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Trasporti | 10% |
Sanita’ | 3.5% |
Comunicazioni | 3.5% |
Cultura | 4.5 |
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Brutal revenge: In a high-security British jail, a Serbian warlord has his throat slashed by three Muslim inmates
By David Williams and Stephen Wright
Last updated at 1:17 AM on 8th May 2010
A former Serb general convicted of Europe's worst massacre since the Second World War had his neck slashed open by three Muslim prisoners in a British jail yesterday.
Radislav Krstic, 62, serving a 35-year sentence for war crimes, was in a critical condition in hospital after the attack at top security Wakefield Prison.
The Serbs were the deadly enemies of Bosnian Muslims during the Yugoslav civil war in the 1990s. At least one of Krstic's attackers is said to be a Bosnian Muslim.
The incident is a huge embarrassment to prison bosses because Krstic is regarded as one of Britain's most sensitive and high-profile inmates.
It is almost certain to be raised at diplomatic level and questions will be asked about how the suspects were able to attack him.
He was convicted for his part in the massacre of more than 8,000 Bosnian Muslim men and boys who had been rounded up in the UN's supposedly safe haven of Srebrenica in July 1995.
At the time he was one of the most powerful men in the Bosnian Serb army, second only to General Ratko Mladic, who is still on the run from war crimes investigators.
He was arrested in a daring joint SAS and U.S. Navy SEAL snatch in Bosnia in December 1998.
In 2001 he became the first man to be convicted of genocide by the War Crimes Tribunal in the Hague and was sentenced to 46 years in prison.
This was overturned on appeal and replaced by a 35-year sentence for aiding and abetting genocide.
Under the 1948 Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, Britain is obliged to take a share of prisoners convicted at the tribunal.
Among Bosnian Muslims, Krstic, who is married with a daughter, remains a figure of hatred, with the families of many of his victims swearing revenge.
Retribution appears to have come when he was attacked in the maximum security area of Wakefield while in his cell - D320.
He was slashed using a homemade weapon - believed to be a razorblade embedded in a toothbrush.
Last night it emerged that one of his suspected assailants was serving life for the torture and murder of a girl in a suburban park in 2005.
He is Indrit Krasniqi, 22, of Chiswick, West London, convicted in 2006 of the gang murder of Mary-Ann Leneghan, 16, in Reading.
Krstic was found by prison officers on the floor in a pool of blood at 11am. One of the cuts narrowly missed a major artery. He had also been beaten around the head and body.
He was unconscious when he was taken to nearby Pinderfields Hospital. An insider said: 'At first it was thought that Krstic was dead because of all of the blood.
'It was a well-planned and executed ambush. The view is that it was an act of revenge.'
Last night Krstic, although critically ill, was not said to be in a life-threatening condition.
The jail was in 'lockdown' as staff searched for the weapon used in the assault.
The attack comes at a time when former Bosnian Serb leader Radovan Karadzic is standing trial at the Hague charged with war crimes relating to Srebrenica and other atrocities.
Outraged officials in the city of Banja Luka, the centre of Bosnian Serb power, said last night that the 'whole position' of the War Crimes Tribunal would be further undermined if those convicted 'couldn't even by protected in a prison'.
'We should know whether this was allowed to happen... whether a blind eye was turned,' one said.
Lo scandalo Kosovo
Le prove sono in una stanza al primo piano della procura di Pristina tra decine di faldoni con un elastico legato attorno e la scritta "closed". Sono le indagini archiviate dai magistrati Onu l'8 dicembre 2008, ventiquattro ore prima di lasciare il Kosovo nelle mani degli europei.
Nel marzo del 2009 un funzionario dell'Eulex, la missione europea che amministra il Paese, entra nella stanza e si mette a curiosare tra i fascicoli. Nelle sue mani finisce il caso hpq 215/2002, o meglio uno stralcio di quel processo che vede come unico imputato Ramush Haradinaj, l'ex premier del Kosovo e attuale leader del partito AAK. È accusato di aver assalito insieme alle sue milizie la casa di un clan rivale a colpi di Kalashnikov.
«Le prove contenute nel fascicolo sono schiaccianti», rivela il funzionario, «ci sono foto, testimonianze, bossoli e persino le tracce del sangue degli aggressori». Il 26 settembre del 2002 quel faldone è stato spedito dai giudici Onu di Pec alla Procura di Decani e lì dimenticato per sette anni. «Le Nazioni Unite », aggiunge il funzionario, «hanno insabbiato i processi contro i politici e passato solo 35 faldoni ai giudici europei». Le prove del lavoro di copertura dei crimini da parte dell'Onu sono pubblicate nel libro "Lupi nella nebbia". Ci sono i rapporti di intelligence nei quali si spiega che Haradinaj è il principale trafficante di eroina del Paese, il suo ruolo nell'omicidio di testimoni scomodi o di poliziotti che indagavano sui suoi affari, e soprattutto le prove che le Nazioni Uniti erano perfettamente a conoscenza di aver affidato il Kosovo nella mani di una delle più feroci costole della mafia albanese.
