Informazione


Partigiani italiani nei Balcani: iniziative e documentazione

1) Parma: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale, fino al 30 novembre
2) RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi


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Da: "Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma" <comitatoantifasc_pr@...>
Data: 23 novembre 2013 15.55.26 GMT+01.00
Oggetto: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale da oggi 23 novembre

I soldati italiani del "Battaglione Gramsci" partigiani contro i nazifascisti in Albania
in mostra fotografica a Palazzo Sanvitale (Parco Ducale di Parma) dal 23 novembre
 
Come sul fronte jugoslavo l'indomani dell'8 settembre '43 migliaia e migliaia (quarantamila) soldati italiani non si arresero ai tedeschi e scelsero di combattere contro i nazifascisti al fianco dei partigiani della Resistenza jugoslava, così in Albania l'indomani dell'8 settembre militari italiani della 41a Divisione fanteria "Firenze" e della 53a Divisione fanteria "Arezzo" costituirono il "Battaglione Antonio Gramsci" che combattè contro i nazifascisti insieme con l'Esercito Albanese di Liberazione Nazionale fino alla completa liberazione dell'Albania.
La mostra fotografica “Da oppressori a combattenti per la libertà" ripercorre la storia del glorioso “Battaglione Antonio Gramsci”. La mostra viene inaugurata a Palazzo Sanvitale di Parma (all'interno del Parco Ducale) sabato 23 novembre alle 15. In serata ex-combattenti del “Battaglione Antonio Gramsci” racconteranno della loro esperienza in Albania. Inoltre verranno consegnate ai militari italiani del Gramsci delle onorificenze firmate dal Presidente della Repubblica albanese.

L'iniziativa è organizzata dall’"Associazione Scanderbeg", associazione albanese a Parma e Provincia, col patrocinio del Comune e della Provincia di Parma, nell'ambito della "Settimana della cultura albanese” a Parma dal 23 al 30 novembre.


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RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi

Sono andati recentemente in onda, nell'ambito della trasmissione R.A.M. su RaiStoria, tre servizi a cura di Massimo Sangermano (regista) ed Eric Gobetti (storico), dedicati alla Divisione italiana partigiana Garibaldi in Jugoslavia:

04/11/2013 : La divisione Garibaldi. La scelta

11/11/2013 : La divisione Garibaldi. Un’alleanza particolare

18/11/2013 : La divisione Garibaldi. Una memoria scomoda, di Massimo Sangermano.

La terza puntata della serie è la più importante delle tre: essa pone la grave questione storiografica della rimozione della memoria della Divisione Garibaldi in Jugoslavia. Rimozione per la quale - lo scopriamo grazie a Gobetti - esistono gravi e dirette responsabilità fin dentro Casa Savoia...

Per quanto ci riguarda, con il passaggio della Divisione di fanteria da montagna «Venezia» nel II Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, il 9 ottobre 1943, NASCEVA IL NUOVO ESERCITO dell'Italia DEMOCRATICA. A sostenerci nella nostra opinione è nientemeno che SANDRO PERTINI:

<< La nascita del nuovo esercito italiano "inteso come esercito democratico antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale" deve essere anticipata ... al 9 ottobre 1943, quando il Generale Oxilia, Comandante della Divisione di Fanteria da montagna "Venezia", forte di dodicimila uomini, dette ordini alle sue truppe di attaccare i nazisti, coordinando le azioni militari con l'esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. >>

Grazie agli autori per averci fatto rivedere, in quella terza puntata, le immagini preziose del 21 settembre 1983 a Pljevlja, in Montenegro, quando fu inaugurato il monumento alla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, alla presenza di Sandro Pertini e di Giulio Andreotti.

Per altra documentazione sulla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi si veda la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/garibaldi_scotti.htm

(a cura di AM per JUGOINFO)





16 aprile 2013

Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)


di Eric Gobetti
casa editrice: Laterza
anno di pubblicazione: 2013
collana: Quadrante Laterza
pagine: 208
prezzo: 19,00 euro
disponibile anche in formato Ebook

Negli anni cruciali della Seconda guerra mondiale, l’Italia fascista impiega enormi risorse militari, diplomatiche, economiche e propagandistiche per imporre il suo dominio su circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo. È una parabola breve, in cui però si condensa tutta la pochezza dell’impero di Mussolini: dai sogni di dominio sui Balcani nella primavera del 1941 al senso di sconfitta nell’estate del 1943. Efficacemente osteggiati dai partigiani di Tito, gli occupanti stringono ambigue alleanze con diverse realtà collaborazioniste, contribuendo a scatenare una feroce guerra civile. Vittime e carnefici al tempo stesso, i soldati del regio esercito combattono con pochi mezzi e scarse motivazioni ideali, costretti a vivere mesi e mesi in condizioni estreme, vinti dalla noia, dalla paura, dall’abbandono e, in fondo, anche dal fascino del ribelle.

Eric Gobetti è uno studioso del fascismo e della Jugoslavia particolarmente sensibile al tema delle identità e dei conflitti nazionali. È autore di "Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista" (L’ancora del Mediterraneo 2001), "L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943)" (Carocci 2007) e del diario-reportage "Nema problema! Jugoslavie, dieci anni di viaggi" (Miraggi edizioni 2011). Ha inoltre curato il volume collettaneo "1943-1945. La lunga liberazione" (Franco Angeli 2007).

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Alleati del nemico

Vittorio Filippi 15 maggio 2013

Una recente pubblicazione ripercorre la storia e le contraddizioni dell'occupazione italiana della Jugoslavia, tra il 1941 e il 1943. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Attaccata dalle truppe tedesche (soprattutto) ed italiane, nell’aprile del 1941 la fragile Jugoslavia monarchica dei Karadjordević capitola e viene rapidamente smembrata. All’Italia arrivano in dote il Montenegro, la Dalmazia, la Slovenia meridionale, il Kosovo e qualcosa della Macedonia; inoltre nasce, con tutela ed ispirazione fasciste, lo Stato degli ustascia croati (l’NDH) guidati da Ante Pavelić.
Il potere italiano che vi si insedia mescola la forte presenza dei militari (si arriverà a ben 300 mila unità, venti divisioni), i diplomatici di Ciano, gli interessi dei gruppi industriali e finanziari nonché il protagonismo dei Savoia, che hanno pur sempre una regina che viene dal Montenegro. In più c’è da fare i conti con la complessità etnica e perfino antropologica dei Balcani: l’invasione dell’Asse scoperchia infatti un vaso di Pandora fatto di nazionalismi, di violenze etniche e di persecuzioni – soprattutto tra serbi, croati e musulmani - in cui è difficile muoversi e soprattutto capire.
Gli italiani cercano di barcamenarsi con la solita politica del divide et impera ed all’impiego dei collaborazionisti, raggruppati nella Milizia volontaria anticomunista (Mvac). Ma ricorrono anche alla spietatezza della repressione, che mette assai in crisi lo stereotipo del buon soldato italiano. Tanto è vero che fucilazioni, deportazioni (solo il campo sull’isola di Rab/Arbe ospiterà 10 mila prigionieri) e saccheggi daranno agli italiani l’immagine ben poco nobile di incendiari di case (palikući) e di rubagalline. Anche se, a dire il vero, l’atteggiamento verso gli ebrei sarà invece spesso benevolente, arrivando addirittura ad azioni di salvataggio.
A complicare il tutto c’è, a cavallo tra il 1941 ed il 1942, lo scoppio della sanguinosa guerra civile, che opporrà i partigiani di Tito alle forze collaborazioniste, tra cui, di fatto, vi sono i cetnici filomonarchici. Gli italiani diventano, paradossalmente, “alleati del nemico”, secondo la formula con cui l’autore titola efficacemente il libro. Alleati cioè dei cetnici serbi contro gli ustascia ormai sotto influenza tedesca. Una situazione surreale che vede il vojvodadei cetnici Mihailović collaboratore degli italiani ma al tempo stesso ministro della guerra del governo jugoslavo in esilio a Londra, un governo formalmente in conflitto con l’Italia. Per di più da parte dei generali italiani gioca un vero e proprio pregiudizio anti croato e, viceversa, una sorta di ammirazione verso serbi e montenegrini. Che sono visti come guerrieri leali mentre i primi vengono giudicati “untuosi e falsi”.
Ad accentuare la confusione – o la schizofrenia – dei sentimenti italiani vi è anche una crescente ammirazione del movimento partigiano titoista a cui l’autore dedica due paragrafi proprio per sottolinearne la presa ideale e la modernità internazionalistica ed insieme patriottica che sa proporre. Tanto è vero che in diverse unità italiane si attivano contatti con i partigiani, contatti che poi al crollo dell’8 settembre produrranno la totale collaborazione militare con questi ultimi.
Alla metà del 1943 la presenza italiana è ormai in disfacimento e priva di prospettive. In soli due anni l’occupazione di un’area che voleva essere lo sbocco ideale dell’espansionismo nazionalista italiano si era “balcanizzata” sprofondando nella confusione, nell’impotenza e nello scoramento. Oltre a perdere 15 mila uomini tra caduti e dispersi.
La sconfitta dei cetnici, indeboliti dalla loro ambiguità oltre che dalla caduta dell’alleato italiano, toglierà ogni alternativa politica alla Jugoslavia che nasce dalle lotte partigiane. Che sarà repubblicana, federale e socialista. Ma questa è già un’altra storia.

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Un libro che sfata i miti

Categoria: Cultura e spettacoli
Creato Venerdì, 25 Ottobre 2013 15:00
Scritto da Helena Labus Bačić

FIUME L’occupazione italiana di un vasto territorio dell’ex Jugoslavia e i crimini commessi in quei territori dall’esercito del regime fascista nel periodo dal 1941-1943 sono temi ancora spesso trascurati, sottaciuti dalla storiografia e dalla società italiana che, non avendo mai processato i suoi esponenti fascisti, nel dopoguerra ha prodotto il mito, diffusosi poi in tutto il mondo, dell’“italiano buono”. Nel libro ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943”, presentato ieri alla facoltà di Filosofia, lo storico italiano Eric Gobetti sfata il succitato mito e dipinge un quadro diverso dell’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia, che ha compreso la Slovenia meridionale, l’Istria e Fiume, la Dalmazia, la Bosnia ed Erzegovina, il Montenegro e il Kosovo. Come rilevato dallo storico Pietro Purini, oltre che sfatare il cliché degli italiani buoni e sempre pronti ad aiutare la popolazione locale, Gobetti mette in luce la cattiva organizzazione, ovvero il caos organizzativo e istituzionalizzato all’interno dell’apparato italiano, in quanto in certi territori occupati determinate unità dell’esercito rispondevano a diversi comandi. 

“Le forze di occupazione si trovano a dover combattere con un movimento di resistenza forte ed efficace (i partigiani, nda) e in questo contesto, gli italiani si macchiano di crimini che non sono diversi da quelli che riguardano la Wehrmacht – sottolinea Purini -. Com’era il caso con gli occupatori tedeschi, anche quelli italiani fanno il conteggio delle vittime, uccidendo dieci jugoslavi per un italiano. Vengono distrutti e incendiati interi villaggi, istituiti campi di concentramento…”, aggiunge lo storico, ricordando che, nonostante le reiterate richieste del governo jugoslavo nel dopoguerra, questi crimini di guerra non sono stati mai processati, grazie all’amnistia richiesta da Togliatti. Purini sottolinea un altro aspetto interessante che viene analizzato nel libro, ossia il sistema delle alleanze che gli italiani instaurarono con la parte più conservatrice dei movimenti esistenti nei territori occupati, avviando collaborazioni con gli ustascia e i cetnici, per nominare soltanto quelli più rilevanti.
L’autore ha esordito affermando che l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia non è un tema marginale, anche se nel corso dei decenni è stato sempre sminuito dall’opinione pubblica sia jugoslava sia italiana. “Si è preferito parlare dell’occupazione tedesca, mentre quando si faceva riferimento all’Italia venivano menzionati sempre altri fronti di guerra dai quali il Belpaese è sempre uscito sconfitto. Nel caso jugoslavo, invece, l’Italia è un occupatore vincente, con addirittura 300mila soldati disseminati in questi territori. Per fare un paragone, in Russia vengono mandati appena 60mila uomini”, ha puntualizzato Gobetti, soffermandosi sul tema del collaborazionismo nei territori occupati. Dal 1941 al 1943, il comando di Tito e il movimento partigiano si rafforzano, mentre al contempo si sviluppano i movimenti collaborazionisti (primi fra tutti gli ustascia croati e i cetnici serbi). 
“L’aspetto del collaborazionismo è significativo da tutti i punti di vista. Gli italiani stabiliscono alleanze che spesso risultano delle contraddizioni che si trascinano in tutto il periodo di occupazione. L’alleanza con gli ustascia inizia già nel 1929, quando Ante Pavelić è in esilio in Italia. Ed è proprio lì che nasce il movimento ustascia, che raggiunge il suo apice nel 1941, quando Pavelić diventa dittatore dello Stato croato indipendente (NDH). Ma l’alleanza tra l’Italia e gli ustascia manifesta un’incoerenza interna. Infatti, gli ustascia sono fascisti e al contempo nazionalisti, per cui vogliono governare lo stesso territorio che è occupato dall’Italia (la Dalmazia). Quindi, questa è una contraddizione che porta gli italiani a stabilire un’alleanza con i cetnici, che sono filoinglesi, in quanto il loro governo si trova in esilio a Londra; di conseguenza si trovano in guerra con l’Italia. Una situazione paradossale.
Lo scrittore Giacomo Scotti, nel commentare quanto esposto da Gobetti, ha definito il volume ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943” come un libro coraggioso perché analizza un aspetto scomodo e sottaciuto della storia italiana. “Il fascismo ha gettato l’onta sul popolo italiano, per cui ammiro il coraggio di Gobetti, che ha messo in luce i delitti fascisti, rimasti coperti da troppo tempo”.

Al termine della presentazione abbiamo voluto sapere dallo storico Gobetti in che modo venga insegnata la Seconda guerra mondiale nelle scuole italiane. “In Italia è diffuso il concetto di ‘Norimberga mancante’, in quanto non c’è mai stato un processo simile in Italia. Questo ha favorito lo stereotipo dell’‘italiano buono’ e l’impressione che sia stato meno peggiore degli altri. Di conseguenza, nelle scuole superiori non si insegna la storia dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e non si parla assolutamente dell’occupazione balcanica. Quest’ultima non si insegna nemmeno nelle università”, ha fatto notare Eric Gobetti. 

Helena Labus Bačić




(in english: “Responsibility to Protect” (R2P): An Instrument of Aggression
by Edward S. Herman
http://www.voltairenet.org/article180927.html )



La « Responsabilité de protéger » (R2P) comme instrument d’agression

par Edward S. Herman

Alors que les néo-conservateurs évoquaient la « révolution mondiale » et la « démocratie » pour justifier l’impérialisme états-unien, les faucons libéraux préfèrent dénoncer le « risque de génocide » et promouvoir la « responsabilité de protéger ». Au demeurant ces nouveaux concepts ne sont jamais que la réactualisation du vieux discours colonial en faveur de la « civilisation ». En définitive, ces belles paroles servent exclusivement à masquer la loi du plus fort.

