Informazione

GIULIETTO CHIESA: Kostunica come Gorbaciov, o come Jeltzin? (della
serie: quelli con il vezzo di attaccare i parlamenti).

ENZO BETTIZA: Meno male che li abbiamo bombardati, e meno male che
c'e' Kostunica: adesso possiamo finalmente staccare il Kosovo! Il
tripudio del commentatore piu' antijugoslavo ed anticomunista
d'Italia.

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LETTERA
Gorbaciov e Kostunica
GIULIETTO CHIESA
(da "Il Manifesto")


Osservando l'evolversi della situazione jugoslava (ma ormai di
Jugoslavia non è più il caso di parlare), colgo un parallelo molto
netto tra la parabola, conclusa da tempo, di Mikhail Gorbaciov e
quella, appena iniziata, di Vojislav Kostunica. Lui stesso ha
indicato, qualche giorno fa - prima del suo primo viaggio
all'estero, a Biarritz, per incontrare gli europei - i pericoli
principali ai quali è sottoposto in questa delicatissima
transizione: "i problemi maggiori me li stanno creando i miei
alleati democratici"; e: "mi auguro che dall'esterno ci lascino
tranquilli". Su entrambi i pericoli c'è l'analogia con Gorbaciov.
Dieci anni fa, l'allora presidente sovietico stava combattendo su
due fronti, esattamente come Kostunica sta facendo ora (e temo
dovrà fare sempre di più nei prossimi mesi): il primo fronte era
rappresentato dall'apparato del partito, recalcitrante a ogni
cambiamento, democratico ed economico. Il secondo fronte era
rappresentato dagli "impazienti". Un fronte largo, disorganizzato
ma influente, prevalentemente composto da intellettuali ex
comunisti. Gorbaciov fu sconfitto perché la pressione dei secondi,
affinché egli realizzasse la transizione verso l'Occidente, in
fretta, a tutti i costi, lo espose sul fianco opposto
all'offensiva degli apparati di partito. Ricordiamo che i due
fronti vennero sinteticamente definiti, dalla stampa dell'epoca,
rispettivamente come "riformatori" e "conservatori", sebbene, come
poi si vide, i primi fossero più avidi di potere e di ricchezze
che genuini riformatori. Varrà la pena di ricordare anche, ai
lettori più giovani, che Gorbaciov fu scalzato dal potere da un
colpo di stato organizzato dai "conservatori" il 18 agosto del
1991. Ma anche che - come rivelò uno dei leader "democratici"
dell'epoca, Gavrijl Popov, se non ci fosse stato il golpe di
agosto, Gorbaciov lo avrebbero gettato a mare loro, in settembre o
in ottobre. Anche Kostunica deve ora fronteggiare gli impazienti
interni. I quali sono addirittura più esigenti di quanto non lo
fossero i "democratici" russi, poiché essi ritengono - solo in
parte a ragione - di essere stati gli artefici della vittoria di
Kostunica, e chiedono di essere riconosciuti come tali. Cioè
chiedono posti, influenza, potere. E anche risarcimenti, morali e
materiali. E vogliono che Kostunica faccia i conti, in fretta e
definitivamente, con gli sconfitti, con Milosevic in primo luogo.
E' probabile che Kostunica - come a suo tempo Gorbaciov - voglia
fare molte di queste cose. Ma non tutte e, soprattutto, non in
fretta. Egli sa che la vittoria elettorale c'è stata, e grande, ma
che una parte cospicua del paese ha votato per Milosevic e non può
essere ignorata (proprio in base a considerazioni democratiche).
Egli sa bene di avere vinto le elezioni anche perché nella sua
piattaforma programmatica c'era la condanna dei bombardamenti
della Nato, c'era la difesa dell'integrità territoriale dello
Stato, c'era il rifiuto di consegnare Milosevic al tribunale
internazionale dell'Aja. Non ci fossero stati questi tre punti,
con ogni probabilità Kostunica non avrebbe vinto le elezioni.
Spingerlo a bruciare le tappe, e a smentirsi, non sarà un
suggerimento salutare: né per lui, né per la gente serba, poiché
esaspererà una transizione già di per sé molto difficile e
dolorosa. Eppure è questo che sta avvenendo. Molti interrogativi
restano dunque aperti, anche sul destino di Kostunica. L'altro
pericolo viene dall'esterno. Pochi, in Occidente, hanno fatto
autocritica sulla Russia, sebbene sia ormai evidente a tutti
(coloro che hanno un minimo di onestà intellettuale) che la
ricetta occidentale (leggi, essenzialmente, americana) per la
transizione russa verso il mercato e lo stato di diritto si sia
rivelata un terrificante fallimento. Questo spiega perché si sta
ripetendo, con Kostunica, lo stesso "errore" che si fece con
Gorbaciov, quando si pretese da lui che facesse ciò che non poteva
(e non voleva) e, visto che non seguiva i consigli dell'Occidente,
lo si scaricò e si scelse Eltsin, più corrivo, cedevole e
subalterno, ma anche più corrotto e assai meno democratico. In
base al principio: sia quello che vuole, purché faccia i nostri
interessi. Che poi quelli che Eltsin fece fossero gli interessi
dell'Occidente è ancora tutta da vedere, ma questo è un altro
discorso. Il fatto è che non si vede grande saggezza, per ora, nei
comportamenti dell'Occidente. Gli europei hanno abbracciato
Kostunica, a Biarritz, e hanno fatto bene. Ma non hanno allentato
la pressione su di lui perché concluda senza indugi l'opera di
smantellamento della Jugoslavia. Inespresso, ma tangibile, aleggia
nell'aria un ricatto: aiuti, investimenti, in cambio della resa
finale della Jugoslavia di Milosevic e, s'intende, della consegna
di Milosevic in persona. Una politica europea non c'era e continua
a non esserci dove si tratta di sapere quale sarà il destino della
Bosnia, del Kosovo, del Montenegro. E sarà cosa altamente
rischiosa, per tutti, esigere da Kostunica, semplicemente, di
comunicare ai suoi elettori che quei pezzi di terra e della loro
storia (e con essi i serbi che vi si trovano) debbono andare con
Dio.

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Il voto nel Kosovo

I frutti di pace della guerra
"La Stampa", 1 novembre 2000

di Enzo Bettiza

Più passa il tempo, tanto più ci si rende conto che l'intervento
Nato contro la Serbia di Milosevic continua a produrre una
sequenza di risultati sempre più positivi ed efficaci. Ci si
accorge insomma che avevano torto sia i pacifisti ideologici, che
condannarono quell'intervento come un sopruso imperialistico, sia
i pacifisti conservatori che, in nome di un sofisticato realismo,
lo condannarono come un errore. Quel "sopruso" e quell'"errore"
non solo bloccarono l'ultimo tentativo di genocidio totale del
ventesimo secolo. Hanno provocato in seguito la caduta dell'ultimo
tiranno comunista europeo, hanno portato al potere a Belgrado un
nuovo presidente che sta ricucendo i legami interrotti con
l'Europa, hanno preparato il terreno per le prime elezioni
democratiche a cielo aperto in Kosovo, infine hanno assicurato la
vittoria del partito moderato di Ibrahim Rugova contro quello
estremista e militarista di Hashim Thaci. Il paventato "effetto
domino" non c'è stato. Ci sarebbe stato se l'Occidente, anziché
impegnarsi, avesse consentito ai serbi di svuotare il Kosovo e di
far esplodere la Macedonia e l'Albania con l'alluvione dei
profughi. Anche i governanti autonomisti di Podgorica stanno
traendo un sospiro, in attesa che Kostunica si decida a cambiare
la forma e la sostanza della "Federazione jugoslava"
trasformandola in una confederazione paritaria serbo-montenegrina.
C'è ancora chi continua a tracciare scenari catastrofici lasciando
immaginare che, da un'eventuale secessione kosovara, potrebbero
dipartirsi a raggiera una serie di cataclismi regionali. Non si
capisce se qui prevalga l'ignoranza o la malafede. La graduale
normalizzazione nella Serbia, nel Montenegro e nel Kosovo avviene
in un quadro generale completamente nuovo, dopo le quattro guerre
scatenate con centinaia di migliaia di morti da Milosevic e dalle
sue bande. La Slovenia è oramai un pezzo della Mitteleuropa in
procinto di superare gli esami di Maastricht. La Croazia, dopo la
scomparsa di Franjo Tudjman, non è più una "democratura" ma una
democrazia avviata a integrarsi anch'essa all'Europa. La
Bosnia-Erzegovina, dopo l'autopensionamento del presidente Alija
Izetbegovic, sta cercando un'uscita di sicurezza da un groviglio
istituzionale che di fatto vede quello Stato posticcio lacerato
tra una componente croata erzegovese, una "etnia" slavo-musulmana,
infine una confusa Repubblica serba che non si sa bene da chi sia
oggi guidata. Quanto alla Macedonia, dopo il ritiro del saggio
presidente Gligorov, essa non rappresenta affatto quel permanente
pericolo di disgregazione agitato dagli sceneggiatori del peggio:
il terzo albanese macedone è lealmente integrato nelle istituzioni
governative, amministrative ed economiche del Paese e dello Stato.
Resta, ovviamente, la questione delle questioni: l'indipendenza di
Pristina. Anche qui l'ottica prevalente è falsa. Non si tratta di
far "convivere" cinquantamila serbi spaventati con una nazione di
due milioni di albanesi la cui potenza demografica è peraltro la
più elevata in Europa. Si tratta di negoziare i ritmi di una
secessione progressiva quanto inevitabile. I balcanici, quando
sono moderati, sono anche maestri in operazioni omeopatiche del
genere. Kostunica e Rugova saranno all'altezza del compito?