Le indagini insabbiate non riguardano solo Haradinaj. Un'inchiesta coinvolge Lufti Dervishi, fedelissimo del premier Hashim Thaqi. Nel 2005 gli inquirenti Onu hanno la possibilità di interrompere un traffico di organi da centinaia di milioni di dollari: documenti riservati provano che i finanzieri dell'Onu avevano scoperto eccessive forniture di sangue ad alcune cliniche private che operavano a Pristina, in particolare alla Medicus dove Dervishi lavorava come primario. I rapporti sottolineano «l'alto numero di richieste di sangue indirizzato al Centro per le trasfusioni», la necessità di realizzare dei controlli. L'ombra del traffico di organi stava su quei documenti che chiedevano alle Nazioni Unite di proseguire le indagini. «Invece ci siamo arrivati per puro caso», spiega il procuratore europeo Francesco Mandoi: «Un cittadino turco a cui era stato asportato un rene è svenuto all'aeroporto di Pristina e ci ha rilasciato una confessione ».
Le manette scattano oltre che per Dervishi, anche per altre due persone e la clinica viene chiusa. Si innesca un terremoto politico e giudiziario. «Dalle nostre indagini il traffico è accertato in almeno cinque casi», aggiunge Mandoi. «Ne stiamo verificando altri 25. In Kosovo arrivano centinaia di disgraziati da paesi come Turchia o Kazakhstan, pronti a farsi espiantare i propri organi per poche migliaia di euro. A pagare sono ricchi uomini e donne occidentali. Avviene tutto a Pristina, con la complicità dei politici locali. Dervishi è uomo di Thaqi».
In Kosovo non c'è uomo in posizione chiave che non risponda ai clan. Un legame quasi familistico, eredità dell'Uck, l'esercito di liberazione. Durante la guerra questi uomini svolgevano attività criminali per finanziare la resistenza, adesso operano per conto degli ex capi, consolidano il potere, finanziano le campagne elettorali, comprano o uccidono avversari. Anche il sindaco di Skenderaj Sami Lustaku è un uomo di Thaqi. Secondo un rapporto Osce è «membro dell'organizzazione terroristica AKSK e coinvolto in numerose attività criminali». Il 14 novembre del 2005, alla presenza di tre poliziotti, il sindaco-soldato minaccia di morte un giudice che sta eseguendo lo sfratto di due locali. Il rapporto è un atto d'accusa durissimo verso le Nazioni Unite. Svela che Lustaku viene avvertito dagli investigatori di essere intercettato, denuncia che un commissario Onu blocca una perquisizione nella casa di Lushtaku per il rischio di «destabilizzare il Kosovo» e per paura di trovare le prove del coinvolgimento di Lushtaku in altri crimini.
Il documento sottolinea come questo «metterebbe ufficiali di alto livello dell'Onu in una brutta posizione ». «La questione che solleva più preoccupazioni », si legge, «è il fatto che l'interferenza con il lavoro dei giudici da parte di funzionari delle Nazioni Unite non è un caso isolato, piuttosto sembra essere una pratica utilizzata da lungo tempo». E cita altri due casi in cui ordini di perquisizione non sono mai stati eseguiti e in cui indagini per crimini anche più gravi rispetto a quelli imputati a Lushtaku sono state «seriamente impedite dai vertici dell'Onu ». Il documento OSCE punta l'indice contro l'ex numero due delle Nazioni Unite Steven Schook, attuale consigliere politico di Haradinaj. Secondo il rapporto, nel 2006 Schook decide che tutte le indagini che possono «destabilizzare» il Kosovo devono avere la sua autorizzazione. Non è finita. Gli investigatori europei in questi giorni stanno ascoltando le confessioni di Nazim Bllaca, un agente dei servizi segreti del premier Thaqi che si è autoaccusato dell'omicidio di 17 oppositori politici. Non dovrebbe essere complicato intuire per conto di chi ha operato il killer Bllaca.
Sarà più difficile trovare qualche ambasciatore interessato ad ascoltare la storia dei dieci anni di amministrazione Onu. Gli anni in cui trafficanti, assassini e mafiosi si sono presi il Kosovo.
Edward Luttwak non è uomo che perda tempo con ricerche storiche accademiche o fini a sè stesse; quando scrive, scrive perchè ha una precisa operazione politica da realizzare.
Nel 1967 scrisse “Tecnica del colpo di Stato” in cui analizzava con grande precisione i meccanismi dei colpi di stato (particolarmente numerosi in quell’epoca) e le ragioni per cui alcuni erano riusciti ed altri falliti: sei anni dopo fu fra i consulenti che idearono il golpe cileno contro Allende.
Nel 1976 scrisse “la grande strategia dell’Impero Romano” e l’idea sottostante era quella di riabilitare l’idea di “Impero”, sino a quel punto, per gli americani era una parola impronunciabile: gli Usa sono nati da una rivoluzione anticoloniale contro un Impero, appunto, ed essere identificati come Impero appariva come la negazione dello spirito dei “padri fondatori”. Luttwak contribuì a rimuovere questo complesso degli americani insistendo sul carattere repubblicano dell’Impero di Roma e sul suo ruolo come garante della pace, proprio in quanto impero unico: quindici anni dopo, con la caduta dell’Urss quella premessa risultò utilissima per teorizzare l’equilibrio monopolare del dopo-muro.
E poi altri libri sulla grande strategia dell’Urss, o sul concetto stesso di strategia strettamente funzionali all’ultima e risolutiva fase della guerra fredda.
Insomma uno che sa quello che fa.
