Il Manifesto, 29/03/2006
La vergogna nell'armadio
di Enzo Collotti
Tra mezze verità e mezze menzogne è giunta a una conclusione pilatesca
l'inchiesta parlamentare sulle cause dell'occultamento dei fascicoli
relativi ai crimini nazifascisti prima e dopo l'8 settembre. Eppure la
relazione di minoranza ha messo in luce con chiarezza connivenze e
responsabilità nell'azione di copertura
Con la presentazione della relazione firmata dalla maggioranza si è
conclusa nelle scorse settimane l'attività della commissione
parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli
relativi a crimini nazifascisti. La commissione era stata istituita
(con legge 15 maggio 2003, n. 107) allo scopo di indagare le
motivazioni e le circostanze che portarono all'occultamento, nel
cosiddetto «armadio della vergogna», di parecchie centinaia di
fascicoli relativi a istruttorie avviate, ma mai portate a termine,
dalla magistratura militare in merito a fatti criminosi di cui si
resero responsabili fascisti e nazisti durante la seconda guerra
mondiale. Ma la relazione di maggioranza della commissione presentata
dal parlamentare di An Raisi, a quel che sappiamo, è riuscita a non
contentare nessuno se è vero che su di essa si è astenuto perfino il
presidente della Commissione, l'esponente dell'Udc Tanzilli, sorpreso
egli stesso dalla conclusione pilatesca con la quale il relatore
escludeva che l'occultamento fosse mai avvenuto. Per questo, in
mancanza di qualsiasi spiegazione su come fosse potuto accadere che
ben 695 fascicoli relativi a fatti di estrema gravità fossero spariti
dalla circolazione, se ne potrebbe concludere che a nulla è servita
l'inchiesta parlamentare, salvo a ribadire per la seconda volta
l'impossibilità di venire a capo in maniera attendibile di quello che
rimane uno degli ennesimi misteri d'Italia. In realtà, le cose non
stanno esattamente in questi termini: per fortuna infatti esiste una
relazione di minoranza - seria, documentata, sostenuta dall'audizione
di una pattuglia di agguerriti esperti - che cerca di dare una
risposta argomentata e politica ai molti quesiti e ai molti filoni
d'indagine che sono stati affrontati dalla Commissione. Si tratta di
un lavoro che, se potesse essere pubblicato, di per sé
rappresenterebbe una sorta di «libro nero» della giustizia italiana in
materia di crimini di guerra: un testo che metterebbe a nudo non solo
connivenze e tutele corporative di settori delle forze armate italiane
nelle pieghe della continuità dello stato a cavallo dell'armistizio
dell'8 settembre del 1943, ma anche complicità e responsabilità dei
ministri della difesa e degli esteri della repubblica italiana per le
impunità accordate prima a membri delle forze armate e dell'apparato
fascista per crimini commessi prima del settembre del '43 in territori
d'occupazione dell'Italia e in seguito, dopo l'8 settembre, ad
appartenenti all'apparato repressivo nazista e ai suoi complici della
Repubblica di Salò per azioni in violazione dei diritti umani contro
la popolazione italiana sotto l'occupazione tedesca. Si tratta di un
complesso di procedure e di problemi, di un intreccio di circostanze e
di interferenze apparentemente inspiegabili, spesso con una forte
componente di carattere tecnico, che fanno sì che molte questioni non
siano facilmente accessibili ad un pubblico non particolarmente
esperto. Questo ha consentito ogni possibilità di sottrarle
all'attenzione del grosso pubblico, nonostante il rilievo politico che
molte di esse indubbiamente avevano e retrospettivamente tuttora
hanno. Facciamo un solo esempio, ma capitale, per capire le molte
filiazioni di problemi al tempo stesso giuridici, storici e politici
(di politica interna e di politica internazionale) che sono derivate
dalla domanda preliminare sottesa all'impostazione generale
dell'inchiesta, ossia il quesito sulla perseguibilità dei criminali di
guerra. Ebbene, una volta posto il quesito, l'indagine ha aperto una
serie di passaggi necessari per arrivare a circoscrivere l'oggetto
specifico della ricerca. Tra di essi, i casi più importanti hanno
richiesto la ricognizione di almeno questi punti: 1) la questione dei
crimini di guerra commessi dall'Italia in particolare in Jugoslavia e
in Grecia, come e perché non vennero mai puniti; 2) la questione - al
di là delle iniziali intenzioni - della mancata punizione dei
responsabili di crimini commessi dai tedeschi in Italia, motivata
spesso dall'utilizzazione di costoro da parte dei servizi segreti
statunitensi, compreso il caso clamoroso di Theodor Saevecke, il
responsabile delle uccisioni di piazzale Loreto dell'agosto del 1944,
che ha potuto essere processato a Torino soltanto nel 1998 alla
vigilia della morte, dopo avere percorso una onorata carriera nella
politica della Bundesrepublik; 3) la sorte dei collaborazionisti
italiani reclutati per i servizi segreti statunitensi, quali gli
esponenti della X Mas, con in testa Valerio Borghese, la cui storia
porta anche alle origini dell'organizzazione Gladio. Bastano queste
citazioni per concludere che non vi è chi non veda la rilevanza tutta
politica delle circostanze citate. Una volta scoperchiata la pentola,
è incalcolabile la dose dei veleni che ne fuoriescono, veleni che
hanno corroso il fragile scheletro della democrazia italiana.
