
di coscienza è intrecciato ad ogni altro. Ripetiamo cose già dette: siamo
di fronte ad un passaggio d?epoca, ad un fenomeno di portata mondiale che
ha a che fare con una sconfitta storica di fase e che, in quanto ristruttura
la realtà nel suo complesso, ristruttura anche le forme di coscienza, ciò
che oggi è in voga chiamare ?il simbolico?, ?l?immaginario?.
Tuttavia l?Italia, che ha sempre avuto un ruolo geopolitico del tutto peculiare,
è stata anche un laboratorio di sperimentazione ?geoculturale?. Esiste da
molto tempo nel nostro Paese un revisionismo storiografico che ha certamente
fatto il suo lavoro di scavo: pensiamo a Renzo De Felice e alla sua scuola,
oppure alla rivista ?Nuova Storia Contemporanea?. In questo campo, però,
si può dire che gli sforzi di gran lunga maggiori verso una radicale revisione
del paradigma antifascista siano da attribuire in primo luogo proprio alla
stessa sinistra culturale sconfitta. Non si tratta affatto di un paradosso:
anche per via della pochezza della storiografia conservatrice - a lungo ancorata
ad un impresentabile nostalgismo repubblichino, oltre che del tutto priva
della minima credibilità metodologica e scientifica -, il revisionismo storiografico
in Italia è un fenomeno pressoché interamente ?di sinistra?. Impossibile
spiegare qua come esso sia al tempo stesso una forma di elaborazione del
lutto e una strategia di sopravvivenza, per alcuni influenti gruppi sociali
e accademici. Basti dire, per citare diversi campi di intervento, che è ben
più efficace un Pansa che mille Petacco; un Mieli che mille Perfetti; un
Violante che mille Tremaglia.
Esiste poi la cultura di massa in senso lato, nella quale la capacità di
controllo delle classi dominanti - a partire dalla proprietà dei mezzi di
produzione dell?informazione e dello spettacolo, nonché dalla presenza di
un ceto effficiente di ?intellettuali organici? -, è più diretta, come più
immediata è la capacità di costruzione dell?immaginario collettivo. E? quanto
dimostra, ad esempio, l?operazione mediatica di falsificazione della memoria
nazionale orchestrata negli ultimi anni attorno alla questione delle foibe.
Un prodotto culturale ?militante? come lo sceneggiato trasmesso dalla televisione
pubblica Il cuore nel pozzo, per citare un titolo, è emblematico di una precisa
strategia politico-comunicativa ad ampio raggio, che andrebbe studiata accuratamente
in tutti i suoi risvolti.
Di fronte a questa offensiva culturale organica ed articolata, appare persino
controproducente impegnarsi in una difesa di retroguardia del paradigma antifascista
così come lo abbiamo conosciuto e praticato sinora. Qual è infatti il nuovo
uso che oggi se ne fa? Scrive Pierluigi Battista, a proposito della guerra
in Iraq, che gli «?insorti? iracheni che si oppongono con le armi del terrore
al nuovo governo di Baghdad» vanno definiti «non guerriglieri, o terroristi,
o ?resistenti?? ma ?fascisti?, semplicemente e brutalmente ?fascisti?» (?Corriere
della sera?, 7 febbraio 2005). Se anche per Fassino i veri «resistenti» sono
«gli iracheni che si sono recati alle urne» e non quelli che combattono gli
americani, è chiaro che risulta sconvolta «l?attitudine politico-culturale
sin qui dominante», tanto da «ribaltare persino il senso delle vecchie analogie
storiche». Il giornalista ha ragione: con questa semplice definizione, si
sancisce «il tracollo di un quadro concettuale» e si ottiene un «cambio di
prospettiva» che riguarda sì l?Iraq ma riguarda ancor di più l?interpretazione
generale delle vicende storico-politiche del secolo alle nostre spalle e
di quello appena iniziato. Qualcosa è cambiato per sempre: conclusa la Guerra
Fredda, il paradigma antifascista ha perduto il suo senso originario e ne
ha assunto - come si vede nell?uso che ne fanno non solo Battista e Fassino
ma soprattutto Bush e il ?Weekly Standard? - uno nuovo. Un senso del tutto
interno al liberalismo trionfante e del tutto funzionale alla legittimazione
dell?offensiva ?internazionalista? degli Stati Uniti, nella sua versione
umanitaria prima, in quella neoconservatrice dopo. Difendere acriticamente
questo paradigma, significa purtroppo ? ferme restando le buone intenzioni
- essere culturalmente subalterni a tale offensiva.