Ora ci propone un titolo apparentemente bizzarro: “La grande strategia dell’Impero Bizantino” (a proposito, pare che l’argomento sia diventato di gran moda: date un occhiata agli scaffali delle librerie e vedete quanta roba sta uscendo sull’argomento).
Il cuore del ragionamento di Luttwak è questo: l’impero romano di occidente cadde sotto l’urto delle invasioni barbariche nel 476 Dc, mentre l’impero romano d’oriente cadde solo 10 secoli più tardi e nonostante militarmente fosse meno forte e le sue frontiere fossero meno difendibili. Come mai? L’autore ritiene che il segreto della longevità di Bisanzio sia consistito in un accorto mixage di diplomazia ed intelligence che consentì a lungo di eterodirigere vicini, avversari ed alleati, giocando l’uno contro l’altro. Bisanzio non cercò mai di abbattere definitivamente nessun avversario, proprio per evitare di avvantaggiare indirettamente altri avversari. Seppero usare con maestria l’arte di disorientare gli avversari con indicazioni geografiche errate, con notizie artefatte sulle intenzioni aggressive dei vicini, soprattutto giocando con molta astuzia sul piano delle alleanze per cui l’alleato di oggi è l’avversario di domani e l’avversario di oggi può diventare l’alleato di domani e, come tali trattati.
Traduzione dal latino di New York all’italiano:
partiamo dall’idea che si scrive Impero romano ma si legge Usa, rispettivamente Impero romano d’Occidente sta per “Usa neo cons dell’era repubblicana” mentre Impero romano d’Oriente sta per Usa dopo la crisi del 2008.
Con il crollo dell’Urss, gli Usa avevano sognato un equilibrio imperiale monopolare (sul modello del primo Impero Romano), sino ad esprimerlo chiaramente nel progetto “Per un nuovo secolo americano”. Ma, con la crisi del 2008, questo sogno è ormai inattuabile ed occorre ridimensionarlo: la crisi finanziaria rende molto difficili nuove avventure militari, intacca il prestigio degli Usa, scuote il dollaro, inoltre, la Cina corre molto più in fretta del previsto e si profilano intese come quella del Bric.
Nonostante tutto, gli Usa restano ancora il paese militarmente più forte ed il dollaro è ancora la moneta di scambio internazionale. Qui il problema è quello di durare come prima potenza in un mondo ormai irrimediabilmente multipolare. Di qui l’analogia con l’Impero bizantino.
Con le lezioni conseguenti:
-giocare la forza più per il suo valore deterrente che per il suo uso effettivo;
- non considerare veramente alleato nessuno, ma giocare l’uno contro l’altro in un sistema di convergenze e divergenze fluttuanti;
- affidare il compito di prima linea all’intelligence prendendo l’iniziativa nella guerra asimmetrica.
Ma, soprattutto, imparare a concepire la strategia non solo come dato militare, ma come disegno d’azione complessivo che contempla sia azioni militari aperte (interventi regionali, presidio di zone calde ecc.) sia azioni coperte (appoggio a terrorismi e rivolte, aggressioni informatiche ecc.) sia non militari (destabilizzazione politica ed economica di avversari, guerra monetaria, spionaggio industriale ecc.). Perchè, ai fini della vittoria, quello che conta non è necessariamente lo scontro militare, ma l’effetto combinato delle varie forme di azione, militari e non militari.
Qualcuno, però, osserverà che un simile concetto di strategia non appartiene affatto a Bisanzio, come dimostra l’opera “Strategikon” composta dall’Imperatore Maurizio nel VI secolo e che fu il testo base di arte militare bizantina per 5 secoli.
Appunto… non è di Bisanzio che stiamo parlando.
Aldo Giannuli, 8 maggio ‘10
Ps: ho notato che la libreria Hoepli di Milano ha messo in vetrina il libro di Luttwak accanto al mio sui sevizi segreti: sono commosso…!
IL SIGNORE DELLA GUERRA
<< La pace è facilissima da ottenere: basta arrendersi. >>
Edward Luttwak alla trasmissione AnnoZero, Rai2, 15 aprile 2010
“Corriere della Sera”. Immagine della democrazia che muore. (Da “Fuoriregistro”)
Di questa vera e propria rivoluzione copernicana degli studi storici, il “Corriere della Sera” ha fatto da cassa di risonanza e il 23 marzo, in calce a un servizio sulla Grande Italia, ha “indicato” buoni e cattivi. Ne è nata così una specie di “lista di proscrizione”, un minuscolo, triste esempio di “index librorum prohibitorum”. Vale la pena di citarlo testualmente: “Vi sono anche opere che tendono a ridimensionare la portata degli eccidi jugoslavi: Joze Pirjevic, Foibe (Einaudi 2009), Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu 2005), Giacomo Scotti, Dossier foibe (Manni 2005), Giuseppe Aragno, Fascismo e foibe (La città del Sole, 2008). Contro di esse, considerate «negazioniste», le associazioni degli esuli hanno di recente chiesto un intervento delle pubbliche autorità“.
Se, com’è noto a tutti gli studiosi che se ne sono occupati onestamente, nessuno dei citati dall’anonimo giornalista nega l’esistenza del dramma istriano, dove va a parare la manovra? Si vuole agitare lo spettro del “negazionismo“, nell’ attesa di poterlo trasformare in reato?