RÉSEAU VOLTAIRE  | 9 NOVEMBRE 2013

La « responsabilité de protéger » est une fausse doctrine conçue pour miner les fondements mêmes du droit international. C’est le droit réécrit en faveur des puissants. « Les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. »
La Responsabilité de Protéger (R2P) et le concept d’intervention humanitaire datent tous les deux du lendemain de l’effondrement de l’Union Soviétique —qui levait subitement toutes les entraves que cette Grande Puissance avait pu jusqu’ici opposer à la constante projection de puissance des États-Unis—. Dans l’idéologie occidentale, bien sûr, les États-Unis s’étaient efforcés depuis la Seconde Guerre mondiale de contenir les Soviétiques ; mais ça, c’est l’idéologie… En réalité, l’Union Soviétique avait toujours été bien moins puissante que les États-Unis, avec des alliés plus faibles et moins fiables, et de 1945 à sa disparition en 1991 elle avait finalement toujours été sur la défensive. Agressivement lancés à la conquête du monde depuis 1945, les États-Unis, eux, n’avaient de cesse d’augmenter le nombre de leurs bases militaires dans le monde, de leurs sanglantes interventions grandes ou petites sur tous les continents, et bâtissaient méthodiquement le premier empire véritablement planétaire. Avec une puissance militaire suffisante pour constituer une modeste force d’endiguement, l’Union Soviétique freinait l’expansionnisme états-unien mais elle servait aussi la propagande états-unienne en tant que soi-disant menace expansionniste. L’effondrement de l’Union Soviétique engendrait donc un besoin vital de nouvelles menaces pour justifier la continuation voire l’accélération de la projection de puissance US, mais on pouvait toujours en trouver : depuis le narco-terrorisme, Al-Qaïda et les armes de destruction massive de Saddam Hussein, jusqu’à une nébuleuse menace terroriste dépassant les limites de la planète et de l’espace environnant.
Tensions inter-ethniques et violations des Droits de l’Homme ayant engendré une prétendue menace globale, planétaire, contre la sécurité, qui risquait de provoquer des conflits encore plus vastes, la communauté internationale (et son superflic) se retrouvaient face à un dilemme moral et à la nécessité d’intervenir dans l’intérêt de l’humanité et de la justice. Comme nous l’avons vu, cette poussée moraliste arrivait justement au moment où disparaissait l’entrave soviétique, où les États-Unis et leurs proches alliés célébraient leur triomphe, où l’option socialiste battait de l’aile et où les puissances occidentales avaient enfin toute liberté d’intervenir à leur guise. Bien sûr, tout cela impliquait de passer outre le principe westphalien multiséculaire gravé au centre des relations internationales —à savoir le respect de la souveraineté nationale— qui, si l’on y adhérait, risquait de protéger les pays les plus petits et les plus faibles contre les ambitions et les agressions transfrontalières des Grandes Puissances. Cette règle était en outre l’essence même de la Charte des Nations Unies et on peut dire qu’elle était même la clé de voûte de ce document que Michael Mandel décrivait comme « la Constitution du monde ». Passer outre cette règle et le principe de base de cette Charte impliquait l’entrée en lice de la Responsabilité de Protéger (R2P) et des Interventions Humanitaires (IH), et ouvrait à nouveau la voie à l’agression pure et simple, classique, avec des visées géopolitiques, mais parée désormais du prétexte commode de la R2P et de l’IH.
Bien évidemment, lancer des interventions humanitaires transfrontalières au nom de la R2P reste l’apanage absolu des Grandes Puissances —spécificité communément admise et regardée comme parfaitement naturelle à chaque fois que ces mesures ont été appliquées au cours des dernières années—. Les Grandes Puissances sont seules à disposer des connaissances et des moyens matériels nécessaires pour mener à bien cette œuvre sociale planétaire. En effet, comme l’expliquait en 1999 Jamie Shea, responsable des relations publiques de l’Otan, lorsque on commença à se demander si le personnel de l’Otan ne risquait pas d’être poursuivi pour les crimes de guerre liés à la campagne de bombardements de l’Alliance contre la Serbie, ce qui découlait logiquement du texte même de la Charte du TPIY (Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie) : Les membres de l’Otan ont « organisé » le TPIY et la Cour Internationale de Justice. Ils « financent ces tribunaux et soutiennent quotidiennement leurs activités. Nous sommes les défenseurs, non les violateurs du droit international ». La dernière phrase est évidemment contestable mais pour le reste, Shea avait parfaitement raison.
Détail particulièrement éloquent, lorsqu’un groupe de juristes indépendants déposa en 1999 un dossier détaillé qui documentait les violations manifestes des règles du TPIY par l’Otan, après un délai considérable et suite à des pressions exercées ouvertement par les responsables de l’Alliance, les plaintes contre l’Otan étaient déboutées par le procureur du TPIY au prétexte que, avec seulement 496 victimes documentées tuées par les bombardements, il n’y avait « simplement aucune preuve d’intention criminelle » imputable à l’Otan —alors que pour inculper Milosevic en mai 1999, 344 victimes suffisaient largement—. On trouvera intéressant aussi que le procureur de la Cour Pénale Internationale (CPI), Luis Moreno-Ocapmo, ait lui aussi refusé de poursuivre les responsables de l’Otan pour leur agression contre l’Irak en 2003, malgré plus de 249 plaintes portées auprès de la CPI, au prétexte que là aussi, « il n’apparaissait pas que la situation ait atteint le seuil requis par le Statut de Rome » pour intenter une action en justice.
Ces deux cas montrent assez clairement que les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P (et des IH) exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. Leurs alliés et clients en sont d’ailleurs exempts aussi. Ce qui signifie très clairement que, dans le monde réel, personne n’a le devoir de protéger les Irakiens ou les Afghans contre les États-Unis, ou les Palestiniens contre Israël. Lorsque sur une chaîne nationale en 1996, la secrétaire d’État, Madeleine Albright, reconnaissait que 500 000 enfants irakiens [de moins de cinq ans] avaient sans doute perdu la vie, victimes des sanctions imposées à l’Irak par l’Onu (en réalité par les États-Unis), et déclarait : Pour les responsables états-uniens « l’enjeu en vaut la peine » ; il n’y eut de réaction ni sur le plan national ni sur le plan international pour exiger la levée de ces sanctions et le déclenchement d’une IH en application de la R2P, afin de protéger les populations irakiennes qui en étaient victimes. De même aucun appel ne fut lancé pour une IH au nom de la R2P pour protéger ces mêmes Irakiens lorsque les forces anglo-américaines envahirent l’Irak en mars 2003 ; invasion qui, doublée d’une guerre civile induite, allait faire plus d’un million de morts supplémentaires.
Lorsque la Coalition Internationale pour la Responsabilité de Protéger, sponsorisée par le Canada, se pencha sur la guerre d’Irak, ses auteurs conclurent que les exactions commises en Irak par Saddam Hussein en 2003, n’étaient pas d’une ampleur suffisante pour justifier une invasion. Mais la coalition ne souleva jamais la question de savoir si les populations irakiennes n’auraient pas de factobesoin d’être protégées contre les forces d’occupation qui massacraient la population. Ils campaient simplement sur l’idée que les Grandes Puissances, qui imposent le respect du droit international, même lorsque leurs guerres d’agression violent ouvertement la Charte des Nations Unies et font des centaines de milliers de morts, restent au-dessus des lois et ne peuvent faire l’objet d’une R2P.
Et c’est comme ça depuis le sommet de la structure internationale du pouvoir, jusqu’en bas : George Bush, Dick Cheney, Barack Obama, John Kerry, Susan Rice, Samantha Power au sommet et en descendant Angela Merkel, David Cameron, François Hollande, puis au-dessous Ban Ki-Moon et Luis Moreno-Ocampo —qui n’ont aucune base politique en dehors du monde des affaires et des médias—. Ban Ki-Moon et son prédécesseur Kofi Annan ont toujours œuvré ouvertement au service des principales puissances de l’Otan, auxquelles ils doivent leur position et leur autorité. Kofi Annan était un fervent partisan de l’agression de l’Alliance contre la Yougoslavie, de la nécessité de renforcer la responsabilité des puissances de l’OTAN, et de l’institutionnalisation de la R2P. Ban Ki-Moon est exactement sur la même fréquence.
Cette même structure internationale du pouvoir implique aussi la possibilité de créer et d’utiliser à volonté des tribunaux internationaux ad hoc et des Cours Internationales contre des pays cibles. Ainsi en 1993, lorsque les États-Unis et leurs alliés souhaitaient démanteler la Yougoslavie et affaiblir la Serbie, ils n’avaient qu’à utiliser le Conseil de Sécurité [dont les États-Unis, le Royaume-Uni et la France sont membres permanents] pour créer un tribunal précisément à cet effet, le TPIY, qui allait s’avérer parfaitement fonctionnel. De même, lorsqu’ils souhaitaient aider un de leurs clients, Paul Kagame, à assoir sa dictature au Rwanda, ils créèrent le même type de tribunal : le TPIR (ou tribunal d’Arusha). Lorsque ces mêmes pays souhaitèrent attaquer la Libye et en renverser le régime, il leur suffit de faire condamner Kadhafi par la CPI pour crimes de guerre, aussi rapidement que possible et sans contre-enquête indépendante sur aucune des allégations de crime, lesquelles reposaient essentiellement sur des anticipations de massacres de civils [jamais commis]. Bien sûr, comme nous l’avons vu plus haut, concernant l’Irak, la CPI ne trouvait vraiment rien qui puisse justifier des poursuites contre l’occupant, dont les massacres de civils étaient de proportions autrement supérieures et avaient bel et bien été commis, et non simplement anticipés. En réalité, un vaste Tribunal International pour l’Irak a finalement été organisé afin de juger les crimes commis en Irak par les États-Unis et leurs alliés [le BRussell Tribunal], mais sur une base privée et avec un parti-pris clairement anti-belliciste. De fait, bien que ses séances se soient tenues très officiellement dans de nombreux pays et que de nombreuses personnalités importantes y soient venues témoigner, les médias n’y prêtèrent littéralement aucune attention. Ses dernières sessions et son rapport, rendu en juin 2005, ne furent même évoqués dans aucun grand média nord-américain ou britannique.
La R2P correspond parfaitement à l’image d’un instrument au service d’une violence impériale exponentielle, qui voit les États-Unis et leur énorme complexe militaro-industriel engagés dans une guerre mondiale contre le terrorisme et menant plusieurs guerres de front, et l’Otan, leur avatar, qui élargit sans cesse son « secteur d’activité » bien que son rôle supposé d’endiguement de l’Union Soviétique ait expiré de longue date. La R2P repose très commodément sur l’idée que, contrairement à ce qui était la priorité des rédacteurs de la Charte des Nations Unies, les menaces auxquelles le monde se trouve aujourd’hui confronté ne dérivent plus d’agressions transfrontalières comme c’était traditionnellement le cas, mais émanent des pays eux-mêmes. C’est parfaitement faux ! Dans son ouvrageFreeing the World to Death [1], William Blum dresse une liste de 35 gouvernements renversés par les États-Unis entre 1945 et 2001 (sans même compter les conflits armés déclenchés par George W. Bush et Barak Obama).
Dans le monde réel, tandis que la R2P parait merveilleusement auréolée de bienveillance, elle ne peut être mise en œuvre qu’à la demande exclusive des principales puissances de l’Otan et ne saurait donc être utilisée dans l’intérêt de victimes sans intérêt, à savoir celles de ces mêmes Grandes Puissances [ou de leurs alliés et clients] [2]. Jamais on n’invoqua la R2P [ou quoi que ce soit de similaire] pour mettre fin aux exactions lorsque en 1975 l’Indonésie décida d’envahir et d’occuper durablement le Timor Oriental. Cette occupation allait pourtant se solder par plus de 200 000 morts sur une population de 800 000 au total —ce qui proportionnellement dépassait largement la quantité de victimes imputables à Pol Pot au Cambodge—. Les États-Unis avaient donné leur feu vert à cette invasion, fourni les armes à l’occupant et lui offraient leur protection contre toute réaction de l’Onu. Dans ce cas précis, il y avait violation patente de la Charte des Nations Unies et le Timor avait impérativement besoin de protection. Mais dès lors que les États-Unis soutenaient l’agresseur, on n’entendrait jamais parler de réponse des Nations Unies. [3]
Comble d’ironie mais particulièrement révélateur, Gareth Evans, ex-Premier ministre d’Australie, ex-Président de l’International Crisis Group [4], co-fondateur de la Commission Internationale sur l’Intervention et la Souveraineté Internationale, lui-même auteur d’un ouvrage sur la R2P et qui aura sans doute été le principal porte-parole en faveur de la R2P comme instrument de justice internationale, était Premier ministre d’Australie pendant l’occupation génocidaire du Timor Oriental par l’Indonésie et en tant que tel fêtait et encensait les dirigeants indonésiens, dont il était ouvertement complice pour spolier le Timor de ses droits sur ses réserves naturelles de pétrole [5]. Evans était donc lui-même complice et contributeur de l’un des pires génocides du XXe siècle. Vous imaginez la réaction des médias à une campagne en faveur des Droits de l’Homme menée sans le soutien de l’Otan, et ayant pour porte-parole un dignitaire chinois qui aurait entretenu des relations très amicales avec Pol Pot pendant les pires années de sa dictature ?
Ce qui est réellement éloquent c’est de voir comment Evans gère ce passif notoire pour promouvoir la R2P. Interrogé à ce sujet lors d’une session de l’Assemblée Générale des Nations Unies sur la R2P, Evans en appelait au bon sens : La R2P « se définit d’elle-même », et les crimes mis en cause, y compris le nettoyage ethnique, sont tous intrinsèquement révoltants et par leur nature même d’une gravité qui exige une réponse […]. Il est réellement impossible de parler ici de chiffres précis ». Evans souligne que parfois, des chiffres minimes peuvent suffire : « Nous nous souvenons très clairement de l’horreur de Srebrenica… [8 000 morts seulement]. Avec ses 45 victimes au Kosovo en 1999, Racak suffisait-il à justifier la réponse qui fut déclenchée par la communauté internationale ? » En fait, l’événement de Racak avait effectivement paru suffisant pour une bonne et simple raison : il donnait un coup d’accélérateur au programme de démantèlement de la Yougoslavie d’ores et déjà lancé par l’Otan. Mais Evans évite soigneusement de répondre à sa propre question au sujet de Racak. Inutile de dire qu’Evans ne s’est jamais demandé et n’a jamais cherché à expliquer pourquoi le Timor Oriental, avec plus de 200 000 morts n’avait jamais suscité aucune réaction de la communauté internationale ; et l’Irak pas davantage malgré un million de morts dus aux sanctions, dont 500 000 enfants de moins de cinq ans et plus d’un million supplémentaires suite à l’invasion. Les choix sont ici totalement politiques mais manifestement, Evans a si parfaitement intégré la perspective impériale qu’un aussi vertigineux écart ne le révolte pas le moins du monde. Mais ce qui est encore plus extraordinaire, c’est qu’un criminel de cette envergure avec un parti pris aussi évident puisse être considéré internationalement comme une autorité dans ce domaine et que des positions aussi ouvertement partiales que les siennes puissent être regardées avec respect.
Il est intéressant aussi de constater qu’Evans ne mentionne jamais Israël et la Palestine, où un nettoyage ethnique est activement mené depuis des décennies et ouvertement —comme en témoigne le très grand nombre de réfugiés aux quatre coins du monde—. D’ailleurs, aucun autre membre de la pyramide du pouvoir ne considère la région israélo-palestinienne comme une zone révoltante où la nature et l’envergure des exactions commises exige une réponse de la « communauté internationale ». Pour obtenir le titre de représentante permanente des États-Unis auprès de l’ONU, Samantha Power jugea même nécessaire de se présenter très officiellement devant un groupe de citoyens états-uniens pro-israéliens pour les assurer, les larmes aux yeux, de son profond regret pour avoir laissé entendre que l’AIPAC était une puissante organisation sur l’influence de laquelle il serait nécessaire de reprendre contrôle afin de pouvoir développer une politique à l’égard d’Israël et de la Palestine qui puisse œuvrer dans l’intérêt des États-Unis. Elle prêta même serment de rester dévouée à la sécurité nationale d’Israël. Manifestement, le monde devra attendre longtemps avant que Samantha Power et ses parrains exigent que la R2P soit appliquée aussi au nettoyage ethnique de la Palestine.
En définitive, dans le monde post-soviétique, la structure internationale du pouvoir n’a fait qu’aggraver l’inégalité internationale, renforçant dans le même temps l’interventionnisme et la liberté d’agression des Grandes Puissances. L’accroissement du militarisme a certainement contribué à l’accroissement des inégalités mais il a surtout été conçu pour servir et favoriser la pacification, tant à l’étranger que dans nos propres pays. Dans un tel contexte, IH et R2P ne sont que des évolutions logiques qui apportent une justification morale à des actions qui scandaliseraient énormément de gens et qui, éclairées froidement, constituent des violations patentes du droit international. Présentant les guerres d’agressions sous un jour bienveillant, la R2P en est devenu un instrument indispensable. En réalité, c’est seulement un concept aussi frauduleux que cynique et contraire à la Charte des Nations Unies.