Fermiamoci a uno solo dei filoni che abbiamo citato, perché è quello
con il quale dovremmo confrontarci più da vicino, dato che ormai non
passa giorno che la politica italiana non torni a protestare la sua
innocenza e a presentare l'Italia come vittima di altrui nefandezze.
Parliamo dei crimini commessi dall'Italia durante la sua occupazione
in Jugoslavia e in Grecia (sulle questioni coloniali altri è già
intervenuto con maggiore autorità e competenza). Ebbene, avevamo
sperato, come del resto è stato auspicato anche da altri, che in
occasione dell'ultima giornata del ricordo il presidente della
repubblica potesse levare una autorevole parola per impedire che
ancora una volta si celebrasse quella che è stata ripetutamente
definita come una memoria dimezzata. Ma questa speranza è stata una
volta di più delusa, soffocata solo da retorica patriottica. Parlare
delle ferite che l'Italia ha inferto ad altri popoli, oltre che in
primo luogo alla propria dignità, in questo paese significa pur sempre
compiere delitto di lesa patria. E così, barcamenandoci tra mezze
verità e mezze menzogne, perpetuiamo le ambiguità di chi non ha mai il
coraggio civile di fare i conti con la propria storia, rifiutando
quella radicalità etica che altri popoli, per esempio i tedeschi,
hanno saputo assumere, dando prova del loro senso di responsabilità e
della loro attendibilità. Eppure i lavori della commissione sembravano
avere fatto propri gli esiti delle ricerche di studiosi seri e
affidabili - lo storico tedesco Klinkhammer e almeno gli storici
italiani Pezzino e Focardi - che in più circostanze hanno chiarito
come e perché i crimini italiani siano rimasti impuniti, e come e
perché non sia stata perseguita neppure la pista dei crimini tedeschi,
nel timore che una riapertura di questo discorso costringesse a
portare alla sbarra anche militari e funzionari italiani imputati di
crimini. Gli studi avevano evidenziato la politica della diplomazia e
dei governi italiani da Badoglio in poi per dilazionare ogni risposta
alle richieste di Grecia e soprattutto Jugoslavia (senza contare
Albania ed Etiopia), incoraggiati in questa loro tattica dal graduale
venir meno negli stessi anglo- americani - che pure avevano
caldeggiato la punizione dei crimini - di ogni interesse nel riaprire
il contenzioso con l'Italia, da parte inglese presumibilmente per non
indebolire il ruolo della monarchia nella fase della cobelligeranza.
Ma neppure dopo il trattato di pace del febbraio del 1947, che pure
attribuiva ai vincitori il diritto di rivendicare la consegna degli
incriminati, gli alleati intesero servirsi della loro possibilità di
un intervento che avrebbe incoraggiato anche le residue pretese di
Grecia e Jugoslavia di arrivare a una resa dei conti. La
documentazione di prima mano di questi comportamenti, che videro in
primo piano l'attività del ministero degli esteri e di quello della
difesa, sembrava fosse stata acquisita dalla commissione d'inchiesta
ma per quel che ne sappiamo non è stata alla fine recepita nella
relazione conclusiva. Evidentemente, nell'ottica di una tutela a
oltranza dell'onore nazional- patriottico, dei responsabili italiani
dei crimini non deve rimanere la benché minima traccia, così come
traccia non deve rimanere dei collaborazionisti fascisti di Salò che
si resero corresponsabili delle stragi naziste dell'estate del 1944 e
dei mesi precedenti la sconfitta della Wehrmacht sul fronte italiano.