E’ accettabile tutto questo? E davvero siamo ancora in una repubblica democratica, se impunemente si possono liquidare così gli studi di storici onesti, che fanno ricerca secondo le regole del mestiere, nella maniera più corretta, esplorando archivi e documentando ogni affermazione? E’ accettabile che sia la politica a decidere chi debba parlare nelle scuole? E che un grande giornale fiancheggi la manovra e non senta il bisogno di prendere le distanze?
E anche supponendo che Aragno, Pirjevec, Scotti e Cernigoi sbaglino, a quale governo consentiremo, senza protestare, di trattare un errore alla maniera di un crimine?
Le posizioni di Frassinetti, di cui in qualche modo il Corriere si fa portavoce, sono inquietanti. Si cominciò a parlare di “negazionismo” a proposito di studi che riguardavano apertamente il genocidio ebraico. Inaccettabili, certo, ma pur sempre opinioni da combattere con le armi della ricerca e la forza della democrazia. Si passa ora, con un prevedibile effetto domino, ad altri gruppi nazionali e magari sociali. E’ naturale che chi è stato massacrato desideri che lo storico se ne ricordi, ma è legittimo che siano le vittime a dettare la ricostruzione dei fatti? Da una regola discutibile ma “mirata” ricaveremo una norma generale per una pluralità di eventi cui s’appelli chiunque si ritenga “negato“? E tutti, ognuno in nome di propri interessi e idee politiche, potranno così chiamare in causa gli studiosi per le loro opinabili, ma oneste ricostruzioni? A questo punto non solo i quattro citati, ma tutti troveranno grandi difficoltà a fare gli storici. E’ questo che si vuole? Quello che con preoccupata amarezza e acuto senso della democrazia, Gaetano Arfè, definiva un “popolo di senzastoria“?
Di ciò la ringraziamo in anticipo.
Claudia Cernigoi, Giornalista – Ricercatrice storica
Jože Pirjevec, Storia dei popoli slavi – Università di Trieste
Giacomo Scotti, scrittore, storico e traduttore
Firme per adesione
Nicola Tranfaglia, prof. emerito di Storia dell’Europa e del Giornalismo – Università di Torino
Michele Fatica, prof. emerito di Storia Moderna e contemporanea – Università di Napoli L’Orientale
Angelo D’Orsi, prof. Pensiero politico contemporaneo – Università di Torino
Ferdinando Cordova, prof. di Storia Contemporanea – Università La Sapienza di Roma
Santi Fedele Prof. di storia contemporanea – Università di Messina
Alceo Riosa, Prof. di Storia Contemporanea, Università di Milano
Giovanni Cerchia, Prof. Storia Contemporanea – Università del Molise
Luigi Parente, Prof. Storia Contemporanea – Università Orientale Napoli
Cristiana Fiamingo, Prof. Storia e Istituzioni dell’Africa – Università degli Studi di Milano
Piero Graglia, Prof. Storia dell’integrazione europea – Università di Milano
Marco Sioli, Prof. Storia e Istituzioni delle Americhe – Università di Milano,
Sandro Rinauro, Prof. Geografia economico-politica – Università di Milano
Alessandra Kersevan, Ricercatrice storica
Sandi Volk, storico – Sezione Storica della Biblioteca nazionale slovena
Fabio Gentile – Prof. di Politica comparata – Università di San Paolo del Brasile
Elisa Ada Giunchi, Prof. Storia dell’Asia, Università degli Studi di Milano
Nunzio Dell’Erba, Ricercatore confermato Storia contemporanea Università di Torino
Eros Francescangeli, Prof. Storia contemporanea, Università degli Studi di Padova
Giorgio Sacchetti, Prof. Storia dei partiti e dei movimenti politici, Università degli Studi di Trieste
Aldo Giannuli, Prof. Storia Contemporanea – Università degli Studi di Milano
Vanni D’Alessio, Ricercatore Storia Contemporanea – Università Federico II Napoli
Andrea Catone, storico – Direttore de “L’Ernesto”
Alexander Hobel, Storia contemporanea, Università Federico II di Napoli
Gigi Bettoli, Ricercatore storico
Gaetano Colantuono – storico
Cristina Accornero – Università degli Studi di Torino.
Alberto Gallo, storico, Università di Firenze
Giovanna Savant, Dottore di ricerca Studi politici europei ed euroamericani Università di
Torino
Giampiero Landi, insegnante e storico
Marco Albertaro, storico
Silvio Antonini – ANPI Viterbo
Redazione di “Fuoriregistro”
Redazione del “Forum Insegnanti”
retescuole.net
Associazione Scuolafutura – Carpi
Il 23 marzo 2010 sul Corriere della Sera è apparso un breve articolo dal titolo “Le ferite aperte del confine orientale”, nel quale vengono elencati una serie di testi che parlano delle vicende delle “foibe” e dell’esodo istriano. Dopo alcuni titoli considerati evidentemente “neutri”, vengono indicati due testi “che riflettono l’opinione degli esuli istriani” ed alla fine leggiamo:
Vi sono anche opere che tendono a ridimensionare la portata degli eccidi jugoslavi: Joze Pirjevic, Foibe (Einaudi 2009), Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu 2005), Giacomo Scotti, Dossier foibe (Manni 2005), Giuseppe Aragno, Fascismo e foibe (La città del Sole, 2008). Contro di esse, considerate «negazioniste», le associazioni degli esuli hanno di recente chiesto un intervento delle pubbliche autorità.