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Unjust from the Start, Part III: The Illegal Basis of the War Crimes Tribunal

By Dr. Kosta Cavoski

[In Part III of this series, Professor Cavoski, the distinguished Yugoslav law scholar, brilliantly analyses the legal rationale for the War Crimes Tribunal. The sheer illegality of the Tribunal is of great importance given the news that the ruling politicians in Belgrade have invited the Tribunal to Belgrade and promised to cooperate in its hunt for supposed Serbian war criminals.]

If the start of the case of the Prosecutor vs. Djordje Djukic disgraced the International Criminal Tribunal at The Hague, a more serious examination of the manner in which the Tribunal was founded and its working Rules of Procedure and Evidence would also convince us that the failure was not in the least accidental.

Moreover, it could have been expected when the Security Council Resolution 808 of 22 February 1993 was issued. In spite of the fact that the Resolution expressed the intention to found an international tribunal for the prosecution of persons responsible for committing serious violations of international humanitarian law on the territory of the former Yugoslavia since 1991, the Security Council did not feel the need to provide a legal basis for its establishment.(10) The reason for this omission is simple: the existing legal system of the UN does not provide a legal basis for it, nor can there ever be one.

Half a century has passed since the founding of the UN, and its main political and executive body, the Security Council, has never assumed the right to found a tribunal since court jurisdiction rests on international treaties as a result of the absence of a universal legislative organ. This was clearly stated by the UN Secretary General in May 1993:

"The approach which in the normal course of events would be followed in establishing an international tribunal would be the conclusion of a treaty by which the member states would establish a tribunal and approve its statute. This treaty would be drawn up and adopted by an appropriate international body (e.g. the General Assembly or a specially convened conference), following which it would be opened for signing and ratification. Such an approach would have the advantage of allowing for a detailed examination and elaboration of all issues pertaining to the establishment of the international tribunal. It would also allow the states participating in the negotiation and conclusion of the treaty to fully exercise their sovereign will in particular whether they wish to become parties to the treaty or not". (UN Secretary General's Report no. S/25704 (section 18) of 3 )

The rule whereby court jurisdiction is based on international treaties has, until now, been strictly adhered to without exception. Then in Resolution 827 of 25 May 1993, the Security Council gave itself the right to establish ad hoc a tribunal whose competence was limited in time (beginning on 1 January 1991) as well as capacity (confined to the territory of the former Socialist Federal Republic of Yugoslavia). Since no such tribunal had ever been established before by the Security Council (11), it would have been appropriate to find some sort of legal basis in order to avoid the inference that "might is right". A legal basis was "found" in a very loose interpretation of a clause in Chapter VII of the UN Charter whereby the Security Council can take measures to maintain or restore international peace and security following the requisite establishment of the existence of a threat to the peace, breach of the peace or acts of aggression. In other words, the term "tribunal", as th!
e requisite institution, is taken to be a "measure". No doubt the members of the Security Council, particularly the permanent members, assumed that "might was right", but also that certain terms can be instilled with certain meanings that they never had before. Thus "measures" became synonymous with "tribunal".

The Secretary General was given the thankless task of justifying the international criminal tribunal as an enforcement measure of the Security Council which Chapter VII of the UN Charter grants it [the right to initiate]. As he was unable to refer to any valid legal basis for this authority, he reverted to the principle of expediency. "This approach," said the Secretary General "would have the advantage of being expeditious and immediately effective as all states would be under a binding obligation to take whatever action is required to carry out a decision taken as an enforcement measure under Chapter VII" (12). Thus the principle of political expediency took precedence over that of legality and legal validity.

The Secretary General knew of course, that the Security Council could not simply "create" a tribunal nor did it have the legislative authority to allow it to "create" international criminal law. He let this slip when he said that "in assigning to the International Tribunal the task of prosecuting persons responsible for serious violations of international humanitarian law, the Security Council would not be creating or purporting to 'legislate' that law. Rather, the International Tribunal would have the task of applying existing international humanitarian law." (13) Unfortunately this is not true. With Resolution 827 of 25 May, the Security Council implemented its nonexistent legislative powers. It suspended the application of the Geneva Convention of 12 August 1949 with additional Protocols, as well as the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide of 9 December 1948, whereby prosecution is entrusted to national courts. Thus, by awarding the Internati!
onal Tribunal primacy over the prosecution of crimes committed on the territory of the former SFR Yugoslavia, it annulled the competence of all national courts worldwide. One has to ask in the name of what principle could the Security Council suspend and then amend international treaties of a legislative nature.

Having assumed the right to legislate, the Security Council ventured to take another step: it delegated its nonexistent legislative competency to its creature - the International Criminal Tribunal at The Hague. Under Article 15 of the Statute of the International Tribunal it authorized its judges to adopt rules of procedure and evidence for the conduct of the pre-trial phase of proceedings, trials and appeals, the admission of evidence, the protection of victims and witnesses and other appropriate matters. In this way the Security Council not only legislated, but also authorized the Tribunal to be its own legislator with regard to criminal procedural law.

With no hesitation, the International Tribunal accepted the authority to write its own laws, i.e. to issue Rules of Procedure and Evidence that were to be applied to the prosecution of subsequent cases. The Rules were adopted by February 1994, only to be amended six more times - in May and October of 1994, January and June 1995, January and April 1996. In January 1995 alone, 41 of the total 125 rules were amended, and almost half of the original rules were further changed by other amendments. To make matters worse, the Tribunal adjusted the Rules according to which it would pass judgment, having in mind the practical problems that arose in the course of the implementation of the Rules on pending cases.

Unfortunately, this was in breach of its own Rule No. 6, paragraph (C) whereby amendments shall not operate to prejudice the rights of the accused in any pending case. In this way certain amendments took on the character of ex post facto law. Of special interest is the manner in which the Tribunal amended its rules. Legislative bodies usually do this at public sessions, following long and exhaustive debates over every proposed article or subsequent amendment. The International Tribunal simplified this procedure. Its Rules are adopted at plenary sessions after the decision of seven judges, and according to Rule 6, paragraph (B) this can also be done otherwise, on condition the judges accept the amendment unanimously. One asks oneself what "other way" is there for an amendment to be adopted if not by debate at a plenary session. The answer is simple: the president or some Tribunal official poses an amendment to all the judges world-wide; on the same day they fax back their appro!
val. This is the new way of creating laws by fax that could easily revolutionize the old-fashioned procedure as exercised by the British Parliament.

