Informazione

(english / italiano)

RATLINES: Il Vaticano nascose gli ustascia

In ordine cronologico inverso:

1. Il Vaticano nascose gli ustasha Pavelic e i suoi ospitati nelle chiese
"Haaretz" pubblica la testimonianza al processo di San Francisco
(La Repubblica, 16/1/2006)

2. Old Balkan hatreds play out in court case
A class-action lawsuit charges the Vatican Bank with a role in the
flight of pro-Nazi henchmen and loot from Europe after World War II
(Chicago Tribune, July 6, 2005)

3. OLOCAUSTO: CROAZIA, CORTE APPELLO USA RIAPRE CAUSA CONTRO VATICANO
(ANSA, aprile 2005)

4.«Stragi naziste, una rete aiuta le Ss a evitare i processi»
(Corriere della Sera, 26 agosto 2004)

5. ARGENTINA: DOPO L'APERTURA DEGLI ARCHIVI SUI NAZISTI
Quei 47 dossier mancanti
(Panorama, 29/8/2003)


### LINKS sullo stesso argomento ###

RATLINES - La guerra della Chiesa contro il comunismo

https://www.cnj.it/documentazione/ratlines.htm

THE PAVELIC PAPERS

http://www.pavelicpapers.com/

Article from NY Times on US governement relationship with Nazis during
the Cold War

http://jasenovac.org/libraries/viewdocument.asp?DocumentID=155

Argentina/Croazia:
- Prosciolti i trafficanti di armi amici degli ustascia
- FLASHBACK: Argentina: vecchi camerati arruolano mercenari per la Croazia

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2760

Vatican Bank Claims

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/193

A SAN PIETRO L'ORO DI PAVELIC

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/82

Un Giubileo etnicamente pulito (20/01/2000)

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/17


=== 1 ===

La Repubblica, 16/1/2006
Pagina 15 - Esteri
IL CASO

Un ex agente segreto Usa accusa: il futuro papa Paolo VI aiutò i
criminali di guerra croati

Il Vaticano nascose gli ustasha Pavelic e i suoi ospitati nelle chiese

"Haaretz" pubblica la testimonianza al processo di San Francisco

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Alberto Stabile

GERUSALEMME - Negli anni del grande disordine seguito alla Seconda
guerra mondiale, i più famigerati criminali di guerra croati, i
cosiddetti ustasha, poterono sfuggire alla giustizia internazionale,
trovare rifugio in America Latina e sfruttare l´immenso tesoro
raccolto depredando le vittime del loro regime sanguinario, grazie
alla protezione ricevuta in Vaticano dall´allora vice segretario di
Stato, Giovanni Battista Montini, più tardi asceso al soglio di Pietro
con il nome di Paolo VI.
È stato l´agente del controspionaggio americano, William Gowen a
evocare il ruolo di Montini in una testimonianza resa il mese scorso
davanti alla Corte federale di San Francisco, chiamata a giudicare su
una serie di istanze di risarcimento presentate da ebrei, serbi,
ucraini, russi e rom sopravvissuti alla macchina di sterminio messa su
da Ante Pavelic e dai suoi seguaci in nome e per conto dei nazisti.
Copia di quella testimonianza è venuta in possesso del giornale
Haaretz, che ne ha anticipato il contenuto.
Bisogna partire dal movimento nazionalista croato fondato nel 1929 da
Ante Pavelic e da Gustav Percec per combattere la monarchia jugoslava
e fondare uno stato croato indipendente. L´obiettivo politico sarebbe
stato raggiunto solo con l´occupazione nazi-fascista della Jugoslavia
e la creazione di uno stato-fantoccio alla testa del quale venne posto
come leader massimo, "poglovnik", Pavelic. Il disegno di Pavelic, che
mostrò la sua gratitudine al padrone germanico inviando alcune unità
di ustasha a combattere contro i sovietici, a Stalingrado, e,
temerariamente, si unì alle potenze dell´Asse nel dichiarare guerra
agli Stati Uniti, fu essenzialmente un disegno razzista basato sulla
supremazia dei croati, anche in quanto cattolici, rispetto ai serbi,
greco - ortodossi, attuato attraverso una gigantesca operazione di
pulizia etnica ante litteram.
La crudeltà dispiegata dalle milizie ustasha contro chiunque non fosse
croato e cattolico fu così agghiacciante che persino il comandante
dell´esercito tedesco in Yugoslavia si sentì in dovere di levare una
(tardiva) protesta. In conseguenza degli ordini impartiti da Pavelic e
dal suo braccio destro, Andrja Artukov, soprannominato "l´Himmler dei
Balcani", ottocentomila persone furono sterminate, centomila solo nei
campi di Jasenovac. Dopo la guerra Pavelic e gli altri capi ustasha
volarono in Austria e da qui, con l´aiuto dell´intelligence britannica
e di certi amici ben piazzati in Vaticano, passarono in Italia,
trovando rifugio nella penombra delle basiliche romane e nel silenzio
dei monasteri.
In base ad alcuni documenti segreti svelati al processo di San
Francisco, l´intelligence inglese permise a Pavelic di fuggire in
Italia con dieci camion che contenevano il tesoro rubato alle vittime
del massacro jugoslavo: oro, danaro, gioielli, opere d´arte. Il prezzo
del tradimento, perché nel frattempo, inglesi e americani avevano
deciso di utilizzare gli ustasha per contrastare l´ascesa del
comunismo in Jugoslavia e, in generale, nell´Europa dell´est.
Giunto a Roma, il tesoro venne consegnato nelle mani, fidatissime, del
monsignor, professor Krunoslav Draganovic, ambasciatore croato in
Vaticano, il quale provvide a nascondere Pavelic e gli altri ustasha
in covi protetti dall´immunità diplomatica. Il danaro affidato a
Draganovic sarebbe inoltre servito a costituire la rete che più tardi
avrebbe permesso l´espatrio clandestino in Sud America dei gerarchi
croati, e non solo, attraverso quella che è stata chiamata «la rotta
dei topi».
Qui entra in campo Gowen. L´agente americano, probabilmente
all´insaputa di un altro ramo dei servizi, quell´Oss che sarebbe più
tardi diventato la Cia, aveva avuto l´ordine di individuare il covo di
Pavelic e di arrestarlo. Ma improvvisamente, arriva il contrordine:
«Mollare la preda. Non se ne fa niente». Poco dopo Pavelic sarebbe
"emigrato" in Argentina alla corte di Juan Peron. «Ho indagato
personalmente su Draganovic - ha detto Gowen ai giudici americani - il
quale mi ha detto che informava monsignor Montini». Anzi, a un certo
punto, secondo l´agente, Montini avrebbe saputo dal capo della
stazione dell´Oss a Roma, James Angleton, delle indagini intraprese da
Gowen su Pavelic. Il vice segretario di Stato avrebbe allora
protestato con i superiori dell´agente accusando Gowen d´aver violato
la sovranità territoriale del Vaticano penetrando nel collegio croato,
ospitato nel convento di San Girolamo, per condurvi una perquisizione.
Il tesoro degli ustasha sarebbe stato riciclato dalla Banca vaticana.


=== 2 ===

http://www.chicagotribune.com/news/nationworld/chi-0507060219jul06,1,1654456.story

Old Balkan hatreds play out in court case

A class-action lawsuit charges the Vatican Bank with a role in the
flight of pro-Nazi henchmen and loot from Europe after World War II

By Ron Grossman
Tribune staff reporter
Published July 6, 2005

Like any new pope, Benedict XVI inherits some problems from his
predecessor, among them sexual abuse scandals and a Catholic Church
deeply divided between progressives and traditionalists.

Then there are William Dorich's accusations.

Dorich, a Los Angeles book publisher, is the force behind a
class-action lawsuit against the Vatican Bank and the Franciscan Order.

Filed in a federal court in California, the suit alleges that
immediately after World War II the bank--the financial arm of the
Roman Catholic Church--helped fleeing members of a brutal, pro-Nazi
regime in Croatia hide and launder millions of dollars worth of loot,
including gold and jewelry taken from concentration camp prisoners.

According to Dorich and his lawyers, those riches were used to help
the pro-Nazi henchmen slip out of Europe and escape to South America
in 1945 and after.

Dorich, the son of a Serbian immigrant, recalled that dozens of his
relatives were massacred by the Ustashe, a Croatian puppet government
installed by the Nazis when they conquered the Balkans in the 1940s.

U.S. government documents of the period show that some Ustashe leaders
and many of their financial resources made it to Rome during the chaos
of the war's final months.

Alleged missing link

But Dorich and other plaintiffs take the chain one crucial step
further: Their suit alleges that the missing link between the money's
arrival in Rome and its apparent transfer to South America was the
Vatican itself.

"From money stolen from the gold teeth of my relatives, the Vatican
enabled Nazis to escape to Argentina," Dorich said.

In 2003, a federal judge dismissed the case, saying U.S. courts lacked
jurisdiction. But this spring, that decision was reversed by the 9th
U.S. Circuit Court of Appeals.

"Deciding this sort of controversy is exactly what courts do," a panel
of the appellate court said in a 2-1 ruling.

The judges noted that the issues "ultimately boil down to whether the
Vatican Bank is wrongfully holding assets."

It could be years before the case goes to trial or is settled. The
defendants are considering appealing to the U.S. Supreme Court. And
even if the plaintiffs proved the Vatican Bank played a role, that
would not--of itself--settle the issue of who at the Vatican was
involved or knew what was taking place.

Still, as the Vatican struggles with the role the church and its
leading clergy played during World War II, the case sheds renewed
light on the tangled ethnic and religious landscape of Eastern
Europe--and the way in which ancient feuds and hatreds played out
during the horrors of a modern war.

The events recalled in the case took place against the background of
religious antagonisms that were still sparking violence and bloodshed
in recent years, especially when Yugoslavia broke apart in the 1990s.

Serbs are predominantly Orthodox Christians and Croats are
predominantly Catholics. Despite their longstanding antipathies, Serbs
and Croats were linked together in the creation of Yugoslavia after
World War I.

Settling old scores

Yugoslavia was dominated by Serbs, so when Yugoslavia was defeated
early in World War II, Croatian nationalists saw the Germans not as
conquerors but liberators. Ustashe military detachments fought
alongside Nazi armies while settling old scores.

During the Ustashe regime, Orthodox Christians were subject to forced
conversions to Catholicism. Serbian churches were looted and burned,
sometimes with their congregations locked inside. In one such
massacre, at a church in the village of Vojnic, 99 people were burned
alive on April 17, 1942.
"Seventeen of the victims were my relatives," said Dorich, who visited
the site.

According to Jonathan Levy, one of the plaintiffs' attorneys, the
Franciscans were named as defendants because the political extremism
of the period was fueled by religious hatred.

"Not everybody who collaborated with the Germans committed
atrocities," Levy said. "But in the Ustashe movement, religiosity was
wrapped up with fascism."

The lawsuit alleges that members of the Franciscan Order were allied
with the Ustashe and participated in attacks on Serbs.

"Our official position is that there is nothing to the allegations,"
said Ronald Mallen, attorney for the Franciscan Order. "The other side
ignores the fact that `Brother Devil' was excommunicated."

That was the nickname given to Brother Miroslav Filipovic-Majstorovic
by inmates of the notorious Jasenovac concentration camp, where tens
of thousands of Serbs, Jews and Gypsies perished. A Franciscan brother
before becoming the camp's commandant, Filipovic-Majstorovic was tried
and hanged as a war criminal after World War II.

Other Ustashe leaders got away. When Germany's defeat became imminent
in late 1944 and early 1945, high-ranking members of the Croatian
government fled, some passing through Rome en route to escaping from
Europe.

The military and political situation in Italy was chaotic. From day to
day, it would be hard to say who was in charge. German troops were
fleeing northward. Italian partisans led popular uprisings. Arriving
Allied forces struggled to establish some sort of order.

Ante Pavelic, the head of the Ustashe government, and 1,500 of his
followers made their way through Austria to Italy. They carried with
them gold--estimates of its value vary widely from a few hundred
thousand dollars to many millions, according to U.S. military reports
at the time.

The route of the Ustashe leaders and treasure can roughly be traced
through memos written by U.S. Army intelligence officers.

One 1946 memo on the Ustashe treasury said that "approximately 200
million Swiss Francs (about $47 million) were originally held in the
Vatican for safe-keeping" before being moved to Spain and Argentina.
Like other documents of the time, that one is tantalizingly silent
about whether "Vatican" meant the Vatican Bank or the papal
city-state, a political enclave within Rome.

Author's detective work

A 1947 intelligence report noted: "Many of the more prominent Ustashe
war criminals and Quislings are living in Rome illegally, many under
false names. ... All this activity seems to stem from the Vatican."

Long classified and buried in military archives, those memos first
came to light through the detective work of author John Loftus.

Once a Justice Department lawyer assigned to track wanted war
criminals, Loftus had come upon documents suggesting that Catholic
clergy had a role in the so-called Rat Line, an underground railroad
that helped Nazis and their allies escape to Latin America.

Pavelic went to Argentina, he found. There the ex-strongman was
supported by proceeds from the Ustashe treasury, which traveled the
same route, according to a 1998 State Department investigation of
assets stolen by Germans and their collaborators during World War II.

"From the character of the Ustashe regime and the nature of its
wartime activities," that report said, "this sum almost certainly
included some quantity of victim gold."

The State Department's investigation was belatedly instigated under
congressional pressure, after parallel cases of looting of Holocaust
victims' assets became a hot issue in the 1990s.

"The State Department knew about those documents for 50 years and did
nothing," said Loftus, who later wrote of his discoveries in the 1992
book "Unholy Trinity."

He attributes the government's long reluctance to investigate the
affair to the fact that the American hands weren't clean, either. As
World War II segued into the Cold War, U.S. and British officials were
eager to recruit former Axis agents and willing to overlook their
wartime records.William Gowen, an Army intelligence officer stationed
in Rome at the war's end, was the author of some of the newly surfaced
memos. He was then barely out of his teens, but because he was fluent
in Italian he found himself in the thick of an investigation of the
Rat Line. He discovered that a Croatian Catholic monastery in Rome was
sheltering a group of armed men, presumably former Ustashe operatives.

"We found out about the Ustashe treasury and knew it had been brought
to Rome," Gowen said in an interview. "But where in Rome?"

Gowen said Ustashe funds eventually were transferred to Swiss banks,
and then presumably to Latin America.

"The Swiss banks are famous for their secrecy. Once you have an
account there you can send money anywhere, no questions asked," Gowen
said. "But you couldn't just drive truckloads of gold, jewelry and
other valuables across the Swiss border."

Money laundering charged

Accordingly, Ustashe loot had to be converted into currency that could
not be traced, then transferred to Switzerland. The lawsuit alleges
that the Vatican Bank was the perfect agent to perform that money
laundering. Should the suit go forward, plaintiffs' attorneys will
press the Vatican to open its archives in hopes of finding documents
to cement their thesis.

Jeffrey Lena, an attorney for the Vatican Bank, declined to comment.

The Serbs' lawyers hope to mobilize public opinion, noting that there
has been a pattern to similar suits on behalf of Holocaust victims and
World War II slave laborers: After first denying the allegations and
resisting the lawsuits, Swiss banks and German industries felt enough
pressure to make an out-of-court settlement.

Attorneys for the defendants petitioned the full appellate court to
overturn the finding of the three-judge panel, but their request was
turned down in June. The Franciscans' attorney said that decision, in
turn, will be appealed to the Supreme Court; the Vatican Bank's
attorney said a Supreme Court appeal is under consideration.

Both defendants contend that the dispute doesn't belong in court but
should be resolved by diplomacy, since the Vatican is not just a
religious body but a sovereign state.

Mallen, the Franciscans' attorney, noted that under the law, his
client can argue that the affair belongs to the world of diplomacy
without conceding there is anything for diplomats to
negotiate--without, that is, admitting wrongdoing.

Others, though, wonder if that argument might be too subtle for the
court of public opinion.

"It's not exactly a plea of innocence, is it?" Loftus said.


rgrossman @ tribune.com


=== 3 ===

OLOCAUSTO: CROAZIA, CORTE APPELLO USA RIAPRE CAUSA CONTRO VATICANO

(ANSA) - NEW YORK, 19 APR [2005] - Una Corte federale d'appello a San
Francisco ha riaperto una causa legale avviata da superstiti
dell'Olocausto che hanno citato in giudizio la Banca Vaticana con
l'accusa di aver riciclato beni sottratti a ebrei in Croazia durante
la seconda Guerra mondiale.
La decisione ribalta una sentenza di una Corte minore che aveva
respinto l'azione legale sostenendo che le affermazioni legate alla
storia andrebbero affrontate a livello di politica estera, non di
azioni legali.
La Corte d'appello ha ridotto il raggio d'azione entro il quale si
potra' muovere la causa, ma ha riconosciuto il diritto dei superstiti
dell'Olocausto di portarla avanti.
La denuncia era stata presentata la prima volta nel 1999 contro la
Banca Vaticana e l'Ordine dei Francescani ed era legata alle vicende
del regime filonazista degli ustascia nel 1941-45. (ANSA).


=== 4 ===

http://archivio.corriere.it/

Corriere della Sera
giovedì, 26 agosto, 2004
NAZISMO - Pag. 14

«Stragi naziste, una rete aiuta le Ss a evitare i processi»

I sospetti di depistaggi nell' inchiesta di La Spezia. Identificati
altri dieci massacratori di Marzabotto

Quelli che non si sono mai arresi. E che in segreto forse hanno
continuato a sognare la rivincita. «Lupi mannari», li chiamavano prima
che le loro associazioni divenissero legali: ex soldati delle Waffen
SS, i reparti da combattimento creati da Himmler. Tedeschi i
comandanti, di tutte le nazionalità europee gli altri reduci: dall'
Italia all' Ucraina, dalla Bosnia [SIC] alla Norvegia. Alla fine degli
anni Quaranta si sono riuniti in un gruppo di «mutua assistenza»
chiamato Hiag, con lo scopo di difendersi dalle accuse sui crimini
nazisti. «Noi eravamo militari al fronte - era la loro linea - non
massacratori dei lager, con l' Olocausto non c' entriamo». Ma -
secondo i tribunali di mezza Europa - hanno avuto un ruolo chiave
negli episodi più feroci della guerra partigiana, nelle rappresaglie
contro la popolazione civile. E adesso la «fratellanza» dei camerati
continuerebbe a tenerli uniti, per ingannare le ultime inchieste della
magistratura. Gli investigatori della procura militare di La Spezia
sono convinti che la principale associazione di reduci delle Waffen SS
- chiamata Hiag - avrebbe «monitorato» le istruttorie sui massacri
compiuti in Toscana ed Emilia Romagna: questa attività informativa
avrebbe permesso ai sospettati di concordare gli alibi e mantenere
compatte le versioni. Non solo, la Hiag avrebbe tessuto un' alleanza
con altri club composti da giovani neonazisti, che avrebbero fornito
la «manovalanza» per queste missioni - che potrebbero venire
considerate come un vero depistaggio. Già in Alto Adige si è indagato
su un' associazione simile alla Hiag: la «Stille Hilfe» (aiuto
silenzioso), operante tra Bolzano e la Germania, promossa anche dalla
figlia di Himmler. La relazione fornita alla procura dai consulenti
storici ai pm spezzini ora evidenzia anche il ruolo dei volumi redatti
dai reduci della 16.a Divisione Panzergrenadier-Reichsführer,
protagonista degli eccidi durante la «ritirata del terrore» del 1944.
In particolare un libro in tedesco - intitolato «Allo stesso passo di
marcia» - conterrebbe la descrizione dei movimenti della divisione a
Marzabotto, San Cesario sul Panaro, Sant' Anna di Stazzema: solo le
memorie di vecchi nostalgici o il tentativo di uniformare le versioni
di fronte alla riapertura dell' istruttoria? Altri naziskin tedeschi
sarebbero stati notati negli anni passati proprio nei paesi devastati
dalle rappresaglie, segno di un macabro turismo o di una volontà
intimidatoria? Perché le indagini non sono chiuse. E da quando Berlino
ha aumentato la collaborazione, altri nomi vanno a completare il
quadro di quelle pagine nere: almeno una decine di ex Ss che presero
parte al massacro di Marzabotto sono state identificate dai magistrati
di La Spezia. Sono ancora vive. E tutte speravano che la vicenda fosse
stata chiusa con la condanna di Walter Reder, il maggiore che guidò il
terribile rastrellamento costato la vita a 1830 civili. La Hiag
creata dai reduci hitleriani per una mutua assistenza contro le indagini


=== 5 ===

http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001020528

ARGENTINA: DOPO L'APERTURA DEGLI ARCHIVI SUI NAZISTI

Quei 47 dossier mancanti

di Alvaro Ranzoni
29/8/2003

Molte delle carte sui gerarchi di Hitler accolti e protetti da Peron
non si trovano più. Lo rivela il centro Wiesenthal, mentre un libro
accusa apertamente la Santa sede.