Diciamo francamente che si tratta di una assai poco onorevole pagina
della nostra fuoriuscita dalla guerra. Per sottrarsi a un giudizio
internazionale il governo italiano si impegnò a sottoporre alla
giustizia italiana i responsabili di crimini, ma si preoccupò poi
essenzialmente di dilazionarne il giudizio fino ad assicurarne
l'impunità, speculando fra l'altro sulla guerra fredda, una volta
ottenuto il tacito assenso degli angloamericani al colpo di spugna.
Nessuna preoccupazione dunque di fare chiarezza sui comportamenti
dell'Italia, solo l'enfatizzazione dell'orgoglio nazionale, la
soddisfazione per avere umiliato greci e jugoslavi, ostaggi oramai di
conflitti tra grandi potenze che passavano tranquillamente sulle loro
teste, l'ottimo risultato di avere dato coperture corporative ferree
ai rappresentanti dell'imperialismo fascista e ai collaborazionisti
con i tedeschi. L'ultima delle preoccupazioni era evidentemente quella
di dare una risposta positiva al senso di giustizia delle popolazioni
che erano state offese dalla ferocia degli occupanti. Se è vero che
dai lavori della Commissione che ha indagato sull'armadio della
vergogna è stata esclusa molta della documentazione che abbiamo
citato, bisognerà pure che qualcuno ci spieghi a quale risultato è
approdato il lavoro della commissione e se alla vergogna dell'armadio
non si è aggiunta anche quella vera di avere sprecato una occasione
irripetibile per fare luce su un nodo non irrilevante del nostro
passato. Probabilmente anche una occasione in più per riflettere come
e perché nel nostro paese non sia possibile alcuna impostazione seria
di un discorso che riguardi la politica della memoria, che è sempre
una memoria non solo dimezzata ma anche strabica.
La vergogna nell'armadio
di Enzo Collotti
Tra mezze verità e mezze menzogne è giunta a una conclusione pilatesca
l'inchiesta parlamentare sulle cause dell'occultamento dei fascicoli
relativi ai crimini nazifascisti prima e dopo l'8 settembre. Eppure la
relazione di minoranza ha messo in luce con chiarezza connivenze e
responsabilità nell'azione di copertura
Con la presentazione della relazione firmata dalla maggioranza si è
conclusa nelle scorse settimane l'attività della commissione
parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli
relativi a crimini nazifascisti. La commissione era stata istituita
(con legge 15 maggio 2003, n. 107) allo scopo di indagare le
motivazioni e le circostanze che portarono all'occultamento, nel
cosiddetto «armadio della vergogna», di parecchie centinaia di
fascicoli relativi a istruttorie avviate, ma mai portate a termine,
dalla magistratura militare in merito a fatti criminosi di cui si
resero responsabili fascisti e nazisti durante la seconda guerra
mondiale. Ma la relazione di maggioranza della commissione presentata
dal parlamentare di An Raisi, a quel che sappiamo, è riuscita a non
contentare nessuno se è vero che su di essa si è astenuto perfino il
presidente della Commissione, l'esponente dell'Udc Tanzilli, sorpreso
egli stesso dalla conclusione pilatesca con la quale il relatore
escludeva che l'occultamento fosse mai avvenuto. Per questo, in
mancanza di qualsiasi spiegazione su come fosse potuto accadere che
ben 695 fascicoli relativi a fatti di estrema gravità fossero spariti
dalla circolazione, se ne potrebbe concludere che a nulla è servita
l'inchiesta parlamentare, salvo a ribadire per la seconda volta
l'impossibilità di venire a capo in maniera attendibile di quello che
rimane uno degli ennesimi misteri d'Italia. In realtà, le cose non
stanno esattamente in questi termini: per fortuna infatti esiste una