Traduction 
Dominique Arias

       

[1] Common Courage, 2005, Ch. 11 et 15.

[2] Cf. Manufacturing Consent, Ch. 2 : « Worthy and Unworthy Victims ».

[3] Ndt : En tant que membre permanent du Conseil de Sécurité de l’ONU, les USA ont droit de veto sur toutes les décisions de l’ONU ; or toute décision d’intervention ou de sanction passe nécessairement par le Conseil de Sécurité

[4] L’International Crisis Group : officiellement, ONG engagée dans la prévention et le règlement des conflits internationaux, financée par George Soros.

[5] Cf. John Pilger “East Timor : a lesson in why the poorest threaten the powerful,” April 5, 2012, pilger.com.






Al via la nuova missione Libia

di Manlio Dinucci 
da il manifesto, 19 novembre 2013

Dopo aver demolito lo stato libico con 10mila attacchi aerei e forze speciali infiltrate, Stati uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna dichiarano la propria «preoccupazione per l’instabilità in Libia». 

La Farnesina informa che a Tripoli sono in corso violenti scontri tra milizie anche con armi pesanti e che sono stati danneggiati numerosi edifici, per cui la sicurezza non è garantita nemmeno nei grandi hotel della capitale. Non solo per gli stranieri, ma anche per i membri del governo: dopo il rapimento un mese fa del primo ministro Ali Zeidan dalla sua residenza in un hotel di lusso, domenica è stato rapito all’aeroporto il vicecapo dei servizi segreti Mustafa Noah. E mentre nella capitale miliziani di Misurata sparano su cittadini disarmati esasperati dalle violenze, a Bengasi prosegue senza soluzione di continuità la serie di omicidi di matrice politica.

Che fare? Il presidente Obama ha chiesto al premier Letta di «dare una mano in Libia» e questi ha subito accettato. La sua affidabilità è fuori discussione: nel 2011 Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, è stato uno dei più accesi sostenitori della guerra Usa/Nato contro la Libia. Sarà ricordata sui libri di storia la sua celebre frase: «Guerrafondaio è chi è contro l'intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo costruttori di pace». 

Ora, mentre la Libia sprofonda nel caos provocato dai «costruttori di pace», è arrivato il momento di agire. L’ammiraglio William H. McRaven, capo del Comando Usa per le operazioni speciali, ha appena annunciato che sta per essere varata una nuova missione: addestrare e armare una forza libica di 5-7mila soldati e «una unità più piccola, separata, per missioni specializzate di controterrorismo». 

Specialisti del Pentagono e della Nato sono già in Libia per scegliere gli uomini. Ma, data la situazione interna, questi verranno addestrati fuori dal paese, quasi certamente in Italia (in particolare in Sicilia e Sardegna) e forse anche in Bulgaria, secondo un programma agli ordini del Comando Africa del Pentagono. 

L’ammiraglio McRaven non nasconde che «vi sono dei rischi: una parte dei partecipanti all’addestramento può non avere la fedina pulita». È molto probabile quindi che tra di loro vi siano criminali comuni o miliziani che hanno torturato e massacrato (elementi che, una volta in Italia, potranno circolare liberamente). E tra quelli addestrati in Italia vi saranno anche i guardiani dei lager libici in cui vengono rinchiusi i migranti. 

Per il loro addestramento e mantenimento non basteranno i fondi già stanziati per la Libia nel decreto missioni all’esame del parlamento: ne occorreranno altri molto più consistenti, sempre attinti dalle casse pubbliche. 

L’Italia contribuirà in tal modo alla formazione di truppe che, essendo di fatto agli ordini dei comandi Usa/Nato, saranno solo nominalmente libiche: in realtà avranno il ruolo che avevano un tempo le truppe indigene coloniali. Scopo della missione non è quello di stabilizzare la Libia perché torni ad essere una nazione indipendente, ma quello di controllare la Libia, di fatto già balcanizzata, le sue preziose risorse energetiche, il suo territorio strategicamente importante. 

Ci permettiamo di dare un consiglio al governo Letta: l’Expo galleggiante della Cavour, rientrando nel Mediterraneo ad aprile dopo il periplo dell’Africa, potrebbe fare tappa anche in Libia per pubblicizzare i prodotti del Made in Italy. Come il cannone a fuoco rapido Vulcano della Oto Melara che, in mano ai libici che oggi mitragliano i barconi dei migranti, potrebbe risolvere il problema dell’emigrazione clandestina.




Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Trieste USB" <trieste @ usb.it>
Data: 21 novembre 2013 10.24.36 GMT+01.00
A: "Trieste USB" <trieste @ usb.it>
Oggetto: testo nostro intervento sulla situazione della Bibliotca nazionale slovena e degli studi all'assemblea "La precarietà della storia" del 7 ottobre

In allegato il testo del nostro intervento all’assemblea del 7 ottobre. Nel ritenere che opinione pubblica e rappresentanze politiche abbiano il diritto/dovere di esprimersi in merito a quanto sta accadendo rimaniamo a disposizione per approfondimenti e chiarimenti.
Cordiali saluti
USB Lavoro privato - FVG


IL CASO DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE SLOVENA E DEGLI STUDI

USB LAVORO PRIVATO Trieste
Intervento all'incontro pubblico “LA PRECARIETÀ DELLA STORIA”, Trieste, 7 ottobre 2013