Parlo ora per fatto personale, ma penso che gli altri storici coinvolti possano riconoscersi in quanto dirò. Essere liquidati in questo modo su uno dei maggiori quotidiani nazionali non è cosa che possa far piacere a chi, come noi, ha studiato a lungo documenti e testimonianze prima di dare alle stampe cose che sappiamo possono essere soggette a critiche, più politiche che storiche, a dire il vero, ma in effetti quando si parla di questi argomenti spesso la storiografia viene lasciata da parte per dare spazio all’interpretazione politica dei fatti. E dato che le interpretazioni politiche “ufficiali” dei fatti sono diverse dalle conclusioni storiche cui noi si è arrivati, a questo punto scatta l’accusa di “negazionismo” nei nostri confronti, con tutto ciò che l’uso spropositato di questo termine comporta.
[...] Al momento in cui scrivo (8 maggio 2010) la lettera [aperta al direttore del Corriere della Sera più sopra riportata, vedi al punto (2)] non è stata pubblicata dal Corriere della Sera, ma neanche dal Manifesto, che pure aveva dato la propria disponibilità ad Aragno; è stata invece pubblicata dal settimanale anarchico Umanità Nova e si può trovare ai seguenti link:
http://www.foruminsegnanti.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1612
http://www.fisicamente.net/portale/modules/news2/article.php?storyid=1396
http://bru64.altervista.org/forum/viewtopic.php?t=16581
http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=13867
In attesa di ulteriori disponibilità, noi continueremo a resistere.
Claudia Cernigoi
Pagina 39
(23 marzo 2010) - Corriere della Sera
»Katholischer Klerus war an Vernichtungslagern beteiligt«
Was uns der Geschichtsunterricht über die Zeit des Faschismus verschwieg: In Kroation wurden 600000 Serben umgebracht. Gespräch mit Barry M. Lituchy
Interview: Cathrin SchützBarry M. Lituchy lehrt Geschichte an einem College in New York City. Er ist Mitbegründer und Vorsitzender des » Jasenovac Research Institute«
Dieser Tage jährt sich zum 65. Mal die Auflösung des Konzentrationslagers Jasenovac in Kroatien. Der Nazijäger Simon Wiesenthal hat die dort an Serben begangenen Verbrechen zwar als die schwersten nach den Judenmorden bezeichnet – hierzulande weiß jedoch kaum jemand davon. Wieso eigentlich nicht?
Jasenovac war das größte KZ in ganz Südosteuropa. Hinsichtlich der Opferzahl ist es nach Auschwitz, Majdanek und Treblinka das vermutlich viertgrößte überhaupt. Die genaue Zahl der Ermordeten wird man nie feststellen können – Wiesenthal spricht von 600000 Opfern.
Der katholische Klerus war also eine Mörderbande? Wie konnte das jahrzehntelang unter der Decke gehalten werden?
Das Ende des Vernichtungslagers Jasenovac ist nicht genau zu datieren – warum nicht?
Die Ustascha hatte unterdessen alle Frauen in dem Lager liquidiert, woraufhin einige der überlebenden 2000 Männer für den 22. April den Ausbruch planten. Unbewaffnet, wie sie waren, stellten sich Hunderte von ihnen der schwerbewaffneten Ustascha entgegen – 140 Häftlingen gelang die Flucht, der Rest wurde umgebracht. Die Klerikalfaschisten haben daraufhin alles zerstört und die noch verbliebenen Häftlinge ermordet. Als die Partisanen einmarschierten, fanden sie ein leeres Lager vor.
Sie haben Mitte der 1990er Jahre in New York das »Jasenovac Research Institute« gegründet, auf dem Höhepunkt einer neuen Propagandawelle gegen Serbien. Warum?
Franjo Tudjman führte Kroatien dann 1991 in die Unabhängigkeit, wobei er den Mythos der Ustascha wiederbelebte und deren Symbole benutzte. Die heutige Fahne Kroatiens basiert auf jener der Faschisten. Eine vergleichbare Entwicklung gab es in Bosnien: Alija Izetbegovic führte das Land erst in den Krieg und dann in die Unabhängigkeit. Im 2. Weltkrieg hatte er der vom SS-Führer Heinrich Himmler gegründeten Bewegung der Jungen Muslime angehört, die Teil der bosnisch-muslimischen SS-Division war.
Die Gründung des Instituts war für mich ein Mittel, den Lügen der NATO etwas entgegensetzen zu können. Ich denke, daß die Geschichte die wichtigste Waffe gegen die Lügen der 90er Jahre ist.
www.jasenovac.org/
Dato che un libro è stato recentemente pubblicato in Italia con il
cinico e aberrante titolo "Kosovo tutto OK" ( http://www.balcanicaucaso.org/ita/Appuntamenti/Kosovo-tutto-ok
) ...