relazione di minoranza - seria, documentata, sostenuta dall'audizione
di una pattuglia di agguerriti esperti - che cerca di dare una
risposta argomentata e politica ai molti quesiti e ai molti filoni
d'indagine che sono stati affrontati dalla Commissione. Si tratta di
un lavoro che, se potesse essere pubblicato, di per sé
rappresenterebbe una sorta di «libro nero» della giustizia italiana in
materia di crimini di guerra: un testo che metterebbe a nudo non solo
connivenze e tutele corporative di settori delle forze armate italiane
nelle pieghe della continuità dello stato a cavallo dell'armistizio
dell'8 settembre del 1943, ma anche complicità e responsabilità dei
ministri della difesa e degli esteri della repubblica italiana per le
impunità accordate prima a membri delle forze armate e dell'apparato
fascista per crimini commessi prima del settembre del '43 in territori
d'occupazione dell'Italia e in seguito, dopo l'8 settembre, ad
appartenenti all'apparato repressivo nazista e ai suoi complici della
Repubblica di Salò per azioni in violazione dei diritti umani contro
la popolazione italiana sotto l'occupazione tedesca. Si tratta di un
complesso di procedure e di problemi, di un intreccio di circostanze e
di interferenze apparentemente inspiegabili, spesso con una forte
componente di carattere tecnico, che fanno sì che molte questioni non
siano facilmente accessibili ad un pubblico non particolarmente
esperto. Questo ha consentito ogni possibilità di sottrarle
all'attenzione del grosso pubblico, nonostante il rilievo politico che
molte di esse indubbiamente avevano e retrospettivamente tuttora
hanno. Facciamo un solo esempio, ma capitale, per capire le molte
filiazioni di problemi al tempo stesso giuridici, storici e politici
(di politica interna e di politica internazionale) che sono derivate
dalla domanda preliminare sottesa all'impostazione generale
dell'inchiesta, ossia il quesito sulla perseguibilità dei criminali di
guerra. Ebbene, una volta posto il quesito, l'indagine ha aperto una
serie di passaggi necessari per arrivare a circoscrivere l'oggetto
specifico della ricerca. Tra di essi, i casi più importanti hanno
richiesto la ricognizione di almeno questi punti: 1) la questione dei
crimini di guerra commessi dall'Italia in particolare in Jugoslavia e
in Grecia, come e perché non vennero mai puniti; 2) la questione - al
di là delle iniziali intenzioni - della mancata punizione dei
responsabili di crimini commessi dai tedeschi in Italia, motivata
spesso dall'utilizzazione di costoro da parte dei servizi segreti
statunitensi, compreso il caso clamoroso di Theodor Saevecke, il
responsabile delle uccisioni di piazzale Loreto dell'agosto del 1944,
che ha potuto essere processato a Torino soltanto nel 1998 alla
vigilia della morte, dopo avere percorso una onorata carriera nella
politica della Bundesrepublik; 3) la sorte dei collaborazionisti
italiani reclutati per i servizi segreti statunitensi, quali gli
esponenti della X Mas, con in testa Valerio Borghese, la cui storia
porta anche alle origini dell'organizzazione Gladio. Bastano queste
citazioni per concludere che non vi è chi non veda la rilevanza tutta
politica delle circostanze citate. Una volta scoperchiata la pentola,
è incalcolabile la dose dei veleni che ne fuoriescono, veleni che
hanno corroso il fragile scheletro della democrazia italiana.
Fermiamoci a uno solo dei filoni che abbiamo citato, perché è quello
con il quale dovremmo confrontarci più da vicino, dato che ormai non
passa giorno che la politica italiana non torni a protestare la sua
innocenza e a presentare l'Italia come vittima di altrui nefandezze.