Intendiamo forse dire che bisogna piegarsi all?egemonia del revisionismo
storico e cessare di essere antifascisti? Esattamente il contrario. Essere
?antifascisti? alla maniera di Bush significa però oggi sposare l?ideologia
dell?universalismo liberaldemocratico statunitense, per la quale il ?terrorismo?
e la guerriglia attuali, come il nazifascismo e lo stesso comunismo di ieri,
si confondono l?uno nell?altro in quella notte nera che porta il nome di
totalitarismo. E? atto elementare di resistenza culturale, allora, prendere
atto dei cambiamenti semantici avvenuti e contrapporre offensiva ad offensiva,
operando consapevolmente una diversa ed autonoma ?revisione? delle categorie
e dei paradigmi storiografici sinora utilizzati e ridefinendo integralmente,
in chiave storico-materialistica, lo stesso antifascismo, per capire cosa
esso oggi e per noi debba significare.
Il materiale per una rilettura di questo tipo è immenso. La storiografia
legata al PCI ? ad un partito che doveva giustamente presentarsi come l?erede
della storia e della cultura nazionale ? aveva un interesse particolare nello
studio e nella valorizzazione della Resistenza come movimento di liberazione
popolare e di costruzione dell?unità del Paese, un fenomeno tutto interno
alla storia italiana e quasi un completamento dell?impresa risorgimentale.
In tal modo, però, essa ha finito per dedicare meno energie sia all?analisi
di determinati aspetti del regime fascista, sia alle guerre condotte dagli
italiani in Africa prima, nel quadro del conflitto mondiale poi. Allo stesso
modo, esigenze realpolitiche legate alla Guerra Fredda hanno dissuaso questa
storiografia dall?indagare a dovere sia sulle stragi tedesche in Italia,
sia sui bombardamenti alleati, sia su quell?occupazione americana dalla quale
è scaturito lo status semi-coloniale che il nostro Paese ha avuto nel dopoguerra
e tuttora mantiene. Soprattutto, però, il paradigma antifascista e la conseguente
vulgata ?resistenziale? hanno impedito di cogliere adeguatamente la complessità
delle diverse dimensioni e dei diversi conflitti che si sono intrecciati
nella Seconda guerra mondiale. In essa era in gioco principalmente l?ordinamento
eurocentrico della Terra. Affermatosi in cinquecento anni di colonialismo
ed imperialismo, il primato europeo era stato messo in discussione sia da
quella «guerra fratricida dei bianchi» (Spengler) in cui si era risolta la
Grande Guerra, sia dal risveglio dei popoli colonizzati. L?ondata di lotte
per la liberazione nazionale e l?indipendenza prima e dopo il 1939 ? strettamente
connesse con la rivoluzione d?Ottobre ?, va intesa come un movimento di Resistenza
internazionale che costituisce il contesto della stessa Resistenza europea
e italiana. Il nazifascismo è infatti essenzialmente il tentativo di restaurare
in nuove vesti, su scala planetaria e persino nel continente europeo, l?ordine
coloniale e razziale che il vecchio imperialismo inglese e francese non era
più in grado di mantenere. A questa dinamica si andava intrecciando, poi,
la presenza del progetto egemonistico statunitense: una nuova forma di imperialismo
non territoriale che, consolidatasi già dalla fine del XIX secolo, troverà
proprio nel corso della Seconda guerra mondiale la possibilità di insediarsi
anche nella piattaforma europea.
Non è possibile approfondire questo discorso in questa sede, ma i nodi storici
da affrontare non mancano: si tratta di lavorare consapevolmente nella direzione
di un?integrale rilettura del Novecento, della quale da anni si avverte l?esigenza
ma che troppo poco viene ancora concretamente praticata. Basti dire che,
se quello che abbiamo delineato è un significato possibile del nazifascismo,
anche il significato dell?antifascismo deve per noi cambiare, con tutte le
conseguenze che ciò comporta per la nostra collocazione politica rispetto
alla persistenza e al rilancio odierni del progetto coloniale occidentale
nella sua versione ?postmoderna? statunitense. Proprio in questa direzione
ci sembra che fornisca un notevole contributo il libro, a cura di Costantino
Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati
1941-1951 (ombre corte, Verona 2005). Già da tempo gli studi di Angelo Del
Boca sulla guerra italiana in Africa orientale hanno definitivamente smantellato
il mito montanelliano del ?buon soldato? italiano ? propenso a fraternizzare
con le popolazioni civili ed incapace di qualunque eccesso -, mostrando invece
la sistematicità di una guerra coloniale, di sterminio e razziale, condotta
con metodi brutali e del tutto interna alla tradizione dell?imperialismo
occidentale. E? quanto Di Sante comincia a fare, ora, per le operazioni militari
italiane sul fronte slavo, raccogliendo in questo libro una gran mole di
importante materiale documentario, che si rivela indispensabile per comprendere
il contesto delle successive vicende legate alle foibe.
«Soldati d?Italia, combattenti nel Montenegro!» - recitava l?appello del
Governatore militare del Montenegro, Generale d?Armata Alessandro Pirzio
Biroli - «La guerra che qui conducete non è separata dalla grande guerra
che divampa in tutto il mondo» (82-3). Essa si inserisce per intero in un
disegno di vasta portata, perché è parte integrante di quella strategia imperialista
di costruzione di un Nuovo Ordine Europeo di cui l?Asse si è fatto portatore.