La Biblioteca nazionale slovena e degli studi (BNS) è nata subito dopo la seconda guerra mondiale per iniziativa dei massimi organismi di potere filo jugoslavi nell'ambito del processo di ricostruzione delle istituzioni slovene distrutte dal fascismo. A causa della legislazione essa è nata quale ente privato, anche se viveva esclusivamente grazie ai fondi forniti dagli enti ufficiali jugoslavi a ciò preposti. Viveva quindi di fondi pubblici, »jugoslavi« ma comunque pubblici, il cui utilizzo era sottoposto al controllo di organismi ufficiali jugoslavi. Del suo carattere pubblico testimonia anche il fatto che solo nel 1948 la BNS è divenuta proprietaria formale dei libri e degli arredi dei quali disponeva, che erano stati fino ad allora proprietà della massima organizzazione dell'associazionismo culturale sloveno (e croato) a Trieste, la Slovensko (hrvatska) prosvetna zveza (Unione culturale sloveno croata). Di fatto la BNS è nata allo scopo di essere a disposizione di tutta la minoranza slovena.
In un periodo in cui nessuna autorità locale – né il Governo militare alleato e tanto meno il Comune di Trieste – era disposta a dare vita a un tale ente, a farlo furono gli organismi (para) statali jugoslavi. Tali circostanze storiche hanno portato al fatto che l'ambito delle istituzioni slovene fosse una sorta di mondo a parte (certamente non l'unico) circondato da nemici pronti in ogni istante a distruggerlo. In questo mondo vigevano delle regole particolari e non scritte: le cose si risolvono internamente, in silenzio, personalmente. Se tale approccio aveva allora delle sue precise ragioni e un suo senso, esso era però esposto ad abusi, divenendo in seguito quasi solo un pretesto per coprire abusi e irregolarità.
La stessa denominazione della biblioteca segnalava che si trattava di qualcosa di più di una semplice biblioteca popolare: era nazionale in quanto raccoglieva sopratutto – ma non esclusivamente – pubblicazioni in lingua slovena, ma era anche di studio, un luogo in cui raccogliere in maniera sistematica testi e materiali necessari alle attività di studio di studenti e studiosi. Non si trattava solo di raccogliere e prestare libri, si trattava di portare l'attività bibliotecaria ad un livello più alto, professionale e scientifico. Dato il suo carrattere »di studio« fu del tutto naturale che qualche anno dopo venisse aggregato alla BNS anche la Sezione storia ed etnografia (SSE), nata con il compito di raccogliere sitematicamente, ordinare e valorizzare materiale storiografico e di altro tipo importante per la ricerca a livello scinetifico del passato e del presente degli sloveni in Italia. Come nel caso della biblioteca lo scopo era quello di sistematizzare e portare ad un livello professionale e scientifico questo tipo di attività.
Fino alla fine degli anni '80 del secolo passato l'attività della BNS e della SSE si espanse, assumendo una importanza sempre più ampia, tanto che nel 1976 la Regione Autonoma Friuli – Venezia Giulia le riconobbe lo status di ente di interesse regionale. Poprio alla fine di tale periodo, nel 1989, entrò a far parte della BNS anche la Biblioteca slovena “D. Feigel” di Gorizia. In parallelo era cresciuto anche il numero dei dipendenti, anche se era caratteristico l'ampio ricorso a »collaboratori esterni«, collaboratori a onorario e simili. Con il corollario che non si doveva nemmeno menzionare un qualche tipo di attività sindacale, tutto doveva passare attraverso contatti e accordi personali, il tutto nel nome »del bene del popolo«. Negli anni '90 le cose iniziarono a prendere un indirizzo diverso. I fondi dell'allora già ex Jugoslavia scomparvero, il numero dei dipendenti prese a scendere velocemente e l'ente fu in qualche modo lasciato a sé stesso: l'attrezzatura non veniva rinnovata (tranne quella indispensabile), non c'era alcuna prospettiva che andasse al di la della mera sopravvivenza. Quanto venne fatto in questo periodo – e non si trattò di poca cosa - venne fatto per iniziativa dei dipendenti, che non si limitarono solo ad adattarsi a condizioni di lavoro sempre peggiori cercando di tamponare per quanto possibile le falle. Solo alla loro dedizione va il merito se l'ente è riuscito a mantenere e addirittura accrescere il suo carattere professionale e scientifico. Va però anche sottolineato che proprio tale disponibilità ad adeguarsi e adattarsi senza contestazioni ha contribuito a fare si che si arrivasse alla situazione attuale.
A partire dagli anni '90 i fondi per l'attività della BNS arrivano dalla Slovenia, ma sopratutto dallo Stato italiano, fino al 2000 in base alla legge per le aeree di confine e dal 2001 in base alla legge di tutela della minoranza slovena. E' necessario spendere alcune parole circa le modalità con cui lo Stato italiano finanzia l'attività degli enti della minoranza. In base alla legge di tutela il governo italiano decide di anno in anno l'ammontare dei fondi da mettere a disposizione degli enti della minoranza sloveni a sua discrezione, non essendo vincolato da alcun criterio oggettivo. Della suddivisione degli stanziamenti tra i vari enti decide poi l'Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia sulla base delle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva regionale per la minoranza slovena, in cui la maggioranza dei componenti è designata dalle due organizzazioni maggiori della minoranza. Questa modalità di finanziamento significano che lo Stato italiano non considera le attività della minoranza come attività di una parte della comunità nazionale svolte nell'interesse di tutti i cittadini, ma ancora sempre come appartenente a un qualcosa di separato, a un corpo estraneo, al quale è disposto ad elargire un po di danaro di tanto in tanto. Si tratta di un approccio offensivo per tutta la minoranza, soprattutto per gli enti che sono al servizio di tutta la comunità, regionale e nazionale. Se infatti nella gran parte dei casi tali enti sono nati come descritto all'inizio nel caso della BNS, essi hanno assunto nel corso degli anni un'importanza e un ruolo più ampi, che travalicano la conservazione del patrimonio storico e culturale della minoranza, divenendo parte del patrimonio culturale di tutta la regione e di tutti i suoi abitanti. Perciò dovrebbero essere trattate come tali. L'unico senso che pare avere l'attuale sistema di finanziamento è quello di affidare alle due organizzazioni maggiori della minoranza – organismi privati - la gestione (o almeno la partecipazione alla gestione) di somme non indifferenti di denaro proveniente dalle casse dello Stato (cosa che vale in misura ancora maggiore per i fondi stanziati dalla Repubblica di Slovenia). Si poteva regolare la cosa in maniera diversa, con probabili risparmi, facendo in modo che gli organismi statali italiani finanziassero direttamente, a bilancio, gli enti della minoranza, almeno quelli a carattere scientifico e di interesse generale, in base ai loro bisogni concreti. Facendo diventare tali enti degli enti pubblici, alla pari delle biblioteche civiche e statali, degli archivi regionali e statali.... Ma si è scelto diversamente, di mettere i fondi pubblici a disposizione di organizzazioni private.
Ritornando alla BNS, nonostante nel corso degli anni '90 si sia affiliata ad entrambe le organizzazioni maggiori queste non le hanno dedicato gran che interesse, se non come problema. Il denaro per iniziative occasionali si trovava, non però per una attività programmata di sviluppo. La BNS era la benvenuta per le occasioni »di parata«, ma null'altro. Il numero dei dipendenti è così continuato a scendere. Oggi la biblioteca di Trieste, che conta più di 150.000 titoli, ha due sole bibliotecarie dipendenti a tempo indeterminato, mentre dovrebbe essercene una ogni 10.000 titoli, il che significa che la biblioteca di Trieste dovrebbe impiegare almeno 15 bibliotecari/e! Con il paradosso agiuntivo che mentre a Trieste ci sono 2 dipendenti per 150.000 titoli, la biblioteca di Gorizia, che di titoli ne ha circa 40.000, di dipendenti ne ha 3.
Mentre la BNS cresceva per qualità dei servizi, professionalità dei dipendenti, quantità del materiale custodito, numero di utilizzatori di servizi e materiali, riconoscinibilità e riconoscimenti scientifici, chi la amministrava non ha saputo, voluto o potuto valorizzare tale realtà. Bisogna anche sottolineare che tali sviluppi si sono avuti nonostante le condizioni organizzative interne: la BNS non ha mansionari, né regolamenti interni (ad eccezione di quello che regolamenta i servizi bibliotecari). Nonostante il Consiglio Direttivo abbia affidato al direttore (ora pensionato) il compito di redarre una bozza di regolamento interno/ mansionario, questi non l'ha mai fatto senza per questo subire conseguenze. Evidentemente la normalizzazione delle condizioni interne non è tra le priorità del direttivo. D'altra parte tale situazione consentiva di accollare a singoli dipendenti compiti che comportano pesanti responsabilità, per le quali non percepiscono alcun integrazione stipendiale, né beneficiano di una qualche forma di copertura assicurativa. In questo genere di cose la BNS è stata »all'avanguardia«, visto che non dispone di alcun regolamento sull'accesso e utilizzo del materiale, anche se a scopo di profitto. A decidere di tutto, sulla base delle sue valutazioni e simpatie, era esclusivamente il direttore. Sarebbe interessante verificare se tale situazione abbia causato all'ente dei mancati introiti ed il loro eventuale ammontare.
La BNS ha attualmente lo status di associazione privata non a scopo di lucro i cui proprietari formali sono i soci, che però non hanno mai speso un euro per la loro »proprietà«, dato che non è previsto il pagamento di alcuna quota sociale. D'altra parte ci sono invece gli utenti, che in base all'unico regolamento esistente, quello per l'accesso ai servizi bibliotecari, devono versare un contributo annuo per poter usufruire del prestito dei librI e degli altri servizi. Abbiamo così i soci, che non versano nulla ma sono i proprietari formali dell'ente e decidono della sua amministrazione, mentre gli utenti, che pure versano un contributo annuale, non hanno alcuna voce in capitolo circa la gestione dell'ente.
I soci hanno diritto a partecipare alle assemblee dei soci ed eleggere il Consiglio Direttivo (CD). Di fatto della compisizione del direttivo decidono le due organizzazioni maggiori della minoranza, che però affermano che in base allo statuto sono i soci - la cui stragrande maggioranza non partecipa alle assemblee, tranne un gruppo ristretto in gran parte legato alle due organizzazioni maggiori – a decidere in base alle loro libere determinazioni, cosa che, naturalmente, varrebbe anche per gli eletti nel CD. Un CD che negli ultimi anni pare essere caratterizzato dalle sistematiche violazioni dello statuto, divenute ormai quasi una abitudine. L'attuale CD è stato infatti eletto nel 2010 da una assemblea generale convocata in maniera irregolare. Parimenti irregolare è stata anche la convocazione dell'assemblea generale tenutasi nel giugno di quest'anno a Gorizia (e che dovrebbe continuare in dicembre con l'elezione del nuovo CD). Il CD attualmente in carica è stato eletto dopo il rifiuto da parte di quello precedente di dare il suo assenso al progetto, molto discutibile, di ristrutturazione dell'edificio in cui ha sede la biblioteca di Trieste. Va sottolineato che il progetto – ora cestinato (ma regolarmente pagato) – è stato presentato proprio nel periodo in cui la BNS ha dovuto rinunciare per mancanza di fondi all'assunzione in pianta stabile di una bibliotecaria e dopo che la Unione culturale economica slovena (Slovenska kulturno gospodarska zveza - SKGZ), l'organizzazione maggiore che il suo presidente ha definito »proprietaria indiretta« dei locali utilizzati a Trieste da biblioteca e SSE (ma lo stesso si può dire anche di quelli utilizzati a Gorizia), ha rifiutato di intercedere per ottenere dal »proprietario diretto« la cancellazione o almeno la riduzione temporanea dei canoni di locazione pagati dalla BNS a Trieste e Gorizia e liberare così risorse finanziaria per poter assumere la citata bibliotecaria.
Dopo che nel 2009 si erano diffuse voci circa l'intenzione di sopprimere la SSE, con l'elezione del nuovo CD divenne chiaro che la stessa era sotto attacco. Il nuovo CD fece sapere molto chiaramente che l'assemblea generale in cui era stato eletto aveva deciso che la priorità andava assegnata all'attività bibliotecaria, priorità che evidentemente il vertice del nuovo CD interpretò come il via libera per disfarsi della SSE e dei suoi dipendenti. L'occasione propizia si presentò nel corso del 2012, nel momento in cui lo Stato italiano decise di decurtare l'ammontare degli stanziamenti e ritardò in maniera inacettabile l'erogazione di quelli dovuti (la prima rata venne erogata a fine dicembre!). In novembre il CD deliberò la messa in cassa integrazione di tutti e 3 i dipendenti impiegati alla SSE, cosa che ebbe quale immediata conseguenze le dimissioni - anche in correlazione ad altri fatti poco edificanti – di uno dei tre. Tale deliberazione venne assunta senza alcuna consultazione con tutti i dipendenti per individuare possibili soluzioni alternative e in presenza di un crescendo di dichiarazioni allarmistiche sul probabile deficit di bilancio (dimostratosi in seguito inferiore rispetto a quanto inizialmente prospettato) diffuse sopratutto da presidente e vicepresidente del CD.
Durante il primo ed unico incontro avuto con il CD il nostro sindacato ha sottolineato la necessità di ritirare immediatamente la cassa integrazione al momento in cui fossero stati percepiti gli stanziamenti pubblici, ma la risposta è stata che la prima preoccupazione sarebbe stata invece quella di pagare i canoni di locazione arretrati. Durante tale incontro il nostro sindacato ha anche consegnato al CD una copia dei numerosissimi messaggi di solidarietà alla SSE pervenuti ai dipendenti della stessa da singoli ed enti dalla Slovenia, ma sopratutto da tutta Italia e anche dall'estero. Si trattava di un evidente attestato dell'importanza della SSE che veniva messo a disposizione del CD quale strumento volto a dare più forza alle sue eventuali richieste di ulteriori stanziamenti. Una possibilità della quale il CD non si è mai avvalso. Nel gennaio del 2013 il CD rinnovò fino a fine marzo la cassa integrazione per i due dipendenti della SSE rimasti. Poco prima del termine della cassa integrazione il CD ha però deciso in tutta fretta l'immediata chiusura, formalmente per motivi di sicurezza, dei locali della SSE. Una mossa drammatica con la quale si è voluto addossare a presunte circostanze oggettive la decisione di chiudere la SSE senza che fosse mai esplicitato quali fossero, in concreto, i gravi problemi di sicurezza per cui era stata assunta tale decisione. Una decisione che non ha garantito la sicurezza del materiale, rimasto in locali inadatti e per giunta del tutto incustodito, ma l'ha messo ulteriormente in pericolo. Poi è arrivata la distruzione definitiva della SSE con il pensionamento di una dei due dipendenti rimasti ed il licenziamento – senza preavviso – dell'altro, nostro iscritto (ed unico iscritto a un qualche sindacato tra tutti i dipendenti). Va evidenziato che tali decisioni sono state deliberate proprio nel momento in cui la BNS si era vista garantire il raddoppio dei contributi pubblici che avrebbe percepito dallo Stato italiano negli anni dal 2013 al 2015 (decisione che il 22 ottobre 2013 il governo ha confermato e prolungato fino al 2016).
È evidente quindi che le ragioni di queste misure non possono essere le difficoltà finanziarie. La fretta con cui hanno voluto liberarsi dei due ultimi dipendenti è in stridente contraddizione con la loro insostituibilità per la gestione del materiale della SSE, come attesta il fatto ad appena qualche settimana dal suo pensionamento è stato chiesto alla ex dipendente di dirigere il trasferimento di parte del materiale della SSE e altri tipi di aiuto. Ed i fumosi accenni a »future collaborazioni« con il dipendente appena licenziato senza preavviso. Proprio nella lettera di licenziamento di quest'ultimo troviamo la chiave per comprendere il comportamento tenuto ed il progetto – l'unico espresso chiaramente e nero su bianco – per la SSE: il CD intende riorganizzare il lavoro affidando la SSE in »outsourcing«. Ciò significa una sola cosa: il ricorso a personale precario, si tratti di contrattisti a progetto o in altra forma. Se a ciò aggiungiamo la proposta, più volte ripetuta, di dare alla BNS un amministratore professionale, cioé pagato, appare chiaro quale sia il modello che si vuole applicare e che è già stata applicato in passato ad altri enti sloveni, come l'ex Istituto regionale sloveno di istruzione professioale: personale precario che costi il meno possibile con un presunto professionista lautamente retribuito. In estrema sintesi: risparmiare sui dipendenti per poter destinare ad altri scopi i finanziamenti pubblici incamerati in un contesto di opacità gestionali, stravaganze, singolari coincidenze e potenziali conflitti di interesse.
Per comprendere a pieno quanto avvenuto è però necessario sapere chi sono i suoi attori principali. La presidente ed il vicepresidente della BNS sono entrambi membri influenti della SKGZ, vale a dire l'organizzazione che è »proprietaria indiretta« di tutti i locali utilizzati dalla BNS. La prima è componente dell'Esecutivo regionale della SKGZ, il secondo è invece presidente della SKGZ della provincia di Gorizia. Entrambi fanno poi parte del Consiglio di Sorveglianza della Società finanziaria per azioni »KB 1909«, »proprietaria diretta« dei locali in cui ha sede la biblioteca di Gorizia. Va aggiunto che per svolgere tale funzione i due vengono pagati, cosa non prevista per i componenti del CD della BNS. Il vicepresidente ha esplicitato il suo pensiero in merito nel corso di un incontro ufficiale del CD con uno dei dipendenti, quando ha affermato che l'incarico non remunerato presso la BNS è per lui un impegno marginale.
Vanno inoltre chiariti alcuni dettagli. La proprietaria dei locali utilizzati dalla biblioteca di Trieste è la Società finanziaria adriatica, il cui socio di maggioranza è, per tramite del Fondo Trinko e dell'Associazione benefica Tržaška matica, la SKGZ. La stessa è anche proprietaria, attraverso il Fondo Trinko, della quota di maggioranza delle azioni della KB 1909. Il terzo soggetto a cui la BNS ha corrisposto fino a poco tempo fa dei canoni di locazione è la Cooperativa a responsabilità limitata Slovenski Dom (nel 2010 ha percepito per un magazziono di circa 100 mq 4.523,59 € e nel 2011 4.561,29 €), che appartiene agli ambienti legati all'altra organizzazione maggiore della minoranza (lo Svet slovenskih organizaciji, Unione delle organizzazioni slovene). Va inoltre chiarito che la SSE era l'unica delle articolazioni della BNS che non pagava alcun affitto per i locali (inadatti) che occupava, mentre ora la BNS paga, per i locali in cui sono stati trasferiti parte del deposito della biblioteca triestina e parte del materiale della SSE dei canoni aggiuntivi alla ..... Società finanziaria adriatica.
Tali nuove spese vanno sommate a quelle pregresse, che non erano poca cosa. Nel 2010 la BNS avrebbero pagato 23.679,79 € per i locali occupati a Trieste e 20.009,36 € (ma, secondo altri calcoli 25.372,27 €) per quelli di Gorizia, per un totale presunto di 43.689,15 € (ovvero 49.052,06 €); nel 2011 ha speso 23.758,29 € per i locali a Trieste e 26.557,77 € per quelli a Gorizia, per un totale presunto di 50.316,06 €. La BNS avrebbe così speso nel 2010 per il solo utilizzo dei locali, il 14,13% dell'importo del contributo erogato dallo Stato italiano, percentuale salita nel 2011 fino al 15,63%. Quello che è più interessante è il fatto che nel 2010 di tali spese ben 9.579,9€ risulterebbero catalogate alla voce »accessori« a Trieste e 4.734,93€ a Gorizia (per un totale di 14.313,03€, il 32,76% della spesa totale per i locali). Nel 2011 la BNS avrebbe invece speso per »accessori« 6.733,11€ a Trieste e 6.312,22€ a Gorizia (13.045,33 € in totale, ovvero il 25,93% della spesa totale per i locali). E tale tipo di spesa è in costante aumento, a scapito delle spese per il personale.
La BNS – ma non è l'unico caso – finanziererebbe così con parte dei fondi pubblici ricevuti in funzione della sua attività, alcune imprese economiche: l'esatto contrario di quanto accadeva al momento della sua nascita. Appare evidente che i motivi e gli scopi di quanto accaduto non hanno nulla a che fare con la cura per l'esistenza e lo sviluppo della BNS e sono in palese contraddizione con l'affermazione che »la direzione della BNS deve cercare soluzioni tecniche e professionali, che non si riducano al solo licenziamento di personale« rilasciata dal presidente della SKGZ nell'aprile del 2010. Quello a cui assistiamo e la riproposizione di un modello già applicato in altri enti della minoranza: precarizzazione dei dipendenti gestiti da »manager« lautamente retribuiti di dubbia professionalità ma di certa affiliazione. Accanto a tutto questo esiste il fondato sospetto che si sia perseguito l'obbiettivo di liberarsi di quanti politicamente non allineati e impegnati sindacalmente.
Ma, giova ripeterlo ancora una volta, la BNS non è proprietà del direttivo, nemmeno dei suoi soci, perché vive esclusivamente grazie a finanziamenti pubblici. Inoltre l'accesso alla cultura e alla conoscenza non è un privilegio, un lusso, ma appartiene a quei beni e servizi che sono parte del salario indiretto, come l'assistenza sanitaria, i trasporti pubblici e così via.
L'accesso alla cultura e alla conoscenza è il presupposto indispensabile per uno sviluppo equilibrato di ogni singola persona e della società nel suo complesso. Che la BNS, come tutte le istituzioni culturali, appartenga e debba appartemere a tutti noi lo dimostrano anche le oltre duecento persone di varie nazionalità che su invito del nostro sindacato hanno presentato domanda di associazione alla BNS proprio per sostenere la sua esistenza e che sono ancora in attesa di una risposta alla loro richiesta. Invitiamo tutti a seguire il loro esempio.
Non è accettabile che nel momento in cui la BNS ha ottenuto il raddoppio dei finanziamenti pubblici, decida di licenziare il personale a tempo indeterminato, annunci la precarizzazione degli ipotetici nuovi assunti e proponga, al contempo, l'assunzione di un dirigente professionale, lautamente pagato.