This was how the Tribunal at The Hague used the legislative competence that was first usurped by the Security Council and subsequently generously delegated to it. To make for even greater paradox, the Tribunal took another step: having become its own legislator it then passed part of its legislative power over to the Prosecutor in order to allow him to draw up the rules he would work by. Hence Rule 37, paragraph (A) stipulates that "the Prosecutor shall perform all the functions provided by the Statute in accordance with the Rules and such Regulations, consistent with the Statute and the Rules, as may be framed by him".

Antonio Cassese, President of the International Tribunal was well aware that never in the history of a civilized country had an individual court drawn up the rules by which it would pass judgment. This would be a dangerous breach of the principle of separation of powers between the legislature and judiciary which, according to Montesquieu, is an essential guarantee of freedom. Thus it could be said that the adoption of the Rules of the Tribunal in May 1995 represented an enterprise "for which there is no precedent at the international level."(14) Had he been less self-confident and egotistic in his unexpected role of being his own legislator, he would have had to ask himself very seriously if there could possibly be a valid reason for this unprecedented breach of a practice inviolable in any civilized country.

There are, of course, countries where judge-made law is applied, e.g. common law in England. However this law is not the fruit of a premeditated and momentary enterprise by a single court but the product of all the courts as a unified system and over a considerable period of time, lasting several centuries. This is why English judges firmly believe that they are judging according to a law that was created by others. They do not have the satisfaction that was granted Antonio Cassese, of creating the general rules according to which they will judge.

If the International Tribunal is only partially responsible for its role as legislator with regard to the adoption of its own Rules due to the fact that this "advantage" vas delegated to it by the Security Council, it is generally responsible for its further delegation to the Prosecutor. This is also an enterprise unprecedented in recent history. Had the International Tribunal appreciated the equality of both parties, it should have gone one step further and authorized the defense counsel to prescribe its own general regulations for the defense of its client. This would also have represented a significant and unexpected innovation to modern criminal procedural law.

The Prosecutor as Organ of the Tribunal and as Privileged Party

The next feature whereby the Security Council and the International Tribunal "enriched" legal theory and practice was the exceptional position that was bestowed on the Prosecutor. In a well structured legal system, e.g. common law, the prosecutor is only one of two equal parties in a court dispute, so that with regards to the status of both sides - the prosecutor and the accused - and the possibility of their reaching a settlement, a criminal dispute assumes some of the aspects of a litigation. Under these circumstances the procedure becomes truly contradictory in that the two sides contest each other on a completely equal basis, whereas the court as a third, independent and unbiased party, resolves the litigation and passes judgment.

The Security Council and the International Tribunal discarded this concept of criminal litigation and the total equality of each party in order to award the Prosecutor a privileged position by making him a part of the court. In Article 11 of the Statute of the International Tribunal it is explicitly stated that the Prosecutor is an organ of the Tribunal. This is followed by a series of regulations that confirm this exceptional and obviously privileged status of the Prosecutor. Rule 33 stipulates that the registrar of the Tribunal serves not only the chambers and plenum of the Tribunal but every judge and the Prosecutor, meaning that the registrar is common to them all. Under Rule 29 the Prosecutor is given the right to summon and question suspects, victims and witnesses, record their statements, collect evidence and conduct on-site investigations. Again, in a well organized judiciary system this is done by the police up until an inquiry is instigated, whereupon it is taken ove!
r by the investigating judge. This is the only way to ensure the contradiction of procedure and the equality of both parties - the Prosecutor and accused.

However, the creators of the Statute and Rules of the International Tribunal made an unforgivable mistake. With one stroke they made the Prosecutor part of the Tribunal as well as a party before justice. Rule 2 names the prosecutor and accused as the parties, but then by virtue of a series of other regulations, their equality in the court proceedings comes under serious doubt. Thus, for instance, the Prosecutor, as a litigation party, may propose amendments to the Rules (Rule 6), while the accused and his defense counsel may not. Also, the Trial Chamber (Rule 46) may, after a warning, refuse audience to counsel if, in its opinion, his conduct is offensive, abusive or otherwise obstructive to the proper conduct of the proceedings. It occurred to none of the makers of these Rules to allow for the possible removal of the Prosecutor in the case of his behavior being offensive and abusive to the accused, his defense counsel or indeed the judges themselves. According to Rule 66 para!
graph (C) the Prosecutor may, with the approval of the Trial Chamber, refuse the defense access to books, documents, photographs and tangible objects in his custody if this is considered to be contrary to public interest or affect the security interests of any state. The Trial Chamber debates this request in camera (in the absence of either party or the public) and the Prosecutor is obliged to give his reasons why this evidence (books, documents, photographs and tangible objects) should be confidential only to the Trial Chamber, meaning that the defense counsel does not have to be present.

The creators of this special position of the Prosecutor, who is at the same time part of the court and one of the two contesting parties, probably consider themselves to be very innovative. If they were better acquainted with the history of the Ottoman Empire they would remember that this position was held by Turkish Cadis (civil judges). That is why we [Serbs, who were ruled by the Ottoman Empire] have the saying: "the Cadi prosecutes you, the Cadi sentences you".

The Secrecy of the Indictment and the Unauthorized Collection of Evidence

This exceptional and in many ways unacceptable position of the Prosecutor is just one of the "innovations" by which the makers of the Statute and Rules of the International Tribunal "enriched" criminal procedural law. Another was the possibility of keeping secret the indictment trial and testimonies under conditions that spawn arbitrariness and considerable departures from the usual standards of modern procedural law. According to Rule 53 paragraph (B) the judges or the Trial Chamber can, after consulting the Prosecutor, prohibit the "disclosure of an indictment, or part thereof, or of all or any part of any particular document or information" if it is necessary "to protect confidential information obtained by the Prosecutor or is otherwise in the interests of justice". The Rule makers, however, did not deem it necessary to further define "confidential information" or "interests of justice", thereby leaving their interpretation open to the will or arbitrariness of the Prosecut!
or, judges and Trial Chamber.

Apart from facts, documents and information that can be concealed from the general public, there is information that can be denied the defense. This is information whose disclosure, for any reason "may be contrary to public interests or affect the security interests of any state" (Rule 66 paragraph (C)). This can be assumed to concern information collected by the CIA, and that is why such information should be kept secret in order to hide its source, and especially the manner in which it was collected. This involves unauthorized bugging and the recording of telephone conversations, fax messages, wireless messages, filming by satellites and pilotless aircraft unauthorized to overfly the war zones in the former Yugoslavia, as well as data and information collected by secret agents disguised as humanitarian workers or employees of the UN, Red Cross and other governmental and non-governmental organizations.

There is nothing unusual in the illegal collection of information by the US, British or Russian secret services. The trouble lies in the penchant of the Prosecutor and Hague Tribunal not only to use illegally obtained information, but also by denying the public knowledge of the indictment and, trial to conceal the source of the information on which the indictment, evidence and subsequent verdict rest. With the excuse of protecting public interest and/or the security interests of a state, they are no doubt capable of going so far as to refuse the defense counsel the right to study the evidence, data, documents, photographs and tangible objects on whose existence an indictment rests. Were a prosecutor in the US to try to use unauthorized recorded telephone calls against an accused, this would be immediately rejected by the court. Unlike this civilized practice, everything was permitted to The Hague Tribunal including the use of illegally obtained intelligence data and the concea!
lment of its source.

Continued, Unjust, Part IV: The Hunting of the Serbs

---- REFERENCES: -----------

(10) This was noted by the UN Secretary General in his report S/25704 (section 18) of 3 May 1993.

(11)The Statute of the International Court of Justice at The Hague is incorporated into the UN Charter and accepted as such by the member states

(12)Report of the Secretary General S/25704 (see 23) of 3 May 1993

(13) Ibid, sec 29

(14)Preface to a book publishing all the more important document of the International Criminal Tribunal at The Hague.

***

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Vi mando per conoscenza il testo di un articolo di prossima
pubblicazione
che completa la parte sugli aspetti economici della distruzione della
Jugoslavia dell'intervento di Barone, Martocchia e mio su "Nuove
guerre".
Testo che non era stato possibile includere nel libro per motivi di
spazio.