Aspetteranno ancora per un po', poi quelli del centro Simon
Wiesenthal, specializzato nella caccia ai criminali nazisti (2.500
nomi rivelati in 17 anni), torneranno alla carica con il presidente
argentino Néstor Kirchner. Non è possibile infatti che dai meandri del
vecchio Hotel de Inmigrantes, che custodisce gli archivi dell'autorità
argentina per l'immigrazione, siano saltati fuori solo due dei 49
fascicoli richiesti, con la storia di soli 17 criminali di guerra sui
68 segnalati. Troppo poco, se si considera che di questi 17 ben 16,
tutti ùstascia croati, sono contenuti in un unico faldone, mentre
l'altro dossier venuto alla luce è quello di un criminale belga,
Jan-Jules Lecomte, il borgomastro-boia di Chimay.

I primi torturarono e uccisero migliaia di serbi ed ebrei, il secondo
si divertiva a scovare i bambini ebrei rifugiati nei monasteri per
avviarli ai campi di sterminio. Non stelle di prima grandezza nella
classifica dell'orrore, insomma. Non sono stati trovati finora i
dossier che spiegherebbero come fecero ad arrivare in Argentina e da
chi furono aiutati criminali del calibro di Josef Mengele, il medico
che sperimentò le sue folli teorie su migliaia di vittime; Adolf
Eichmann, il pianificatore dello sterminio degli ebrei, poi
giustiziato in Israele; Klaus Barbie, il «boia di Lione»; Erich
Priebke, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, l'unico
ancora vivo (novantenne, sconta l'ergastolo agli arresti domiciliari a
Roma).

«Il nuovo presidente argentino ha promesso piena trasparenza» spiega a
Panorama Sergio Widder, direttore della sezione di Buenos Aires del
centro Wiesenthal, «e noi non abbiamo motivo di dubitarne. Ma certo
non ci accontenteremo di spiegazioni a mezza bocca su dossier smarriti
o bruciati non si sa perché e non si sa da chi» aggiunge.
Quello che è emerso è comunque abbastanza sconcertante.

Subito dopo la guerra il dittatore Juan Domingo Peron, che vagheggiava
una sorta di «Quarto Reich», aveva creato una rete perfetta per
portare in Argentina i criminali nazisti ricercati dalle forze alleate.
Dal 1947 ai primi anni Cinquanta il terminale europeo di questa «rotta
dei topi» fu Genova dove c'era uno speciale ufficio retto da un ex
capitano delle Ss, Carlos Fuldner, amico di Peron.

Il terminale italiano era gestito in gran parte da religiosi. «A
Genova operava, tra gli altri, un monsignore croato, Karlo Petranovic,
dipendente dalla locale curia e protetto dall'arcivescovo Giuseppe
Siri (ma la Curia genovese smentisce, ndr).
A Roma un altro prete, Stefan Draganovic, fondatore della
confraternita di San Gerolamo, avviava i criminali nazisti verso il
capoluogo ligure con l'attiva collaborazione del vescovo Aloys Hudal,
rettore del Collegio tedesco di S. Maria dell'Anima, e sotto la
protezione del Vaticano.

A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago
Copello. Tutto giustificato con la lotta al comunismo» spiega lo
scrittore argentino Uki Goñi, autore del libro L'autentica Odessa,
frutto di sei anni di ricerche, di cui Garzanti pubblicherà a febbraio
l'edizione italiana.
Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla
Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini,
poi Papa Paolo VI). È di Goñi la prima bozza dell'elenco che il centro
Wiesenthal ha presentato al governo argentino.

Lo scrittore ha trascorso un anno negli archivi dell'Hotel de
Inmigrantes, l'edificio che ospitò per i primi giorni molti dei 5
milioni di emigranti in Argentina e che oggi l'Associazione
Italia-Argentina vorrebbe restaurare come sede delle aziende italiane
a Buenos Aires. Ha rovistato tra centinaia di migliaia di cartoline di
sbarco e su quelle dei personaggi più significativi ha trovato i
numeri dei relativi dossier. Che però nessuno sa dove siano finiti.

IRAQ
Una tragedia senza fine

Camera del Lavoro di Torino
19 gennaio ore 20:30

Mai più guerra, via le truppe di occupazione!

Salone Pia Lai, via Pedrotti 5 - Torino

proiezione del video
"Fallujah la strage nascosta" di S. Ranucci (Rai news 24)

testimonianze di:
(*) Cindy Sheehan
(**) Alice Mahon
Maria Grazia Turri (Un ponte per...)
Ugo Mattei (docente universitario di diritto angloamericano)

Torino Social Forum, CGIL Torino, Centro Sereno Regis, Scuola per
l'alternativa, Un ponte per... Torino, Partito Umanista Torino, MIR MN
Torino, Pax Christi Torino, PRC Torino, Hiroshima, ARCI Torino,
Emergency Torino, Ass. Imagine, LOC Torino, ACMOS, Comunità per lo
sviluppo umano (TO), Assopace Torino, Verdi per la pace Torino, Centro
delle Culture Torino, Donne in Nero Torino, Ass. Vol.P.I., Comitato
Chiapas Torino, Ass. Nicaraguita, Libera, Coordinamento Nazionale per
la Jugoslavia.

SCARICA LA LOCANDINA DELLA INIZIATIVA:
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/IRAQcol.pdf

---

Il giorno successivo, 20 gennaio, al Politecnico di Torino alle 14:30
si terrà una nuova conferenza/dibattito. L'incontro, che durerà un
paio d'ore, sarà rivolto principalmente agli studenti:

---

Il Centro Interateneo di Studi per la Pace, il Comitato Scienziati e
Scienziate contro la guerra e la Rappresentanza Sindacale Unitaria del
Politecnico di Torino invitano

Venerdì 20 gennaio 2006
ore 14:30
Sala Consiglio di Facoltà
Politecnico di Torino
Corso Duca degli Abruzzi 24

alla proiezione del video
"Fallujah la strage nascosta" di S. Ranucci (Rai news 24)

e all'incontro con le testimonianze di:
(*) Cindy Sheehan
(**) Alice Mahon

Presiedono:
prof. Mario Vadacchino
prof. Massimo Zucchetti

---

(*) Cindy Sheehan
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; per tutto il mese di
agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George
Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per
chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e
alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra.

(**) Alice Mahon
La parlamentare inglese Alice Mahon, Labour party, aveva presentato
numerose interrogazioni al ministro della difesa inglese, chiedendo se
corrispondesse al vero la notizia dell'uso del napalm o di agenti
chimici da parte degli Stati Uniti in Iraq. Il ministero aveva sempre
negato, fino a quando, il 13 giugno del 2005, con stile tipicamente
inglese, chiede ufficialmente scusa di aver risposto il falso e
ammette l'uso dell' mk77, l'ordigno incendiario che ha gli stessi
effetti del napalm. Alice Mahon esce dal parlamento perché non vuole
far parte di una coalizione che copre i crimini di guerra.

Alice Mahon è stata tra i pochissimi parlamentari inglesi a
riconoscere che la serie delle "guerre umanitarie" ha visto in
Jugoslavia un momento tragico e cruciale. Attiva contro i
bombardamenti della NATO nel 1999, fu in effetti capofila delle
proteste contro la aggressione alla Jugoslavia.

Voce jugoslava - Jugoslavenski glas


Svakog utorka, od 14,00 do 14,30 sati, na Radio Città Aperta, i valu
FM 88.9 za regiju Lazio, emisija:
JUGOSLAVENSKI GLAS
Emisija je u direktnom prijenosu. Moze se pratiti i preko Interneta:
http://www.radiocittaperta.it
Kratke intervencije na telefon +39-06-4393512.
Pisite nam na jugocoord(a)tiscali.it, ili fax +39-06-4828957.

Trazimo zainteresirane za usvajanje djece na daljinu, t.j. djacke
stipendije za djecu prognanika. Odazovite se.
Imamo na raspolaganju par kopija video kazeta: Fascist legacy, Dannati
Kosovo, Kosovo 2005. Brosure. Knjige: "Dalla guerra all'assedio",
"Menzogne di guerra", "Operazione foibe", "Kosovaro", "Un campo di
concentramento fascista", "Esuli a Trieste". Najnoviju "Milosevic u
odbrani Jugoslavije" (na talijanskom, Edicija Zambon, 10 eura)


Ogni martedì dalle ore 14,00 alle 14,30:
VOCE JUGOSLAVA
su Radio Città Aperta, FM 88.9 per il Lazio. Si può seguire, come del
resto anche le altre trasmissioni della Radio, via Internet:
http://www.radiocittaperta.it
La trasmissione è bilingue (a seconda del tempo disponibile e della
necessità) ed in diretta. Brevi interventi telefonico allo 06-4393512.

Sostenete questa voce libera e indipendente acquistando video
cassette, libri, bollettini a nostra disposizione.
Cerchiamo anche interessati ad adozioni a distanza (borse di studio).
Scriveteci all'indirizzo email: jugocoord(a)tiscali.it,
tel/fax 06-4828957. Contattateci.
Abbiamo a disposizione video cassette: "Fascist legacy", "I dannati
del Kosovo", "Kosovo 2005". Bollettini e pubblicazioni sulla
Jugoslavia. Libri: "Dalla guerra all'assedio", "Menzogne di guerra",
"Operazione foibe", "Un campo di concentramento fascista", "Kosovaro",
"Resistenza accusa..." E, "Milosevic, in difesa della Jugoslavia",
Zambon editore, 10 euro, "Memorie di una strega rossa" di Giuseppe
Zaccaria, Zambon editore,14 euro.


Program - programma 17. I. 2005

1. Jucer, danas, sutra, datumi ... da se ne zaboravi;
2. "Od Triglava do Vardara, od Dunava do Jadrana"

Savjetujemo vam knjigu "Il corridoio" Jean Toschi Marazzani Visconti,
Izdavac "La Città del sole " Napoli. Knjiga koja nam daje podstreka u
borbi za istine u razbijanju Jugoslavije.

1. Ieri, oggi domani..........date da ricordare
2. "Dal monte Triglav al fiume Vardar, dal Danubio al Mare Adriatico..."

Breve presentazione del libro "Il corridoio" di Jean Toschi Marazzani
Visconti, Edizione La Città del Sole, Napoli, prezzo di copertina 18
euro. Un libro che ci incoraggia nella lotta per le verità sulla
distruzione della Jugoslavia Socialista. "Ciò che gli USA e i paesi
della NATO hanno fatto in Jugoslavia nei terribili anni '90 è senza
dubbio una delle pagine più ignominiose della storia della civiltà
occidentale..."

(italiano / english / castillano)

Kosmet 2006: Racist Gangster Entity Nears Independence

Dopo il grave ferimento -- ovviamente passato sotto silenzio dalla
stampa nostrana -- di due serbi kosovari alla fine del dicembre 2005
(vedi: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4672
), il 2006 si è aperto sotto i peggiori auspici. Il nuovo "obdusman"
(difensore civico) nominato dagli occupatori occidentali, a sostituire
Marek Novicki, è... albanese. Due autobus di serbi sono stati
attaccati a colpi di mattoni bombe a mano, rispettivamente, il 3
gennaio e nella notte tra il 4 ed il 5 gennaio. Il presidente della
Repubblica di Albania, il reazionario Sali Berisha, ha aperto il 2006
augurando al Kosovo di diventare "indipendente". Infine, riesplode
l'irredentismo pan-albanese anche nei comuni attorno a Bujanovac,
fuori dal Kosovo propriamente detto... Il tutto con la benedizione
della nota lobby albano-statunitense di Dioguardi.

0. NUOVI DOCUMENTI VIDEO

1. NEWS

2. U.S. SPONSORS TO "KOSOVA INDEPENDENCE"
- Under Secretary for Political Affairs R. Nicholas Burns meets with
Hashim Thaci "The Snake"
- Il sottosegretario di Stato USA incontra Hashim Thaci, già leader
dell'UCK con il nome di battaglia "Il serpente"

3. Ultimi dispacci ANSA:
SERBIA: SU SCIA KOSOVO RISPUNTA TENSIONE NEL SUD SERBO


=== 0 ===

NUOVI DOCUMENTI VIDEO


1. KOSOVO 2005: Viaggio nell'Apartheid in Europa

Video VHS o DVD. A cura di Enrico Vigna e Rajka Veljovic
Riprese di R. Blagojevic - Post produzione Star Film Torino

Quello che non vogliono che si veda.
Quello che non vogliono che si sappia.
Associazione " SOS Yugoslavia " Torino

# Manifestazione di familiari di scomparsi serbi del Kosovo

# Manifestazione di rifugiati serbi del Kosovo chiedono di essere
aiutati dagli USA e dall'ONU: " Per favore andatevene a casa vostra! "

Reportage del viaggio di solidarietà fatto a febbraio 2005,
all'interno del
PROGETTO SOS KOSOVO con le enclavi assediate.
Tutti i proventi delle sottoscrizioni andranno ai progetti con le
comunità serbe, su cui "SOS Yugoslavia" lavora dallo scorso anno.

Vendibile ai soci Ccdp Per INFO, presentazioni o collaborazioni :

posta @ resistenze .org – 338/1755563 - www.resistenze.org


2. VIDEO: Albaneses destruyen una iglesia serbia

Descripción: Como acaban las iglesias serbias en Kosovo - parte de un
video más largo (solo 290 Kb.)
Agregado el: 19-Nov-2005

http://www.semanarioserbio.com/modules.php?name=Downloads&d_op=getit&lid=15


=== 1 ===

NEWS

From: Rick Rozoff
To: yugoslaviainfo @ yahoogroups.com

---

http://www.b92.net/english/news/index.php?&nav_category=&nav_id=33537&order=priority&style=headlines

B92 (Serbia and Montenegro)
December 30, 2005

Ombudsperson naming angers Serbs

PRISTINA – Serbian Kosovo representatives say that the
naming of Hiljimi Jasari as the new regional
Ombudsperson is yet another effort to demoralise all
non-Albanian citizens living in Kosovo.
Rada Trajkovic said that she does not see any reason
for the international community to be sending such
negatives messages to the non-Albanian population of
Kosovo at this point and time.
"This is an effort to create a complete Albanisation
of all institutions, which is in some ways, already a
stronger one than in Albania itself. Naming an
Albanian is definitely facilitating something that is
meant to send us a message that we are not needed on
the territory of Kosovo." Trajkovic said.
Lipljan municipal official Borivoje Vignjevic said
that, after already handing over the Ministries of
Justice and Internal Affairs to the Albanians, naming
an Albanian ombudsperson represents a completion of
that circle.
"No ministries, jobs or services have been given to
the Serbian community, which confirms the stance of
UNMIK Chief Soeren Jessen Petersen that the Serbian
people should be finished with as soon as possible."
Vignjevic said.
Jasari will take over the position of Ombudsperson on
January 1, 2006, which is when current Ombudsperson
Marek Antony Nowitzki's term ends.

---

http://www.b92.net/english/news/index.php?nav_id=33552&style=headlines

B92 (Serbia and Montenegro)
January 3, 2006

Serbian bus attacked in Maliseva

PRISTINA – A bus carrying Serbs from Orahovac and
Velika Hoca to Kosovska Mitrovica was attacked this morning.
A group of Albanians surrounded the bus and threw
bricks and other large rocks at the bus, which was
carrying 55 passengers including children.
Fortunately, no one was injured in the incident. The
bus is a United Nations operated vehicle and was being
escorted by the Kosovo Police Service. The vehicle
itself suffered numerous damages.
After UNMIK officials arrived at the seen, the bus
took off and continued on its way to the northern
section of Kosovska Mitrovica.
According to Violeta Krstic, who is in charge of the
bus trips to Kosovska Mitrovica, a similar attack
happened in Maliseva last Friday, only with less
attackers present.
The bus service runs twice a week and is the only mode
of transportation available for Serbs in Orahovac and
Velika Hoca who are trying to get to the Serbian part
of Kosovska Mitrovica.

---

http://www.b92.net/english/news/index.php?nav_id=33551&style=headlines

Beta (Serbia and Montenegro)
January 3, 2006

The tragic position of non-Albanians

PRISTINA – According to Polish daily Zecpospolita, the
circumstances of the non-Albanian population in Kosovo
remain tragic.
"The international community continues to look the
other way, while it is clear that there is only room
for Albanians in the region. The United Nation's
Special Envoy for Kosovo, Kai Eide, states in his
report that the situation has improved for minorities,
and that the Kosovo status discussions will help
improve their circumstances. According to another
report, which was done for the international
institutions by independent experts, the circumstances
of minorities in Kosovo remain tragic." the daily
writes.
"Not only Serbs, but Bosnians, Romas and Croats cannot
freely use their own languages, because speaking
Serbian, Roma or Croatian in a public place is
dangerous, and provokes the aggression of the Albanian
majority, which in the most minimal cases, involves
physical attacks."
"The Government discriminates against Serbs as well.
One court sentenced a Serbian in Albanian, which he
does not understand, even though the official language
is technically Serbian." the daily states, adding that
this is not an isolated issue in the region.

---

http://www.rferl.org/featuresarticle/2006/1/40e1b2ef-28b0-4b43-99e4-b2750ad02772.html

Radio Free Europe/Radio Liberty
January 5, 2005

Bus Attacked In Kosovo

A bus was attacked with an explosive device in central
Kosovo overnight, causing damage but no injuries.
The vehicle was traveling from the town of Dragas to
the Serbian capital Belgrade with 57 passengers on
board.
A bus traveling between Kosovo and the rest of Serbia
was also attacked late last year, with no injuries.
The UN has administered Kosovo since June 1999 when
NATO air strikes chased Serbian forces from the
province.
The majority ethnic-Albanian population is seeking
independence for the province, while Belgrade says it
must remain part of Serbia.

(AFP/Reuters)

---

http://www.b92.net/english/news/index.php?&nav_category=&nav_id=33569&order=priority&style=headlines

B92 (Serbia and Montenegro)
January 5, 2006

Grenade thrown at bus

PRIZREN – A grenade was thrown at a bus travelling
through Kosovo last night, although it did not explode.
The bus was travelling from Dragas on its way to
Belgrade when it was struck with the explosive device
at about 10 pm last night. There were no injures and
the Kosovo Police Service is investigating the incident.
According to Kosovo journalist Marijana Simic, there
were 57 passengers inside the bus, who switched
vehicles after the attack and continued on to Belgrade.
KPS official Refki Morina said that he has no
information on what type of explosive device was
thrown at the bus.
This is the second reported attack on a bus in the
past month in Kosovo.

---

http://www.setimes.com/cocoon/setimes/xhtml/en_GB/features/setimes/features/2006/01/05/feature-02

Southeast European Times
January 5, 2006

Security concerns mar New Year in Kosovo
By Blerta Foniqi

The Kosovo Police Service (KPS) on Tuesday (3 January)
arrested four young people from the village of Mirusha
in Maliseva municipality. According to police, the
detainees were among a crowd that stoned a UN bus
transporting a group of 55 Serbs to Mitrovica.
"The incident took place at 8:45 this morning and
there were no injuries," said police spokesperson
Fatmir Gjurgjeali.
Malisheva Deputy Mayor Ragip Begaj condemned the
attack. "We do not need such incidents," he said,
stressing that violence is detrimental to the process
of resolving Kosovo's status.
Serbs from the municipality of Rahoveci take the bus
to Mitrovica for shopping twice a week. Violeta
Krstic, who is in charge of the trips, said it was not
the first time the bus had been stoned. "We were also
attacked in the end of December," she said.
The incident is the latest in a string of criminal
acts that have cast a shadow over security in the
province as the status negotiations get under way.
Kosovo's police insist that crime overall is down and
that Kosovo is "calm". But the attacks continue to
rattle nerves and raise questions about the ability of
local authorities to keep the peace.
In December, UNMIK chief Soren Jessen-Petersen ordered
UN forces to step up police patrols and man additional
checkpoints, following a grenade attack on a bus near
the town of Prizren.
....
According to UNMIK Police Commissioner Kai Vitrup, the
security situation in Kosovo has deteriorated. He
cited "a series of terrorist attacks on cars and
policemen of UNMIK and the KPS".
On 14 December, a Romanian Special Police Unit serving
under UNMIK came under fire as it responded to an
attempted prison outbreak in western Kosovo. Three
people were injured and two vehicles were hit by
gunfire.