Tutto ciò premesso, è possibile riassumere la proposta del sindacato USB per portare a soluzione la questione della BNS, del suo patrimonio culturale e del suo personale:

In considerazione del carattere pubblico dell'ente (al quale la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha già riconosciuto lo status di ente di interesse regionale); Valutata la triste prova di sé che alcuni dei preposti alla cura e allo sviluppo della presenza culturale slovena in Italia hanno dato in questa vicenda; Considerata la necessità di ripristinare la garanzia di partecipazione, trasparenza e controllo nella gestione delle risorse pubbliche;

Considerata l'importanza che la promozione, la tutela e la diffusione della memoria e della ricerca storica riveste per tutta la comunità regionale anche quale strumento di strutturazione della identità di un popolo e di ogni minoranza nazionale;

In considerazione che la cultura, nelle sue diverse declinazioni, è, per questo sindacato, un bene comune;

Il sindacato USB propone quale soluzione concretamente percorribile, anche nel breve termine

di far transitare la BNS sotto la tutela della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, in forme e modi che dovranno essere il risultato di un accordo, considerato che già esistono esempi di percorsi e soluzioni simili (p.es. Il Teatro stabile sloveno).




N.D.H. (INDEPENDENT STATE OF CROATIA) QUALIFIES FOR F.I.F.A. WORLD CUP



Croatia Defender Joe Simunic Led Crowd In Apparent Pro-Nazi Chant To Celebrate World Cup Berth (VIDEO)

11/20/13

ZAGREB, Croatia (AP) — Croatia's World Cup qualification celebrations have been marred by apparent pro-Nazi chants by fans and defender Joe Simunic.
Croatia qualified for the World Cup with a 2-0 win over Iceland on Tuesday. Video footage shows Simunic taking a microphone to the field after the match and shouting to the fans: "For the homeland!" The fans respond: "Ready!"
That was the war call used by Ustashas, the Croatian pro-Nazi puppet regime that ruled the state during World War II when tens of thousands Jews, Serbs and others perished in concentration camps.
The Australian-born Simunic defended his action, saying "some people have to learn some history. I'm not afraid."
"I did nothing wrong. I'm supporting my Croatia, my homeland," the 35-year-old defender said. "If someone has something against it, that's their problem."
The same chant coupled with the Nazi salute has often been used by Croatian fans in the past. FIFA and UEFA have often fined the Croatian soccer association because of their behavior.
There was no immediate reaction from FIFA to the latest incident.
At the 2006 World Cup, Simunic was the player who received three yellow cards in one match before being sent off.


(lo slogan ustascia "Pronti per la Patria" è stato urlato in campo da calciatori della nazionale croata nel corso della Coppa del Mondo di Calcio)




[Sulla figura di Gavrilo Princip e sulla controversia in merito a Sarajevo 1914-2014 si veda anche tutta la documentazione raccolta alla nostra pagina: 

Gavrilo Princip, Obljaj, Bosansko Grahovo April 25th 1894 – Austrian prison in Terezín April 28th 1918, was a high school student, a minor, member of the Yugoslav nationalist movement “Young Bosnia” (“Mlada Bosna”), when on June 28th 1914 he assassinated Austro-Hungarian Archduke in Sarajevo, the capital of Bosnia and Herzegovina occupied by Austro-Hungarian Empire and annexed to it in 1908. He was declaring himself  as a “Yugoslav nationalist of Serbo-Croat origin, an activist for the unification of all Yugoslavs in any kind of state, as long as it is not under Austria”, that he spoke “Croato-Serbian”. The attack was taken as a pretext for the declaration of war against Serbia and for the outbreak of the I World War. Dr Rudolf Cistler, public defender of 24 arrested members of  “Mlada Bosna” in court, on great surprise of all, stated that those could not be tried for “high treason”, since the Austrian act of annexation of Bosnia-Erzegovina was an act of illegitimate occupation, being never ratified by the Parliament of Austro-Hungarian Empire! (by DK for CNJ website)

For more infos on Gavrilo Princip and Sarajevo 1914-2014 please see: https://www.cnj.it/documentazione/gavrilo.htm

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Gavrilo Princip, a hero?




It is less than a year before the celebration of the hundredth anniversary of the outbreak of World War I, the bloodiest war in human history thereto. As 28th June 2014 approaches, it is more certain that the German government will take part in the organization of the celebration of the centennial in Sarajevo, where Gavrilo Princip assassinated the Austro-Hungarian Crown Prince and his wife. The greatest nightmare of our grandmothers and grandfathers begins to worry us as this date approaches. The question that bothers us is ‘What will the world say?’

When analysing the role of Gavrilo Princip in world history, it is necessary first of all to point out the epistemological error in the dominant but, unfortunately, revisionist interpretation of the assassination in Sarajevo. Almost all the literature dealing with the causes of the First World War on the very first page stresses the murder of Franz Ferdinand and his wife Sophie as a cause of the war. Despite the fact that, in the subsequent analysis, this conflict, which had an impact on the world, is connected with the clashes between the imperial pretensions of the Great Powers of the late nineteenth and early twentieth century, there somehow is still a bitter taste when the name of Gavrilo Princip is mentioned.

That the act of murdering a colonial subject by the persecutor is a sign of true self-liberation, we learned from Jean Paul Sartre. Since colonisation during the nineteenth and twentieth centuries was followed by the promotion of so-called ‘scientific racism’, according to which colonisation is justified, because it is carried out against those who are unable to manage themselves, colonised people in these areas were placed in the position of an inferior race.

Although Aristotle is often considered the father of ‘scientific racism’, there are a fairly large number of modern, primarily liberal thinkers, who used this concept to justify colonial conquest led by their countries. Thus JS Mill thought it was justified to embark on imperial campaigns, if that would mean that the ‘uncivilized’ would become ‘civilized’. Tocqueville himself, writing about Algeria, articulated the characteristics of the French ideal of ‘civilizing missions’. Only Bentham was against British imperialism, and only because he thought it was not feasible, because he thought that such campaigns are a waste of precious resources. Besides Great Britain and France, there were of course the united Germany, Austria-Hungary and Czarist Russia. Each of these countries favoured imperialist campaigns. Of course, the conflicts of the Great Powers over territory occurred throughout the history of the modern state, and in addition to the countries listed, from 16th century onwards, there were also Spain and the Netherlands. So the world in a historic moment became narrow because the West progressed precisely because the race for world wealth included only a limited number of countries. The West, according to many, progressed only because highly developed countries like China and India were ravaged by exploitation. Suddenly, the exploitative campaigns included too many countries, and it was a matter of time before the conflicts of the Great Powers would escalate. And then, right out of nowhere, appeared a Gavrilo Princip, assassinated an occupation symbol, experienced ‘Sartrian’ self-liberation and started World War I?

It is said that Gavrilo Princip was a nationalist. In the region people do not like him because he was a member of an organization that aimed to unify the Serbs under Austro-Hungarian rule (and other South Slavs). World-wide he is called a terrorist because, in any case and under whatever circumstances, murder is considered a barbaric act – especially the assassination of an heir to the throne. Let’s start with the first charge.

All (successful) anti-colonial movements in the twentieth century, around the world, were movements of ‘national liberation’. As Alan Ryan writes, nationalism is a dangerous gift that colonisers inadvertently gave to the colonised. Even Marx thought that colonial conquests are progressive, in the sense that they may lead to the expansion of the capitalist mode of socio-economic organisation, which would result in the formation of national liberation movements, which would, as those European, firstly free themselves from colonial rule, and then take part in the world socialist revolution. These movements would firstly be national. Liberation from ‘imperialism as the highest stage of capitalism’ (as Lenin’s famous work on this phenomenon was called) starts with the grouping of the nation, the group that, modelled on the Western nation-state, wants to be freed from occupiers, and to then form an independent state. Hence the definition of ‘non-aggressive nationalism’ under the doctrine ‘to each people its own polity’ and a clear distinction in relation to the ‘aggressive nationalism’ which undermines conquests. This classification is reserved for the period of the early twentieth century, and especially for the period of anti-colonial struggle, and is not relevant to the present analysis of nationalism as a primarily retrograde social tendency. This struggle, in all parts of the world, from the beginning of the twentieth century, was often very radical, and, because it was such, it does not mean that it should be classified as ‘aggressive’ – if you use the aforementioned categorisation. In this sense, Gavrilo Princip was a nationalist as, for example, was Simon Bolivar, the symbol of anti-colonial struggle in South America. The same can be said for the other allegation, that Gavrilo Princip was as much a terrorist as, for example, Ernesto Guevara (without any intention to compare their historical or ideological roles). Here we come to what I consider the main epistemological error in the analysis of the historical role of Gavrilo Princip.

From the perspective of the historical role, it is completely irrelevant whether Young Bosnia, of which Princip was a member, wanted to liberate the Serbs and then the others, or just the Serbs, or all the South Slavs (although the first would be the most likely). Also, it is less important whether this organisation was working in conjunction with the Serbian ‘Freedom or Death’ (although it was), and that the main ideologist of the Young Bosnia, Vladimir Gaćinović, was a follower of Russian anarchism (Kropotkin and Bakunin), and was a friend of Trotsky, whom he met in Switzerland. It is less important whether Gavrilo Princip, if he had by chance survived and lived in free Bosnia, would perhaps at some point have changed his mind regarding his beliefs (which we cannot precisely define anyway), as did the Egyptian anti-colonial fighter named Sayyid Qutb, who at first was considered a hero, and then was killed by Nasser Regime because he did not support military dictatorship but advocated the Sharia (he wrote a book called ‘Social Justice in Islam’ in 1949). So, for the analysis of the historical significance of the assassination in Sarajevo and its perpetrator, variables such as the character of Young Bosnia, its connection with the ‘Freedom or Death’, or the beliefs of Princip, are totally irrelevant. The only thing that matters is- the historical context in which this event took place, because the assassination was an expression of the anti-imperial struggle of people who had lived under foreign rule for centuries. The people who were treated by the Great Powers in a ‘scientific racist’ manner, through Gavrilo Princip, experienced self-liberation. The people who still speak the same language, and are of different religions and ethnicities, has waited for a hundred years for another Princip in this modern empire that, as Hardt and Negri say in their Empire, is not formed on the basis of power itself, but on the ability to present power as being in the service of peace.




COSA STIAMO A FARE IN AFGHANISTAN


L’économie afghane se re-convertit à l’opium
RÉSEAU VOLTAIRE | 14 NOVEMBRE 2013 - Selon l’Office des Nations unies contre la drogue et le crime (ONUDC), la production d’opium en Afghanistan a augmentée de 49 % en 2012 et devrait encore augmenter de 36 % en 2013. En 2014, le pays devrait fournir 90 % de l’opium mondial.
L’économie afghane se tourne à nouveau presque exclusivement vers les drogues alors que les forces internationales s’apprêtent à se retirer et qu’un nouveau président doit être élu en avril. (Source: http://www.voltairenet.org/article181010.html )



IL FATTO QUOTIDIANO


Droga, in Afghanistan soldati-trafficanti. La storia dimenticata della parà italiana


Secondo l'Onu per l'oppio è stato un anno di produzione record, anche nella zona di Kabul, sotto il controllo delle truppe Nato. In Italia è finita in nulla l'inchiesta militare partita dal caso di Alessandra Gabrieli, militare della Folgore diventata tossicodipendente e spacciatrice dopo la missione. Indagini simili sono state insabbiate in Canada e Regno Unito


Ci sono storie che qualcuno preferisce dimenticare. Come quella dell’ex caporalmaggiore Alessandra Gabrieli: prima donna parà d’Italia, eroina nazionale divenuta eroinomane in caserma, finita in carcere due anni fa per spaccio dopo aver denunciato il giro di droga tra i soldati reduci dell’Afghanistan che se la riportano in Italia di ritorno dalla missione. Una denuncia clamorosa cui le autorità militari italiane non hanno dato seguito, com’è accaduto per analoghe inchieste estere sul coinvolgimento di militari Nato nel traffico di eroina dall’Afghanistan. Un paese che in dodici anni di occupazione occidentale ha visto regolarmente aumentare le produzione di oppio. Quest’anno si è raggiunto il record storico, secondo l’ultimo rapporto dall’agenzia antidroga dell’Onu: tutti evidenziano l’aumento della coltivazione di oppio nelle regioni sotto controllo della guerriglia talebana (+34% in Helmand, +16% a Kandahar), ma nessuno nota che nella provincia di Kabul, sotto diretto controllo del governo centrale, la produzione è aumentata del 148%. E l’Afghanistan è tornato a essere il maggior produttore di eroina del mondo.

LA STORIA DI ALESSANDRA, LA PRIMA PARA’ DONNA IN ITALIA. Alessandra portava i capelli castani aggrovigliati in una criniera di dreadlock e il piercing al naso. Suo padre, ufficiale dell’esercito, non approvava. Ma lei era una ragazzina ribelle. Sognava di fare l’artista e coltivava la sua passione nelle aule del liceo artistico Paul Klee di Genova, la sua città. Con il passare del tempo, però, il suo spirito alternativo l’ha allontanata anche da questo ribellismo convenzionale, spingendola alla ricerca di qualcosa che fosse veramente fuori dagli schemi. “Volevo fare qualcosa di diverso e di più utile rispetto alle mie coetanee”, racconterà in seguito. Così a 19 anni, dopo l’esame di maturità, si è rasata i capelli, si è tolta l’orecchino dal naso e, per la gioia di suo padre, si è arruolata nell’esercito. Non in un corpo qualsiasi, ma nella brigata Folgore, diventando la prima donna paracadutista d’Italia. Non è stata facile, ma lei ce l’ha messa tutta e ha fatto rapidamente carriera: ha preso i gradi di caporalmaggiore ed è stata inviata in missione all’estero: prima in Kosovo, poi in Libano, e perfino in Iraq, a Nassiriya. I giornali la intervistavano spesso: era diventa una specie di leggenda, un’eroina nazionale. Ma la vita in missione era dura, soprattutto per una donna, e lei pian piano iniziava a sentire il peso della sua scelta.

Nel 2007, nella caserma Vannucci di Livorno, Alessandra si trovava insieme ai suoi compagni, reduci dall’Afghanistan. Le hanno offerto di fumare con loro: eroina, purissima, afgana. Per il caporalmaggiore Gabrieli è stato l’inizio della fine. Di lì a due anni, la tossicodipendenza l’ha costretta ad abbandonare la divisa e a tornare a Genova da sua madre, dove ha iniziato a vivere di espedienti per tirare avanti, finendo presto a spacciare per procurarsi i soldi per la roba. Il 12 agosto del 2011 Alessandra, ormai segnata dall’abuso di droga, viene fermata dai Carabinieri nel corso di un’operazione antidroga volta a sgominare una rete di spaccio tra Milano e Genova. I militari le trovano in macchina 9 grammi di eroina e molta di più ne rinvengono a casa sua. In tutto 35 grammi di roba purissima che, secondo i periti dell’Arma, avrebbero fruttato fino a quattrocento dosi, a seconda del taglio. Alessandra viene arrestata con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti.