Seguono anche notizie sulla rivista "L'Ernesto" dove l'articolo sara'
pubblicato.

Invio questo stesso testo alla redazione del nostro sito internet per
il suo eventuale inserimento in quella sede.

Cordialmente,
Franco Marenco

(dalla mailing list del Comitato scienziate/i contro la guerra)


_______________________________________________________________________


I falchi e gli usurai

Il ruolo dell'imperialismo di FMI, Banca Mondiale
e NATO nella distruzione della Jugoslavia

Franco Marenco


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Per me la Jugoslavia era l'Europa. Io ci andavo, anche a piedi, non
solo in
autobus o in macchina o in aeroplano. La Jugoslavia, per quanto
frammentata
sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa
come
e' adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue
zone di
libero scambio, ma un posto in cui nazionalita' diverse vivono
mischiate
l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia,
anche
dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come
io la
vorrei. Percio', in me l'immagine dell'Europa e' stata distrutta
con la
distruzione della
Jugoslavia.

(Peter Handke, intervista
televisiva)


------------------------------------------------------------------------

Il Fondo Monetario Internazionale e' il braccio finanziario della NATO?
La
domanda sembra pertinente se vengono esaminati con l'attenzione dovuta i
dati relativi all'azione congiunta di queste due organizzazioni nei
Balcani.
Quello che si puo' dire con certezza e' che i mezzi di informazione di
massa
hanno tralasciato di approfondire il ruolo rivestito dalle istituzioni
finanziarie internazionali nella distruzione della Federazione Jugoslava
nata dopo la seconda guerra mondiale. Strettamente parlando, questa
distruzione e' collegata alle avventure politiche e militari dell'ultimo
decennio: dalla secessione della Slovenia e della Croazia nel 1991 al
massiccio bombardamento nel 1999 dell'odierna Jugoslavia (ridotta alle
repubbliche di Serbia e Montenegro). Tuttavia, se il susseguirsi degli
avvenimenti viene studiato attentamente si riscontra un forte ruolo
attivo
avuto dai paesi occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti sotto l'egida
del
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

La disintegrazione della Federazione e' servita per una completa
riorganizzazione dei Balcani: la Slovenia e la Croazia sono potute
entrare
appieno nell'area d'influenza tedesca e la Germania ha ottenuto un
accesso
piu' diretto al Mare Adriatico. Gli Stati Uniti hanno potuto rafforzare
la
propria influenza militare sul Vecchio Continente ed impiantare nuovi
contingenti di truppe. D'altra parte, la Macedonia e' diventata il
centro di
una sfera di interessi americana: questa piccola repubblica e'
strategica,
difatti, in quanto controlla importanti valichi fra l'Est e l'Ovest e
fra il
Nord e il Sud nelle montagne dei Balcani. Tutta la regione e' importante
per
la sua posizione geografica e per la sua funzione di collegamento fra la
Mitteleuropa ed la Turchia cosi' come fra il Mar Nero e l'Adriatico.

Alcuni mezzi di informazione piu' attenti degli altri hanno dato le
notizie
relative ai singoli eventi che qui saranno raccontati; tuttavia, e' solo
considerando l'insieme di questi fatti che si puo' avvertire appieno la
drammatica coerenza che e' ad essi sottesa. Alla fine dell'articolo
viene
fornita una breve bibliografia per coloro che sono interessati ad un
approfondimento; bisogna dire pero' che buona parte delle notizie
proviene da
"fonti orali:" esse non trovano spazio sulla grande stampa per cui
rimangono
circoscritte all'interno di una cerchia di persone particolarmente
attente e
di alcune liste di discussione in internet.

Prima fase: l'indebitamento

Durante gli anni Settanta la crisi energetica spinse il Maresciallo Tito
a
condurre una politica di investimenti per la costruzione di impianti e
il
riammodernamento delle infrastrutture: questa politica passo' attraverso
un
grosso indebitamento. Il debito ebbe modo di crescere anche perche' dopo
avere ottenuto nel 1974 un'autonomia piu' ampia, le repubbliche
costitutive
si sentirono autorizzate a contrarre debiti per proprio conto, al di
fuori
della programmazione federale. Il risultato fu che, gia' al momento
della
morte di Tito, la Jugoslavia era dominata in buona parte dalla finanza
mondiale.

Gli anni Ottanta furono caratterizzati da una grave crisi economica, nel
corso della quale crebbe ulteriormente il divario Nord-Sud. Le
importazioni
diminuivano fortemente; invece, le esportazioni furono favorite per
mezzo di
un'inflazione galoppante: 40% nel 1981, 170% nel 1987, e piu' del 1000%
negli
anni successivi. L'indebitamento diventava intollerabile e gia' nel 1987
il
tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 17%. Questa situazione deve
essere confrontata, per esempio, con la situazione vigente nel periodo
degli
anni Sessanta e Settanta: crescita media annua del PIL intorno al 6%;
cure
sanitarie gratuite (con un medico ogni 550 abitanti); tasso di
alfabetizzazione pari al 90%; aspettativa di vita pari a 72 anni. Ma nel
1980 la disparita' economica e sociale fra le repubbliche era diventata
enorme, e questa frattura era destinata ad approfondirsi.

La Slovenia, repubblica in assoluto piu' ricca e sviluppata della
Federazione, aveva un prodotto nazionale pro capite comparabile a quello
spagnolo o a quello irlandese. Il prodotto nazionale lordo della
repubblica
rappresentava il 22% del prodotto federale, con soltanto l'8% della
popolazione. Essa aveva allacciato forti relazioni economiche con la
Germania e con numerose amministrazioni locali italiane ed austriache, e
il
tasso di disoccupazione si attestava intorno ad appena l'1-2%. Al
gradino
piu' basso della scala economica vi era invece la provincia autonoma del
Kosovo, con un prodotto nazionale pro capite pari ad un sesto di quello
sloveno, e comparabile a quello del Marocco o della Nigeria. Qui, nel
1988
un terzo della popolazione risultava senza occupazione, e il tasso di
analfabetismo era del 18%; il tasso di natalita', invece, era il piu'
alto
d'Europa (2,5% all'anno). Buona parte della popolazione abbandonava la
provincia, a causa delle sue tragiche condizioni economiche.

Tra gli estremi della Slovenia e del Kosovo si trovavano la repubblica
di
Croazia e la provincia di Vojvodina: entrambe sopra la media jugoslava
ma
con un prodotto pro capite pari a circa la meta' di quello sloveno.
Sotto la
media, invece, si trovavano la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e la
Bosnia-Erzegovina. Non si puo' dire che la Federazione non tentasse di
compensare queste differenze economiche: ingenti risorse venivano
destinate
ad un apposito "fondo per lo sviluppo delle regioni arretrate" analogo
alla
nostra Cassa per il Mezzogiorno. Questa politica diede in parte
risultati
positivi, come il miglioramento del sistema sanitario e
dell'insegnamento
superiore. In Kosovo l'aspettativa di vita crebbe da 48 anni a 66 in
vent'anni, mentre i tre quarti degli investimenti provenivano dalle
casse
federali. E tuttavia cio' non era sufficiente: relativamente al Nord
ricco
della Jugoslavia il ritardo economico della provincia continuava ad
accentuarsi. Parzialmente responsabile lo era stata la riforma economica
del
1965, che aveva consentito l'aumento secondo criteri di "mercato" dei
prezzi
dei prodotti finiti (fabbricati nel Nord della Federazione) pur
mantenendo
molto basso quelli delle materie prime, di cui erano ricche le province
meridionali.