<< Quattro profughi serbi hanno abbandonato il villaggio Zac
(22 aprile 2010 - fonte: www.glassrbije.org )
I rappresentanti di quattro famiglie dei profughi serbi hanno
abbandonato il villaggio Zac nei pressi di Istok in Kosovo e sono
andati nella Serbia centrale, dopo che stanotte gli albanesi hanno
gettato di nuovo le pietre contro due campi nei quali vivono i
profughi serbi. Due campi con le tende nelle quali 26 famiglie dei
profughi serbi di Zac vivono aspettando di entrare nelle proprie case,
sono stati lapidati martedì sera, dopo di che i profughi hanno passato
tutta la notte vigilando davanti alle tende. Loro hanno dichiarato che
gli albanesi protestavano molte volte negli ultimi trenta giorni
contro il ritorno dei profughi serbi. >>
Petek, 7. maj 2010
Pričetek ob 13. uri
Volkshaus/Ljudski dom
Südbahngürtel 24, 9020 Celovec
ob 65. letnici zmage nad nacifašizmom
Sobota, 8. maj 2010
Zaključna prireditev na Novem trgu.
Inizio messaggio inoltrato:
In allegato potete visionare il materiale relativo alla manifestazione antifascista di sabato prossimo a Klagenfurt. Con cortese preghiera di pubblicazione e diffusione alle vostre mailing list.
Igor Kocijancic
APPELLO
per la manifestazione dell'8 maggio 2010 a Klagenfurt
Le nostre motivazioni sono molteplici:
Forum Interregionale della Sinistra Europea Alpe AdriaAlpe-Jadran
http://www.megaupload.com/?d=ZIFJ4I2C
http://www.megaupload.com/?d=IOFSTOBN
<< La pace è facilissima da ottenere: basta arrendersi. >>
Edward Luttwak alla trasmissione AnnoZero, Rai2, 15 aprile 2010
Da: nuovaalabarda @...
Data: 30/04/2010 16.22
Vi comunico che è stato inserito l'articolo sul nuovo libro di Raoul Pupo (Trieste '45, edito da Laterza) all'indirizzo
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-la_storia_secondo_raoul_pupo..php
buona lettura!
Claudia Cernigoi
IN MARGINE ALLA PRESENTAZIONE DI “TRIESTE ‘45” DI RAOUL PUPO, 21 APRILE 2010.
Lo storico Raoul Pupo ha recentemente pubblicato un nuovo libro “Trieste ‘45” (Laterza 2010), nel quale fa una ricostruzione degli eventi storici che interessarono Trieste e la Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale. Questo libro è stato presentato a Trieste il 21 aprile scorso, nella prestigiosa sede dell’Aula magna della Scuola per interpreti, già sede dell’hotel Balkan che era stato dato alle fiamme dallo squadrismo fascista nel 1920. Relatori gli storici Roberto Spazzali e Marta Verginella.
Non vogliamo entrare nel merito di tutto il libro ma fare solo un paio di osservazioni.
Osserviamo innanzitutto che il testo di Pupo non è tanto un’analisi di fatti storici quanto una serie di interpretazioni politiche degli avvenimenti. Di conseguenza quanto scritto dallo studioso è in partenza influenzato dalle posizioni politiche dello stesso: essendo egli anticomunista ed antijugoslavo le sue analisi non possono prescindere dal suo modo di rapportarsi. Così la sua affermazione che la realizzazione della Jugoslavia di Tito è giunta “dopo una guerra civile ad altissima intensità” ed una “rivoluzione di tipo bolscevico” (pag. 330), che non trova giustificazione storica, può essere compresa solo considerando la posizione politica di Pupo. Ricordiamo che la lotta di liberazione della Jugoslavia era stata motivata dall’occupazione italo-germanica di quel paese; nell’ambito di questa lotta di liberazione la componente più forte, che ebbe poi anche l’appoggio degli Alleati, era quella che faceva capo a Tito. Pur consapevoli che non è con i se che si fa la storia, possiamo ipotizzare che senza l’occupazione nazifascista difficilmente la componente comunista avrebbe iniziato una lotta armata e provocato una guerra civile per prendere il potere.
Per quanto concerne la questione degli arresti operati dalle autorità jugoslave alla fine della guerra (in questo testo finalmente Pupo non parla genericamente di “foibe” ma specifica che si trattò di “arresti”) lo storico fa un’affermazione quantomeno singolare: non sarebbe degno di interesse tanto il numero dei morti “ovviamente sconosciuto”, quanto la mole di arresti (pag. 230).
A prescindere dal fatto che il numero dei morti “ovviamente” non è sconosciuto (quantomeno non a Trieste, Gorizia, Fiume, per le quali città sono stati condotti degli studi discretamente precisi sulla base dei registri anagrafici), l’insistere nel voler quantificare il problema sul numero degli arresti è del tutto fuorviante, se non si prosegue il discorso precisando quanti furono rilasciati già nell’immediato.
In concreto: come sempre quando un esercito prende il controllo di un territorio già in mano al nemico, tutti i militari e le forze armate sconfitte vengono tratti in arresto. Così è accaduto anche a Trieste nel maggio 1945: ad esempio è vero che tutti i membri della Guardia civica reperibili sono stati arrestati e trattenuti per un paio di giorni dall’esercito jugoslavo: ma è anche vero che dopo alcuni sommari controlli furono rilasciati tutti coloro per i quali non c’erano accuse specifiche di comportamenti criminali. Se consideriamo che le fonti alleate parlarono di diverse migliaia di arresti a Trieste nei primi giorni di maggio, e che in concreto da tutta la provincia furono 500 coloro che non fecero ritorno (sono comprese in questo numero anche le vittime di regolamenti di conti e vendette personali, quindi non imputabili alle autorità jugoslave), la valutazione di Pupo è decisamente fuorviante per la comprensione degli eventi.