“INIZIATA ALL’EROINA DAI MILITARI DELL’ISAF”. Agli inquirenti della squadra investigativa del nucleo operativo dei Carabinieri di Sampierdarena, guidata dal tenente Simone Carlini, l’ex paracadutista racconta com’è entrata nel tunnel della tossicodipendenza. “Mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia”. Il 20 settembre 2011 Alessandra viene condannata a tre anni e mezzo di reclusione. Ma le sue scottanti dichiarazioni costringono il titolare delle indagini, il pm genovese Giovanni Arena, a trasmettere il fascicolo alla Procura militare di Roma, che apre un’inchiesta. Le accuse dell’ex caporalmaggiore Alessandra Gabrieli non solo rivelano l’uso di droghe tra i militari italiani di ritorno dal fronte, ma adombrano addirittura il loro coinvolgimento nel traffico di eroina dall’Afghanistan. L’imbarazzo della Difesa è forte, e l’allora ministro Ignazio La Russa preferisce “non rilasciare commenti, in attesa dello sviluppo delle indagini”.

Ma di sviluppi non ce ne saranno perché l’inchiesta militare viene subito archiviata. “Non siamo competenti su questo tipo di reati”, dichiara Marco De Paolis, procuratore militare di Roma. “Spetta alla magistratura ordinaria occuparsi di stupefacenti”. Con l’emissione della sentenza di condanna da parte del giudice Carla Pastorini, il caso viene definitivamente chiuso e sulla vicenda cala il silenzio. Alessandra viene rinchiusa nel carcere genovese di Pontedecimo e del giro di eroina afgana tra i soldati italiani di ritorno da Kabul non parlerà più nessuno. Per il difensore legale di Alessandra, l’avvocato Antonella Cascione, la conclusione di questa vicenda assomiglia tanto a un insabbiamento nel quale la sua assistita ha svolto il classico ruolo di capro espiatorio. “Parlo come privata cittadina: le dichiarazioni di Alessandra rischiavano di scoperchiare un vaso di Pandora, e hanno pensato bene di sigillare subito il tappo, con lei dentro. Pensavo sarebbe scoppiato il pandemonio, invece hanno messo tutto sotto silenzio, semplicemente ignorando la sua denuncia, che si è infranta contro un vero e proprio muro di gomma”.

MILITARI-TRAFFICANTI, MURO DI GOMMA ANCHE IN CANADA E UK. Un muro di gomma che non riguarda solo l’Italia. Nel settembre 2010 il ministero della Difesa del Regno Unito avvia un’indagine sul coinvolgimento di soldati britannici e canadesi nel traffico di eroina afgana attraverso la base della Royal Air Force di Brize Norton, nell’Oxfordshire: il principale aeroporto di sbarco delle truppe di ritorno dal fronte, dove ogni settimana atterrano circa 700 soldati provenienti dalle basi Nato nel sud dell’Afghanistan. Il quotidiano che dà notizia dell’inchiesta, il Sunday Times, cita anche la testimonianza di un narcotrafficante afgano: “La maggior parte dei nostri clienti, esclusi i trafficanti all’estero, sono i militari stranieri: a fine missione ce la ordinano, noi gliela vendiamo e loro se la portano a casa sugli aerei militari dove tanto nessuno li controlla. Ne comprano tanta”. L’inchiesta militare britannica, accompagnata da un irrigidimento dei controlli alla base Raf di Birze Norton, genera molto scalpore mediatico, ma sulla vicenda cala presto il silenzio più completo.

La Difesa canadese, da parte sua, archivia velocemente la questione come infondata. Un anno dopo, però, il consigliere del Capo di stato maggiore delle forze armate canadesi, Sean Maloney, dichiara alla stampa: “Non sono affatto sorpreso che soldati occidentali smercino eroina dalle basi aeree della Nato in Afghanistan, usate dai signori della droga locali per trafficare la droga direttamente in Occidente, tagliando fuori gli intermediari pachistani e realizzando così profitti molto più elevati”. Numerose altre fonti confermano questi traffici, che vedono coinvolti non solo i militari occidentali ma anche, e soprattutto, le compagnie private di contractors, i cui velivoli operanti dagli aeroporti Nato sono esenti da controlli al pari dei voli militari. “I contractors impiegati in Afghanistan dal Pentagono, dalla Cia e dalla Nato sono una straordinaria banda di profittatori che speculano sulle guerre”, sostiene l’ex direttore dell’agenzia antidroga dell’Onu, Antonio Maria Costa. “Negli anni ho ricevuto dalle agenzie governative diversi rapporti riservati che contenevano accuse pesanti nei confronti di alcune di queste società riguardo al loro coinvolgimento nel contrabbando di droga: ritengo che non si tratti di accuse infondate”.

IL DIRIGENTE ONU: “NE RIPARLIAMO QUANDO SARO’ IN PENSIONE”. Il successore di Maria Costa alla guida dell’Unodc, Yuri Fedotov, interpellato sullo stesso argomento replica in modo eloquente: “Data la carica che ricopro, rispondo che non ho informazioni in merito, ma se ne riparliamo quando sarò in pensione la mia posizione potrebbe essere diversa”. Oltre mezzo secolo di storia di interventi armati – dallo sbarco alleato in Sicilia alla guerra in Vietnam, dal sostegno americano ai contras nicaraguensi a quello ai mujahedin afgani contro i sovietici – dimostra che il coinvolgimento dei militari nel narcotraffico è una costante, conseguenza di una realpolitik che porta a sacrificare ciò che è giusto (contrastare il narcotraffico) in nome di ciò che è necessario (sconfiggere il nemico). Anche per sconfiggere i talebani e mantenere il controllo dell’Afghanistan l’Occidente ha scelto di sostenere personaggi notoriamente coinvolti nel narcobusiness – dal clan Karzai in giù – chiudendo un occhio su questi traffici, anche quando coinvolgono strutture e personale militare Nato. Se poi qualcuno li tira fuori, come ha fatto Alessandra, basta far finta di niente e dimenticarsene. 



(srpskohrvatski / francais / italiano / deutsch)

Volksdeutschen gegen Jugoslawien

1) Introduzione
2) КОЈИ ЈЕ ЦИЉ РЕХАБИЛИТАЦИЈЕ  ФОЛКСДОЈЧЕРА (SUBNOR 1.11.2013.)
3) Le précédent croate (GFP 19/10/2005)
4) Des prétentions globales (GFP 17/11/2005)
5) Sklavenhalter (GFP 12.09.2008)


=== 1 ===

Introduzione

Con l'espressione "Volksdeutschen" sono indicati in tedesco i "tedeschi per etnia", cioè quei gruppi di lingua tedesca stanziati nei paesi dell'Europa centro-orientale che furono piede di porco per l'occupazione nazista. I più famosi "Volksdeutschen" sono i tedeschi dei Sudeti, che "motivarono" l'aggressione hitleriana della Cecoslovacchia. Nel 1945, per ovvi motivi, milioni di questi Volksdeutschen dovettero ritirarsi in Germania assieme alle truppe del Reich in ritirata. Questa circostanza viene oggi usata in ambito politico-diplomatico dalla Germania per pesanti rivendicazioni contro Repubblica Ceca, Polonia, Romania, repubbliche jugoslave, ed altri paesi nei quali, dopo l'abbattimento del Muro di Berlino, si stanno ribaltando gli esiti della II Guerra Mondiale. In questa operazione che è insieme di revisionismo storico e di ri-assoggettamento imperialista, le organizzazioni degli esuli "Volksdeutschen" cercano e trovano l'appoggio di analoghe organizzazioni revansciste di altri paesi, quali ad esempio i gruppi degli esuli istrodalmati in Italia (si veda: https://www.cnj.it/documentazione/IRREDENTE/romaberlinofoibe.htm ). Particolarmente deboli, di fronte a tali rivendicazioni, sono le piccole repubbliche emerse dalla digregazione jugoslava: d'altronde, non è per caso che proprio la Germania sia stata la principale sponsor delle secessioni e dello sfascio jugoslavo, poichè tramite tali secessioni e tale sfascio essa può conseguire i suoi obiettivi strategici e revanscisti. 
La fase storica è tale per cui il revascismo tedesco e di altri Stati nei confronti di paesi e popoli dell'Europa centro-orientale trova un appoggio determinante sia da parte degli Stati Uniti d'America - che hanno intravisto inizialmente in queste pressioni uno degli strumenti per fare piazza pulita dei sistemi socialisti e dell'ordine geopolitico instaurato nel 1945, ed ora vi scorgono un potente fattore di destabilizzazione e ricatto verso la stessa Europa - sia da parte dei paesi egemoni della Unione Europea - le cui classi dirigenti, oltre alla volontà di sbarazzarsi di tutte le dirigenze ex-socialiste, concordano anche nel progetto regionalista ed etnicista ("Europa delle regioni") finalizzato a distruggere ogni residuo di "stato sociale", cioè servizi pubblici e contratti nazionali di lavoro, uccidendo i legami di solidarietà civica basata sulla cittadinanza e non sulla "etnia", e mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri. 

(A cura di Italo Slavo)


=== 2 ===

Il SUBNOR sulla riabilitazione dei "Volksdeutschen" 

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КОЈИ ЈЕ ЦИЉ РЕХАБИЛИТАЦИЈЕ  ФОЛКСДОЈЧЕРА

Пише: проф. др Миодраг Зечевић


Недавно је Виши суд у Сомбору колективно рехабилитовао 113 фолксдојчера из општине Оџаци стрељаних за учињене злочине над Србима, Ромима, Јеврејима и другима у току окупације.

На основу одлуке суда Војне управе и нових територијалних органа власти стрељана су та лица 23. новембра 1944. године. Њих је колективно рехабилитовао Виши Суд у Сомбору и прогласио их невинима и идеолошким жртвама комунизма. Виши суд је донео ову одлуку без увида у архивску грађу и провере њихове појединачне одговорности.

За разлику од овог суда, у другим местима судови не дозвољавају колективну рехабилитацију, бар коју покреће СУБНОР за учињене колективне злочине од стране квислинга и колаборације. На позитивну одлуку судова по тим предметима јавни тужиоци улажу обавезно жалбе и тако одлажу правноснажност донете пресуде.

РАЗЛИЧИТИ АРШИНИ ТУЖИЛАЦА И СУДОВА

Није забележено да су јавни тужиоци поднели и једну жалбу на хиљаде пресуда судова којима су рехабилитовани квислнзи и други сарадници окупатора за злочине и недела која су учинили према припадницима НОП-а и грађанима Србије. Ни у овом случају до сада јавни тужилац није уложио жалбу на пресуду тог суда.

Касациони суд, пред којим је покренуто питање уједначавања судске праксе, прогласио се ненадлежним и избегао изјашњавање, мада је једини надлежан.

Кажњавање Немаца за ратне злочине и злочине против човечности  била је међународна сваезничка одлука и обавеза  установљена међународним одлукама и споразумима. Московска декларација (30.X.1943.) утврђује одговорност хитлероваца за почињена зверства (злочине), а Лондонски споразум (8.VII.1945.) обавезу судског гоњења и кажњавање учинилаца за ратне злочине и злочине против човечаности. Кажњавање починиоца постало је не само право државе, већ и међународна обавеза да процесуира такве учиниоце.

У току 1943. године свака од савезничких држава била је у обавези да образује орган за утврђивање и кажњавање учинилаца ратних злочина. Свих 20 савезничких држава је у току 1943. године на основу одлуке Уједињених нација образовало националне органе за утврђивање одговорности и кажњавање учиниоца за ратне злочине.

Одлуком АВНОЈ-а (бр. 9 од 30.XI.1943. године) образована је при председништву НКОЈ-а Државна комисија за утврђивање злочина окупатора и његових помагача са задатком утврђивања одговорности, проналажења и привођења казни лица одгворних за злочине које су за време рата учинили окупатори и његови помагачи. Правилник о раду Комисије донет је на седници НКОЈ 8. маја, 1944. године.

СУРОВИ ЗЛОЧИНИ ФАШИСТА И ПОМАГАЧА

Комисију Уједињених Нација (КУН) за ратне злочине основале су све савезничке државе, октобра 1943. године са седиштем у Лондону. Комисија је донела правилник као обавезан документ и за националне органе, утврдивши  поступак и обавезу проналажења, привођења и идентификовања лица која су вршила ратне злочине и њихово предавање надлежним органима.

У Југославији су, поред Државне комисије, биле образоване комисије федералних јединица, покрајина, округа, срезова, општина и градова које су радиле на проналажењу, идентификовању, утврђивању одговорности и надлежним органима предавали лица и податке о њима. То је био повезан систем савезничких држава са задатком уједначавања активности на проналажењу учинилаца ратних злочина и њиховом кажњавању.

Злочини које су чиниле фашистичке државе као окупатори и освајачи били су толико сурови, масовни и бестијални да су савезници предлагали одмазду према одређеним народима, посебно кажњавање делова појединих народа фашистичких држава због непримерене суровости према другим народима. У том склопу је и одговорност немачке народности у Краљевини Југославији. Припадници немачке народности, са малим изузетком, понашали су се као сурови окупатори и немачки а не југословенски држављани. У Краљевини Југославији припадници немачке народности образовали су фашистичку организацију под називом „Културбунд“ („Културни савез“), која је вршила улогу „пете колоне“. За време окупације био је у систему организације немачке државе и деловао као део немачког окупационог устројства и део власти и политике немачке државе.

Највећи део немачког народа насељен у Војводини са наступљњем Црвене Армије и јединица Народно-ослободилачке војске повукао се испред немачких јединица бојећи се одговорности за злочине учињене за време рата. Организација „Култур бунд“ и њени чланови проглашени су и оптужени за велеиздајуЈугославије и као таквима је суђено. Као организација Гестапоа (немачке контра-обавештајне службе) за време априлског рата учествовала је у разбијању, заробљавању и стрељању војника Краљевине Југославије а пре рата шпијунирала је за рачун немачке обавештајне службе.

Од чланова „Култур бунда“ за време Другог светског рата из Југославије образовано је седам (7) немачких СС дивизија (фашистички оружани део Вермахта) између којих по злу и злочинима познатих 113 СС дивизија, дивизија „Принц Еуген“ и друге које су већим делом ратовале на југословенском и совјетском бојишту и чиниле страшне злочине. Од 7962 Немаца који су проглашени за ратне злочинце за учињене злочине у Југославији, 2560 су фолксдојчери из Југославије. [1]

ЧИЈИ ЈЕ ТО СУД

Питање се поставља чији је сомборски суд, коме за учињене злочине суди и чије злочине аболира. По свему то је суд који суди Народно-ослободилачкој борби и припадницима народно-ослободилачког покрета због тога што су се дрзнули да суде и казне оне који су чинили бестијане злочине према припадницима народа окупиране државе као носиоци фашистичке окупационе власти, фашистичке идеологије и политике.

Законску самосталност суда, судија и јавних тужилаца треба поштовати и уважавати. Али друштво треба заштитити од злоупотребе и предвидети правну одговорност појединаца за одлуке уперене против интереса своје земље и деловање у корист страних држава, под плаштом судске независности. У овом случају имамо делатности против интереса државе и међународног права а не појединачно преиспитивање и уклањање могућих учињених грешака у кажњавању.

Рехабилитују злочинци и суде њиховим жртвама које поново убијају. Питање се поставља докле ће овај државни кошмар и насиље над историјом и истином? За чији рачун се ради? Није у корист историјске истине и исправљања грешака. Ово је насиље  снага за које се веровало да се више неће појавити.