---

http://www.alertnet.org/thenews/newsdesk/L05423731.htm

Reuters
January 5, 2006

Kosovo bus route targeted in second bomb attack

PRISTINA, Serbia and Montenegro - A bomb was thrown at
a moving bus in Kosovo on Wednesday night causing
damage but no injuries to the 55 passengers aboard, a
United Nations spokesman in the disputed Serbian
province said.
It was the second attack in the past month on a bus
from the remote town of Dragas to the Serbian capital,
Belgrade. Kosovo's ethnic minorities often use the
route, but members of Kosovo's 90 percent Albanian
majority are also frequent passengers.
"An explosive device was thrown at the right rear end
of the bus, causing some damage," U.N. spokesman
Neeraj Singh told Reuters on Thursday. He said some of
the passengers were ethnic members of various minority
groups but most were Albanians.
The U.N. mission, fearing more ethnic violence by
Kosovo Albanian extremists against Serbs and other
minorities, stepped up security in December after a
rocket-propelled grenade pierced the side of a bus but
failed to explode.
The U.N took control of the province of 2 million
people in 1999 after NATO bombs drove out Serb forces....
Shootings and small bomb blasts, often targeting Serbs
and other minorities, have increased over the past
year as the West moves to address the "final status"
of Kosovo.
They are blamed on Albanian extremists impatient for
independence, who seek to warn Western powers against
giving in to Serbia's demand that Kosovo - seen as the
cradle of the Serbian people - remain within its borders.
Officials have warned of a possible upsurge in
violence as negotiations on Kosovo's future status get
under way, with the first direct meeting between
Serbian and Kosovo Albanian politicians pencilled in
for late January in Vienna.

---

http://www.makfax.com.mk/look/agencija/article.tpl?IdLanguage=1&IdPublication=1&NrArticle=15624&NrIssue=339&NrSection=20

MakFax (Macedonia)
January 5, 2006

Grenade strikes bus in Kosovo - no victims

Kosovska Mitrovica - A bus has been attacked last
night with a grenade in Kosovo, leaving no injured
among 55 passengers on board, reported Belgrade-based
agency Fonet, citing Kosovo's police sources.
According to the police, the attackers most likely
used a hand grenade. However, the police did not rule
out the possibility that a hand-held grenade launcher
was used.
The attack on the bus operating on the regular line
Dragas-Belgrade occurred near the hamlet of Dulje, in
the vicinity of Suva Reka. Albanians, Gorans, Bosnians
and Turks have been included in the passengers' list.
Two months ago, a bus en route Belgrade-Dragas was
struck by several grenades fired from a hand-held
launcher. No injured were reported after the incident.

---

http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=17098&Cr=Kosovo&Cr1=

UN News Centre
January 5, 2006

Explosion damages bus in Kosovo, UN reports, urging
prosecution of perpetrators

Reacting to an explosion against a bus carrying
passengers in Kosovo, the United Nations Interim
Administration Mission (UNMIK) there today said those
responsible must be found and brought to justice, and
stressed that violence must not impede the political
process.
The blast yesterday evening in Suha Rekë/Suva Reka hit
a bus carrying 55 passengers of various Kosovan
communities of Albanian, Gorani, Bosniac and Turkish
ethnicity as well as one of Chinese nationality. No
injuries were caused and the passengers continued
their journey on another bus under police escort,
according to an UNMIK spokesman.
"Such a reckless act of criminal violence is
condemnable and clearly not in the interest of
Kosovo," said spokesman Neeraj Singh. "We call upon
those who have information on this crime to co-operate
with law enforcement agencies to ensure that such
ill-intentioned individuals or groups are isolated,
identified and brought to justice."
Last month, the senior UN envoy to Kosovo, Søren
Jessen-Petersen, asked police to enhance security
measures across the province to ensure that a safe and
secure environment is maintained during talks on its
status.
"Attempts by isolated individuals or groups to disrupt
Kosovo's way forward must not be tolerated," the
spokesman said.
UNMIK Police and Kosovo Police Service have launched
`Operation Stringent Security' instituting vigorous
police patrols and vehicle checkpoints throughout
Kosovo with a focus on potentially vulnerable areas.
Over the past month, 352 persons have been arrested
and 84 weapons have been seized.
Police Commissioner Kai Vittrup today reiterated that
police will remain on high alert during the status
process.

---

http://www.focus-fen.net/index.php?catid=128&newsid=79807&ch=0

Focus News Agency (Bulgaria)
January 2, 2006

President and PM of Albania Wished Kosovo to Become
Independent State in 2006

Tirana - The citizens of Tirana welcomed the New Year
with a traditional concert on Skenderberg Square in
Tirana, Radio Free Europe announced in its Albanian
language broadcasting.
The President Alfred Moisiu and the Prime Minister
Sali Berisha wished among other things Kosovo to
become an independent state.


=== 2 ===

U.S. SPONSORS TO "KOSOVA INDEPENDENCE"
---

LINKS:

An Open Letter to Members of the House & Senate

A Response to Shirley Cloyes DioGuardi.
Albanian Lobby Begins Its Campaign To Deceive Congress
About The Serbian Genocide Taking Place In Kosovo
(By Wm. Dorich)

http://news.serbianunity.net/bydate/2006/January_10/12.html

L'Albania e le elezioni USA

08.11.2004 scrive Artan Puto
L'Albania ha accolto con molto favore la rielezione del presidente
americano George W. Bush. Un'accoglienza calorosa, condivisa da gran
parte della stampa locale. L'Albania sembra però non schierarsi con
Repubblicani o Democratici ma piuttosto con gli USA. Sempre.

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3597/1/51/

---
From: Rick Rozoff
To: yugoslaviainfo @ yahoogroups.com
---

http://www.focus-fen.net/index.php?catid=144&newsid=80482&ch=0

Focus News Agency (Bulgaria)
January 12, 2006

Kosovo Opposition Leader Hasim Taci on Visit to U.S.

Washington - The Leader of the opposition in Kosovo
Hasim Taci is on a visit to U.S. where he is to meet
with high-standing U.S. officials, the Macedonian
agency Makfax reported.

---

http://usinfo.state.gov/xarchives/display.html?p=washfile-english&y=2006&m=January&x=20060114142330niremydolem0.4848749&t=livefeeds/wf-latest.html

Washington File
U.S. Department of State
January 14, 2006

State's Burns Meets with Kosovo Leader To Discuss Status Talks

More peace and security need in region, under secretary says

Under Secretary for Political Affairs R. Nicholas
Burns recently met with Hashim Thaci, leader of the
opposition Democratic Party of Kosovo, to discuss the
situation in that country, the Department of State
confirmed January 13 in response to a question taken
at a briefing earlier that day.
During the January 13 meeting, Burns and Thaci
discussed the Kosovo status talks and U.S. support for
the work by U.N. Special Envoy Martti Ahtisaari. Burns
also encouraged Kosovo authorities to do more to
protect minority rights, according to the State
Department.
"Under Secretary Burns and other U.S. officials remain
in close touch with authorities in Pristina, Belgrade
and throughout the region as part of [the U.S.
government's] continued work for peace and security
throughout the Balkans," said department spokesman
Sean McCormack.
The Kosovo province of Serbia-Montenegro has been
administered by the United Nations since 1999, when
NATO drove out Yugoslav Serb forces in the wake of
human-rights abuses. About 1,700 U.S. troops remain in
Kosovo to help protect Serbian communities who are
targets of ethnic violence.


Following is the State Department response to the
taken question:


U.S. DEPARTMENT OF STATE
Office of the Spokesman
January 13, 2006
2006/45

QUESTION TAKEN AT THE JANUARY 13, 2006 DAILY PRESS
BRIEFING

Kosovo-Albanian Hashim Thaci Meeting with Under
Secretary R. Nicholas Burns

Question: With whom did Hashim Thaci, leader of the
opposition Democratic Party of Kosovo (PDK), meet
while at the State Department?

Answer: Under Secretary of State for Political
Affairs R. Nicholas Burns met with Mr. Thaci on
Friday, January 13, to discuss the situation in
Kosovo, including the Kosovo status talks.

During the meeting, Under Secretary Burns reiterated
United States support for U.N. Special Envoy Martti
Ahtisaari's efforts and encouraged authorities in
Kosovo to do more to protect minority rights and
devolve local government.

Under Secretary Burns and other U.S. officials remain
in close touch with authorities in Pristina, Belgrade
and throughout the region as part of our continued
work for peace and security throughout the Balkans.


=== 3 ===

KOSOVO: ATTENTATO IN UN AUTOBUS, NESSUNA VITTIMA

(ANSA) - PRISTINA, 5 GEN - Un attentato e' stato compiuto la notte
scorsa contro un autobus di linea che viaggiava nel Kosovo centrale
senza provocare vittime. Il portavoce della missione delle Nazioni
Unite (Unmik), Neeraj Singh, ha riferito che un'esplosione di natura
dolosa ha investito un pulmann intorno alle 22:00 (ora locale e
italiana) provocando danni materiali ma nessun ferito fra i 55
passeggeri appartenenti a diverse etnie ma in gran parte albanesi.
L'attentato e' avvenuto nei pressi della cittadina di Suva Reka e al
momento non se ne conoscono le motivazioni. Neeraj Singh ha ricordato
che dallo scorso 4 dicembre e' in corso in tutto il Kosovo una vasta
operazione per innalzare il livello generale della sicurezza in
coincidenza con l'avvio dei negoziati per definire lo status della
provincia. Dall'inizio dell'operazione sono stati eseguiti 352 arresti
e sequestrate 84 armi.(ANSA) BLL-COR
05/01/2006 21:12

KOSOVO: GENERALE CECCHI VISITA CONTINGENTE ITALIANO

(ANSA) - ROMA, 10 GEN - ''So quello che fate e so come lo fate. L'
apprezzamento internazionale di cui godete qui come negli altri teatri
operativi e' motivo d' orgoglio per me e per l' Esercito tutto''. Lo
ha detto il capo di Stato Maggiore dell' Esercito, generale Filiberto
Cecchi, agli uomini del contingente italiano in Kosovo durante la
visita alla base di 'Villaggio Italia' a Belo Polje.
''L' impegno nelle missioni internazionali - ha affermato il generale
Cecchi - il riconoscimento che vi conquistate ogni giorno sul campo
sono condizioni acquisite, vi sono riconosciute da tutti. Oggi io vi
chiedo di piu': vi chiedo di conservare questo spirito anche quando
tornerete in Patria, anche quando sarete impegnati nelle necessarie
operazioni di routine''.
Accompagnato dal comandante della Kfor, il generale italiano Giuseppe
Valotto e dal generale Claudio Mora, comandante della Brigata
Multinazionale Sud Ovest, Brigata italo-tedesca che con i suoi 7.000
uomini controlla un' area pari a circa la meta' del Kosovo, il capo di
Stato Maggiore dell' Esercito, atterrato presso l' aeroporto militare
di Gjakova, ha incontrato le Task Force italiane presenti in area.
Cominciando dalla 'Ercole', che fornisce gli elicotteri per le
esigenze operative del personale, continuando con la Task Force
'Aquila', l' unita' di manovra italiana attualmente su base del 5/a
Reggimento Alpini di Vipiteno (BZ) e con la Task Force 'Astro', che
raggruppa gli assetti del Genio. (ANSA). NE
10/01/2006 16:06

KOSOVO: MORTO VESCOVO CATTOLICO CHE PREGAVA PER INDIPENDENZA

(ANSA) - PRISTINA, 10 GEN - E' morto oggi presso l'ospedale di
Pristina il vescovo cattolico del Kosovo, Mark Sopi. Il religioso, che
aveva 67 anni ed era di etnia albanese, e' stato ricoverato d'urgenza
per un probabile attacco di cuore ed e' spirato poco dopo. Molto amato
dalla popolazione albanese (che pure in gran parte e' di fede
musulmana) il vescovo Sopi era finito poche settimane fa al centro di
vivaci polemiche per essersi espresso, durante la messa di Natale, in
favore dell'indipendenza della provincia. ''Preghiamo per
l'indipendenza del Kosovo'' aveva detto il vescovo, suscitando le
reazioni soprattutto da parte dei rappresentanti della comunita'
serbo-ortodossa schierata, al fianco di Belgrado, contro l'ipotesi
della creazione di uno Stato del Kosovo indipendente e sovrano in mano
agli albanesi. (ANSA). BLL-COR
11/01/2006 19:46

SERBIA: SU SCIA KOSOVO RISPUNTA TENSIONE NEL SUD SERBO /ANSA

(di Alessandro Logroscino) (ANSA) - BELGRADO, 16 GEN - Lo spettro
della frammentazione torna ad aleggiare nei Balcani su cio' che resta
del vecchio spazio ex jugoslavo. A rialzare la testa, sulla scia delle
ambizioni indipendentiste del Kosovo, sono ora gli albanofoni della
limitrofa valle di Presevo (Sud della Serbia): tre Comuni in tutto
che, in nome della loro diversita' etnica, rilanciano in questi giorni
la richiesta di una radicale autonomia da Belgrado, facendo balenare,
in caso di rifiuto, l'ennesima minaccia di secessione.

Un ultimatum che alcuni analisti invitano a non sopravvalutare,
sottolineando come i conflitti su larga scala e le mattanze degli anni
'90 appaiano oggi fortunatamente lontani. E che tuttavia irrita il
governo serbo non meno di quanto inquieti la comunita' internazionale,
sullo sfondo dei timori di un nuovo effetto domino, potenzialmente
incontrollabile.

A riaccendere la miccia sono stati nel fine settimana i consigli
municipali di Presevo, Bujanovic e Medvedja, Comuni a maggioranza
albanese della Serbia meridionale (400 chilometri da Belgrado) che si
sono sentiti in diritto di reclamare prerogative degne di uno Stato
nello Stato: l'uso esclusivo della lingua e persino della bandiera
albanese; l'istituzione di scuole, forze dell'ordine e tribunali
autonomi; l'allontanamento di qualsiasi presenza militare o anche di
polizia serba; una gestione separata delle risorse economiche;
''relazioni speciali'' con i fratelli kosovari. Se queste proposte
verranno respinte, i tre Comuni si dichiarano pronti a chiedere
direttamente l'adesione al Kosovo - provincia serba popolata al 90% da
albanesi che si trova sotto tutela internazionale fin dal 1999, dopo
l'intervento della Nato contro la politica di pulizia etnica imputata
al regime di Slobodan Milosevic - e ad associarsi alla rampante
battaglia separatista di Pristina. Una sfida in piena regola che le
tre cittadine (120.000 abitanti complessivi) affermano di voler
lanciare per riemergere da una condizione di insufficiente
riconoscimento dei diritti locali e di diffusa poverta'. La zona, gia'
teatro di fibrillazioni e scontri nel 2000, a margine del dramma del
confinante Kosovo, resta d'altronde una delle piu' provate dalle
difficolta' economiche che la Serbia del dopo-Milosevic e' costretta
ad affrontare e stenta a risolvere. La piattaforma autonomista degli
albanesi della valle di Presevo e' stata in ogni caso immediatamente
respinta da Belgrado. Secondo il governo serbo, si tratta di una
posizione ''irrealistica'' e, per di piu', ispirata dalla leadership
kosovara. Pristina - ha accusato Sanda Raskovic-Ivic, consigliera del
premier Vojislav Kostunica - vuole usare Presevo come arma di ricatto
nell'ambito del negoziato avviato dall'Onu per la definizione dello
status del Kosovo e in particolare per contrastare la domanda di
autonomia e decentralizzazione avanzata da cio' che resta della
minoranza serbo-kosovara. Il ministro serbo per i diritti umani,
l'europeista Rasim Lijaic, citato oggi dall'agenzia Vip, ha osservato
dal canto suo che l'ultimatum proposto dai consigli comunali della
valle e' ''irrealistico''. ''La loro situazione non puo' essere
paragonata a quella delle comunita' serbe del Kosovo (che dal '99
vivono sotto assedio, ndr)'', ha aggiunto Lijaic, dicendosi convinto
che la stessa ''comunita' internazionale non potra' accettare'' nuove
disgregazioni e pericolose fughe in avanti. Il timore di un effetto
valanga, in grado di mettere ancora una volta in discussione i precari
equilibri di un'area fragile e composita come quella balcanica, induce
in effetti le istituzioni internazionali piu' attive, a cominciare
dall'Osce, alla massima cautela sulla questione. ''Bisogna mettere in
chiaro che non c'e' spazio per nessuna altra spinta centrifuga in
questa regione e che non si puo' aprire alcun nuovo dossier nella
Serbia meridionale'', ha detto di recente all'Ansa una fonte
diplomatica europea di alto livello. Il messaggio appare esplicito:
orientato ormai ad ammettere come inevitabile l'indipendenza del
Kosovo, malgrado gli impegni sull'integrita' della piccola Jugoslavia
assunti solennemente in sede Onu dopo la guerra del '99, l'Occidente
non puo' tuttavia incoraggiare, e neppure tollerare, ulteriori
strappi. Il problema vero non riguarda i 100.000 albanesi di Presevo e
dintorni, spiega all'Ansa l'analista Bratislav Grubacic. ''Il loro, al
momento, e' solo un bluff giocato sul tavolo dei negoziati per il
Kosovo'', afferma, ma ''e' un bluff che se non viene disinnescato in
fretta rischia di produrre reazioni a catena''. Rianimando in certi
ambienti albanofoni la tentazione di destabilizzare anche Macedonia e
Montenegro per ''dar corpo alle mai sopite velleita' di una Grande
Albania''. E alimentando sul fronte opposto lo spirito di rivalsa e le
residue pretese dell'ultranazionalismo belgradese sulla Republika
Srpska (Rs), entita' a larga maggioranza serba della martoriata
Bosnia. Uno scenario, conclude Grubacic, che Usa e Ue - dopo anni di
impegno militare, finanziario e politico - ''non possono in nessun
modo consentire. Pena il fiasco totale''. (ANSA). LR
16/01/2006 17:13

http://www.semanarioserbio.com/modules.php?name=News&file=article&sid=832

EEUU SIEMPRE AL LADO DEL PETROLEO

El consorcio norteamericano Merril Lynch controlará la privatización
Industria Petrolera Serbia

30.12.2005.

El Gobierno de Serbia eligió hoy al consorcio Merril Lynch, Raiffeisen
Investment como consejero encargado de determinar el modelo a emplear
en la privatización de la Industria Petrolera de Serbia (NIS).

Según un comunicado, Merril Lynch, Raiffeisen Investment fue elegido
por haber ofrecido las mejores condiciones económicas en un concurso a
consejero para la privatización de NIS, una de las mayores compañías
estatales del país.

El agosto pasado, las autoridades serbias iniciaron el proceso de
reestructuración y privatización de la NIS, que es una de las
condiciones para que el Fondo Monetario Internacional (FMI) siga
brindando apoyo a la transición económica de Serbia.

En octubre, con la prevista transformación que debe proporcionar más
eficacia en el trabajo, la compañía fue dividida en dos empresas
públicas -una de transporte del petróleo y derivados y otra de
distribución del gas natural- y una sociedad de accionistas para
investigaciones, producción y refinamiento del petróleo y del gas.

original AQUI:
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=24896

Bosnia, la conta dei morti

1. Bosnia, dimensioni di un massacro (E. Remondino)
2. L'ultima conta dei morti (T. Di Francesco)
3. Il nostro commento agli articoli apparsi su Il Manifesto (CNJ)


=== 1 ===

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/07-Gennaio-2006/art30.html

il manifesto
07 Gennaio 2006

Bosnia, dimensioni di un massacro

Il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo ha diffuso le prime
cifre documentate sui morti della guerra in Bosnia: 93.837 quelli
accertati fino al dicembre 2005. Analisi e riflessioni su una tragedia
che non ottiene oggi dignità di memoria e di indignazione, per
comprendere meglio la dimensione di quanto avvenne dieci anni fa a tre
passi da noi

ENNIO REMONDINO

Adieci anni dalla fine della guerra in Bosnia, sono finalmente
disponibili i dati documentati sulla dimensione diquel macello. 200
mila, 250 mila morti, diceva sino a ieri l'inutile propaganda politica
costruita attorno al massacro. Secondo il Centro di ricerca e
documentazione di Sarajevo (RCD) diretto da Mirsad Tokaca, le vittime
della guerra civile nel cuore dei Balcani jugoslavi si avvicinano in
realtà alle 100 mila. Una cifra da brivido che non richiedeva certo
moltiplicatori demagogici. Dati ancora incompleti, precisa il dottor
Tokaca, ma sostanzialmente vicini alla verità finale. 93 mila 837 morti
accertati sino a dicembre, il cui conteggio completo dovrebbe
concludersi entro il marzo di quest'anno. Di quelle vittime accertate,
in larghissima parte civili, il centro di documentazione storica ci
offre anche la ripartizione per appartenenza nazionale-etnica: 63 mila
687 morti sono Bosniacchi, cittadini di religione musulmana che
risultano le principali vittime del conflitto col 67,87% di tutti i
morti accertati. 24 mila216 le vittime serbe, pari al 25,8% dei morti.
5 mila 57 le vittime di origina croata (5,39%) e 877 (0,93%) i morti di
«Altre nazioni o etnie», cittadini bosniaci frutto di matrimoni misti
autodefinitisi «jugoslavi» al censimento del 1991, o stranieri.