Anche in un altro punto la visione politica nuoce alla ricostruzione storica: quando Pupo sostiene che la repressione jugoslava colpì tutti coloro che non volevano collaborare con l’esercito del nascente stato jugoslavo. L’autore non considera che l’esercito jugoslavo, essendo uno degli eserciti alleati contro l’Asse (l’Italia era solo “cobelligerante”, ricordiamo), aveva tutto il diritto, sancito dalle regole dell’armistizio firmato dall’Italia, di chiedere “collaborazione” (nel senso che dovevano porsi a loro disposizione) alle forze armate presenti sul territorio dove arrivavano. A Trieste il CVL (che già era uscito dal CLN Alta Italia perché si rifiutava di collaborare con la resistenza jugoslava: e qui va ribadito un concetto che spesso viene presentato capovolto: quando si dice che a Trieste il Partito comunista non faceva parte del CLN, bisognerebbe specificare che era stato per primo il CLN triestino a porsi fuori dal CLNAI che aveva dato come direttiva quella di allearsi con gli Jugoslavi, e per questo il PC triestino, che lavorava assieme al Fronte di Liberazione – Osvobodilna Fronta non faceva parte del CLN), forse per un malinteso senso di patriottismo, o forse per altri motivi, non volle consegnare le armi all’esercito jugoslavo, così come le guardie di finanza (incorporate all’ultimo momento nel CVL) in alcuni casi non si misero a disposizione degli jugoslavi o addirittura spararono loro contro, probabilmente perché ordini sbagliati erano stati loro impartiti dall’alto (e qui potremmo aprire tutta una lunga dissertazione sul “piano Graziani” che teorizzava le provocazioni contro gli Alleati in modo da creare disordini ed incidenti).
Nella fattispecie il gruppo di guardie di finanza della caserma di Campo Marzio, invece di combattere a fianco della IV Armata jugoslava scesa in città, si mise a sparare contro di essa assieme ai militari germanici, che erano accasermati nello stesso edificio. Di conseguenza un’ottantina di finanzieri furono arrestati ed internati nei campi di prigionia (secondo un documento citato, ma non reso pubblico, da Giorgio Rustia in una lettera pubblicata su “Trieste Oggi” il 25/4/01, 77 di questi sarebbero stati uccisi a Roditti presso Divaccia, a pochi chilometri da Trieste). Ricordando che era compito della brigata Timavo del CVL (per la precisione del battaglione agli ordini del tenente colonnello Domenico Lucente, come leggiamo ne “I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco 1960) prendere il controllo della caserma di Campo Marzio, quindi possiamo anche domandarci quale responsabilità ebbero in questi incidenti i dirigenti del CVL, che evidentemente non avevano informato esattamente i finanzieri in merito agli accordi presi.
A proposito di questo episodio, dobbiamo anche citare quanto scrive lo storico Roberto Spazzali (che è stato tra i relatori del lavoro di Pupo il 21/4/10), e cioè che la sera del 30 aprile “quando a Trieste non erano ancora entrate le truppe jugoslave”, Vasco Guardiani (all’epoca impiegato ai Cantieri, organizzatore della brigata Frausin del CVL, ma successivamente anche “gladiatore”), che si trovava nella Curia per parlare col Vescovo, vide passare i finanzieri “prelevati dalla caserma di Campo Marzio, scortati da operai dei Cantieri navali” (in “…l’Italia chiamò”, LEG 2003). E ricordiamo qui che nei “diari” del CVL si legge che ai Cantieri si sarebbero “insinuati” membri delle brigate Venezia Giulia e Frausin.
Dunque se Spazzali ha riportato (ritenendo quindi attendibile) quest’altra versione dell’arresto dei finanzieri di Campo Marzio, perché non ne ha parlato nel corso del dibattito sul nuovo testo di Pupo?
In conclusione di questo discorso, e senza entrare nel merito di quanto avvenuto, consideriamo che si era alla fine di un conflitto mondiale dove sostanzialmente i combattenti erano divisi in due gruppi: quelli che combattevano con l’Asse e quelli che combattevano con gli Alleati. Se all’arrivo di un esercito alleato alcuni armati non si ponevano a loro disposizione, venivano logicamente considerati come “nemici”, con le conseguenze del caso, e ciò vale sia per chi non si consegnava agli angloamericani che per chi non si consegnava agli jugoslavi.
Prendere atto di ciò significa valutare i fatti storici e non “ragionare come nel 1945” quando si eliminava tutti coloro con cui non ci si trovava d’accordo, accusa che Pupo ha mosso alla ricercatrice storica Claudia Cernigoi che aveva fatto queste obiezioni nel corso del dibattito: un’affermazione questa di Pupo piuttosto pesante ed offensiva, oltre che fuori luogo nell’ambito di un dibattito storico.
L’altro punto su cui non concordiamo con le tesi di Pupo è la sua ricostruzione di quanto sarebbe avvenuto presso la “foiba” di Basovizza. Nel suo libro fa dapprima un paio di accenni a possibili infoibamenti nel pozzo della miniera: a pag 24, quando parla della fucilazione di Gaetano Collotti (il commissario dell\'Ispettorato Speciale di PS, corpo speciale di repressione antipartigiana i cui metodi di lavoro erano la tortura sistematica, l\'eliminazione sbrigativa degli arrestati ed il saccheggio delle abitazioni rastrellate) a Carbonera scrive che “la stessa sorte” toccò a “molti suoi collaboratori caduti in mano jugoslava” che “finirono con tutta probabilità nel pozzo della miniera di Basovizza”; ed ancora a pag. 222 parla di “fucilazioni di massa a Basovizza”, quasi a voler preparare psicologicamente il lettore al successivo capitolo nel quale cerca di dimostrare che a Basovizza sarebbero stati uccisi “circa 200 questurini” (come detto nel corso della presentazione del libro).