Овим путем рехабилитује се дело учињено од стране ових лица а са тим и оно због чега су учинили то што су учинили. Рехабилитује се фашистичка идеологија, оправдава њено дело и призива њен повратак.

Србија је рехабилитујући квислинштво и колаборацију са фашистичким окупаторима а сада све више и окупаторско фашистичко дело постала у заједници са балтичким државицама реакционарна европска држава и себи додала још један атрибут који љубоморно чува на свом путу у Европу.



[1] Извештај Државне комисије за утврђивање злочина окупатора и његових помагача.



=== 3 ===

Der folgende Tekst auf deutscher Sprache:

Präzedenzfall Kroatien 
19.10.2005 - ZAGREB/WIEN/BERLIN (Eigener Bericht) - Kroatien wird umgesiedelten "Volksdeutschen" ab dem kommenden Jahr Entschädigungen für wegen NS-Kollaboration entzogenes Eigentum gewähren. Dies ist der Inhalt eines jetzt bekannt gewordenen Abkommens zwischen Wien und Zagreb, das die Parlamente beider Länder in Kürze unterzeichnen werden. Es kommt denjenigen Umgesiedelten zugute, die auf heute kroatischem Territorium enteignet wurden..



Le précédent croate
 

19/10/2005

ZAGREB/VIENNE/BERLIN
 
(Compte-rendu de la rédaction) – La Croatie accordera à partir de l’année prochaine des réparations aux "Allemands de souche" pour les propriétés saisies en raison d’une collaboration avec les Nazis. C’est le contenu d’un accord entre Vienne et Zagreb qui vient d’être rendu public, accord que les parlements des deux pays devraient ratifier bientôt. Il profite à ces migrants qui ont été privés de leurs biens sur le territoire qui appartient aujourd’hui à la Croatie et qui se sont établis en Autriche. Une loi dans le même sens, prévoyant des réparations, est actuellement examinée à Belgrade et elle devrait rendre possible aux migrants autrichiens aussi une mainmise sur le territoire serbe. Berlin profite du succès des négociations autrichiennes. Déjà au mois de juin de l’année dernière le gouvernement fédéral avait "signalé au gouvernement croate son intérêt quant aux réparations pour les réfugiés allemands".
Comme le confirme Nikola Mak, le représentant des minorités de langue allemande au parlement croate, les députés de Zagreb souhaitent approuver l’accord austro-croate avant la fin de cette année.[1] La Croatie avait dans un premier temps appliqué à la seule Croatie la loi sur les réparations du 11 octobre 1996 qui revenait sur les expropriations prononcées dans l’après-guerre par le gouvernement socialiste. Une décision de la Cour constitutionnelle du pays du 21 avril 1999 a toutefois établi que cette loi doit s’appliquer également aux citoyens d’autres États. Après la nouvelle mouture de la loi (5 juillet 2002), les gouvernements de Zagreb et de Vienne ont commencé le travail pour aboutir à un accord bilatéral pour son application, accord qui est techniquement chose faite depuis le mois d’avril. Le gouvernement croate a déjà donné sa bénédiction à cet accord, et la ratification par le parlement autrichien est une pure formalité.

Exemptés des sanctions

L’expropriation des biens des "Allemands de souche" pour lesquels l’accord austro-croate prévoit désormais des réparations remonte aux lois dites d’AVNOJ (l’AVNOJ est le Conseil anti-fasciste pour la libération de la Yougoslavie, ndt), l’équivalent des lois proclamées par Benes en Tchécoslovaquie. Comme celles-ci, les lois d’AVNOJ frappent les collaborateurs et les profiteurs du régime nazi, excluant de l’expropriation et de l’exil ceux qui s’étaient solidarisés avec les populations opprimées dans les territoires occupés par les Allemands, ou participé activement à la résistance. Ainsi, une loi yougoslave du 8 juin 1945 précise: "Sont exclus des mesures d’expropriation les citoyens et les propriétés des citoyens yougoslaves d’appartenance ethnique ou d’origine allemande, ou ayant de noms allemands" qui "ont participé au mouvement de libération nationale". Etaient à l’abri des sanctions également les personnes qui "en dépit de leur appartenance ethnique allemande se sont mariés avec une personne de l’une des nationalités yougoslaves ou juive (...) ou d’une autre nationalité reconnue", tout comme ceux qui "pendant l’occupation ont refusé de se déclarer (...) comme membre du groupe ethnique allemand".[2]

Les intérêts allemands

Les réparations profitent uniquement à ceux qui à l’époque n’ont pas été exemptés des mesures d’expropriation et d’exil. Si les termes exacts de l’accord sont encore tenus secrets, les représentants des unions autrichiennes des réfugiés encouragent leurs membres à "préparer d’ores et déjà les documents et les papiers nécessaires".[3] Peuvent faire valoir leurs droits aussi les descendants des réfugiés qui sont entre-temps décédés. On estime qu’il y aura environ 10 000 demandes de réparation. Ce chiffre ne concerne que les demandeurs autrichiens. L’Italie aussi, qui après la fin de la guerre a également accueilli de nombreux collaborateurs des occupants ("esuli"), est en train de négocier avec la Croatie à propos des réparations. Mais c’est l’Allemagne qui profite le plus du succès des négociations autrichiennes.[4] Le secrétaire d’État aux affaires étrangères, Jürgen Chrobog, a déclaré déjà au mois de juin de l’année dernière à propos des négociations entre Vienne et Zagreb sur les réparations: "Le gouvernement de la république fédérale a signalé au gouvernement croate son intérêt quant aux réparations pour les réfugiés allemands".[5]

Problèmes d’application pratique

La Serbie aussi prépare une loi sur les réparations, très proche pour l’essentiel du modèle croate, et comme elle, n’exclut pas des revendications extérieures. Le gouvernement de Belgrade a déjà fait passer une "loi sur la déclaration et les preuves des propriétés expropriées" qui est entrée en vigueur début juin. Cette loi exige que les demandes de réparation soient effectuées avant le 30 juin 2006, et elle sert à déterminer la somme totale des requêtes. Quant au montant effectif des réparations, il sera fixé par une loi à venir, qui est actuellement à l’examen dans la capitale serbe. Avec la Serbie, un troisième pays né de la division de l’ancienne Yougoslavie s’ouvre ainsi à l’emprise des anciens collaborateurs et profiteurs du régime nazi. Comme le confirme le porte-parole du ministère des affaires étrangères autrichien à la demande de german-foreign-policy.com, il y a d’ores et déjà les conditions juridiques pour des réparations en Slovénie aussi: "Le seul problème est ici leur application pratique".

Un précédent

Comme l’affirment les protagonistes autrichiens de ces négociations révisionnistes, l’accord entre Vienne et Zagreb peut servir comme précédent pour d’autres pays européens. Le texte de l’accord serait "un exemple pour beaucoup d’autres États", déclare le parlementaire autrichien Norbert Kapeller (ÖVP): la république tchèque en particulier devrait se consacrer dans un futur proche aux "chapitres obscurs" de son passé.[6] Les exigences autrichiennes sont encore une fois le fer de lance pour affirmer les positions de droit allemandes. "Le gouvernement actuel de la République fédérale, comme les précédents", peut-on lire dans une déclaration du gouvernement rouge-vert qui vient de céder la place, "ont toujours considéré l’expropriation sans indemnité et l’expulsion des Allemands de l’ancienne Tchécoslovaquie sur la base des décrets de Benes comme une injustice contraire aux lois internationales" [7]. Rien ne laisse supposer que le nouvel gouvernement fédéral s’éloignera de ces positions de droit.

[1] Kroatien will nach Österreich geflüchtete Donauschwaben entschädigen; Der Standard 18.10.2005
[2] Auslegung vom 8. Juni 1945 zu Art. 1, Pkt. 2, des am 21. Novemher 1944 erlassenen AVNOJ-Beschlusses. Sl. List DFJ I/1945, Nr.39, Pos. 347
[3] Entschädigungsabkommen mit Kroatien in Reichweite gerückt; Pressemitteilung des Verbands der Volksdeutschen Landsmannschaften Österreichs 18.05.2005
[4] s. dazu Zangenbewegung
[5] Presseerklärung der Präsidentin des Bundes der Vertriebenen (BdV), Erika Steinbach; 06.08.2004
[6] Kroatien will nach Österreich geflüchtete Donauschwaben entschädigen; Der Standard 18.10.2005
[7] Bury, Hans Martin: Antwort der Bundesregierung auf die schriftlichen Fragen des Abgeordneten Erwin Marschewski, 26.11.2002

s. auch / voir aussi Revisionsachse und Déja vu sowie Großer Irrtum


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Der folgende Tekst auf deutscher Sprache:

Umfassende Ansprüche 
17.11.2005 - BERLIN/MARBURG/ZAGREB/PRAG (Eigener Bericht) - Die Bundesregierung unterstützt Entschädigungsforderungen deutscher "Vertriebener" im ehemaligen Jugoslawien. Dies geht aus einer neuen Erklärung des Staatssekretärs im Auswärtigen Amt Georg Boomgarden hervor. Damit wird ein weiteres Element der europäischen Nachkriegsordnung erneut in Frage gestellt. In Jugoslawien war - ebenso wie im Potsdamer Abkommen für Polen, die Tschechoslowakei und Ungarn - die Umsiedlung deutschsprachiger Minderheiten verfügt worden, nachdem sich die dortigen "Volksgruppen" als fünfte Kolonnen der NS-Außenpolitik betätigt hatten. Im okkupierten Jugoslawien stellte die NS-begeisterte Minderheit das Gros deutscher Kriegsverbrecher (SS-Division Prinz Eugen). Nachfahren dieser Personengruppe betrachten sich als "Vertriebene" und erheben Anspruch auf materielle Kompensationen. Mit "konkreten rechtlichen Gestaltungsmöglichkeiten" für die Durchsetzung ihrer Forderungen befasst sich eine kürzlich publizierte Studie, die mit Mitteln des Bundesbildungsministeriums finanziert worden ist. Darin heißt es, die "enteigneten Sudetendeutschen" hätten "gegen die Tschechische Republik einen Anspruch auf Entschädigung" im Umfang "von vermutlich mehreren hundert Milliarden Euro".

Des prétentions globales
 

17/11/2005

BERLIN/MARBURG/ZAGREB/PRAGUE
 
(Comte-rendu de la rédaction) - Le gouvernement fédéral appuie les requêtes en dédommagement présentées par les Allemands qui ont été expulsés de l'ancienne Yougoslavie. C'est ce qui ressort d'une nouvelle déclaration du secrétaire d'Etat aux affaires étrangères, Georg Boomgarden. Ainsi, un autre élément de la stabilité européenne de l'après-guerre est remis en discussion. En Yougoslavie - tout comme par l'accord de Potsdam pour la Pologne, la Tchécoslovaquie et la Hongrie - le déplacement forcé des minorités de langue allemande avait été imposé du fait que les "groupes nationaux" locaux s'étaient activés en tant que cinquième colonne de la politique extérieure nazie. Dans la Yougoslavie occupée, cette minorité enthousiaste vis-à-vis du régime nazi constituait le gros des effectifs des criminels de guerre allemands (division SS du prince Eugène). Les descendants de ce groupe de personnes se considèrent comme des exilés et revendiquent des compensations matérielles. Une étude récente, dont la publication a été financée par les fonds du ministère des affaires étrangères allemand, examine les "possibilités juridiques formelles concrètes" pour faire aboutir ces revendications. On peut y lire que "les Allemands des Sudètes qui ont été expropriés" auraient "des prétentions en vue de réparations à l'encontre de la République tchèque", à la hauteur "présumée de plusieurs centaines de milliards d'euros".
Comme le fait savoir le secrétaire d'état aux affaires étrangères, Georg Boomgarden, le gouvernement fédéral allemand continue à "observer" le devenir de l'accord entre l'Autriche et la Croatie à propos des réparations de guerre. Cet accord, dont la ratification est imminente, promet aux profiteurs et aux collaborateurs nazis qui ont été exilés, ou à leurs descendants, des compensations matérielles.[1] "Le gouvernement fédéral a fait part au gouvernement croate de l'intérêt des citoyens allemands en ce qui concerne les réparations", réfère Boomgarden.[2] Ainsi Berlin reconnaît qu'il se prépare à appuyer ouvertement les demandes de révisions.

Droits de l'homme

Plusieurs juristes et spécialistes allemands du droit des nations, comme le prof. Gilbert Gorning à Marburg, travaillent en ce sens depuis des années. Gornig a demandé l'expropriation des propriétaires fonciers en Europe de l'Est et du Sud, pour redistribuer leurs terres aux expulsés allemands. Ce chercheur est un fonctionnaire au service de l'Etat et il enseigne dans plusieurs établissements universitaires européens. Dans le cadre d'un projet de recherche dont Gornig est le responsable, on affirme que les "groupes nationaux" allemands en Europe de l'Est ont été l'objet d'un "génocide". Il y aurait donc sur ce chapitre une "prétention de réparations", en particulier à "l'encontre de la République tchèque", peut-on lire dans un écrit d'un autre auteur, Peterhoff.[3] "Les positions d'origine en ce qui concerne la propriété" de ces "exilés" doivent être considérées par l'Allemagne comme encore valables. D'après le droit en vigueur en Allemagne, les demandes de réparation de ces exilés allemands seraient en effet encore recevables.[4] Leur bon aboutissement ne pourrait toutefois être "actuellement" possible que grâce à l'appui du tribunal international européen des droits de l'homme, reconnaît Peterhoff. Ses travaux ont été financés par des fonds du Ministère de la Culture de la République fédérale allemande.

Une restitution naturelle

Ce qui est objet de controverse dans les milieux proches de Gornig, c'est de savoir si les expulsés allemands peuvent réellement faire valoir leur "droit" de principe "à la restitution" de leurs anciennes propriétés. Bien qu'en principe un "groupe national" déplacé doive se voir reconnaître "l'établissement dans les terres d'origine", ce projet peut échouer en raison du fait que l'expropriation des propriétaires actuels est, elle aussi, contraire au droit de gens, estime Peterhoff. Gorning, professeur de droit à l'Université Philipps de Marburg [5], rétribué par l'Etat, il y a encore quelques années à peine, faisait des affirmations plus radicales. "La réparation s'accomplit par la restitution naturelle", peut-on lire dans un de ses écrits: "Il faut donc rétablir dans son ensemble l'ancienne situation".[6] Pour ce faire, il faut aussi pouvoir passer par l'expropriation des propriétaires actuels: "L'Etat peut se trouver dans l'obligation de se procurer l'objet par expropriation et rendre ainsi possible la restitution naturelle". Berlin devrait donc "créer l'impulsion nécessaire pour que les Etats qui ont provoqué les dommages puissent, sur le plan de leur politique intérieure, procéder aux réparations".