Le percentuali che accompagnano i numeri assoluti sono il risultato di
miei calcoli. Nessun cinismo contabile, ma un aiuto a comprendere
meglio la dimensione di quanto è accaduto dieci anni fa a tre passi da
casa nostra. Una cifra per tutte, prima di approfondire. Le principali
vittime di quella guerra civile sono stati i bosniacchi, allora
definiti come «musulmani». Abbiamo calcolato che i 63 mila 687 morti di
quella parte, rappresentassero il 3,36% di tutta la popolazione
musulmana registrata nel censimento 1991 in Bosnia. Abbiamo provato a
trasferire quei numeri da ragionieri nella dimensione della nostra
realtà italiana. Quel trascurato e dimenticato macello bosniaco, se
trasferito a casa nostra e sul numero dei nostri abitanti, avrebbe
prodotto quasi 2 milioni di morti. Moltiplicando per due o per tre i
nostri caduti nelle due guerre mondiali del `900. Oppure possiamo
immaginare una guerra che cancelli assieme tutta la popolazione della
nostre quattro regioni meno abitate, Valle d'Aosta, Molise, Basilicata
e Trentino (1.989.000 di abitanti). Oppure tutti gliabitanti di
Firenze, Venezia, Verona, Bologna, Genova, e Trieste assieme.

Chiarita con questo confronto terrorizzante la dimensione del dramma
bosniaco, proviamo ad analizzarecon un minimo di razionalità quelle
cifre. Innanzitutto l'identità etnica della popolazione della Bosnia. I
datidisponibili sono sovente contraddittori fra loro. Per esempio, il
censimento 1991 (l'ultimo censimento della Jugoslavia), ci dice 4
milioni e 300 abitanti, di cui il 44% s'è dichiarato «musulmano», il
31% di origine serba, il 17% di origine croata, mentre il 6% s'è
dichiarato «jugoslavo».

Secondo i dati forniti dalla Cia nel suo World Factobook del 2000, gli
abitanti rimasti dopo la guerra civile sarebbero al 48% bosniacchi,
37,1% serbi, 14,3% croati e 0,6% «altri». Crescono dunque
percentualmente le due etnie principali (bosniacchi e serbi), mentre
calano vistosamente i croati e quasi scompaiono gli «altri». Fatto
salvo il fenomeno dell'emigrazione, ancora da valutare, risulta
evidente come la guerra abbia spinto quel 6% di «jugoslavi» ad
identificarsi in una etnia di parte.

In mancanza di studi documentati sul fenomeno, non è possibile neppure
definire l'attuale numero di cittadini bosniaci realmente residenti sul
territorio. Per esempio, i dati WinkipediA 2001, ci dicono di 3 milioni
e 922mila 205 bosniaci (-380 mila abitanti rispetto al 1991). Altri
dati riferiti al 2005 ci dicono di un lieveincremento della popolazione
(forse rientri di profughi dall'estero), con 4 milioni e 25 mila
abitanti.

Ma le cifre da esaminare con maggiore attenzione, visto che sono anche
le prime attendibili, sono quelle delle vittime della guerra civile.
Alcuni elementi balzano immediatamente all'occhio. L'identità delle
vittime principali: i bosniacchi (musulmani) con più di 63 mila morti.
L'altra parte principale in conflitto, a sua volta segnata da un numero
elevato di morti (quasi 25 mila), è quella serba. Come a dire che un
morto su quattro, in Bosnia, era serbo. I 5 mila morti croati, frutto
della somma del conflitto sia contro i serbi che contro i bosniacchi,
relegano gli scontri in Erzegovina, ai margini della dimensione
complessiva del conflitto.

I dati resi noti servono a diradare dai fumogeni della propaganda e
dell'occultamento una tragedia che non ottiene oggi neppure la dignità
della memoria e dell'indignazione. Per i criminali di guerra, è al
lavoro il Tribunale internazionale dell'Aja. Mancano i numeri dei
milioni di profughi, dei senza casa, dei senza patria, delle
popolazioni trasferite dalla pulizia etnica e di quelli emigrati per
nuovi confini inventati da statisti improvvisati e diplomazie
indifferenti.

Sappiamo invece delle oltre 20 mila donne bosniache stuprate, e dei
circa 500 figli nati da quelle violenze. Oggi hanno 10, 11 anni, e
quelli che hanno ancora una famiglia, godono dell'aiuto di 18 euro al
mese. Con i milioni di dollari che, si scopre oggi, sono stati rubati
da alcuni governanti bosniaci dagli aiuti internazionali,
l'indignazione di chi l'eroismo dell'allora Sarajevo multietnica della
guerra l'ha vissuto dall'interno si trasforma in rabbia incontenibile.


=== 2 ===

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/10-Gennaio-2006/art70.html

il manifesto
10 Gennaio 2006

L'ultima conta dei morti

«Nuove» dalla Bosnia 93.837 le vittime, tante, troppe, ma non 250.000
come per la propaganda di guerra. L'«enfasi» ha nascosto le
responsabilità di tutti i nazionalismi e dell'Occidente

TOMMASO DI FRANCESCO

Il sapiente resoconto di Ennio Remondino che sabato scorso ha ripreso
sul manifesto i dati del Centro di documentazione di Sarajevo, manda a
dire alcune cose dirompenti per la maggior parte della stampa
internazionale e nazionale spesso persa nei Balcani dentro i fumi
della propaganda di guerra. Dunque i morti sono stati 93.837 e in
larghissima parte civili, «soltanto» 93.837. E' un massacro
spaventoso, ma meno devastante dei 200-250mila morti, tutti musulmani,
che addirittura a novembre 1992, solo sei mesi dopo l'inizio ad aprile
del conflitto interetnico e fratricida, Henry Bernard-Levy da Parigi
vantava già di aver contato a Sarajevo. Decine di migliaia, non
centinaia di migliaia, ma che avrebbero potuto essere,
percentualmente, milioni da noi, ricorda Remondino. Eppure la
questione non sta solo nella provocatoria paragonabilità tra vittime
di Bosnia e quelle possibili appena di qua dal mare. Il nuovo numero
dei morti civili in Bosnia segnala infatti altre evidenze. La prima è
amara: che la guerra, solo 13 anni fa, sia tornata all'ordine del
giorno, anzi della notte, in piena Europa non interessa più nessuno,
figurarsi poi in campagna elettorale. Giacché parrebbe chissà perché
fuori tema e perfino «irresponsabile» ricordare le responsabilità
criminali delle cancellerie europee e occidentali che, avviando la
pratica dei riconoscimenti delle indipendenze di Slovenia e Croazia
autoproclamate su base etnica dalla Federazione jugoslava, avrebbero
aiutato poi i vari nazionalismi interni ad accendere la miccia nella
multietnica Bosnia Erzegovina, mosaico in piccolo di tutta l'ex
Jugoslavia. A chi volete che interessi che le basi dell'Unione europea
siano marce proprio perché poggiate sulla legittimità dei
riconoscimenti di nuove nazioni etniche? Quale leadership o opinione
pubblica bi-partisan vorrebbe ora riconoscersi in queste
responsabilità? Quei morti sono seppelliti, una volta per tutte.
Bicameralmente. Del resto è per l'appoggio ad una scalata finanziaria
non per il sostegno alla discesa nella guerra - quella buona e
«umanitaria» del 1999 - che la leadership dei Ds è giustamente sotto
accusa a sinistra.

Eppure sono tanti 93.837 morti. Ed erano di tutte le parti: di più,
63.687 musulmani di Bosnia,il 3,36% su circa 1.900.000 musulmani di
Bosnia secondo il censimento del 1991; di meno, 24.216 serbi di
Bosnia, l'1,81% sui circa 1.300.000 serbi di Bosnia secondo lo stesso
censimento; certo «pochi» i croati, 5.057, lo 0,69% sui circa 731mila
croati erzegovesi, ma con un errore da parte di Remondino secondo il
quale i 5mila morti «sia contro i bosniacchi che contro i serbi,
relegano gli scontri in Erzegovina ai margini della dimensione
complessiva del conflitto». Non è così: perché, se il ragionamento
vale per le vittime croate in Erzegovina, non vale per quelle
musulmane. Il fronte di Mostar fu infatti feroce come se non più di
quello di Sarajevo e le vittime, scomposte per località, danno una
percentuale molto alta dei musulmani uccisi in Erzegovina. Senza
dimenticare che il ministero della Repubblica serba di Bosnia contesta
i dati di Sarajevo e aggiunge di suo altri 4-5mila desaparecidos
civili serbi di Sarajevo; e non scordando inoltre i fronti «anomali»,
come la guerra sanguinosa tra musulmani, quelli del governo di
Sarajevo e gli insorti musulmani della Sacca di Bihac. E che tra gli
«altri» - oltre a 800 civili che testardamente hanno continuato a
definirsi «jugoslavi» fino allla morte - c'è anche un centinaio di
mujaheddin arrivati da Afghanistan, Pakistan, Algeria a combattere con
il lasciapassare insieme di Arabia saudita e Iran e il beneplacito
degli stessi Stati uniti che adesso vanno ad arrestarne in Bosnia i
superstiti quali feroci terroristi di Al Qaeda.

Ma l'ultima conta dei morti ci dice un'ulteriore verità. Tutte le
leadership nazionaliste responsabili del conflitto si macchiarono di
stragi contro i civili. Per molto tempo non è stato vero, nemmeno per
il Tribunale dell'Aja orientato ad attribuire ogni colpa solo e
soltanto ai serbi di Bosnia. Per ritrovarsi poi sì alla caccia dei
principali imputati serbobosniaci di crimini di guerra, il generale
Ratko Mladic e il presidente Radovan Karadzic, ma, di fronte
all'evidenza dei crimini, a dover riconoscere le responsabilità non
solo di Slobodan Milosevic ma anche del croato Franjo Tudjman e del
musulmano Alja Izetbegovic; arrivando fino all'incriminazione
sorprendente quanto taciuta dai media internazionali del generale
Rasim Delic responsabile della difesa di Sarajevo e di Naser Oric
responsabile musulmano di Srbrenica. Lì nelle città della Bosnia
Erzegovina e a Sarajevo sotto tiro e sotto assedio era la
multietnicità jugoslava che doveva essere uccisa e cancellata da tutte
le milizie, serbe, musulmane e croate. I profughi furono così due
milioni, di questi solo la metà è ritornata e la maggior parte non
nelle terre d'origine.

Un'ultima considerazione. I morti non sono 93.837, ma 93.838. C'è un
omicidio in più commesso in questi giorni. Una donna serbo bosniaca di
46 anni Rada Abazovic è stata infatti uccisa a Rogatica, nella
Serbo-Bosnia, venerdì 6 gennaio 2006, dai carabinieri italiani
impegnati in una vera e propria battaglia per catturare un indiziato
di crimini di guerra, Dragomir Abazovic - finito «suicida» durante la
sparatoria - marito della donna uccisa e padre di Dragoljub, ragazzo
dodicenne rimasto ferito gravemente. La Bosnia sotto protettorato
militare conta i suoi morti. Quella guerra non è finita.


=== 3 ===

IL NOSTRO COMMENTO

Ennio Remondino riporta aggiornamenti recenti su di un argomento - il
computo delle vittime della guerra in Bosnia - che è da tempo oggetto
di articoli e commenti in lingua inglese. Si tratta da una parte di
ridimensionare la sparata giornalistica-propagandistica corrente, che
voleva 200-250 mila morti già nel 1992, come ben stigmatizza Di
Francesco; e dall'altra di andare a vedere chi sono effettivamente le
vittime della guerra fratricida.

Remondino in effetti va poco oltre la mera comunicazione della
notizia: allude ad una propaganda pregressa, prova a fare qualche
conto e confronto percentuale, ma non commenta davvero il significato
dei dati, tantomeno li critica. Di Francesco, parzialmente, rimedia;
noi vorremmo però aggiungere ancora qualcosa di essenziale.

Cosa c'è in questi dati?
Da una parte, esce fuori che ci sono delle vittime serbe, e che sono
tante.
Dall'altra, sia in questi dati che in quelli di fonte CIA appare ben
poco credibile il numero degli "jugoslavi" - sia i morti, che i vivi.
I dati CIA danno un esiguo 0,6% di jugoslavi attualmente abitanti in
Bosnia-Erzegovina (famiglie miste e jugoslavi per convinzione); nei
dati del Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo le vittime
jugoslave sono ridotte allo 0,93%: anche da morti, dunque, cancellati,
rimossi, insomma: fuori dai coglioni!
A questa epurazione "etnica" degli jugoslavi anche dopo morti
Remondino e Di Francesco non oppongono alcuna seria controdeduzione.

Eppure, innanzitutto, va detto che il 6% di jugoslavi abitanti della
Bosnia risultanti dall'ultimo censimento unitario era GIÀ una
sottostima, poichè il processo di appropriazione identitaria
nazionalistica era GIÀ stato avviato.
Per una stima seria bisognerebbe leggere bene nei censimenti degli
anni precedenti, come sono cambiati nel tempo; oppure, ancora meglio,
sarebbe sufficiente andare a contare i matrimoni misti rispetto a
quelli mononazionali: erano molto di più del 6%, e sono ancora
tantissimi (anche se spesso celebrati all'estero), nonostante i vari
fascismi sul campo.
In TUTTA la RFS di Jugoslavia si dichiaravano jugoslavi in 273.000
(1,3%) nel 1971, e poi ben 1.219.000 (5,4%) nel 1981 (fonte: S.G. SFRJ
- Annuario statistico della RSF di Jugoslavia - Savezni zavod za
statistiku, Beograd 1985). Il trend era dunque in crescita; c'è voluta
la guerra imperialista e fratricida per spezzare questo andamento. E
si noti anche che i dati completi del censimento del 1991 (in tutte le
Repubbliche) non sono mai stati resi disponibili. Guarda caso. In
Bosnia, territorio da sempre "misto", e cuore dello jugoslavismo
socialista, quelle percentuali erano certamente più alte.

Il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo ha molto
probabilmente"arruolato" tra le vittime "bosgnacche" tutti quelli che
nel corso della guerra abitavano nella Bosnia di Izetbegovic, e si
definivano magari "bosniaci" ma non certo "bosgnacchi", tantomeno
"musulmani" - e quindi, in particolare, tantissimi bosniaci di
famiglia mista. Se a questo aggiungiamo, come fa notare Di Francesco,
che in quel 67,87% di vittime "bosgnacche" vanno annoverati anche i
bosniaci morti nel conflitto inter-musulmano (Izetbegovic-Abdic),
oltre ai tantissimi morti nel conflitto musulmano-croato, ci rendiamo
bene conto che, non solo nella vulgata corrente sulla guerra in
Bosnia, ma anche nel quadro (solo apparentemente oggettivo) fornito
dal Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo, sono troppi gli
elementi che non quadrano.

(a cura del CNJ)

ONORE A SADDAM !

Messa a punto sul "dittatore sanguinario"
a partire da un mondo governato da
assassini di massa e che intitola strade
a killer mercenari.

MONDOCANE FUORILINEA
12/1/06

di Fulvio Grimaldi


L'unico mezzo d'informazione che ha difeso la propria dignità, insieme
alla verità incontrovertibile dei fatti, è stato – e mi s/piace – "il
Manifesto". Di contro avevamo un autentico uragano trasversale, dal
fascista Fini a Piero Sansonetti di "Liberazione" (già distintosi per
quel suo "nostri ragazzi" di altra occasione), a confermarci una volta
di più nella surreale constatazione che non più di due destre si
tratta in questo paese, quella che si vanta tale e quella che si
mimetizza da centrosinistra, ma addirittura di tre. Perché non mi
potrete negare che la vicenda di Fabrizio Quattrocchi, andato in Iraq
con i suoi compari, armato come Rambo per ammazzare coloro che non si
peritavano di rivoltarsi contro un invasore carnefice, costituisca una
pietra di paragone tra chi, necessariamente a sinistra, al di là delle
totalmente irrilevanti modalità della morte (manipolate, pare, a fini
di "eroismo patriottico"), sta con la Resistenza irachena contro i
barbari nazisionisti e chi lo definisce "eroico protettore di gente
impegnata nella ricostruzione" (Mensurati, Radio Rai1) e "educato,
dignitoso, fiero…ricordo dolente di tutti noi (sic!)…ucciso da
terroristi… con affetto per la sorella di Fabrizio (sic!)…di cui
capisco perfettamente e apprezzo la commozione e l'orgoglio
(sic!)…" Parole del direttore di "Liberazione", quello dei
"nostri(sic!)ragazzi", che poi culmina in vette di aberrazione
mettendo nello stesso mattatoio dei 200.000 iracheni ammazzati da
invasori e loro ascari, mentre difendevano patria, sovranità, dignità,
socialismo, libertà, vita, come "vittima di questa guerra" colui e
coloro che ne sono stati i macellai e aiuto-macellai. Cosa non si fa
per stare al governo con D'Alema e i delinquenti di Tel Aviv e
Washington! Chissà se il personaggio ha sentito bruciarsi sulla faccia
gli schiaffi di un informato, onesto e coraggioso analista come Manlio
Dinucci sul "Manifesto", quando ci parla dei compiti di questi
"contractors", come "quello dell'interrogatorio dei prigionieri nelle
sale delle tortura di Abu Ghraib", o quando ci ricorda che il correo
di Quattrocchi, Salvatore Stefio, offriva "i suoi servizi a governi
che necessitano di una rapida risoluzione dei problemi di carattere
militare, di difesa e sicurezza interna…" Sberle che un anche minimo
soffio etico, prima ancora che politico, avrebbe dovuto far rimbalzare
sulle mosce guance di un sindaco, noto per amministrare la capitale
peggio messa d'Europa e in cambio aver spergiurato "mai stato
comunista", dopo una vita di prebende e onori tutta trascorsa nel PCI.
Sindaco che è asceso al Parnaso delle facce di bronzo quando ha
proposto di intitolare una strada al noto Quattrocchi. Non a Enzo
Baldoni, non ai bambini iracheni arrostiti dal fosforo, non ai
giornalisti non embedded fucilati o rapiti dagli occupanti. A
Quattrocchi. Fa il paio con quel governatore di Puglia, crociato dei
diritti PACS, che, coerentemente, intitola l'aeroporto di Bari al
compagno Woytila. La ripugnanza monta e noi lasciamo questi sicofanti
all'immondezzaio della storia e alla considerazione degli iracheni.