Nel frattempo era calata la collaborazione con gli altri paesi dell'Est,
ed
in particolare erano venute a mancare le forniture di petrolio sovietico
a
condizioni agevolate. Il livello astronomico dell'inflazione aveva
distrutto
il sistema monetario della Federazione e i meccanismi decentrati
dell'economia "autogestita" avevano privato il governo centrale degli
strumenti di coordinamento della politica economica. La Slovenia e la
Croazia, le repubbliche piu' avanzate e produttive nelle quali affluiva
una
gran quantita' di valuta estera, si battevano per mantenere una
posizione
privilegiata. Le repubbliche economicamente arretrate, guidate dalla
Serbia,
tentavano invece di introdurre misure di controllo fiscale e monetario.
A
livello locale, una serie di progetti insensati e spreconi dissipavano
le
risorse che la Federazione otteneva tramite il prestito internazionale.
In
Kosovo, per esempio, dopo la concessione dell'autonomia nel 1974 la
classe
dirigente locale scialacquo' gli aiuti provenienti dalle regioni piu'
ricche,
anziche' investire nella costruzione di infrastrutture. La qualita'
della vita
si riduceva a vista d'occhio in tutta la Federazione, dando luogo a
forti
tensioni sociali; gli scioperi e le agitazioni si moltiplicavano a
macchia
d'olio. Forti dell'autonomia e del decentramento, le varie entita'
(repubbliche, aziende, ecc.) reagirono alla crisi cercando di
salvaguardare
la propria esistenza in competizione con gli altri. Nasceva il
nazionalismo
economico.

Le misure Markovic-Bush

Nell'autunno del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, il
capo
del governo federale jugoslavo Ante Markovic (nominato l'anno
precedente) si
reco' a Washington per negoziare con il presidente Bush la concessione
di un
nuovo "pacchetto di aiuti." In sostanza, pressata dai debiti la
Jugoslavia
accetto' di compiere riforme economiche radicali. La ricetta prevedeva
una
"terapia di attacco" comprendente: (a) il congelamento dei salari (senza
curarsi del rapido aumento del costo della vita); (b) la svalutazione
del
dinaro; (c) ingenti tagli alla spesa pubblica; e (d) l'eliminazione
delle
compagnie di proprieta' statale e di quelle "autogestite."

Principale obiettivo era la privatizzazione accelerata delle aziende. Al
suo
ritorno a Belgrado Markovic dispose una legge che prevedeva la rapida
messa
in liquidazione fallimentare forzata di tutte le aziende considerate
"insolventi" e la loro consegna nelle mani delle banche straniere
creditrici. Il preavviso dato fu brevissimo (30 giorni): chi non avesse
pagato tutti i debiti entro tale termine sarebbe stato liquidato.
Inoltre,
le banche a proprieta' sociale avrebbero dovuto essere rimpiazzate con
"istituzioni indipendenti a scopo di lucro." Si trattava di un pacchetto
spaventoso di misure: neanche nei paesi piu' convinti sostenitori
dell'economia di mercato si sarebbe mai osato fare tanto e cosi'
precipitosamente. Le conseguenze furono drammatiche: i prezzi presero a
salire e il potere di acquisto dei cittadini jugoslavi a collassare
(meno
40% nella prima meta' del 1990); in un anno, piu' di mille aziende fece
bancarotta, e meta' delle banche del paese dovette chiudere nel giro di
due
anni. Il Prodotto Interno Lordo calo' del 7,5% nel 1990; nell'anno
successivo
esso scese ulteriormente del 15%, mentre la produzione industriale calo'
del
21%. Alcune aziende "autogestite" poterono sopravvivere soltanto
interrompendo l'erogazione dei salari: un anno dopo il viaggio di Ante
Markovic a Washington, 600.000 lavoratori avevano perso il lavoro e un
ulteriore mezzo milione, pur lavorando, non percepiva piu' lo stipendio!

Oltre un milione di famiglie aveva perso il reddito, ma, secondo la
Banca
Mondiale altre 2400 industrie avrebbero dovuto essere chiuse (con
ulteriori
"esuberi" nella cifra di 1,3 milioni). I tagli alla spesa governativa
interruppero il flusso finanziario dal governo centrale alle
repubbliche:
questo e' stato il colpo decisivo all'unita' della Federazione, che ha
assicurato il successo delle formazioni politiche secessioniste e
nazionaliste.

La "1991 Foreign Operations Law"

Probabilmente, per i creditori le drastiche misure messe in atto dal
governo
di Ante Markovic non bastavano: in effetti il 5 novembre 1990 il
Congresso
statunitense approvo' la legge 101-513, che prevedeva il taglio entro
sei
mesi di tutti gli aiuti e prestiti alla Jugoslavia. La legge prevedeva
l'obbligo di tenere elezioni separate in ciascuna delle sei repubbliche
costitutive, e sia le procedure di voto che i risultati delle elezioni
avrebbero dovuto ottenere l'approvazione del Dipartimento di Stato: solo
dopo questi adempimenti il sostegno economico avrebbe potuto essere
reintrodotto, ma non piu' nei confronti del governo centrale, bensi'
solo
delle singole repubbliche, e solo se governate da forze approvate come
"democratiche." Alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli, tanto
conclamata in seguito dai seguaci dello smantellamento della Jugoslavia!

Secondo una specifica disposizione della legge, tutto il personale
statunitense insediato nelle istituzioni internazionali (Banca Mondiale
e
Fondo Monetario Internazionale) avrebbe dovuto applicarla e farla
osservare.
In questo modo anche le organizzazioni internazionali venivano
sottomesse
alla legge statunitense e ne veniva seriamente minata ogni parvenza di
indipendenza. Facciamo notare che quando la legge fu promulgata le
elezioni
erano gia' avvenute nelle diverse repubbliche della Jugoslavia; tuttavia
molti analisti la ritengono rappresentativa del punto di vista e degli
obiettivi perseguiti dai creditori. Le misure non avevano una
giustificazione apparente, tanto piu' che all'epoca non vi era nessuna
guerra
civile o guerriglia in corso, ne' gli Stati Uniti erano coinvolti in
liti con
la Jugoslavia. Questa non aveva neanche un posto di rilievo nelle
"news"!

Grazie alla legge 101-513, il governo jugoslavo non pote' piu' pagare
gli
interessi sul debito estero ne' acquistare le materie prime occorrenti
per
l'industria. Il potere di acquisto era in caduta libera, i programmi
sociali
collassavano, la disoccupazione esplodeva e il settore industriale
subiva
una brutale distruzione. Ne' tutto cio' serviva a ripagare il debito:
nel 1991
esso ammontava a 31 miliardi di dollari, dieci in piu' del 1988. Un
quarto
delle esportazioni veniva incamerato direttamente dai creditori.

Un embargo pluriennale

Il 25 giugno 1991 la secessione unilaterale di due repubbliche,
insofferenti
per il fatto che il governo federale potesse continuare a stampare
moneta,
sanci' lo sfascio della Jugoslavia. Ma lo scontro si era aperto gia' sei
mesi
prima con la decisione slovena di non versare piu' allo stato centrale
le
proprie entrate fiscali. Dopo la Slovenia e la Croazia, tocco' alla
Macedonia, che proclamo' la propria secessione il 15 settembre. Il turno
dell'indipendenza della Bosnia-Erzegovina arrivo' invece il primo marzo
dell'anno successivo. Alle secessioni seguirono le guerre per la
spartizione
del territorio: dopo pochi giorni gli scontri dalla Slovenia si
spostarono
in Croazia, e successivamente in Bosnia-Erzegovina. Il debito estero fu
accuratamente suddiviso fra le repubbliche, ora strangolate direttamente
dai
creditori senza l'intermediario della Federazione. Due delle repubbliche
staccatesi dalla Jugoslavia, la Croazia e la Macedonia, seguirono
attentamente le direttive del Fondo Monetario internazionale, ed
ottennero
in cambio "pacchetti" di prestiti in cambio del consolidamento dei
programmi
di bancarotta forzata iniziati da Ante Markovic.