Parliamo dei crimini commessi dall'Italia durante la sua occupazione
in Jugoslavia e in Grecia (sulle questioni coloniali altri è già
intervenuto con maggiore autorità e competenza). Ebbene, avevamo
sperato, come del resto è stato auspicato anche da altri, che in
occasione dell'ultima giornata del ricordo il presidente della
repubblica potesse levare una autorevole parola per impedire che
ancora una volta si celebrasse quella che è stata ripetutamente
definita come una memoria dimezzata. Ma questa speranza è stata una
volta di più delusa, soffocata solo da retorica patriottica. Parlare
delle ferite che l'Italia ha inferto ad altri popoli, oltre che in
primo luogo alla propria dignità, in questo paese significa pur sempre
compiere delitto di lesa patria. E così, barcamenandoci tra mezze
verità e mezze menzogne, perpetuiamo le ambiguità di chi non ha mai il
coraggio civile di fare i conti con la propria storia, rifiutando
quella radicalità etica che altri popoli, per esempio i tedeschi,
hanno saputo assumere, dando prova del loro senso di responsabilità e
della loro attendibilità. Eppure i lavori della commissione sembravano
avere fatto propri gli esiti delle ricerche di studiosi seri e
affidabili - lo storico tedesco Klinkhammer e almeno gli storici
italiani Pezzino e Focardi - che in più circostanze hanno chiarito
come e perché i crimini italiani siano rimasti impuniti, e come e
perché non sia stata perseguita neppure la pista dei crimini tedeschi,
nel timore che una riapertura di questo discorso costringesse a
portare alla sbarra anche militari e funzionari italiani imputati di
crimini. Gli studi avevano evidenziato la politica della diplomazia e
dei governi italiani da Badoglio in poi per dilazionare ogni risposta
alle richieste di Grecia e soprattutto Jugoslavia (senza contare
Albania ed Etiopia), incoraggiati in questa loro tattica dal graduale
venir meno negli stessi anglo- americani - che pure avevano
caldeggiato la punizione dei crimini - di ogni interesse nel riaprire
il contenzioso con l'Italia, da parte inglese presumibilmente per non
indebolire il ruolo della monarchia nella fase della cobelligeranza.
Ma neppure dopo il trattato di pace del febbraio del 1947, che pure
attribuiva ai vincitori il diritto di rivendicare la consegna degli
incriminati, gli alleati intesero servirsi della loro possibilità di
un intervento che avrebbe incoraggiato anche le residue pretese di
Grecia e Jugoslavia di arrivare a una resa dei conti. La
documentazione di prima mano di questi comportamenti, che videro in
primo piano l'attività del ministero degli esteri e di quello della
difesa, sembrava fosse stata acquisita dalla commissione d'inchiesta
ma per quel che ne sappiamo non è stata alla fine recepita nella
relazione conclusiva. Evidentemente, nell'ottica di una tutela a
oltranza dell'onore nazional- patriottico, dei responsabili italiani
dei crimini non deve rimanere la benché minima traccia, così come
traccia non deve rimanere dei collaborazionisti fascisti di Salò che
si resero corresponsabili delle stragi naziste dell'estate del 1944 e
dei mesi precedenti la sconfitta della Wehrmacht sul fronte italiano.
Diciamo francamente che si tratta di una assai poco onorevole pagina
della nostra fuoriuscita dalla guerra. Per sottrarsi a un giudizio
internazionale il governo italiano si impegnò a sottoporre alla
giustizia italiana i responsabili di crimini, ma si preoccupò poi
essenzialmente di dilazionarne il giudizio fino ad assicurarne
l'impunità, speculando fra l'altro sulla guerra fredda, una volta
ottenuto il tacito assenso degli angloamericani al colpo di spugna.
Nessuna preoccupazione dunque di fare chiarezza sui comportamenti
dell'Italia, solo l'enfatizzazione dell'orgoglio nazionale, la
soddisfazione per avere umiliato greci e jugoslavi, ostaggi oramai di
conflitti tra grandi potenze che passavano tranquillamente sulle loro
teste, l'ottimo risultato di avere dato coperture corporative ferree
ai rappresentanti dell'imperialismo fascista e ai collaborazionisti
con i tedeschi. L'ultima delle preoccupazioni era evidentemente quella
di dare una risposta positiva al senso di giustizia delle popolazioni
che erano state offese dalla ferocia degli occupanti. Se è vero che
dai lavori della Commissione che ha indagato sull'armadio della
vergogna è stata esclusa molta della documentazione che abbiamo
citato, bisognerà pure che qualcuno ci spieghi a quale risultato è
approdato il lavoro della commissione e se alla vergogna dell'armadio
non si è aggiunta anche quella vera di avere sprecato una occasione
irripetibile per fare luce su un nodo non irrilevante del nostro
passato. Probabilmente anche una occasione in più per riflettere come
e perché nel nostro paese non sia possibile alcuna impostazione seria
di un discorso che riguardi la politica della memoria, che è sempre
una memoria non solo dimezzata ma anche strabica.