Passiamo a un'altra, questa volta di maggiore rilevanza storica e
politica, cartina di tornasole: il presidente legittimo dell'Iraq,
Saddam Hussein. Ricordo una riunione dei compagni dell' "Ernesto",
corrente che si vuole di sinistra nel PRC, in cui discutemmo di
Saddam, con me appena tornato dall'Iraq massacrato da 13 anni di
embargo totale, ma sempre in piedi e baluardo antimperialista. Una
figura di primissimo piano della dirigenza del partito, Bianca Bracci
Torsi, tra l'altro protagonista dell'annosa – e faticosa nel PRC -
battaglia per la memoria partigiana ed antifascista, che sentenziò:
"Uno che ha sterminato migliaia di comunisti, che ha gassato i curdi e
che è servito da strumento degli americani non può certo essere
annoverato nel campo dei progressisti". Il tutto condito dai soliti
riferimenti al "dittatore sanguinario", al "repressore del proprio
popolo", al "torturatore degli oppositori". Insomma, pari pari gli
stereotipi della propaganda imperialista elaborata scientificamente
dalle centrali governative della disinformazione, a partire dagli anni
'80, allo scopo di preparare l'opinione dei complici, degli ingenui e
dei fessi allo squartamento del paese più ricco di petrolio del mondo
e socialmente, industrialmente, politicamente più avanzato, insieme a
Cuba, del Sud planetario. Echi di Bush padre, che bombardò a morte
qualcosa come 100.000 civili iracheni, di Clinton che proseguì nella
garrota economica e bombarola di 2 milioni di innocenti, di Bush
figlio che s'illuse di completare l'opera cancellando l'intero paese
dalla faccia della Terra, salvo i pozzi di petrolio, i tagliagole
curdi e i preti collaborazionisti di obbedienza iraniana. Ma anche
echi, fedelmente ripetuti, dal suo ex-leader Massimo D'Alema, complice
di tutto questo e denunciato dai giuristi del PRC come criminale di
guerra per la cogestione dello scannatoio jugoslavo. E, decisivi, echi
dall'ex-grande punto di riferimento Leonida Brezhnev, che s'inventò la
strage dei comunisti per garantire un miserabile alibi al suo
tradimento del patto di amicizia e mutua difesa URSS-Iraq (1972),
quando si schierò con l'integralista espansionista Khomeini (lui, sì,
strumento di Israele e USA: ricordare l'Iran-Contras, le armi e i
piloti israeliani a Tehran, gli aiuti finanziari del Congresso USA dal
1980 al 1988, l'aggressione all'Iraq anche stimolando, armando e
pagando la rivolta dei curdi iracheni dopo aver sterminato quelli
iraniani, il rifiuto per sei anni della pace offerta da Saddam). Echi,
tutti questi, che evidentemente hanno saputo far sprofondare
nell'oblio l'antica consapevolezza nei compagni di come colonialismo e
poi imperialismo tratteggiarono ai propri fini figure come Fidel, Ho
Ci Min, Mao, Ben Bella e Boumedienne, Gheddafi, Yomo Keniatta
liberatore del Kenia (il "Mau Mau assiso tra i rami vestito di pelli
di leopardo, pronto con i suoi finti artigli a strappare il cuore ai
civilizzatori britannici") e chiunque abbia guidato il rifiuto armato
dei popoli alla schiavitù capitalista straniera. Risparmiando il non
violento Ghandi, ovviamente, visto che, persa per persa l'India nel
grande processo di decolonizzazione dopo la II guerra mondiale, il
nudo digiunatore della casta nobiliare quanto meno ti garantiva la
permanenza dell'India nel girone capitalista filobritannico del
Commonwealth, così sottraendo la vittoria e il potere alle forze
popolari di sinistra che per decenni avevano condotto la lotta
vincente contro viceré britannici e marajà indigeni.

Naturalmente il connubio coesistente antiracheno tra URSS e USA aveva
delle volgari basi geostrategiche. All'Occidente e ai suoi corifei
italioti nel nuovo colonialismo globale conveniva sabotare, con la
proiezione di un Saddam cialtrone doppiogiochista, finto
antimperialista e servo degli USA, l'eventualità di un'insidiosa
solidarietà con l'Iraq assediato, affamato, bombardato e infine
calpestato, da parte di "sinistre", un tempo ancora a sinistra, aduse
a schierarsi politicamente e anche materialmente a fianco delle lotte
di liberazione e per il riscatto dei "proletari di tutto il mondo". A
Brezhnev e al suo codazzo terzinternazionalista, rassegnati al
socialismo in un solo paese grazie alla vergogna di Yalta, interessava
tenersi caro il fanatico oscurantista e anticomunista, confinante con
le proprie regioni musulmane già in processo di autonomia dall'Unione
e questo valeva, nel 1979-80, il tradimento dei trattati con l'Iraq
laico ed antimperialista e la criminalizzazione di Saddam
"massacratore di 5000 comunisti", magari "su indicazione Cia". Una
balla megagalattica, quanto quella sui curdi di Halabja gassati nel
1988, smentita, oltrechè dai giornalisti sul posto, dagli stessi
servizi delle grandi potenze, Cia in testa (furono gli iraniani a
lanciare il gas contro truppe irachene vicine a quel villaggio: vedi,
tra le altre fonti, il "New York Times" del 31 gennaio 2004). Una
balla che si ridusse a quei 140 dirigenti del PC iracheno processati e
giustiziati per alto tradimento, secondo le stesse ammissioni
dell'attuale PCI collaborazionista e partecipe del governo fantoccio
insediato dagli USA, per aver obbedito a Mosca facendo la spia, o
essendo andati a combattere contro il proprio paese nella guerra
Iraq-Iran.

Non è questa l'occasione per andare a rovistare nell'immenso letamaio
di menzogne rovesciate su Saddam e sul partito Baath allo scopo di
cancellare un modello sociale e politico incompatibile con Pensiero
Unico e Nuovo Ordine Mondiale, rubare il petrolio e normalizzare
sionisticamente il Medio Oriente, al di là di ogni ipotesi di
riunificazione araba di cui l'Iraq è stato, dopo Nasser e Boumedienne,
il massimo polo. Letamaio cui è stato consentito di inquinare e
lobotomizzare chi avrebbe dovuto avere maggiore capacità di
discernimento, specialmente dopo analoghe campagne di satanizzazione
all'indirizzo di difensori di sovranità, progresso sociale, libertà
come Slobodan Milosevic o Fidel Castro. Certe idiozie grottesche si
sono già dissolte al sole della razionalità o delle rivelazioni dei
pochi investigatori sottrattisi all'omologazione praticata dai vocati
al servilismo: la finta infermiera e vera figlia dell'ambasciatore del
Kuweit a Washington che piagnucola su "neonati kuweitiani strappati
dalla soldataglia irachena dalle incubatrici e scagliati a terra a
morire"; il tritaplastica in cui "Saddam infilava gli oppositori
politici a piedi in giù", inventato da una deputata laburista per
agevolare le bugie guerrafondaie di Blair; i calciatori che, persa una
partita, venivano prima "picchiati sulle piante dei piedi e poi fatti
allenare con palle di ferro" dal presidente della società Uday
Hussein, figlio del presidente che, tra le altre efferatezze, girava
per Baghdad "sequestrando fanciulle e gettandole nel pozzo dopo averne
abusato"; lo sterminio di popolazioni scite in rivolta dopo la prima
aggressione imperialista (Bellini e Cocciolone), dove si trattava
invece di milizie iraniane infiltrate con la copertura degli ayatollah
iracheni oggi al fianco degli occupanti; l'analogo massacro di curdi,
laddove il Curdistan iracheno era stato l'unico spazio in cui quel
popolo diviso aveva ottenuto autonomia, autogoverno e pari dignità e
ruolo nel governo nazionale e si trattava di fermare la rivolta, sotto
guida israelo-statunitense, di due capitribù narcotrafficanti, Barzani
e Talabani, quest'ultimo oggi capo dello "Stato" in virtù di servigi
ai genocidi. Si potrebbe continuare per ore incidendo da tutte le
parti il tumore dell'antisaddamismo coltivato con iniezioni ventennali
di menzogne, fino a ridurlo alle sue vere dimensioni di truffa dalle
proporzioni cristiane ( e gli amici atei sanno cosa intendo).

Ne parlerà con grande conoscenza di causa un libro di Valeria Poletti,
di prossima pubblicazione per i tipi di Achab e di cui si darà la più
diffusa comunicazione. Un volume documentatissimo che ci racconta
l'Iraq dalla colonizzazione, attraverso la rivoluzione, l'incredibile
riscatto economico e sociale, fino ai giorni dell'incubo imperialista
e dell'eroica resistenza di un popolo che, preparato da tempo alla
bisogna, riesce a costruire il fronte avanzato e decisivo dello
scontro con i più sanguinari "padroni del mondo" che siano mai
comparsi. Non per nulla merita il riconoscimento di tutte le persone
perbene, come Fidel e Chavez ci insegnano Un lavoro che svergogna una
volta di più la pigra e silente indifferenza della nostra
informazione, quella presunta alternativa compresa, verso la realtà di
un paese, un popolo, un nodo geopolitico che pure rappresentano il
massimo dramma mondiale del dopoVietnam. Ricordo la grande attenzione,
gli occhi strabuzzati e le bocche spalancate delle migliaia di persone
che ho incontrato durante tre lustri di dibattito e conferenze e con
le quali ho dovuto essere il primo a illustrare il vero Iraq, il vero
Saddam, la vera ragione di uno scontro epocale, pur essendo i dati che
riferivo, a parte la mia trentennale frequentazione del paese,
ampiamente disponibili in rapporti e statistiche ONU, Unicef, Unesco,
PAM, Banca Mondiale e altre istituzioni internazionali che registrano
i percorsi economici e sociali dei popoli.

Qui interessa piuttosto, alla luce di uno dei processi più simili a
quelli dell'Inquisizione cattolica e a cui Saddam sta tenendo testa in
modo, questo sì, eroico, non meno di Milosevic nella vergognosa burla
giuridica dell'Aja, ripercorrere brevemente le orme del cammino di un
paese che, lasciato dai colonialisti inglesi nel più abietto
sottosviluppo, senza ospedali, senza scuole, senza industria, in pochi
anni, cacciati i colonizzatori quasi a mani nude, seppe, attingendo
alle radici della più antica e ai suoi tempi progressiva civiltà del
mondo, forgiarsi in nazione e diventare un modello di giustizia
sociale e di coerenza antimperialista. Saddam sta in un carcere e
porta i segni delle torture dei "portatori di democrazia", giudicato
da un banda di venduti pseudomagistrati, accusato da testimoni
occulti, nascosti, anonimi, che leggono filastrocche preparate dagli
sgherri di un occupante che detta ogni aspetto e ogni mossa politica
ed economica del paese al fine di completarne la distruzione e il
saccheggio. Fuori gli squadroni della morte dei collaborazionisti
sciti e curdi, creati dagli angloamericani insieme al fantasmatico
burattino Al Zarkawi (cui tutti offrono ormai scandalosa credibilità)
e addestrati e pagati dai pasdaran iraniani, giustiziano a migliaia
coloro che appartengono a quell'82% di iracheni che rifiutano
l'occupazione; il resto sono curdi ammaestrati da Israele e pescicani
dell'esilio rientrati per le briciole del banchetto). Fuori, le armate
terroristiche degli occupanti, di fronte a un'impossibile vittoria sul
terreno e all'indomabile resistenza di città e villaggi, hanno
quintuplicato i bombardamenti aerei indiscriminati, le incursioni a
fini di rastrellamenti (60.000 i detenuti) pure indiscriminati, gli
stupri di massa, il furto ai feriti e uccisi di organi destinati al
mercato dei plutocrati statunitensi, gli attentati stragisti da
attribuire alla Resistenza la devastazione e rapina degli un tempo
smisurati beni archeologici e culturali, l'uso a tutto spiano di armi
di distruzioni di massa dai gas al napalm e al fosforo, le torture,
insomma tutto quello che dovrebbe servire a terrorizzare e convincere
alla resa un popolo che deve pagare per aver già sconfitto una volta
la criminalità statuale internazionale e per aver imparato che a
resistere si vince.

Dentro sta Saddam. Fuori stanno, a conferma dei peggiori tempi vissuti
dall'umanità da secoli a questa parte (il nazifascimo, se non altro,
era territorialmente e temporalmente più circoscritto), Sharon, boia
di Sabra e Shatila e promotore della "soluzione finale" per
palestinesi e arabi; Bush, i suoi santoli e padrini della cabala
nazisionista e narcotrafficante, tra i cadaveri e le macerie degli
attentati "islamici", da costoro orditi per poter sequestrare e
sfoltire l'umanità; Blair, tardovittoriano alla ricerca degli scarti
dell'altrui colonialismo, connivente del complotto criminale e che con
il socio d'oltreatlantico ha freddamente costruito le bugie della
demonizzazione e dell'integralismo islamico; Berlusconi, D'Alema,
soldati di ventura Nato-USA, esecutori sul posto degli ordini dei
carnefici imperiali; tutta la Grande Armada dello storico terrorismo
di Stato USA, fin da coloro che governavano le stragi e i terrorismi
in Italia e continuano a governarli, dalla Grecia all'America Latina,
a Libano, Spagna, Egitto, Turchia, Giordania, Kosovo e ovunque gli
pare funzionale far apparire la propria agenzia di provocazioni, Al
Qa'ida: i Rumsfeld, Wolfowitz, Ledeen, Negroponte, North, Abrams,
Posada Carriles, Orlando Bosch., Khalilzad e i mille e mille
subordinati esteri, da Delle Chiaie in giù.

Saddam sta dentro. Non era un santo, Saddam. Era il governante di un
popolo, già annegato nell'uranio, che sopravviveva a forza di lacrime,
sudore e sangue, sbaragliando insidie mortali a ogni angolo e da ogni
parte, provocatori, spie, affamatori, infiltrati, sobillatori per
conto dell'imperialismo, aggressori armati, sabotatori interni e
internazionali, durante tutti i quasi cinquant'anni del suo cammino di
emancipazione. Un popolo che, dopo aver sparso saggezza e scienza nel
mondo, durante gli ultimi mille anni non aveva subito che regimi
autocratici imposti da fuori e a cui non si poteva certo chiedere una
maturazione illuministica verso la democrazia in quattro e
quattr'otto, tanto più che quella democrazia si presentava e si
presenta negli abiti marci della democrazia borghese. Un popolo che
non poteva "essere gentile", come dice Brecht, non stava a capotavola
di un pranzo di gala. Questo lo dico, mentre mi incombono i Bush, gli
Sharon della "Sinistra per Israele", i D'Alema del paesicidio
jugoslavo, i Giuliano Ferrara che vanno in orgasmo per ogni strage
sionista o teocon, le Fallaci onorate di paginoni dal Corriere, i
Magdi Allam che sul tabloid scandalistico "La Repubblica"
s'inventavano i campi di Al Qa'ida in Iraq là dove c'erano campi
militari ufficiali, visitati cento volte da ispettori ONU,
vasellinatore del nuovo razzismo universale islamofobico, e tanta,
tanta gentaccia. Questo lo dico avendo vissuto di persona, da metà
degli anni '70 in poi, tempi dell'unica nazionalizzazione del
petrolio, difesa per trent'anni fino al 9 aprile 2003, arrivo dei
vandali, l'esaltante esperienza di un popolo che prendeva coscienza di
sé, della sua storia offuscata, della sua dignità negata, del suo
ruolo da protagonista nello scontro tra giusti e delinquenti. Il
processo di acquisizione, dopo secoli di polvere e esclusione,
dell'autostima. Qualcosa che oggi si vive nel Venezuela di Chavez. Un
popolo, infine. La cui non ultima nobiltà è stata di essere rimasto
fino all'ultimo giorno, unico, a fianco del popolo palestinese e alle
sue intifade.

E quest'uomo, che non era un santo, ma che, dopo aver partecipato a
una rivoluzione e poi guidato l'altra, sfidando l'impossibile e il
mondo coalizzato, con l'eccezione, allora, dei paesi socialisti, di
questo processo è stato l'inventore, il simbolo, il coagulatore. Per
primo, i diritti umani. Non quelli che tanto agitano i nostri
vessilliferi di democrazie al polistirolo. Quelli che interessano ai
popoli, agli esclusi, ai fuori-dalla.-storia. Agli eterni proletari.
La conoscenza per essere soggetto di cultura e quindi di politica e
quindi di destino. Un'alfabetizzazione totale in un paese totalmente
analfabeta. Una sanità di altissimo livello con professionisti che dal
processo in cui erano inseriti avevano tratto un'etica un po' diversa
dai nostri primari d'ospedale e dalle nostre larve nel formaggio delle
cliniche private, tanto da dover essere ammazzati dagli occupanti
perché smettano di curare un popolo destinato all'estinzione. Orari di
lavoro, sindacati, maternità, previdenza, pensioni, anziani, bambini,
donne libere e ad ogni livello di produzione e direzione; scienza,
agricoltura, industria, arti che invadevano e accendevano il mondo
arabo e oltre. E orgoglio. E consenso. E come si potrebbe non avere
consenso quando un partito, il Baath, socialista, arabo e la sua
direzione, per la prima volta nella storia e nella regione,
distribuiscono la ricchezza in maniera equa, senza satrapi e senza
mendicanti. Diritti umani che hanno consentito al governo di
distribuire le armi da tenere in casa a sei milioni di cittadini,
praticamente tutti quelli in grado di impegnarsi nella difesa, senza
temere quell'insurrezione che si sarebbe verificata se solo il
"regime" fosse stato quello descritto, o strumentalmente o vilmente,
dall'universo mondo. Sei milioni che oggi tengono testa, in nome di
noi tutti, alla più possente criminalità di Stato di tutti i tempi.
Diritti umani che hanno messo un popolo in condizione di difendersi
oltre ogni immaginazione, oltre ogni ottuso e ignorante pregiudizio,
sulla base di una coscienza politica, sociale e nazionale che ne fa
oggi l'avanguardia della risposta degli uomini ai loro terminator.
Sicuramente non tutto è stato fatto da Saddam, chè corollario della
costruzione di una nazione è la formazione di una classe politica
all'altezza. Il merito massimo va a un popolo che in Saddam si è
riconosciuto, ma che per la meta dell'emancipazione e della sovranità
si è battuto incessantemente, con coraggio e intelligenza, tra
sacrifici inenarrabili. Ovviamente i media non ce le raccontano le
mille manifestazioni con i ritratti del presidente in tante città
irachene, e la sinistra, intrisa di spocchia eurocentrista, avvitata
nella sua opportunistica "spirale guerra-terrorismo". ovviamente le
snobba, attribuendole a un perverso indottrinamento, non ancora
risanato dalla "democrazia".

Guardiamo Saddam nella gabbia dello pseudoprocesso condotto da chi,
dopo aver ammazzato due milioni di iracheni e tentato di disintegrare
l'anima di quel popolo liquidandone la memoria storica, la cultura,
l'intelligenza, tutto il patrimonio umano, spera, con un'esecuzione
prestabilita da colui che è il vero dittatore sanguinario d'Iraq,
quello a stelle e striscie, di decapitarlo definitivamente e di
consegnarne le membra sparse ai tirapiedi con turbante che già lo
avevano servito quando recava la britannica croce di Sant'Andrea.
Guardiamo e ascoltiamo Saddam, senza farci ottundere dai veleni
somministratici dai cerusici di tutti gli inganni e di tutte le
superstizioni. Da un uomo senza l'ombra di una paura, ma con tutta la
sacrosanta collera che, dopo aver fatte sue le aspirazioni del suo
popolo alla giustizia e al benessere, ne soffre l'agghiacciante
ingiustizia e tragedia, ascoltiamo: "Ovviamente non sono colpevole, ma
so benissimo che mi vogliono morto. Ma

essendo il comandante in capo, preferisco essere fucilato da un
plotone d'esecuzione. Combatto la tirannia USA in nome degli iracheni,
degli arabi, dei popoli di tutto il mondo. Sono certo che gli Stati
Uniti non saranno in grado di imporre un Nuovo Mondo. Quanto a me, ho
operato per gli arabi e ho fatto il mio dovere. Sono convinto che il
popolo iracheno combatterà fino all'ultimo. Non accetterà mai un
dominio straniero. All'aggressione si resisterà fino a quando l'ultimo
degli americani, dei loro alleati e fantocci, sarà stato cacciato
dall'Iraq.

Non m'importa di morire, non è che sono molto attaccato a questa vita.
Per ogni essere umano c'è un tempo per andare. La vita di ogni singolo
iracheno vale quanto la mia."Ascoltiamo. E forse non ci
scandalizzeremo del titolo di questo articolo.

Saddam verrà ucciso. Ma io, che mi sono mescolato a quelle genti
quando rinascevano, crescevano, resistevano, morivano, so che non
finiranno di piangerlo mai. C'è qualcuno che possa dire lo stesso di
Bush, Blair, Clinton, D'Alema, Prodi? A dispetto della spaventosa
regressione in cui papi, ayatollah, rabbini, presidenti serial killer,
generali fosforizzanti, terroristi travestiti, mercenari torturatori,
finte sinistre, idolatri ed egolatri, dirittiumanisti, stanno
trascinando il mondo intero, gli iracheni non si arrendono. Continuano
ad andare avanti. Magari non con i diktat delle tavole di Mosè,
piuttosto con il Codice di Hammurabi che, primo, fece gli uomini
uguali davanti alla legge. Merito anche di Saddam Hussein. La storia
gliene renderà merito.