A pag. 246 inizia il capitolo su Basovizza (introdotto dalla preghiera scritta da monsignor Santin per gli “infoibati”) e, dopo avere narrato la vicenda degli antifascisti fucilati nel 1930 a Basovizza (su questo fatto vi rinviamo all’articolo “Martiri di Basovizza” http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-martiri_di_basovizza.php), Pupo riprende in mano l’ormai più che noto documento anonimo (la firma Source che significa semplicemente Fonte non permette di identificare il redattore del rapporto) che riporta le presunte dichiarazioni di due sacerdoti (don Virgil Šček e don Francesco Malalan). Sull’attendibilità di questo rapporto scrive: “qualche interprete ha osservato che in realtà i due preti non hanno assistito de visu alle uccisioni: l’osservazione è pertinente, ma il ruolo dei due sacerdoti nella comunità locale e nel movimento di liberazione li rende portavoce attendibili di un sapere comune. Il rapporto dunque è preciso e circostanziato. Ha un solo difetto: è un resoconto di seconda mano proveniente da una fonte coperta. Prima di accettarlo ben sarebbe poterlo incrociare con altre fonti di provenienza diversa”.
Tralasciando che “qualche interprete” sarebbe Claudia Cernigoi (i cui studi Pupo peraltro non considera), vediamo ora le “fonti” di “diversa” provenienza “incrociati” dallo storico.
Il primo è un rapporto dell’Ozna, datato 3/9/45, che riferisce delle ispezioni condotte dagli angloamericani nel pozzo della miniera. In tale rapporto, cita Pupo, si parla di “circa 250 kg cadaveri in putrefazione”.
Noi osserviamo che 250 chili di resti umani possono rappresentare al massimo “una decina di corpi smembrati”, come scriveva quel rapporto “segreto” dei servizi alleati pubblicati sul “Piccolo” del 31/1/1995, e non i 200 questurini di Pupo: ma quando Cernigoi ha fatto presente un tanto nel corso della presentazione di “Trieste ‘45”, si è sentita rispondere “lo sapevo io che si finiva a parlare di ossa e cadaveri”, come se nel corso di un dibattito storico nel quale si parla di eccidi parlare di cadaveri fosse andare fuori tema o, peggio, come asserito dallo storico, non “rispettare la memoria” di chi ha avuto un parente “infoibato”.
A prescindere dal fatto che parlare di storia è una cosa, trarre giudizi morali e rispettare le memorie è altro, quello che sarebbe utile chiarire, a questo punto, è se si rispetta di più la memoria dei morti dicendo (a sproposito) che 250 chili di resti umani rappresentano la prova che 200 questurini sono stati infoibati o evidenziando l’incongruità dell’affermazione.
La seconda “fonte” citata da Pupo è una frase tratta dai diari di don Šček: parla dei “questurini da Trieste trasportati a Basovizza” che “alla sera li fucilarono e li gettarono nelle grotte”.
Considerando, come ha fatto Pupo, che don Šček era un “leader carismatico rispettato dai partigiani” e quindi un “testimone autorevole”, viene da pensare che se avesse saputo che i “questurini” erano stati gettati nella foiba di Basovizza avrebbe parlato di “pozzo della miniera”, al singolare, e non di “grotte”: per cui non ci sentiamo di condividere la conclusione cui arriva Pupo che uno storico “puntiglioso può ritenere che molto probabilmente i fatti si sono svolti come abbiamo detto”. Infine, come dato essenziale, va detto che i questurini di Trieste “scomparsi” nei “40 giorni” non erano 200 ma un centinaio, e della maggior parte di essi si sa dove e come sono morti, sicuramente non a Basovizza.
Rileviamo a questo punto che lo storico Pupo non ha “incrociato” nessun altro documento, non ha ad esempio preso in minima considerazione la mole di verbali ed atti che un altro storico triestino, Gorazd Bajc ha trovato negli archivi di Washington e che sono stati presentati nel settembre scorso nella stessa Aula magna, alla presenza dello storico Spazzali. Questi documenti, che dimostrano in modo piuttosto esplicito che da Basovizza non furono recuperati che corpi di militari tedeschi, non sembrano esistere per Raoul Pupo.
La conclusione del capitolo su Basovizza è comunque un’altra: “non abbiamo certezze ma può essere che nel pozzo della miniera si trovino membri dell’Ispettorato”, il che porta Pupo a fare un paragone (a nostro parere aberrante) tra i due luoghi della memoria di Basovizza: sui fucilati di Basovizza aleggia il sospetto del terrorismo, sugli infoibati di Basovizza il sospetto che vi siano i torturatori dell’Ispettorato Speciale di PS.
Una valutazione del genere richiederebbe come risposta uno studio di diverse pagine: per motivi di spazio ci limitiamo per ora a dire che secondo noi non è così che si scrive la storia.
aprile 2010