Il periodo della guerra in Bosnia-Erzegovina, iniziata nell'aprile del
1992,
fu caratterizzato da un crescendo di sanzioni imposte nei confronti di
quella parte della Federazione che aveva scelto di conservare
l'appellativo
di Jugoslavia. Essa e' costituita dalle repubbliche di Serbia e
Montenegro, e
comprende anche le due province autonome di Kosovo e Vojvodina. La
guerra in
corso forniva il pretesto per determinate decisioni davanti alle
opinioni
pubbliche dei paesi ricchi: esse potevano essere giustificate nel nome
della
presunta "cattiveria" dei Serbi, mentre fino al 1991 l'unico argomento
era
stato quello delle pretese dei creditori, poco spendibile presso le
opinioni
pubbliche. E' significativo notare che rispetto al territorio della
ex-Jugoslavia e' stata solo la nuova federazione fra Serbia e Montenegro
ad
essere sottomessa a drastiche misure punitive, insieme per un breve
periodo
anche alla parte serba della Bosnia-Erzegovina.

Le prime sanzioni furono stabilite dai ministri della CEE, riuniti a
Roma
l'8 novembre del 1991, a soli quattro mesi e mezzo dallo sfascio della
Federazione. Per avere una misura delle sanzioni, si pensi che il
commercio
con la Comunita' aveva rappresentato fino ad allora i due terzi degli
scambi
della Jugoslavia. Appena un mese dopo averle promulgate, l'Unione
Europea
ritenne di dover precisare che le sanzioni, proclamate genericamente
"contro
la Jugoslavia," dovevano intendersi applicabili nei confronti soltanto
delle
"repubbliche cattive", cioe' la Serbia e il Montenegro. Una simile
posizione
e' incredibile se si pensa che l'indipendenza di Slovenia, Croazia e
Macedonia non era stata ancora riconosciuta (ma lo sarebbe stata dopo
poche
settimane), mentre quella della Bosnia-Erzegovina non era neppure stata
proclamata. Il tentativo di dividere le popolazioni prosegui' quando il
10
gennaio successivo le sanzioni contro il Montenegro vennero levate, per
cui
esse rimasero soltanto nei confronti della Serbia.

Sulla scia dell'emozione suscitata dalla "strage del pane" avvenuta tre
giorni prima ed attribuita erroneamente ai Serbi dalla grande stampa, il
30
maggio 1992 arrivo' dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la
risoluzione numero 757. Essa prevedeva un embargo commerciale (in
particolare delle importazioni di petrolio), il congelamento dei beni
jugoslavi all'estero, l'interdizione dei voli civili, e la sospensione
degli
scambi scientifici e culturali e della partecipazione ad eventi sportivi
internazionali. I risultati dell'embargo non si fecero attendere:
l'approvvigionamento in prodotti farmaceutici calo' spaventosamente fin
da
subito; l'industria metallurgica, fortemente dipendente dalla Slovenia e
dalla Croazia, raggiunse una crisi profonda; mentre la mancanza di
carburante fermo' il paese. L'approvazione di queste sanzioni avvenne
grazie
all'inversione di rotta della politica statunitense: un anno prima, in
effetti, il segretario di stato Baker in visita a Belgrado aveva
dichiarato
che gli USA non avrebbero riconosciuto nessuna secessione: Milosevic,
apparentemente in buona luce al Dipartimento di Stato fino a poche
settimane
prima, era diventato un "nuovo Hitler."

Il 22 settembre dello stesso anno la Jugoslavia fu addirittura espulsa
dall'Assemblea Generale dell'ONU. Un provvedimento che non e' mai stato
riservato a nessun altro stato, e che e' stato poi coronato con
l'espulsione
il 15 dicembre dal Fondo Monetario Internazionale e all'inizio dell'anno
successivo dall'Organizzazione Mondiale della Sanita'. Queste misure
assumono
il sapore di un'incondizionata presa di campo da parte delle istituzioni
internazionali dopo l'ammissione avvenuta in maggio della Croazia, della
Slovenia e della Bosnia-Erzegovina. Simultaneamente all'espulsione
dall'ONU,
e' stato messo in atto un embargo navale totale sul Danubio e
sull'Adriatico,
e gli aerei statunitensi si sono incaricati di far rispettare la "no-fly
zone." Il 6 maggio dell'anno successivo le sanzioni furono rafforzate, e
il
Consiglio di Sicurezza (grazie all'astensione di Russia e Cina) decreto'
l'embargo totale contro la Serbia. Questa nuova sanzione avveniva per
punire
la Repubblica dei Serbi di Bosnia per non aver firmato il piano di pace
Vance-Owen, e cio' malgrado il fatto che la stessa Belgrado avesse rotto
con
Pale ed avesse decretato nei suoi confronti un blocco degli aiuti:
paradossalmente, fu solo a settembre del 1994 che le sanzioni furono
estese
ai serbo-bosniaci.

Come si vede, si tratta di un insieme impressionante di misure tese ad
isolare e colpevolizzare un intero popolo ed a farne collassare le
risorse
economiche. Da questo punto di vista, esse si sono dimostrate del tutto
efficaci. Il New York Times del 26 giugno 1992 scriveva che il dinaro si
era
svalutato di un fattore 200 rispetto al dollaro, che vi era stata una
grossa
carenza di beni ed un'impennata dei prezzi, e che l'inflazione galoppava
intorno al 5-10% al giorno. Dopo solo 3 mesi dall'inizio dell'embargo la
maggior parte delle fabbriche aveva chiuso per mancanza di materie prime
e
carburante, e centinaia di migliaia di lavoratori erano stati rimandati
a
casa. A settembre 1993, per i due milioni di abitanti di Belgrado furono
introdotte le tessere per il razionamento alimentare, e poco dopo le
tariffe
elettriche furono decuplicate. Il 12 aprile 1994 l'Economist scriveva
che il
60% dei lavoratori era disoccupato, che l'industria funzionava al 20-30%
delle sue capacita', e che oramai il 40% dell'economia jugoslava era
gestita
dal settore "sommerso." Per fare un esempio concreto, dal 1990 al 1995
la
produzione annua delle automobili Yugo e' calata da 200.000 a 3.500.
Inoltre
il sistema sanitario, un tempo considerato uno dei migliori, si
ritrovava
decimato, con tutto cio' che questo comportava per la popolazione
civile.

L'embargo duro' fino a dicembre 1995, e fu levato con la conclusione
degli
accordi di Dayton, ma le sue conseguenze si protrassero nel tempo:
l'economia del paese era oramai distrutta. Un anno dopo, alla fine del
1996,
la Croce Rossa dichiarava che il 30% della popolazione era caduta nello
stato di poverta'. Dal canto loro, nel 1998 gli USA e l'UE hanno imposto
alla
Jugoslavia una moratoria sui crediti e gli investimenti, tutt'ora in
vigore.

Malgrado la sospensione dell'embargo, la Jugoslavia non venne riammessa
all'Assemblea Generale, mentre il Fondo Monetario Internazionale
stabili'
che, per essere reintegrata, la Jugoslavia avrebbe dovuto ripagare
interamente il suo debito precedente alle sanzioni, ed adottare un piano
di
riforme economiche, previa l'approvazione del Fondo stesso. Inoltre, i
beni
jugoslavi all'estero restarono congelati per ordine di un decreto
presidenziale statunitense, e la Jugoslavia resto' sotto il ricatto di
una
pesante minaccia: "le sanzioni potranno riprendere presto." Queste
minacce
furono reiterate piu' volte: a febbraio 1996, e poi a giugno e a
dicembre
dello stesso anno; esse vennero finalmente attuate con il precipitare
della
crisi del Kosovo nel 1999.

(1. continua)

---

Bollettino di controinformazione del
Coordinamento Nazionale "La Jugoslavia Vivra'"

I documenti distribuiti non rispecchiano necessariamente le
opinioni delle realta' che compongono il Coordinamento, ma
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(2. segue)

La Bosnia di Dayton

Il 21 novembre 1995 vennero firmati gli accordi che fermarono
l'evoluzione
militare della guerra in Bosnia-Erzegovina. Questi testi sono
significativi,
in quanto promulgarono una vera e propria Costituzione per la Repubblica
di
Bosnia-Erzegovina, e ne sancirono un'amministrazione di tipo
"coloniale,"
presieduta da un Alto Rappresentante (straniero) con pieni poteri
esecutivi
negli affari civili e facolta' di destituire gli eletti. Nel nome della
"democrazia" i creditori occidentali hanno imposto una costituzione
fedele
ai propri interessi, stabilita senza un'assemblea costituente e senza
consultare la popolazione.