CORRUZIONE E CRIMINE ORGANIZZATO NELLA SERBIA CAPITALISTA:
LA COLPA È DI MILOSEVIC - LO DICONO GLI ITALIANI, PERSONE INTEGERRIME


...La corruzione e il crimine organizzato, storicamente radicati anche
nella vecchia Europa del cosiddetto socialismo reale [SIC], si erano
ulteriormente sviluppati nell'ex Jugoslavia degli anni '90 sotto il
regime di Slobodan Milosevic [SIC] e restano tuttora fenomeni diffusi,
malgrado i cinque anni trascorsi dalla caduta di 'Slobo'...

SERBIA: CORRUZIONE, IN MANETTE NUMERO DUE BANCA CENTRALE

(ANSA) - BELGRADO, 12 GEN - Manette ai polsi per corruzione al
vicegovernatore della Banca centrale di Serbia, Dejan Simic, arrestato
dalla polizia con l'accusa d'aver intascato una mazzetta pari ad
almeno 100.000 euro. L'arresto e' stato eseguito ieri, ma la notizia
e' stata resa pubblica solo oggi, direttamente dal ministro
dell'interno, Dragan Jocic.
Jocic, parlando in tv, non ha fornito dettagli sulla vicenda,
limitandosi a sottolineare l'importanza dell'indagine e la volonta'
dichiarata del governo in carica di Vojislav Kostunica di combattere
il malaffare per favorire il lungo cammino verso l'integrazione
europea intrapreso dalla Serbia del dopo Milosevic. ''Il governo serbo
considera la lotta alla corruzione e alla criminalita' organizzata,
cosi' come il consolidamento di uno Stato di diritto, priorita' vitali
per il futuro del Paese'', ha detto il ministro.
Simic, 38 anni, specialista di diritto commerciale, ricopriva la
carica di numero due della Banca centrale di Belgrado dal settembre
2004 [SIC]. In passato [DOPO LA CADUTA DI MILOSEVIC] aveva collaborato
in veste di consulente con l'agenzia nazionale delle privatizzazioni
[SIC].
Secondo fonti di polizia, l'accusa che lo riguarda fa riferimento in
particolare a una tangente da 100.000 euro.

La corruzione e il crimine organizzato, storicamente radicati anche
nella vecchia Europa del cosiddetto socialismo reale, si erano
ulteriormente sviluppati nell'ex Jugoslavia degli anni '90 sotto il
regime di Slobodan Milosevic e restano tuttora fenomeni diffusi,
malgrado i cinque anni trascorsi dalla caduta di 'Slobo'. [SIC]

La piaga persiste [SIC] del resto in modo sostanzialmente uniforme in
quasi tutti i Paesi gravitanti un tempo attorno al blocco sovietico
[SIC], compresi alcuni gia' ammessi nell'Unione Europea [MA
GUARDA...]. Un recente rapporto della Banca europea per la
ricostruzione lo sviluppo (Bers) ha peraltro riconosciuto alla nuova
Serbia - che nel 2005 ha varato ben quattro leggi ad hoc, piuttosto
draconiane, contro il malaffare - di aver realizzato nella lotta alla
corruzione progressi piu' significativi rispetto a Paesi
centro-orientali membri dell'Ue come Polonia o Ungheria. (ANSA). LR
12/01/2006 15:13

--- In ita-jug, "Iniziativa PARTIGIANI!" ha scritto:

[ sul caso della denuncia contro l'Associazione Promemoria si veda anche:
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/promemoriats.htm
Sulla figura di Giuseppe Maras si vedano anche:
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/amaras.htm
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/profili.htm#maras
Sul Museo Garibaldino di Porta San Pancrazio si veda:
http://www.garibaldini.it/museo.htm ]

---

Da: sandi.volk
Data: Mar 10 gen 2006 17:58:47 Europe/Rome
Oggetto: Fw: info e foto bandiera Brigate Garibaldi

Vi comunico che la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del
nostro vicepresidente è stata archiviata e vi allego il comunicato
stampa che abbiamo mandato in giro. Grazie ancora per l'aiuto.
Cordiali saluti e buon anno
Sandi Volk

---

Promemoria
Associazione per la difesa dei valori dell'antifascismo e dell'antinazismo
Drustvo za zascito vrednot protifasizma in protinacizma
e-mail: promemoriats @ virgilio.it


Trieste, 10.1.2006
COMUNICATO STAMPA


Oggi 10 febbraio 2006 il GUP di Trieste ha archiviato la richiesta del
PM Milillo di rinvio a giudizio del nostro vicepresidente per
vilipendio alla bandiera perché aveva sventolato una bandiera italiana
con la stella rossa, vessillo delle brigate partigiane Garibaldi. Al
di la della gravità della richiesta del PM, che se acettata avrebbe
significato far passare la criminalizzazione dei simboli della
Resistenza, il tribunale di Trieste ha con la sua decisione sancito
che sventolare quella bandiera non costituisce alcun reato. Promemoria
continuerà pertanto a sventolarla con orgoglio nelle sue
manifestazioni, come continuera nella battaglia per impedire un altro
insulto ai combattenti della Resistenza e alle vittime del nazismo,
quello di essere equiparati nell'intitolazione del monumento di piazza
Goldoni a Trieste a chi militò in vari modi e a vario titolo dalla
parte del nazismo e del fascismo. L'Associazione Promemoria ringrazia
quanti hanno aderito al suo appello e tutti coloro che stamane hanno
partecipato al presidio indetto assieme all'ANPI davanti al tribunale
di Trieste, in particolare i rappresentanti delle associazioni
degli ex deportati e degli ex perseguitati politici antifascisti di
Trieste e la numerosa delegazione di appartenenti alle associazioni
dei militanti del movimento di liberazione del Capodistriano. Informa
inoltre che il 3 febbraio 2006 alle ore 20 circa si terrà presso
l?agriturismo Milic di Zagradec/Sagrado (TS) una cena di sostegno a
Promemoria, prima della quale verrà presentato (alle ore 19:30) il
video di testimonianze sul campo di concentramento di Gonars
realizzato da Alessandra Kersevan. Coloro che volessero partecipare
sono invitati a prenotare al n° 3495015941 oppure per mail
all'indirizzo promemoriats @ virgilio.it.

Per Promemoria
Il presidente
Sandi Volk

Per contatti: 3495015941

---

----- Original Message -----
From: "ANPI SEGRETERIA NAZIONALE"
To: sandi.volk
Sent: Monday, January 02, 2006 4:01 PM
Subject: info e foto bandiera Brigate Garibaldi

Caro Sandi Volk,
come da accordi telefonici, le inviamo due foto, raffiguranti la
bandiera garibaldina, prese in Jugoslavia nel 1945.

1) G. Vrapce 19 maggio 1945. La Divisione 'Italia' celebra la fine
della guerra.

2) Zagabria 15 maggio 1945, campo sportivo 'Concordia'. Cerimonia e
rassegna militare per la fine della guerra.

Gli originali, assieme ad altri scatti, sono conservati presso il
Museo Garibaldino di Porta San Pancrazio -

Largo Porta San Pancrazio, 9 - 00153 Roma. Tel. 065415592

Direttore del museo è l'architetto Fabrizio Santini.

Il Museo custodisce anche il Tricolore con al centro la stella rossa,
vessillo dei partigiani italiani in terra slava. Foto e bandiera sono
state donate al Museo Garibaldino dalla Medaglia d'Oro, Giuseppe
Maras, Comandante partigiano della Divisione "Italia" in Jugoslavia
(purtroppo ora scomparso).

Augurandoci che la vicenda di cui ci scrive venga chiarita al più presto,
un cordiale saluto

la Segreteria Nazionale ANPI


=== * ===

P A R T I G I A N I !
Una iniziativa internazionale ed internazionalista
nel 60.esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo

https://www.cnj.it/PARTIGIANI/index.htm

Per contatti: PARTIGIANI! c/o RCA/CNJ,
Via di Casal Bruciato 27, I-00159 Roma
partigiani7maggio @ tiscali.it
FAX +39-06-43589503

=== * ===

--- Fine messaggio inoltrato ---

Bosnia: Truppe di occupazione italiane uccidono donna, feriscono
figlio, catturano marito

---

LINKS TO ARTICLES IN ENGLISH:

Our Friends, the Peacekeepers. Merry Christmas, EUFOR-Style
(January 12, 2006 - by Nebojsa Malic)

http://www.antiwar.com/malic/?articleid=8373

BOSNIA: ONE DEAD IN BATTLE WITH PEACEKEEPERS
(ADN Kronos International (Italy) - January 5, 2006)

http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo/message/6195
http://www.adnki.com/index_2Level.php?cat=Security&loid=8.0.246590932&par=0

Wife of Bosnia war crimes suspect killed in raid
(By Zeljko Debelnogic - Reuters - January 5, 2006)

http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo/message/6195
http://www.newkerala.com/news.php?action=fullnews&id=79799

Bosnian Serb president condemns EU peacekeepers after shootout
(AP, Jan 06, 2006 4:31 AM)

http://calibre.mworld.com/m/m.w?lp=GetStory&id=179186821

MANY OTHER DISPATCHES AT:

http://groups.yahoo.com/group/decani2/messages/

---

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/5125/1/51/

Vittime di pace

11.01.2006 scrive Massimo Moratti
I carabinieri dell'Eufor uccidono in una sparatoria a Rogatica, in
Bosnia Erzegovina, la moglie di un ricercato per crimini di guerra.
Feriti il latitante e il figlio. Discordanti le versioni
sull'accaduto. Proteste delle autorità bosniache e della Republika
Srpska, le truppe internazionali parlano di legittima difesa


È finito in modo tragico il tentativo da parte delle forze [ITALIANE,
ndCNJ] della Missione di pace [SIC] di EUFOR di arrestare un presunto
criminale di guerra serbo-bosniaco a Rogatica, nella Republika Srpska
ad una settantina di chilometri da Sarajevo. Un morto e due feriti
gravi sono il risultato della sparatoria avvenuta il 5 gennaio scorso
tra le truppe internazionali e i membri della famiglia Abazovic, di
Rogatica. Su come siano andati i fatti, le versioni sono più che
discordanti. La persona morta è Rada Abazovic, di 46 anni, moglie del
sospetto criminale di guerra Dragomir Abazovic, 48 anni. I feriti sono
il figlio undicenne della coppia, Dragoljub e il sospetto criminale di
guerra, Dragomir. Rada Abazovic è morta per le ferite riportate nella
sparatoria con EUFOR, due ore dopo il suo ricovero all'ospedale di
Foca. Il figlio Dragoljub sembra non essere più in pericolo di vita.
Dragomir Abazovic, è stato trasferito all'ospedale di Sarajevo dove è
stato operato ed è stato preso in consegna dalla SIPA, l'agenzia di
polizia statale.

EUFOR ha emanato due comunicati stampa allo scopo di chiarire la
vicenda che sta suscitando notevoli polemiche in Bosnia e che è stata
ripresa da numerose testate giornalistiche in tutto il mondo [TRANNE
CHE IN ITALIA, ndCNJ]. Secondo quanto riportato da EUFOR, il
comandante di una pattuglia di carabinieri stava effettuando una
ricognizione allo scopo di identificare la posizione di Abazovic, per
il quale era stato emanato un mandato di arresto dal tribunale
cantonale di Sarajevo nel 2002. Il comandante della pattuglia di EUFOR
ha contattato la polizia della Republika Srpska affichè questa potesse
effettuare l'arresto. Abazovic, avendo scorto i veicoli dell'EUFOR, si
è dato alla fuga. Nel frattempo, sua moglie e il figlio avrebbero
aperto il fuoco su EUFOR con un kalashnikov. I soldati hanno poi
inseguito Dragomir Abazovic che, vistosi circondato, ha rivolto l'arma
contro di sè, ferendosi gravemente ed è stato poi arrestato. La moglie
di Abazovic, sempre secondo il comunicato stampa di EUFOR, ha
continuato a sparare sui soldati, consumando circa 4 caricatori. Alla
fine, sia lei che il figlio sono stati raggiunti dai colpi di EUFOR e
immobilizzati [SIC]. Poco dopo sono sopraggiunte sia la polizia che
un'ambulanza che hanno preso in consegna i feriti. Il comunicato di
EUFOR esprime rincrescimento per la perdita di vite umane, ma
ribadisce che i soldati hanno sparato per legittima difesa.

Le polemiche sono scoppiate immediatamente. La polizia della
Republika Srpska e la SIPA (State Information and Protection Agency,
una sorta di FBI della Bosnia, con i compiti di fermare il crimine
organizzato, proteggere le istituzioni e investigare crimini di
guerra) hanno smentito di aver partecipato all'azione, contrariamente
alle voci che si erano diffuse all'inizio.

La stampa locale ha poi riportato le dichiarazioni di un testimone
che contraddice la versione data da EUFOR. Un vicino e amico della
famiglia ha detto che, mentre assieme a Dragomir Abazovic stava
facendo i preparativi per il Natale ortodosso (che si celebra il 7
gennaio), hanno visto arrivare una jeep, dalla quale i soldati, senza
alcun avvertimento, hanno iniziato a sparare su di loro. Al che
Dragomir è fuggito in un campo vicino, mentre sua moglie era già stata
colpita. Il figlio invece, già ferito dai soldati, è stato l'unico a
sparare, ma alla fine è stato il vicino che lo ha disarmato.

Sul piano politico, il presidente della Republika Srpska Dragan Cavic
ha inviato una lettera di protesta al generale Gianmarco Chiarini, il
comandante di EUFOR, chiedendo che vengano chiarificate le circostanze
dell'uccisione di Rada Abazovic e del ferimento del figlio. Nella sua
lettera, Cavic dice che, nonostante il mandato dell'EUFOR in Bosnia ed
Erzegovina, nessuno ha il diritto di uccidere e che la sparatoria è
stata una brutale dimostrazione di forza. Cavic ha anche richiesto che
venga condotta un'investigazione su questi avvenimenti. Borislav
Paravac, il membro serbo della presidenza si è unito alla protesta di
Cavic, ribadendo che è giunta l'ora di porre fine a tali azioni dove
non viene dato peso alla perdita di vite di singoli individui. Il
ministro degli interni della Republika Srpska, Darko Matijasevic,
esprimendo lo shock per l'accaduto, ha detto che l'azione è stata
condotta in modo non professionale e che dopo che il Ministero degli
Interni della Republika Srpska avrà condotto la propria inchiesta vi
saranno delle "energiche discussioni" con EUFOR.

Non è la prima volta che l'azione delle truppe internazionali in
Bosnia ed Erzegovina (la missione EUFOR ha infatti ereditato il
mandato dalla missione NATO, SFOR) ha conseguenze letali per la
popolazione locale. Nel 1997 e 1999 due persone indiziate per crimini
di guerra dall'Aja (Simo Drljaca a Prijedor e Dragan Gagovic a Foca)
furono uccisi dalle truppe SFOR nel tentativo di arrestarli: Drljaca a
quel tempo sparò sulle truppe, mentre Gagovic cercò di investire [SIC]
i soldati francesi che avevano creato un posto di blocco [QUESTA
RICOSTRUZIONE DEI FATTI È NOTORIAMENTE FALSA, ndCNJ]. Nell'aprile
2004, poi, il pope ortodosso di Pale e suo figlio furono gravemente
feriti, nel tentativo andato a vuoto di arrestare Radovan Karadzic che
secondo fonti di intelligence, rivelatesi poi inesatte, si nascondeva
nella canonica. In quell'occasione, due inchieste sull'accaduto
condotte da SFOR e dalle autorità locali giunsero a risultati
completamente contraddittori. Nell'ottobre 2004, in un'azione a cui
parteciparono anche le forze di polizia locali, una persona indiziata
per crimini di guerra rimase ferito a Bileca.

L'anomalia di questo caso è che Dragomir Abazovic non è sulla lista
dei criminali di guerra del Tribunale dell'Aja, ma era stato il
tribunale cantonale di Sarajevo a ordinarne l'arresto per un mese nel
1999 e nel 2001 per crimini di guerra. Il caso è poi stato preso in
consegna dalla Camera per i Crimini di Guerra del Tribunale della
Bosnia ed Erzegovina che però, secondo quanto riporta la stampa
locale, non ha emanato nessun mandato d'arresto per Abazovic. Abazovic
è sospettato di crimini di guerra contro i musulmano-bosgnacchi
commessi a Rogatica, cittadina che nel corso del conflitto aveva
subito una pesante pulizia etnica da parte delle forze serbobosniache
[SIC].

---

SI NOTINO LE DIVERSE VERSIONI DEI FATTI:

BOSNIA: CARABINIERI CATTURANO RICERCATO DOPO SPARATORIA

(ANSA) - SARAJEVO, 5 GEN - Nell'operazione di arresto di un serbo
bosniaco ricercato per crimini di guerra, condotta oggi, con il
sostegno della polizia locale dai carabinieri dell'Ipu (Integrated
police unit) dell'Eufor, la Forza di pace europea in Bosnia, sono
rimasti feriti il ricercato Dragomir Abazovic, la moglie Rada e il
figlio dodicenne Dragoljub. Lo ha reso noto oggi il comando di Eufor a
Sarajevo.
Appena i carabinieri hanno cominciato a schierarsi intorno alla casa
di Abazovic a Rogatica, cento chilometri circa a est di Sarajevo nella
Republika Srpska (Rs, entita' a maggioranza serba di Bosnia), la
moglie Rada e il ragazzo hanno aperto il fuoco con un Kalasnikov
contro i militari italiani, mentre l'uomo ha tentato di fuggire nel
bosco dietro la casa. Nella sparatoria, sono rimasti feriti, sembra
non gravemente [SIC], la donna e il ragazzo.
Abazovic e' stato inseguito dai carabinieri e trovato nel bosco ferito
alla testa dopo che aveva tentato di suicidarsi [SIC] con la pistola
trovata accanto a lui. Non si sa ancora se sia ferito in modo grave.
L'intera famiglia e' stata trasportata all'ospedale di Foca.
La polizia locale sta effettuando i rilievi sul posto e sta esaminando
le armi usate dagli Abazovic, il kalasnikov e la pistola, e anche gli
automezzi colpiti dei carabinieri. Nella sparatoria nessun militare
italiano e' stato ferito.
Contro Abazovic c'e' un ordine di cattura del Tribunale di Sarajevo
del 2002 per omicidio plurimo perpetrato a Rogatica, durante la guerra
in Bosnia (1992-95).
L'Eufor, che nel dicembre del 2004 ha sostituito in Bosnia la Forza di
pace della Nato, Sfor, e' forte di circa 6.300 uomini e dallo scorso
dicembre e' comandato dal generale Gian Marco Chiarini. (ANSA) COR-GA
05/01/2006 15:53

BOSNIA: DECEDUTA DONNA FERITA IN SPARATORIA CON CARABINIERI

(ANSA) - SARAJEVO, 5 GEN - E' deceduta nell'ospedale di Foca, in
Bosnia orientale, Rada Abazovic, moglie del serbo bosniaco Dragomir,
rimasta ferita oggi in un conflitto a fuoco con i carabinieri dell'Ipu
(Integrated police unit) dell'Eufor, mentre il marito, ricercato per
crimini di guerra, cercava di sfuggire all'arresto. Lo hanno reso noto
i media richiamandosi a fonti mediche. Nella sparatoria e' rimasto
ferito anche il figlio dodicenne di Abazovic, Dragoljub, mentre il
ricercato, secondo fonti di Eufor, aveva tentato il suicidio
sparandosi alla testa. Entrambi sono ricoverati all'ospedale di Foca.
(ANSA) COR-GA
05/01/2006 17:07

BOSNIA: SPARATORIA ROGATICA, TESTIMONE CONTRADDICE EUROFOR

(ANSA-AFP) - BANJA LUKA, 87 GEN - Un testimone ha contraddetto la
versione data dall'Eurofor dell'uccisione della moglie di un ricercato
serbo bosniaco, giovedi' in una sparatoria a Rogatica, 60 km a est di
Sarajevo, nella Republika Srpska (Rs). Secondo la versione della Forza
di pace dell'Unione europea in Bosnia Erzegovina, ad aprire per prima
il fuoco contro i carabinieri dell'Eurofor giunti per arrestare il
marito accusato di crimini di guerra era stata la donna, Rada
Abazovic. La versione del testimone, un vicino di casa, e' riportata
oggi sul quotidiano indipendente Nezavisne Novine. ''Noi eravamo
davanti alla casa della famiglia Abazovic... quando una jeep si e'
fermata di colpo. Scesi dal veicolo, i militari si sono messi a
sparare contro di noi senza preavviso'', ha detto il testimone, Milkan
Cvijetic. L'uomo ha sostenuto che la donna e suo figlio Dragoljub, di
12 anni, sono stati feriti da questi spari. ''Ferito, il ragazzo e'
entrato in casa e ha preso un fucile a ha sparato sui soldati. Io sono
intervenuto per prendergli il fucile'', ha detto Cvijetic. Le sue
dichiarazioni contraddicono la versione dell'Eurofor, secondo la quale
la moglie del ricercato Dragomir Abazovic, armata di un kalashnikov,
ha aperto per prima il fuoco contro i soldati della Forza Ue, seguita
dal figlio. Secondo la versione dell'Eurofor, Dragomir Abatovic, 47
anni, incriminato dalla giustizia bosniaca per crimini di guerra
commessi durante la guerra bosniaca del 1992-95, ha poi cercato di
uccidersi sparandosi in testa. La donna e' morta in ospedale per le
ferite, mentre il marito e il figlio sono tuttora ricoverati.
(ANSA-AFP) LG
07/01/2006 16:25

L'INGERENZA POLITICO-MEDIATICA DELLA UE IN BIELORUSSIA

Bruxelles - Le trasmissioni di un apposito consorzio di
mass media per la Bielorussia, finanziato dall'Ue,
inizieranno in tempo per seguire le elezioni presidenziali del 18
marzo. Lo ha assicurato oggi a Bruxelles Emma Udwin, portavoce
del commissario Ue alle Relazioni Esterne, precisando però che
all'inizio si tratterà soltanto di "trasmissioni elettorali
specifiche", mentre il pieno palinsesto entrerà in funzione in un
secondo tempo.
La Commissione europea si adegua dunque alle pressioni
delle scorse settimane, che chiedevano di sostenere apertamente
la cosiddetta l'opposizione bielorussa nello scontro
contro il governo del presidente Aleksandr Lukashenko. Il progetto
media Ue per il lancio di una nuova stazione indipendente nel
Paese sarebbe dovuto partire il 1 gennaio, ma secondo quanto
appreso da fonti comunitarie la scorsa settimana, è stato
ritardato per alcuni "problemi tecnici". Udwin ha annunciato oggi
che la decisione finale sul consorzio vincitrice per l'appalto di
2 milioni di euro sarà raggiunta "entro la fine di gennaio".