Questa guerra ha però bisogno, come tutte le guerre, di costruirsi un un
passato immaginario e di elaborare un?immagine del nemico. Ecco che alle
truppe italiane, impegnate a portare «la millenaria civiltà di Roma», risponde
allora, «con l?aggressione vile e subdola», un nemico particolare: gli eterni
slavi «presuntuosi, incostanti e vendicativi che conservano nell?animo le
stesse stigmate delle antiche orde asiatiche». Sì, gli Slavi, barbari e selvaggi,
«rifiutano la nostra civiltà romana nel nome della falce e martello»; essi
«odiano la nostra superiorità di razza e di ideali, per la stessa ragione
che spinge il Male contro il Bene». Essi sono «barbari briganti» che il «fertile
sangue latino» deve «punire secondo le leggi incorruttibili della giustizia».
Ed ecco allora che scatta l?invito esplicito alla guerra di sterminio: «bisogna
che per ogni compagno caduto paghino con la vita dieci ribelli». Una guerra
di sterminio che diventa ben presto guerra totale, indifferente a distinguere
il nemico in armi dalla popolazione civile, come nella tradizione consueta
delle conquiste coloniali: «Ricordate che il nemico è dappertutto; il passante
che incontrate e che vi saluta, la donna alla quale vi avvicinate, il padrone
di casa che vi ospita, l?albergatore che vi vende un bicchiere di vino».
«Odiate questo popolo», dunque; «esso è quel medesimo popolo contro il quale
abbiamo combattuto per secoli sulle sponde dell?Adriatico», per cui «ammazzate,
fucilate, incendiate e distruggete questo popolo!».
Sono direttive prontamente rispettate, come mostra la documentazione raccolta
dalla commissione sui crimini di guerra italiani istituita dal governo jugoslavo.
Rappresaglie, rastrellamenti, violenze e stupri, incendi di interi villaggi,
violazione sistematica di ogni convenzione internazionale di guerra, razzizzazione
integrale dei popoli slavi e, in determinate fasi, tentativi sistematici
di cancellarli come tali: questo è il contesto al di fuori del quale non
si comprende nulla della guerra di liberazione e unificazione nazionale condotta
dai partigiani titini. «La politica italiana di espansione nei Balcani»,
dice Di Sante, «venne contraddistinta da inaudite violenze, che non furono
episodi isolati o eccessi di singoli, ma componenti essenziali della strategia
di dominio territoriale dell?Italia fascista» (11). Alla fine della guerra,
il tentativo jugoslavo di ottenere giustizia attraverso la consegna dei criminali
di guerra italiani, inchiodati da innumerevoli prove, darà però il via ad
una precisa strategia della «rimozione» e dell?«oblio» da parte italiana.
Sin dall?inizio, le autorità militari italiane e lo stesso governo si impegneranno
a minimizzare gli eventi, a distorcerli e falsificarli, sino a ricondurli
a limitati ?eccessi? di singoli. In questa strategia difensiva, inoltre,
«la maggior parte delle violenze e degli ?eccessi? erano stati commessi?
in risposta alle ?barbare sevizie? subite dai soldati italiani ad opera dei
?ribelli comunisti?», mentre « la responsabilità delle efferatezze più gravi
risultava quasi sempre addossata ai tedeschi», oppure «agli ustasa», ma soprattutto
« alle lotte intestine tra le popolazioni locali». Al contrario, «venivano
evidenziate le gesta di ?umanità ed aiuto? prestate agli abitanti delle zone
sotto il controllo dfelle autorità fasciste» (20). Già allora, le responsabilità
vengono dunque completamente ribaltate sui ?barbari? slavi e in particolare
sulle formazioni partigiane titine, secondo una precisa strategia che è possibile
ancora oggi vedere all?opera nel dibattito sulle foibe. In questo modo, le
autorità italiane riusciranno efficacemente a prendere tempo fino ad insabbiare
del tutto la vicenda, sebbene tutto ciò comportasse la rinuncia a processare
i criminali di guerra tedeschi responsabili delle stragi in Italia.
Dopo i numerosi libri usciti di recente sulla questione delle foibe, il libro
curato da Di Sante sui crimini italiani in Jugoslavia è un?importante eccezione
che va in controtendenza. Immenso è però il lavoro ancora da fare nello studio
di un secolo, il Novecento, che troppo in fretta si cerca di dimenticare
senza averlo nemmeno compreso sino in fondo. L?apertura di molti importantissimi
archivi ? in Russia come negli Stati Uniti e nel nostro stesso Paese - offre
adesso alla storiografia un materiale prezioso, che integrerà e modificherà
inevitabilmente la nostra conoscenza del passato recente dell?Europa. Sull?interpretazione
di questo materiale si gioca una partita culturale e politica cruciale, quella
della costruzione di una nuova memoria e di una nuova egemonia. Non è il
caso di lasciare l?iniziativa all?avversario.



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