Le redini dell'economia bosniaca vennero affidate direttamente a
istituzioni
finanziarie straniere. Al Fondo Monetario Internazionale venne conferito
il
potere di gestire la banca centrale dello stato e di nominarne il
governatore, il quale per una disposizione esplicita "non puo' essere un
cittadino della Bosnia-Erzegovina o dei paesi limitrofi." La direzione
della
vendita e della ristrutturazione del patrimonio pubblico fu invece
affidata
alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS),
istituzione
con sede a Londra che ha per scopo la promozione del "mercato"
nell'Europa
centrale e orientale nonche' nelle repubbliche ex-sovietiche,
"finalmente"
libera di mettere mano a settori strategici quali l'energia, l'acqua, i
servizi postali, le telecomunicazioni, i trasporti, eccetera.

La presenza sul campo di truppe della NATO (60.000 soldati) sanci'
ulteriormente il clima da occupazione straniera. Esse sono infatti
intervenute nel controllo delle elezioni ed hanno minacciato di
distruggere
i mezzi di informazione che avessero criticato la loro gestione. I
comandanti militari hanno in alcuni casi rovesciato addirittura le
sentenze
dei tribunali locali e si sono messi alla ricerca e all'arresto di
personalita' e dirigenti statali, accusati dal Tribunale dell'Aia.

Per quanto riguarda la ricostruzione, il suo costo e' stato stimato in
47
miliardi di dollari, cioe' una volta e mezza il debito dell'intera
Federazione nel 1991. Gli aiuti concessi invece (dei quali appena l'1,7%
e'
stato elargito alla Repubblica dei Serbi di Bosnia) bastavano a malapena
a
coprire gli interessi sul debito.

Il 1999: anno dell'Euro e del bombardamento

Nel frattempo, cresceva la tensione nella provincia autonoma del Kosovo,
facente parte del territorio della Serbia all'interno della Jugoslavia.
La
provincia e' da considerarsi di interesse strategico, in quanto ricca di
risorse minerarie, e in quanto luogo di passaggio per le materie prime
in
provenienza dal Caucaso e dirette verso l'Adriatico (il petrolio in
primo
luogo). In Kosovo si trovavano anche numerose centrali elettriche, tanto
che
solo un terzo dell'energia ivi prodotta veniva consumata localmente,
mentre
la restante parte contribuiva ad alimentare il Montenegro ed il resto
della
Serbia. Gia' nel 1989, pressata dal FMI a causa degli sperperi di denaro
pubblico da parte della classe dirigente kosovara, la presidenza
collegiale
jugoslava aveva ridotto l'autonomia della provincia sino ad allora
garantita
dalla Costituzione di Tito e Kardelj: in effetti sin dal 1966 il Kosovo
era
stato il maggior fruitore dei finanziamenti erogati per lo sviluppo
delle
aree povere del paese. Questa decisione porto' a numerose proteste ed
alla
rivolta di operai, minatori e studenti di lingua albanese, con
l'intervento
della polizia e dell'esercito.

Il 1999, l'anno in cui le nazioni dell'Unione Europea sono passate alla
moneta unica, sara' ricordato da tutti per la sanguinosa guerra della
NATO
alla Jugoslavia. Difatti il 6 febbraio 1999, a Rambouillet il governo
jugoslavo rifiuto' il testo di un "accordo" che gli veniva sottoposto
senza
possibilita' di negoziazione. Il testo in questione prefigurava una
struttura
statuale che assomigliava per molti versi all'amministrazione coloniale
prevista per la Bosnia dagli accordi di Dayton: una costituzione fatta
su
misura per i creditori. L'autorita' suprema per gli affari civili
avrebbe
dovuto essere affidata ad un "Capo della Missione di Implementazione"
nominato dall'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa,
in cooperazione con l'Unione Europea. Secondo la bozza di accordo, egli
avrebbe avuto il potere di stabilire direttive vincolanti per le
autorita'
civili e di polizia, sarebbe stato l'autorita' suprema di
interpretazione del
trattato, e avrebbe potuto destituire e sostituire i capi delle
istituzioni
eletti dal popolo. Inoltre, la Jugoslavia avrebbe dovuto accettare
l'occupazione militare dell'intero suo territorio da parte della NATO, e
concedere ai soldati dell'Alleanza l'immunita' completa dalle leggi
civili e
penali.

I colpi della NATO furono diretti in particolare verso le risorse
economiche, i maggiori stabilimenti produttivi, le centrali elettriche,
i
ponti e le vie di comunicazione: un paese moderno e sviluppato e' stato
fatto
regredire ad un livello da Terzo Mondo. Dei nove ponti sul Danubio,
sette
sono stati distrutti interrompendo un'importante via di comunicazione
che
collega il vasto bacino fluviale centroeuropeo con il Mar Nero. La
Zastava,
industria automobilistica di Kragujevac che occupava 36.000 lavoratori
e'
stata ripetutamente bombardata sino a ridurla in un cumulo di macerie.
Fra
il 4 ed il 18 aprile vennero colpiti ripetutamente gli stabilimenti
petrolchimici di Pancevo determinando la fuoriuscita di pericolosi
inquinanti; altri sette depositi di sostanze nocive sono stati
bombardati
nel territorio jugoslavo. Secondo fonti jugoslave, in tutto sono stati
distrutti 372 impianti industriali, con enormi conseguenze per
l'occupazione
in un paese gia' drammaticamente piegato dall'indebitamento e
dall'embargo.
Colpendo industrie chimiche, raffinerie e depositi di carburante, sono
stati
liberati nell'ambiente grossi quantitativi di terribili veleni,
destinando
le popolazioni balcaniche ad una lenta agonia, destinata a perdurare ben
oltre l'azione militare propriamente detta. L'inquinamento delle acque,
dell'aria e del suolo ha inoltre procurato danni enormi alla produzione
agricola.

Il Kosovo occupato

I bombardamenti si protrassero fino al giorno della capitolazione del
governo jugoslavo: trionfante, entro' nel Kosovo il generale britannico
Michael Jackson alla guida delle truppe della NATO. A capo
dell'amministrazione della provincia fu posto il francese Bernard
Kouchner,
inviato speciale dell'ONU, il quale da allora si e' distinto per aver
tentato
di staccare tutti i legami residui del Kosovo con lo stato jugoslavo del
quale esso fa pur ancora formalmente parte: e' stato introdotto il marco
tedesco quale moneta nazionale in luogo del dinaro; sono stati separati
il
sistema postale e le comunicazioni; e sono stati separati anche i
tribunali
e la pubblica amministrazione.

Le truppe dei paesi dell'Alleanza (45.000 soldati, di cui seimila
italiani)
si sono divise da subito il territorio della provincia: alle truppe
francesi
e' stato affidato il settore settentrionale, specializzato nella
metallurgia
non-ferrosa; la zona centrale della provincia, nella quale sono ubicate
numerose centrali elettriche ed installazioni petrolifere, e' invece
stata
affidata agli inglesi. Si racconta che appena arrivati, i Britannici
abbiano
circondato la centrale elettrica di Obilic con i loro carri armati,
adducendo motivi di sicurezza, ed assicurando cosi' a ditte inglesi
l'appalto
per la ricostruzione della stessa. I Tedeschi, i quali hanno occupato il
distretto meridionale in compagnia di Russi e Canadesi, hanno invece
potuto
prendere possesso della Balkanbelt, industria della gomma con una
tradizione
di collaborazione con la Deutsche Kontinental e fortemente indebitata
nei
confronti dei tedeschi. Quanto agli Italiani, essi hanno prontamente
piantato la loro bandiera nel distretto occidentale di Pec, al confine
con
l'Albania, prendendo sede nei locali della Zastava-Iveco, ditta che
produce
parti di camion e che e' stata al centro di un progetto pluriennale di
cooperazione internazionale.