10-GEN-06 (Fonte: Mauro Gemma)


www.resistenze.org - popoli resistenti - bielorussia - 03-01-06

Una "rivoluzione arancione" anche per la Bielorussia?

di Mauro Gemma

L'articolo è stato pubblicato nella rivista comunista L'Ernesto (N. 6
Novembre/Dicembre 2005)


Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali in Bielorussia (1),
previste per la primavera del 2006, stiamo assistendo ad un
impressionante crescendo delle pressioni esercitate da parte di
numerosi paesi e istituzioni internazionali nei confronti dell'unico
paese europeo che continua ad essere incluso nella "lista nera" di
quelli che l'amministrazione USA ha qualificato come "paesi canaglia".

L'ultima iniziativa in questo senso risale alla fine di settembre
2005. Ed ha il sapore di un vero e proprio ultimatum che dimostra fino
a che punto si sono spinte le ingerenze esterne, provocate dalla ferma
determinazione dell'imperialismo (manifestata da Bush in persona) a
creare a Minsk una situazione simile a quella che ha portato tra il
2004 e il 2005 alla vittoria della "rivoluzione arancione" nella
confinante Ucraina.

Tutto, nella più recente occasione, è sembrato essere coordinato dalla
medesima "cabina di regia". A Vilnius, in Lituania – considerata
ormai, anche in virtù della scarsa considerazione delle regole
democratiche da parte della sua leadership, concretizzatasi in
violente persecuzioni anticomuniste, uno dei più zelanti attori
dell'Alleanza Atlantica -, alla presenza di importanti personalità
della Nato, si riunivano i raggruppamenti della cosiddetta
"opposizione democratica" bielorussa per discutere molto concretamente
e, peraltro, senza mascheramenti, dell'individuazione delle forme di
lotta ("sia legali che illegali", è stato ineffabilmente riconosciuto
da coloro che ritengono ormai unica norma di diritto internazionale la
"legge della jungla", imposta al pianeta dall'Amministrazione USA) in
grado di portare al rovesciamento del quadro istituzionale nel loro
paese. Esattamente nello stesso momento, il Parlamento europeo si
scagliava – come sempre in nome della difesa dei "diritti umani" e in
sintonia con analoga presa di posizione della Commissione Europea,
assunta il mese precedente - contro le autorità di Minsk, con toni
talmente duri da provocare una secca accusa di ingerenza da parte non
solo del presidente bielorusso in persona, ma anche dello stesso
ministero degli esteri della Russia (2).

E questo non rappresenta altro che l'ultimo episodio di una campagna
che, a più riprese, da quando, appena eletto nel 1994, il nuovo
presidente della "Repubblica di Belarus" Aleksandr Lukashenko diede
l'avvio ad una politica che sarebbe presto entrata in rotta di
collisione con gli interessi della NATO nella regione, è stata
sviluppata attraverso minacce e sanzioni decretate all'unisono da USA
e alleati europei, e con almeno due tentativi di rovesciamento delle
attuali autorità del paese (3). Tutto ciò è avvenuto con il sostegno
esplicito (con lo stanziamento di centinaia di milioni di dollari da
parte di autorità e istituzioni nordamericane, in particolare la
Fondazione Soros) ad un'opposizione sparuta e inetta, priva di
qualsiasi sostegno di massa, infiltrata da elementi fascisti (gli
eredi di quel collaborazionismo filo-nazista, assolutamente privi di
qualsiasi base di massa in una repubblica ex sovietica, che ha pagato
con la vita di un quarto della sua popolazione l'eroica resistenza
all'aggressione di Hitler), chiassosa e violenta, e addirittura
sospettata dell'attuazione di attentati terroristici avvenuti negli
ultimi mesi in alcune località del paese.

Non si può certo negare che le autorità bielorusse abbiano utilizzato
a volte metodi poco "ortodossi" e deprecabili nei confronti di alcuni
esponenti dell'opposizione e che le strutture dell'apparato statale
siano attualmente tenute sotto un rigido controllo. O che siano state
messe in atto misure pesanti di ritorsione (anch'esse deprecabili) nei
confronti di giornalisti e osservatori stranieri (in particolare
polacchi e statunitensi, ma anche esponenti della destra liberale
russa, scoperti a trasferire finanziamenti ai loro amici bielorussi),
accusati di interferire nelle questioni interne del paese. Quanto al
sistema informativo, va rilevato tuttavia che, accanto a media statali
largamente controllati, è consentita la libera circolazione degli
organi di opposizione e la larga diffusione di giornali ed emittenti
russi, nella gran parte ostili al regime bielorusso.

Per quanto riguarda poi le denunce di persecuzioni e persino di
sparizioni di oppositori, le autorità di Minsk hanno sempre seccamente
smentito, confortate in questo dalla testimonianza di quelle
organizzazioni umanitarie occidentali che non hanno l'abitudine di
ricorrere al finanziamento delle amministrazioni imperialiste (4).

Lo studioso francese Bruno Drweski, uno dei più autorevoli osservatori
europei della Bielorussia (5), che non può essere certo accusato di
aver risparmiato le sue critiche ai metodi utilizzati dalle autorità
bielorusse, ha osservato a riguardo che "tali metodi "duri" non
differiscono molto da quelli applicati nella maggioranza degli Stati
post-sovietici o in altre parti del mondo e che le "rivoluzioni
teledirette attraverso Interflora" non hanno cambiato molto in questo
senso, come dimostra la Georgia" e che "il potere personale del
presidente Lukashenko si appoggia anch'esso su una costituzione
comparabile a quella in vigore a Mosca ed in molti altri Stati
considerati pienamente democratici secondo i criteri che predominano
oggi nel mondo"(6).

Le ragioni di tanto accanimento occidentale nei confronti delle
attuali autorità bielorusse e, in particolare, di Aleksandr Lukashenko
sembrano in verità essere ben altre ed avere ben poco a che vedere con
la "preoccupazione per i diritti umani".

E per comprenderlo occorre sicuramente sgombrare il campo da tutte le
letture propagandistiche, sia da quelle "demonizzanti", assolutamente
prevalenti in Occidente (anche nella sinistra, sia moderata che
"alternativa"), che da quelle, a nostro avviso francamente "mitiche",
che caratterizzano alcuni settori del movimento comunista russo, per i
quali la Bielorussia si presenta come una sorta di ultimo "avamposto"
del socialismo.

Forse la definizione più appropriata dell'attuale esperimento
bielorusso è stata fornita proprio da Drweski, quando sostiene che la
longevità del governo di Lukashenko, al potere da oltre 11 anni, può
essere sostanzialmente spiegata in quanto "frutto di un compromesso di
fatto tra una società poco nazionalista e generalmente diffidente nei
confronti del modello liberale e una nomenklatura legata a settori
industriali che necessitano generalmente della partecipazione dello
Stato (industria spaziale, militare, di trasformazione)"(7).

Sono le specifiche modalità, attraverso cui è avvenuta la "costruzione
socialista" nella Bielorussia sovietica che permetterebbero di capire
almeno in parte le ragioni dell'attuale consenso attorno al "fenomeno
Lukashenko".

E' ancora Drweski a descrivere efficacemente il quadro storico che ha
accompagnato la nascita e lo sviluppo dell'esperienza sovietica nella
piccola repubblica, essenziale per comprendere almeno in parte
l'attuale situazione:

"Storicamente, la Bielorussia ha subito le conseguenze della sua
situazione di passaggio aperto a Ovest verso la Polonia e l'Europa
occidentale, e ad Est in direzione della Russia e della massa
continentale eurasiatica. Le elites locali erano tradizionalmente
polacche o russe. La società bielorussa, quasi totalmente contadina
fino al 1920, era stata attirata dalla cultura russa in virtù
dell'emergere al suo interno delle componenti populiste più
rivoluzionarie. Le rivoluzioni russe del 1905, del febbraio 1917 e
dell'ottobre 1917 non avevano incontrato un'eco particolare, sebbene
contemporaneamente emergesse una corrente nazionalista.

Dopo un breve periodo di autonomia politica, negli anni '20, il potere
staliniano eliminò la maggioranza delle elites letterarie della
repubblica, industrializzò in maniera forzosa il paese, favorendo
l'ascesa sociale di massa di quadri di origine contadina.

I massacri nazisti provocarono immediatamente un possente movimento di
resistenza che ha contribuito a radicare in questa "repubblica di
partigiani" un patriottismo con basi territoriali e "multinazionali".

I veterani, ricollocati nell'industria militare e nell'esercito alla
fine della guerra, hanno costituito fino ai giorni nostri, un ambiente
sociale dotato di grande influenza poiché hanno contribuito a
legittimare il poderoso settore militare-industriale"(8).

E' proprio a partire dal secondo dopoguerra che la Bielorussia ha
conosciuto uno sviluppo impetuoso che le ha addirittura permesso di
sopravanzare gli standard della stessa Russia, e di trasformarsi in
uno dei poli industriali di avanguardia di tutta l'Unione Sovietica.

Il dispiegarsi, a partire dal 1985, della "perestrojka" (che è stata
segnata in Bielorussia dai tragici effetti della catastrofe nucleare
di Chernobil, in Ucraina a pochi chilometri dal confine), e, dopo il
fallimento dell'esperimento gorbacioviano, nell'agosto 1991,
l'affermazione di forze nazionaliste tanto aggressive, quanto prive di
un reale consenso di massa, hanno diffuso nel paese la paura della
perdita definitiva di quei vincoli economici tradizionali con lo
spazio sovietico – che in quel momento veniva scientemente spinto al
dissolvimento dalla dissennata politica delle elites "compradore"
giunte al potere in Russia, sotto la guida di Boris Eltsin -
considerati vitali dalla maggioranza della società locale.

L'adesione acritica delle elites nazionaliste, impadronitesi del
potere, all'ideologia neoliberale, e, allo stesso tempo, l'avvio di
una politica estera improntata alla totale subalternità alle strategie
di aggressiva penetrazione imperialista nel nuovo immenso mercato
emerso dalle macerie dell'URSS, hanno provocato, fin dall'inizio, una
resistenza sociale al "processo di riforme", sconosciuta allora nelle
altre repubbliche ex sovietiche, a cominciare dalla Russia, dove
neppure il Partito Comunista, messo fuorilegge senza alcuna resistenza
e apparentemente in preda alla paralisi e allo sbando, sembrava in
grado di prospettare alcuna alternativa alle ricette dei locali
"Chicago boys".

A limitare il consenso attorno alle forze di governo, raccolte attorno
al movimento separatista "Adradzennie" (Rinascita) e capeggiate dallo
speaker del locale Soviet Supremo Stanislau Suskievic, contribuiva
anche il loro nazionalismo esasperato, caratterizzato da un richiamo
astratto ad un'identità della "Belarus", assolutamente estraneo alla
stragrande maggioranza dei cittadini bielorussi, agitato
fondamentalmente da movimenti dell'emigrazione antisovietica e da
gruppi eredi del collaborazionismo filo-nazista, e accompagnato da un
programma di violenta "derussificazione" di una società, in cui ciò
avrebbe significato danneggiare quasi la metà dei nuclei famigliari.
Questa nuova artificiosa "ideologia di Stato" è apparsa così
improponibile per la stragrande maggioranza dei bielorussi e continua
ad esserlo tuttora, nonostante tutti gli sforzi profusi
dall'opposizione per tentare di convincere del contrario i propri
protettori occidentali.

E' in questo contesto che ha potuto affermarsi una figura come quella
di Aleksandr Lukashenko.

Lukashenko, tra i pochi coraggiosi parlamentari che, nel dicembre
1991, si erano pronunciati contro la dissoluzione dell'URSS, e noto
per il suo rigore nella lotta contro la corruzione dilagante con
l'avvento del nuovo regime, nelle elezioni presidenziali del 1994,
sbaragliava, ottenendo l'81,7% dei voti, il suo avversario, il primo
ministro Viaceslau Kiebic.

Il nuovo presidente indicava da subito quello che sarebbe stato
l'obiettivo strategico di tutta la sua azione, da lui perseguito con
ostinata coerenza: l'avvio del processo di ricomposizione dell'unità
politica ed economica almeno delle repubbliche europee dell'ex URSS, a
cominciare dalla Russia (9).

Nello stesso tempo, Lukashenko non si limitava a pronunciarsi
apertamente contro il processo di allargamento della NATO ad Est,
allora in pieno dispiegamento, ma denunciava il carattere aggressivo
di tale alleanza, tutti i suoi tentativi di prevaricare la volontà dei
popoli e degli stati che non intendono assoggettarsi al "nuovo ordine
mondiale" e la sua intenzione di attentare all'integrità territoriale
non solo del suo paese, ma della stessa Federazione Russa.

Nel 1995 e 1996, un vero e proprio plebiscito ha ratificato alcuni
quesiti referendari da lui proposti, nei quali venivano fissati i
capisaldi programmatici della nuova amministrazione.

L'80% dei bielorussi si pronunciava allora positivamente sulle
richieste di unione economica con la Russia, di ripristino della
simbologia sovietica, di adozione del russo quale seconda lingua
ufficiale.

Lukashenko è stato rieletto alla presidenza nel 2001 e, probabilmente
(ovviamente, se non saranno esercitate, come è invece prevedibile,
massicce pressioni dall'esterno), verrà agevolmente riconfermato per
quel terzo mandato, a cui oggi può aspirare dopo l'approvazione
popolare della sua ricandidatura, ottenuta in un apposito referendum
svoltosi nel 2004.

Fin dall'inizio del suo mandato, pur non interrompendo i processi di
privatizzazione, Lukashenko, che può fare affidamento su un capillare
apparato amministrativo di decine di migliaia di funzionari (40.000 a
livello statale e 80.000 nelle amministrazioni locali), si è sforzato
di mantenere sotto il controllo dello Stato le risorse strategiche
ereditate dall'URSS, cercando allo stesso tempo, in un primo momento,
di ripristinare e, in seguito, di rafforzare gli storici legami con il
mercato dei paesi eredi dell'Unione Sovietica, tradizionale sbocco
delle produzioni bielorusse.

Tale politica (che ha, ovviamente, sempre visto il presidente
bielorusso attivissimo nella promozione di progetti di collaborazione
economica nell'ambito della Comunità degli Stati Indipendenti) ha
permesso, nell'ultimo scorcio dello scorso secolo, di contenere i
costi sociali derivanti dal crollo economico seguito all'applicazione
delle ricette di "liberalizzazione" e "privatizzazione" applicate nel
resto dello spazio post-sovietico, e in particolare nelle vicine
Russia e Ucraina.

Aleksey Prigarin, noto intellettuale marxista "critico" russo (10),
nell'invitare le sinistre russe a difendere l'esperimento bielorusso
"dagli attacchi dei sostenitori dell'oligarchia", ha così provato a
formulare una definizione di questo esperimento: "Con Aleksandr
Lukashenko in Bielorussia si è affermato il capitalismo di stato che,
indubbiamente, è meglio del capitalismo oligarchico che ha prevalso
nella maggioranza delle ex repubbliche sovietiche (…) Nonostante tutte
le insufficienze del capitalismo di stato come sistema sociale, è
comunque indispensabile considerare che esso permette di assicurare ai
cittadini solide garanzie sociali e livelli di occupazione stabile. La
Bielorussia, unica tra le ex repubbliche sovietiche, si inserisce tra
gli stati altamente sviluppati secondo le valutazioni delle
commissioni dell'ONU che si occupano degli indici dello sviluppo umano.

(...) Tale qualità della vita rappresenta un'indubbia conquista della
dirigenza bielorussa che, come è noto, non può contare su
significative riserve di minerali utili, ma solo sullo sviluppo
dell'agricoltura e della produzione industriale.

(…) Naturalmente, la politica condotta da Lukashenko talvolta provoca
critiche non prive di fondamento anche da parte delle sinistre…In
Bielorussia effettivamente si è formata una società, in cui i
principali strumenti di informazione e le istituzioni politiche sono
controllati dalla burocrazia dominante. Tale sistema è tipico del
capitalismo di stato. Ma, allo stesso tempo, non bisogna mai
dimenticare che un indebolimento del controllo burocratico, nelle
attuali condizioni, può solo provocare la trasformazione del
capitalismo di stato in capitalismo oligarchico.

In ultima analisi, nello spazio post-sovietico, il capitalismo di
stato rappresenta oggi l'unica alternativa concretamente esistente al
capitalismo oligarchico. Per questo è interesse delle sinistre
difendere il capitalismo di stato dagli attacchi dei sostenitori
dell'oligarchia, nello stesso tempo in cui operano per preparare la
coscienza sociale all'accettazione di un'alternativa socialista" (11).

Anche gli osservatori più ostili all'esperienza bielorussa (e basta
scorrere la stessa stampa "liberale" di Mosca) sono costretti a
riconoscere che la Bielorussia non ha mai conosciuto gli stessi
livelli di degradazione dei servizi sociali, sanitari, educativi, di
previdenza raggiunti nei paesi emersi dallo sfascio del "sistema
socialista" in URSS e nell'est europeo.

Del resto, della devastazione prodotta dal modello adottato dai paesi
ex sovietici vicini ed anche dei drammatici costi sociali
dell'esperimento attuato nella confinante Polonia, è cosciente la
grande maggioranza della popolazione bielorussa, in misura ben più
rilevante di quanto siamo indotti a credere in Europa occidentale. E'
fuori di dubbio che anche questo fattore può spiegare la relativa
facilità con cui il regime di Minsk riesce a far fronte alla massiccia
pressione propagandistica che viene esercitata dall'Occidente.

Ancora oggi, pur in un quadro di ripresa dell'economia del grande
vicino russo, parzialmente risollevatosi dall' "abisso" eltsiniano e
che può contare sulla felice congiuntura di un mercato energetico
tornato in larga parte sotto controllo statale, la Bielorussia mostra
risultati economici di tutto rispetto e una sostanziale tenuta dello
"stato sociale".

Il già citato Prigarin, nell'analizzare le statistiche fornite dagli
stessi organismi dell'ONU, afferma che la stessa Russia "stando ai
risultati del 2004, segue la Bielorussia di otto posizioni, pur
trovandosi in testa al gruppo dei paesi mediamente sviluppati" (12).

Tali dati sono ben conosciuti nei paesi dell'ex URSS e non mancano di
suscitare le simpatie di parte considerevole della loro opinione
pubblica. Ad esempio, un sondaggio, effettuato ai primi di novembre
2005 da un autorevole istituto demoscopico russo (l' "Istituto
nazionale di inchieste regionali e tecnologie politiche") rilevava
che, tra i cittadini della Federazione Russa, Lukashenko è attualmente
di gran lunga il più popolare tra i leader dei paesi della
Confederazione degli Stati Indipendenti (quasi il 60% delle preferenze
contro il 20% di Juschenko). Del presidente bielorusso verrebbero
apprezzati proprio lo spirito di indipendenza nei confronti delle
pressioni esterne, la coerenza con cui si batte per i processi di
integrazione nello spazio post-sovietico e la cura con cui ha inteso
preservare il sistema di garanzie sociali, ereditato dal passato
sovietico.

Naturalmente le linee di politica estera della Bielorussia e le sue
relazioni commerciali con il resto del mondo sono apparse pienamente
coerenti con le scelte sociali ed economiche della politica interna.
Anche questo contribuisce a spiegare le ragioni della dura ostilità
occidentale. In un continente europeo, ormai integrato nella NATO e
soggetto agli obblighi derivanti dall'adesione al sistema di alleanze
dell'imperialismo, è difficile rassegnarsi alla presenza di un governo
che "rifiuta di applicare una politica di privatizzazioni senza limiti
e che coopera con la Russia, la Cina, l'Iran, il Vietnam, il
Venezuela, che continua a produrre e ad esportare armi, pezzi per
l'industria aeronautica e prodotti relativamente poco costosi per i
mercati del terzo mondo"(13).

Ma, come abbiamo già detto, gli sforzi più intensi della Bielorussia
sono stati comunque indirizzati alla realizzazione dell'obiettivo
strategico rappresentato dal compimento del processo di unificazione
con il grande vicino russo.

Gli sforzi bielorussi ottenevano un primo successo il 2 aprile 1996,
con la stipula del "Trattato di Unione Russo-Bielorussa", passo
fondamentale verso la realizzazione dell'unificazione politica,
economica e militare tra i due paesi nell'ambito di uno stato unitario.

Al trattato sono seguiti ulteriori passi, attraverso il
perfezionamento di molteplici accordi, soprattutto in materia
economica e doganale, mentre è andata rafforzandosi la collaborazione
anche sul piano militare, fino alla programmazione per la primavera
del 2006 di imponenti manovre congiunte in territorio bielorusso.

Con tenacia, in questi anni, Lukashenko ha dovuto far fronte alle
reticenze e, a volte, anche all' ostilità delle elites che si sono
succedute al governo della Russia, soprattutto nella fase di avvio del
processo di integrazione, quando ad opporsi duramente erano i clan
oligarchici legati alla "famiglia Eltsin". Anche nel periodo
dell'amministrazione Putin, soprattutto nella prima fase, la Russia
non ha nascosto di preferire a Lukashenko "un dirigente più
"presentabile" nell'arena internazionale, e soprattutto meno
indipendente nelle sue iniziative" (14).

Ma l'evidente fallimento della politica di apertura verso gli Stati
Uniti (che era sembrata affermarsi dopo il settembre 2001),
specialmente dopo lo scatenamento delle "rivoluzioni colorate" nello
spazio post-sovietico e l'uso strumentale della "questione cecena", ha
tolto qualsiasi dubbio sulle intenzioni dell'amministrazione USA di
voler puntare direttamente al rovesciamento dell'attuale leadership di
Mosca, favorendo l'ascesa al potere di un regime meno indipendente, e
ha contribuito a determinare un evidente riavvicinamento tra Putin e
il presidente bielorusso.

Negli ultimi mesi abbiamo così assistito ad un'accelerazione del
processo di unificazione. Nel settembre scorso, il progetto di
costituzione dell' "Unione tra Russia e Bielorussia" è stato definito
nelle sue linee essenziali e il referendum previsto per la sua
approvazione potrebbe già svolgersi nell'ottobre-novembre 2006. Subito
dopo, avverrebbe l'elezione del parlamento e verrebbero creati gli
organi esecutivi dello stato unitario.

Sarà sufficiente tutto ciò per prevenire la realizzazione dei
programmi previsti dagli USA e dalla NATO per la piccola Bielorussia?
E' difficile al momento fare previsioni. Ma una cosa è certa. La
Russia ha tratto lezioni esemplari dall'estendersi delle "rivoluzioni
colorate", individuando le lacune e le sottovalutazioni che hanno
caratterizzato la sua politica estera nei confronti degli inaffidabili
interlocutori occidentali.

Ha ragione un altro studioso, Paul Labarique, quando afferma in un suo
articolo apparso nel sito di "Reseau Voltaire", che per la leadership
russa "la Bielorussia si presenta oggi come l'ultimo avamposto. Un
avamposto solido perché ha già resistito due volte ai tentativi di
rovesciamento. Ed è anche certo che Vladimir Putin è oggi alla ricerca
degli strumenti che possano rafforzare ulteriormente la capacità di
resistenza dei suoi alleati…E' probabile che la recente evoluzione
nella regione costringa presto Mosca a sviluppare i propri mezzi di
ingerenza allo scopo di conservare la propria sfera di influenza e
soprattutto la propria integrità territoriale"(15).


NOTE

1) La Bielorussia (Russia Bianca), stato "cuscinetto" tra la Russia e
i paesi dell'Europa orientale e baltica, si estende per 207.600 Kmq. I
bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il russo e che
praticano per l'80% la religione cristiana ortodossa, costituiscono il
78% della popolazione di circa 10 milioni di abitanti. La parte
restante è rappresentata da 1.400.000 russi, da 400.000 ucraini e da
alcune centinaia di migliaia di polacchi. In virtù di un plebiscitario
voto referendario, il bielorusso e il russo sono considerati lingue
ufficiali dello stato. Dall'agosto 1991, il paese, divenuto
indipendente, ha assunto il nome di "Repubblica di Belarus". Tale
denominazione, tuttora in uso, ha provocato numerose riserve, in
quanto riprende la trascrizione tedesca di "Bielorussia", adottata
durante l'occupazione nazista.

2) Una cronaca dettagliata di questi ultimi avvenimenti è stata
fornita dalle agenzie ufficiali russe: in particolare in
http://www.rian.ru e http://www.strana.ru

3) Paul Labarique. « La Biélorussie sous pression ». 15 février 2005.
http://www.voltairenet.org/article16220.html#article16220

4) Ad esempio, John Laughland, fiduciario del "British Helsinki Human
Rights Group", ha dimostrato l'infondatezza delle accuse rivolte a
Lukashenko di aver commissionato l'assassinio di alcuni oppositori
politici, scoprendo che essi risiedevano tranquillamente a Londra.
www.guardian.co.uk , 22 novembre 2002. La traduzione dell'articolo,
con il titolo "Il racket di Praga" in http://www.resistenze.org/ -
popoli resistenti – bielorussia – 16-12-02.

5) Bruno Drweski è Maitre de conférences all'Institut national des
langues et civilisations orientales (INALCO). Direttore della rivista
Le Pensée Libree amministratore di Réseau Voltaire. Tra i suoi lavori,
La Biélorussie, PUF, Paris, 1993.

6) Bruno Drweski. « Les Biélorusses redoutent la « démocratie de
marché ».28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

7) Ivi

8) Ivi

9) Lukashenko, ancora recentemente nella sede autorevole del Vertice
ONU dei Capi di Stato, ha voluto esprimere un giudizio positivo in
merito all'esperienza storica sovietica: "L'Unione Sovietica,
nonostante tutti gli errori dei suoi dirigenti, rappresentava allora
fonte di speranza e di sostegno per molti stati e popoli. L'Unione
Sovietica assicurava l'equilibrio del sistema globale". Intervento di
Aleksandr Lukashenko al vertice ONU, 15 settembre 2005.

http://www.un.org/webcast/summit2005/statements15/belarus0509115eng.pdf,
tradotto per http://www.resistenze.org dal Centro di Cultura e
Documentazione Popolare.

Affermazioni di aperto apprezzamento del passato sovietico furono
fatte, alla presenza di Eltsin, dal leader bielorusso nel 1999 in un
intervento davanti ai deputati della Duma di Stato della Federazione
Russa, noto per la sua vis polemica nei confronti dei deputati della
destra liberista: "La gente si pone un interrogativo più che logico:
perché voi, politici, avete dissolto l'Unione in una sola notte, senza
consultare i vostri popoli?Convenite che è un legittimo interrogativo?
(…) Che cosa è stato fatto di degno per l'uomo comune nello spazio
post-sovietico nei dieci anni trascorsi dalla dissoluzione dell'URSS?
Ma guardiamo la verità negli occhi: non è stato fatto assolutamente
nulla. Certo oggi possiamo dire che nell'URSS non tutto rappresentava
l'ideale (…) Ma solo uno spudorato mentitore può affermare che oggi il
popolo vive meglio che in quel paese. E' di moda sbeffeggiare i
bielorussi, che avrebbero il torto di mantenere una robusta nostalgia
per i tempi sovietici. Ma di ciò occorrerebbe solo essere orgogliosi".

Intervento di Aleksandr Lukashenko alla Duma della Federazione Russa.
L'Ernesto. N. 1/2000. Il testo è stato ripreso in
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti –bielorussia – 21-10-04.

10) Aleksey Prigarin, organizzatore della cosiddetta "Piattaforma
marxista" nel PCUS, ai tempi del suo ultimo congresso, è un
economista, esponente di una tendenza marxista russa che formula un
giudizio articolato e critico della complessa esperienza sovietica,
mettendone in rilievo la grandezza, ma non nascondendo i limiti e gli
errori che ne hanno determinato la fine.

11) http://www.atvr.ru/experts/2005/10/1/6204.html. La traduzione in
Il dibattito tra i marxisti russi sull'esperienza della Bielorussia.
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – russia 07 -10-05.

12) Ivi

13) Bruno Drweski. « Les Bielorusses redoutent la « democratie de
marché ». 28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

14) Ivi

15) Paul Labarique. « Les Biélorusses défendent leurs intérets ».18
février 2005.

http://www.voltairenet.org/article16277.html#article16277

HUMANITARIAN IMPERIALISM, interview with Jean Bricmont

[ cette texte en francais: Droits de l'Homme ou droit du plus fort?
Interview de Jean Bricmont, auteur d'Impérialisme humanitaire
ICI:
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2006-01-06%2010:02:17&log=articles
OU ICI:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4686 ]


HUMANITARIAN IMPERIALISM

Interview with Jean Bricmont

By Joaquim Da Fonseca and Michel Collon

In his new book, Humanitarian Imperialism, Jean Bricmont denounces the
use of the human rights pretext to justify attacks against countries
in the South. He is a pacifist and a committed intellectual.


How is it that a professor of theoretical physics has just written a
book on imperialism?

J.B. I have always been interested in politics, if only passively. I
really became involved in 1999 during the war against Yugoslavia. The
humanitarian reasons invoked by the United States left me puzzled. I
was also shocked by the lack of opposition from the left, even some of
the extreme left, to this aggression.
I was asked to address conferences in all kinds of circles: Protestant
churches, Muslim movements, student groups, ATTAC, etc. My
humanitarian imperialism book is, among other things, a reaction to
the concerns and proposals put forward by individuals and groups
encountered during these conferences. The book is also a reaction to
the attitude of certain political militants claiming to be of the
left. In the name of human rights they legitimize aggression against
sovereign countries. Or they moderate their opposition so much that it
becomes only symbolic.

Human rights is for the rubbish bin, then?

J.B. I defend the aspirations in the Universal Declaration on Human
Rights of 1948. It contains a collection of economic, social,
political and individual rights. The problem arises when lack of
respect, real or presumed, serves to legitimize war, embargoes and
other sanctions against a country and when human rights becomes the
pretext for a violent assault on that country. Moreover it often
happens that only part of the Declaration is cited. When people talk
of human rights, economic and social rights are often considered
relatively unimportant compared with individual and political rights.
Take, for example, the quality of health care in Cuba. This is a
remarkable development of a socio-economic right. But it is totally
ignored.
While it is true that Cuba conforms perfectly to the very critical
description given it by Reporters without Frontiers, this in no way
reduces the importance of the quality of its health care. When
speaking of Cuba, if you express reservations about lack of respect
for political and individual rights you must at least mention the
importance of economic and social rights from which the Cubans
benefit. What is more important, the rights of individuals or health
care? But no-one reasons like this. The right to housing, food,
existence and health: these are usually ignored by the defenders of
human rights.

In fact, your book shows that these rights are ignored in the media
campaigns against Socialist countries, like Cuba or China. You write
that four million lives could have been saved if India had adopted the
Chinese path.

J.B. The economists Jean Drèze and Amartya Sen estimate that,
departing from a similar base, China and India have followed different
development paths and that the difference between the social systems
of these two countries results in about 3.9 million extra deaths in
India every year. In Latin America 285,000 lives would be saved each
year if Cuban health and food policies were applied.
I am not saying that social and economic performance can justify
deficiencies in other fields of human rights. But no-one would
maintain that the contrary is true: respect for individual and
political rights does not justify flouting social and economic rights.
Why do the defenders of human rights never say so? Let us come back to
Cuba. Can the lack of individual freedoms be justified by effective
health care? That can be discussed. If, in Cuba, there was a
pro-Western regime, it is certain that health care would not be so
effective. This can be deduced from the state of people's health in
the "pro-Western" countries of Latin America. Hence, in practical
terms there is a choice between the different types of human rights:
what are most important, the social and economic ones, or the
political and individual ones?
It would of course be best to have both together. The Venezuelan
president Chávez, for example, is trying to reconcile them. But the US
interventionist policy makes this reconciliation difficult in the
Third World. What I would like to emphasize is that it is not for us,
in the West, who benefit from the two kinds of rights, to lay down
what choice is to be made. We should rather put our energies into
enabling the Third World countries to carry out their development
independently, in the hope that this will eventually help these rights
to emerge.

Is there not a great difference between how human rights and the duty
to intervene are perceived according to whether you come from the
North or the South of the planet?

J.B. In 2002, not long before the war against Iraq, I went to Damascus
in Syria and Beirut in Lebanon. I met quite a few people. To say that
they opposed the war against Iraq is putting it mildly. And that was
the case even at the American University of Beirut. Anti-Americanism
and fierce opposition against Israel was tremendous.
When I returned to Belgium I saw no evidence of this at all. Take the
question of the disarmament of Iraq. Certain members of the CNAPD
(Belgian anti-war coordinating body) told me that this disarmament had
to be imposed, although not of course by military, but through
peaceful means. If these proposals were advocated in the Middle East,
people would immediately reply: "And Israel, why should it not be
disarmed?"
In Latin America, and in the Arab-Muslim world particularly, the
perception of international law is totally different from ours here,
even among the left and the extreme left. The latter do not appear to
be interested to know what the populations immediately concerned think
about our interventions.

Why is that? Is it a question of navel-gazing? Or of ethnocentricity?

J.B. During decolonization and the Vietnam War, the left adopted a new
attitude. It defended an anti-imperialist policy in economic, military
and social affairs. Since then this attitude has been undermined by
intervention in the name of human rights. The opposition to
neo-colonialism has been replaced by the desire to help the peoples of
the South to fight against their dictatorial, inefficient and corrupt
governments...Those who support this position are not aware of the
chasm that separates them from the peoples of the Third World, who do
not generally accept the intervention of the Western governments into
their internal affairs.
Of course many of them desire more democratic and more honest
governments. But why? Because such rulers would manage their natural
resources more rationally, obtain better prices for their primary
commodities, protect them from control by the multinationals and even
build up powerful armies.
When certain people here speak about more democratic governments, they
do not mean any of these things. Truly democratic governments in the
South would be more like that of Chávez than that of the current Iraqi
government.

Is there not a background of colonial ideology in all this?

J.B. Perhaps, but it is presented in a post-colonial language.
Everyone condemns colonialism. Those who defend the current wars
insist that humanitarian intervention is "totally different" from
colonialism. However, one can only remark the continuity in this
change. Intervention was first legitimized by Christianity, then by a
civilizing mission - also by anti-Communism. Our claim to superiority
has always authorized us to commit a series of monstrous actions.

What is the role of the media in propagating this "humanitarian
imperialism"?

J.B. It is fundamental. In the case of the Yugoslav war, the media was
used to prepare public opinion for such attacks. As with Iraq, the
journalists are constantly repeating "all the same, it is a good thing
that Saddam Hussein has been overthrown." But to what extent is it
legitimate for the United States to overthrow Saddam Hussein? This
question is never posed in the newspapers. Do the Iraqis consider that
this intervention benefits them? If this is the case, why do more than
80 per cent of them desire the departure of the United States? The
press criticizes the United States, but its criticism is mostly about
the methods used during the war and the occupation, not about the very
principle of intervention.

Would the United States be less likely to make war under a Democratic
president?

J.B. That largely depends on the way in which the occupation of Iraq
winds up. There are many voices in the United States that call for the
withdrawal of the troops and there is a climate of panic in many
sectors of the society. If, as in Vietnam, the Iraq war concludes with
a catastrophe, there could be a considerable interlude from such
policies for a while. If the retreat goes smoothly, if there is not
too much damage, they could then rapidly go off to war again. But it
is a widespread illusion that the Democrats are less aggressive and
that they do not support military interventions.

Why is the reaction to the war by progressive Europeans so weak?

J.B. The ecologists, the Socialist left, the traditional Communist
parties, the Trotskyites and most of the NGOs have opposed the war
very feebly. Their positions have been undermined by the ideology of
humanitarian intervention and all serious references to socialism in
their programme have been abandoned. Part of this left has substituted
the struggle for human rights for its initial aims of social
improvements or revolution.
As it is difficult for these movements to defend the war of the USA
against Yugoslavia and Iraq, they adopt the rather convenient position
of "Neither, nor". "Neither Bush nor Saddam": this enables them to
avoid any criticism. Of course I can understand why Saddam Hussein is
not liked. But the implications of the "Neither, nor" position go well
beyond this.
First, it does not recognize the legitimacy of international law. It
does not distinguish between the aggressors and the aggressed. Just to
make a comparison: it would have been difficult, during the Second
World War, to affirm "Neither Hitler, nor Stalin" without being
considered a collaborator.
Second, this approach underestimates the extent of the damage caused
by the United States since 1945. Since the end of the Second World
War, they have been intervening everywhere in the world to support or
install conservative and reactionary forces, from Guatemala to the
Congo, from Indonesia to Chile. They have been busy killing the hope
of the poor for social change everywhere. It is they, and not Saddam
Hussein, who want to overthrow Hugo Chávez. The Vietnam War was
nothing to do with Saddam Hussein. Even if it is admitted that
Milosevic and Saddam Hussein have been demonized, putting them in the
same category as the USA at the world level is, for them, totally
unjust and false.
Finally, what upsets me most with this "Neither, nor" attitude is the
position that we assume, by adopting such slogans, towards our own
responsibility.
When we see policies that don't like in the Third World, we must begin
by discussing them with the people who live there, and do this with
organizations that represent large sections of the population, not
with little groups or isolated individuals. We must try to see if
their priorities are the same as ours. I hope that the alternative
world movement will create channels of communication that promote a
better understanding of the viewpoints of the South. For the time
being, the Western left tends to stay in its corner, having very
little influence in its own home base and indirectly playing the game
of imperialism by demonizing the Arabs, the Russians, the Chinese - in
the name of democracy and human rights.
What we are mainly responsible for is the imperialism of our own
countries. Let us start by tackling that - and effectively!


Thanks to Victoria Bawtree for the translation!

Jean Bricmont. Impéralisme humanitaire. Droits de l'Homme, droit
d'ingérence, droit du plus fort?, Ed. Aden, 2005, 253 pages, 18 euros.
Can be ordered from éditions Aden :
http://www.rezolibre.com/librairie/detail.php?article=98

See also (in French) : Biography of Jean Bricmont
http://www.michelcollon.info/bio_invites.php?invite=Jean%20Bricmont

Jean Bricmont - Quelques remarques sur la violence, la démocratie et
l'espoir:
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2005-03-16%2017:32:42&log=invites

Jean Bricmont - Européens, encore un effort si vous voulez vous
joindre au genre humain!
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2003-02-16%2018:24:22&log=invites

Jean Bricmont and Diana Johnstone - Les deux faces de la politique
américaine
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2001-11-07%2018:35:48&log=invites

On the war on Iraq and its causes, see also the new book:
"Bush, le cyclone" : http://www.michelcollon.info/bush_le_cyclone.php