Il comportamento dell'amministrazione internazionale del Kosovo ha
presto
rivelato la sua vera faccia: i suoi atti, giorno dopo giorno, sono stati
sempre piu' espliciti; inoltre il resto della Serbia rimane sotto un
rigido
embargo. La mancanza cronica di medicinali e pezzi di ricambio e'
esemplare.
Le accuse che sono state fatte ai nuovi colonizzatori sono molteplici.
Si
parla per esempio della chiusura forzata di alcuni stabilimenti
industriali,
passati direttamente sotto il controllo dei militari, nell'ambito della
competizione fra Francia e Inghilterra per il controllo della societa'
mineraria Trepca (piombo, zinco, cadmio, oro e argento): uno dei
principali
volani dell'economia jugoslava, considerato dal New York Times "il piu'
prezioso bene immobiliare dei Balcani." Nel novembre 1999, in un
impianto
produttivo della Trepca di Kosovska Mitrovica il generale francese
Ponset si
e' autosostituito al direttore, cacciandone via gli operai serbi,
sostituendoli con albanesi, e sospendendone i rappresentanti di
nazionalita'
greca facenti capo a Militineos, l'azionista miliardario che era entrato
in
competizione con la francese SCMM al momento della privatizzazione della
societa'. Nell'agosto del 2000, con il pretesto di preservare
l'inquinamento
atmosferico il capo della missione dell'ONU Kouchner, francese, ha
ordinato
ai soldati dell'Alleanza di evacuare industria della Trepca di Kosovska
Mitrovica, e di chiudere simultaneamente l'emittente radiofonica "Radio
S",
che aveva espresso pareri critici dell'operato della NATO. Dopo aver
preso
il complesso minerario, la NATO lo ha affidato ad un consorzio privato
chiamato "ITT Kosovo," controllato da industrie del settore francesi,
statunitensi e svedesi.

Nel distretto di Pristina, invece, il 14 luglio 1999 le truppe inglesi
hanno
fatto irruzione nella miniera "Kisnica," sempre facente capo alla
Trepca,
sostituendone il direttore con uno di loro scelta e rimandando a casa
400
dipendenti. Persino le organizzazioni umanitarie sarebbero servite da
copertura per calcoli di interesse. Ad esempio, secondo fonti
governative
jugoslave, l'agenzia umanitaria "Viva" sarebbe intervenuta con un carico
di
cloro a Mitrovica e Pec, salvando la vita, bisogna pur dirlo, a 200.000
persone. Ma il vero scopo era molto differente da quello dichiarato:
trovarsi in una posizione di vantaggio per ottenere i contratti di
assistenza tecnica per la rete idrica.

Conclusioni

In un mondo afflitto da guerre e conflitti etnici e che produce ogni
anno
profughi e rifugiati a milioni senza che nessuno se ne scandalizzi,
perche'
mai le potenze mondiali hanno canalizzato cosi' tanta attenzione verso i
Balcani? Per chi esamina la situazione oltre il comune livello di
superficialita', diventa poco credibile l'affermazione corrente che
attribuisce alla "comunita' internazionale" l'intenzione di
salvaguardare i
diritti umani ed aiutare le popolazioni in difficolta'. L'esame dei dati
storici ed economici indica una continuita' di azione, ad opera delle
potenze
creditrici, che ha progressivamente distrutto l'economia di quello che
poteva considerarsi un paese industrializzato e con un buon tenore di
vita,
facendolo piombare nell'abisso. La legge 101-513 del Congresso
statunitense,
il lungo embargo degli anni 1992-95, i bombardamenti del 1999, e le
modalita'
con le quali sono stati gestiti gli affari nelle due amministrazioni
neocoloniali (Bosnia-Erzegovina e Kosovo) tradiscono l'esistenza di
motivazioni e di interessi piu' profondi, le cui radici probabilmente
non
sono da ricercarsi esclusivamente nella regione balcanica.

La caduta della Cortina di Ferro e la riunificazione della Germania
hanno
aperto la corsa di imprese e capitali verso l'Oriente, considerato la
nuova
terra di conquista. E' significativo ricordare il discorso di Clinton,
tenuto
nel 1994 dinanzi alla Porta di Brandeburgo: la Germania sarebbe oramai
diventata il partner privilegiato dell'America, per realizzare la
penetrazione militare, politica ed economica verso Est. Alle lentezze
dell'Unione Europea nell'assorbire gli stati orientali, si e'
contrapposta la
celerita' della NATO, la quale ha gia' fatto tre nuovi membri fra i
paesi
dell'ex-Patto di Varsavia, con l'ingresso della Polonia, della
Repubblica
Ceca e dell'Ungheria avvenuto proprio in concomitanza con i primi
bombardamenti su Belgrado. Il 18 novembre 1999, al vertice dell'OSCE
tenutosi a Istanbul e' stato varato un "piano di stabilita'" per i
Balcani,
caratterizzato dalla designazione di "corridoi economici" destinati al
trasporto di merci e materie prime. L'interesse della NATO per i Balcani
e'
condizionato infine dalla vicinanza delle maggiori riserve petrolifere
mondiali: da quelle "tradizionali" della penisola arabica a quelle del
Mar
Caspio, "liberatesi" con l'indipendenza di numerose Repubbliche
ex-Sovietiche.

La Federazione Jugoslava fondata da Tito si iscriveva in un modello di
convivenza multietnica che simboleggiava la stessa Europa, fatta di
miriadi
di popolazioni e minoranze sparse qua e la', e di stati di dimensioni
ridotte, al di fuori di ogni razionale suddivisione del territorio
all'interno di uno schema "risorgimentale" di stato-nazione. La sua
posizione geografica, inoltre, ne faceva la porta verso l'Oriente:
importante zona di passaggio e di incontro; centro di smistamento per
merci
e culture. La sua distruzione ha avuto come effetto politico maggiore
quello
di destabilizzare il Vecchio Continente e costringerlo ad accettare la
"protezione" degli Stati Uniti. L'arroganza dell'imperialismo USA, non
solo
nei confronti di un piccolo stato di 10 milioni di abitanti gia' in
preda a
gravi difficolta' economiche e dotato di una forza militare nettamente
inferiore, ma anche nei confronti dei propri Alleati, deve essere vista
come
una minaccia per la pace e per i popoli. La nascita di un nuovo Impero
in
Europa potra' essere soltanto una tragedia per noi, per cui e'
sorprendente la
facilita' con cui questa prospettiva e' stata accettata dai nostri
tirapiedi
governativi e dalle opinioni pubbliche.

Franco
Marenco

(settembre
2000)

Bibliografia

International Action Center, "NATO in the Balkans -- Voices of
opposition,"
New York 1998.

Michel Chossudovsky, "La globalizzazione della poverta'," Edizioni
Gruppo
Abele, 1998.

Michel Collon, "Poker Menteur," Editions EPO, Bruxelles 1998.


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Questo articolo e' di prossima pubblicazione sul numero di novembre 2000
della rivista comunista l'Ernesto, direttore Fosco Giannini.

L'impegno editoriale de l'ernesto si fa via via sempre piu' vasto e
articolato;

* si ampliano i campi di ricerca: sul piano dell'analisi di classe
(capitale, lavoro, composizione e scomposizione delle forze
sociali),
sulla questione sindacale, sul partito comunista e sulla sua forma
organizzata, sulle questioni teoriche, sul dibattito che si
sviluppa
tra i comunisti e le forze di sinistra nel mondo, sulle nuove
dinamiche
internazionali;
* si allargano e si rafforzano i rapporti di collaborazione e
interscambio con altre riviste, in Italia e all'estero, si fa piu'
vasta
l'area dei nostri collaboratori (intellettuali, dirigenti comunisti
e
di sinistra, esponenti sindacali, italiani e stranieri;
* il ruolo crescente della rivista ha suscitato attese che percepiamo
e
constatiamo, alle quali vogliamo rispondere, sin dai prossimi
numeri,
con un innalzamento del livello di ricerca politica e teorica e con
una
migliore e piu' razionale veste grafica;
* tutto cio' ci spinge a chiedre ai nostri lettori, ai nostri
abbonati uno
sforzo ulteriore: al piu' presto abbonatevi, rinnovate
l'abbonamento,
procurate nuovi abbonati e lettori subito.

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