Recherche à l'Est

Gornig fait partie d'un réseau de juristes, qui assistent les fédérations des Allemands des anciens expulsés et qui disposent de liens influents à Berlin au sein de dans l'appareil étatique. Gornig a fait ses études et obtenu son diplôme de doctorat auprès de Dieter Blumenwitz, un juriste spécialisé dans le droit des nations. Cet universitaire, décédé en 2005, a été l'un des juristes les plus remarquables dans le domaine des "expulsés" allemands. En 1973 pour l'Etat fédéral de Bavière, il a gagné un procès à la Cour constitutionnelle fédérale, au cours duquel le tribunal supérieur allemand a déclaré que l'Empire allemand, tel qu'il existait dans les frontières de 1937, continue d'exister.[7] Gornig continue de nos jours à publier une collection en collaboration avec "L'association culturelle des expulsés allemands" (Kulturstiftung der deutschen Vertriebenen) [8] et il est membre de l'exécutif du "Cercle de travail de Göttingen", fondé en 1946, qui regroupe les spécialistes du droit des nations proches des "expulsés", dans la tradition de la recherche allemande à l'Est.

Nouvel ordre européen

Actuellement Gornig continue à établir des contacts académiques en Europe de l'Est. Sous sa direction, l'Université de Marburg organise, avec l'appui du DAAD allemand (Office allemand d'échanges universitaires, ndt) un programme de coopération avec l'Université d'Etat de Biélorussie à Minsk, qui vise à la création d'une association germano-biélorusse de juristes.[9] Au début des années 1990 encore, Gornig s'était prononcé favorablement pour que soit enlevé à la Russie une partie du territoire sous sa souveraineté, afin de réunir la région du Niemen avec le territoire proche de Kaliningrad, et donner à cet ensemble "un nouvel statut" du point de vue du droit international.[10] "On aurait ainsi la possibilité [...] d'offrir une nouvelle patrie aux Allemands qui habitent de manière dispersée sur le territoire de l'Union soviétique", prétendait le professeur allemand.

Des fiefs

A côté de son importante activité didactique en Allemagne, Gornig est entre autres engagé dans l'accord d'enseignement et de recherche "Quadriga Europea" entre les universités de Marburg et trois instituts universitaires dans l'Europe centrale méridionale (Maribor en Slovénie; Sibiu en Roumanie; Pécs en Hongrie) et il diffuse ainsi ses conceptions à l'étranger, notamment en Europe orientale et centrale orientale.[11] A Pécs, Gornig a tenu pendant des années des conférences de droit administratif, de droit des nations, et de droit européen. Les trois universités étrangères qui participent à Quadriga Europea, ont en commun leur passé: elles étaient autrefois considérées comme des fiefs de la nationalité allemande.

[1] voir aussi Le précédent croate
[2] Entschädigungs-Abkommen mit Kroatien; Deutscher Ostdienst 10/2005
[3] Wolf Peterhoff: Rechtsansprüche enteigneter Volksgruppen und ihre Durchsetzbarkeit, Frankfurt 2004 (Peter Lang Verlag)
[4] voir aussi Kein Verzicht!
[5] voir aussi Eliten für Deutschland gewinnen
[6] Gilbert Gornig: Zukunftsperspektiven der Minderheiten und Volksgruppen im Bereich der Wiedergutmachung, in: Dieter Blumenwitz/Gilbert Gornig (Hg.): Rechtliche und politische Perspektiven deutscher Minderheiten und Volksgruppen, Köln 1995 (Verlag Wissenschaft und Politik)
[7] BVerfGE 36, 1 - Grundlagenvertrag
[8] Staats- und völkerrechtliche Abhandlungen der Studiengruppe für Politik und Völkerrecht
[9] Hans-Detlef Horn: Belarus im Visier, Marburger Uni Journal Nr. 21/2005
[10] Gilbert Gornig, Das Memelland. Gestern und heute, Bonn 1991 (Kulturstiftung der deutschen Vertriebenen)
[11] Christopher Moss: Quadriga Europea, Marburger Uni Journal Nr. 15/2003

voir aussi GrenzfragenGroßer Irrtum et Gefährlicher Druck


=== 5 ===


Sklavenhalter
 

12.09.2008
BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Vor den bundesweiten Gedenkveranstaltungen zum "Tag der Heimat" an diesem Wochenende nennt die Präsidentin des "Bundes der Vertriebenen" die von NS-Deutschland zerstörten Länder Osteuropas eine "gigantische Sklavenhalter-Region". Dieser Zustand habe "über viele Jahre auch nach dem Krieg" fortbestanden, behauptet Erika Steinbach (CDU). Gemeint sind oft internierte Deutsche, die zum Wiederaufbau der von Deutschland zerstörten Länder Arbeitsdienste leisten mussten. So habe etwa Moskau Deutsche "unmenschlich ausbeuten" dürfen, erklärt die "Vertriebenen"-Präsidentin; in Jugoslawien habe man sogar versucht, die "deutsche Volksgruppe" "auszurotten". Prominente Funktionäre aus Steinbachs Verband verlangen Entschädigung für "deutsche Zwangsarbeiter" und reklamieren für sie "Gleichwertigkeit" mit den Opfern des NS-Terrors. Der "Bund der Vertriebenen", in dem diese Forderungen laut werden, wird mehrere Vertreter in die Gremien der "Stiftung Flucht, Vertreibung, Versöhnung" entsenden, die in den kommenden Jahren mit Millionenbeträgen aus dem Staatsetat errichtet wird und die Nachkriegs-Umsiedlungen als "Unrecht" klassifiziert. Mit der offiziösen Festlegung dieser Position steigen die Chancen deutscher Umgesiedelter, künftig Entschädigung für das angebliche Unrecht zu erlangen.

Ausbeuten

Wie die Präsidentin des "Bundes der Vertriebenen" (BdV), Erika Steinbach, behauptet, haben die von NS-Deutschland zerstörten Staaten Ost- und Südosteuropas nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs Deutsche versklavt. "Millionen Vertriebene mussten vor ihrer Vertreibung Zwangsarbeit leisten", sagte Steinbach laut Redemanuskript bei der Auftaktveranstaltung zum diesjährigen "Tag der Heimat" in Berlin: "Nicht nur für Russland (!), sondern auch für Polen, die Tschechoslowakei und Jugoslawien." Während die westlichen Alliierten NS-Industrielle wie Alfried Krupp wegen "Beschäftigung von ausländischen zivilen Zwangsarbeitern und Kriegsgefangenen" in Nürnberg verurteilt hätten, hätten sie es Stalin "ausdrücklich zugestanden", Deutsche "zur Zwangsarbeit zu deportieren und unmenschlich auszubeuten".[1] Der erzwungene deutsche Beitrag zum Wiederaufbau in den von Deutschland verwüsteten Ländern kann Steinbach zufolge als Sklaverei gewertet werden: "Mittel-, Ost- und Südosteuropa war über viele Jahre auch nach dem Krieg noch eine gigantische Sklavenhalter-Region."

Ausrotten

Laut Steinbach gehört insbesondere "der Untergang der deutschen Volksgruppen in Jugoslawien (...) zu dem Grausamsten, was es in der Mitte des 20. Jahrhunderts gegeben hat". So sei beim Partisanenkampf gegen die "Volksdeutschen" "nicht alleine das Töten, sondern Folter und entsetzliche Verstümmelung vor der Liquidierung (...) bereits ab 1941 an der Tagesordnung" gewesen, erklärt die BdV-Präsidentin über den Widerstand gegen die NS-Okkupanten, deren Vernichtungskrieg für die Beurteilung des Partisanenkampfs keine Bedeutung besitzen soll. Selbst die Wehrmacht habe den Widerstand nicht niederzwingen können: Ihre "Reaktionen (...) waren mit Geiselerschießungen brutal, drastisch und trotzdem hilflos". Wie Steinbach laut Redemanuskript in Erfahrung gebracht haben will, habe Tito sogar das Ziel verfolgt, die "deutsche Volksgruppe (...) auszurotten".[2] Das jugoslawische Vorgehen nach Kriegsende - Internierung und Umsiedlung der Deutschen, wobei viele zu Tode kamen - sei, daran könne "kein Zweifel" bestehen, "Völkermord" gewesen.

Ehrenplakette

Die Invektiven der BdV-Präsidentin gegen die Partisanen und die von NS-Deutschland zerstörten Staaten finden sich im Manuskript der Rede, die Steinbach am vergangenen Samstag in Berlin gehalten hat. Dort sprach sie beim festlichen Auftakt zum "Tag der Heimat", einer alljährlichen Gedenkveranstaltung, deren Ursprung im Protest gegen das Potsdamer Abkommen liegt (german-foreign-policy.com berichtete [3]). Auch dieses Jahr folgen dem Berliner Auftakt Feierlichkeiten in hunderten Städten und Gemeinden Deutschlands, deren Mehrzahl an diesem Wochenende stattfindet - zumeist unter Beteiligung örtlicher oder regionaler Polit-Prominenz. In Berlin trat am Samstag Bundesinnenminister Schäuble auf. Auch Erzbischof Zollitsch, der neue Vorsitzende der Deutschen Bischofskonferenz, wohnte Steinbachs Angriffen auf die Staaten Ost- und Südosteuropas bei. Zollitsch erhielt während der Veranstaltung die Ehrenplakette des BdV.

Gleichberechtigung

Mit ihren Invektiven, die durchaus als inhaltliche Richtlinie für Reden von BdV-Funktionären an diesem Wochenende gewertet werden können, knüpft Steinbach an mehrjährige Aktivitäten aus ihrem Verband an. Im Jahr 2000 etwa ist ein "Arbeitskreis Deutsche Zwangsarbeiter" gegründet worden, den zahlreiche deutsche Umgesiedelte unterstützen. Als Sprecher tritt Rudi Pawelka auf, Bundesvorsitzender der Landsmannschaft Schlesien und Aufsichtsratsvorsitzender einer Organisation mit dem Namen Preußischen Treuhand, die mit Entschädigungsklagen gegen Polen bekannt geworden ist.[4] Wie Pawelka schon vor Jahren bestätigte, ist es das Ziel des "Arbeitskreises", dass sämtliche Deutsche, die nach dem Zweiten Weltkrieg in Ost- und Südosteuropa interniert waren und Arbeitsdienst leisten mussten, eine Entschädigung erhalten - ganz nach dem Vorbild der NS-Zwangsarbeiter. Die "deutschen Zwangsarbeiter", unter ihnen eine nicht genau bekannte Anzahl NS-Täter, verlangten "nichts weiter (...) als Gleichberechtigung mit denen, die Opfer der nationalsozialistischen Diktatur wurden", erläutert Pawelka.[5]

Unrecht

Der BdV, dessen Präsidentin jetzt den Staaten Ost- und Südosteuropas die "Versklavung" von Deutschen vorwirft, wird drei Mitglieder in die Gremien der "Stiftung Flucht, Vertreibung, Versöhnung" entsenden. Die Stiftung, deren Gründung vom Bundeskabinett am 3. September beschlossen worden ist und nun noch vom Bundestag abgesegnet werden muss, wird in Trägerschaft des staatseigenen Deutschen Historischen Museums errichtet. Sie soll eine Ausstellungs- und Dokumentationsstätte an zentraler Stelle Berlins unterhalten und entspricht im allen wesentlichen Elementen den Plänen, die der BdV seit Ende der 1990er Jahre unter dem Arbeitstitel "Zentrum gegen Vertreibungen" umzusetzen sucht. Sie knüpft an eine Ausstellung an, die die Umsiedlung der Deutschen - im Potsdamer Abkommen völkerrechtlich legitimiert - in eine Reihe mit verbrecherischen Maßnahmen stellt und sie damit als "Unrecht" charakterisiert, zugleich aber auch wegen weiterer revisionistischer Tendenzen scharf kritisiert wird (german-foreign-policy.com berichtete [6]). Die Gelder für die Stiftung kommen aus Steuermitteln: Berlin stellt eine Anschubfinanzierung von 1,2 Millionen Euro 2008 sowie 2,5 Millionen jährlich bis 2011 bereit.[7]

Entschädigung

Dass die Gründung der "Stiftung Flucht, Vertreibung, Versöhnung" trotz anderslautender Behauptungen mit Entschädigungsforderungen der Umgesiedelten gegen Polen, Tschechien und die übrigen Herkunftsstaaten in Verbindung steht, hat jetzt indirekt der Bundesinnenminister bekräftigt. Wie Wolfgang Schäuble letzten Samstag beim Berliner Auftakt zum "Tag der Heimat" betonte, wird die deutsche Regierung "weder jetzt noch in Zukunft im Zusammenhang mit der Vertreibung und entschädigungslosen Enteignung von Deutschen Vermögensfragen aufwerfen".[8] Darauf kommt es aber auch gar nicht an, weil Entschädigungsklagen von den jeweils betroffenen Personen und nicht von der Regierung eingereicht werden müssen. Diese Option jedoch hält Berlin juristisch offen. So hat etwa der Staatssekretär im Auswärtigen Amt Georg Boomgarden 2005 erklärt: "Die Bundesregierung hat die kroatische Regierung auf die Entschädigungsinteressen deutscher Staatsangehöriger hingewiesen".[9] Würde Berlin Entschädigungsklagen nicht offen halten, sondern wirksam verhindern wollen, hätte es noch letztes Jahr einer mehrfach geäußerten Bitte des polnischen Präsidenten entsprechen und ein diesbezügliches Abkommen schließen können.[10] Das aber war nicht der Fall und ist, wie aus Schäubles aktueller Äußerung hervorgeht, auch nicht geplant; die Bundesregierung beschränkt sich dem Bundesinnenminister zufolge darauf, "finanzielle(...) oder territoriale(...) Ansprüche" gegen die Länder Ost- und Südosteuropas nicht selbst zu erheben.[11]

Langfristig

Private Ansprüche, wie sie Organisationen aus dem "Vertriebenen"-Milieu (Preußische Treuhand etc. [12]) vor europäischen Gerichten durchzusetzen suchen, bleiben erhalten und werden durch die "Stiftung Flucht, Vertreibung, Versöhnung" langfristig gestützt, da sie die Umsiedlung in Erinnerung hält und als Unrecht charakterisiert. Die jüngsten Äußerungen der BdV-Präsidentin, die die Staaten Ost- und Südosteuropas als "Sklavenhalter" diffamiert, verschärfen den Diskurs und rücken Nachkriegsmaßnahmen der Nazi-Opfer eng an die Verbrechen der deutschen Täter heran. Die Entschädigungsforderungen und die Nivellierung von Tätern und Opfern unterminieren die Position der ehemals okkupierten Staaten - und schaffen ein Klima, in dem die

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Per intervenire è necessario iscriversi inviando la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it

Nel corso del convegno saranno presentati i Dossier "I FALSI AMICI" e "LA FONDAZIONE RSI"

Per ogni ulteriore informazione o aggiornamento fare riferimento alla pagina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/falsiamici.htm

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CONVEGNO
I FALSI AMICI

Il fenomeno "rossobruni" / I fascisti del terzo millennio / Nazifascismo e Balcani / Nazifascismo e Medioriente / La Fondazione RSI / Infiltrazione nera nell'estrema sinistra / Nazifascismo e nazionalismi



A 70 ANNI DALLA RESISTENZA
CONTRO LE INFILTRAZIONI NEOFASCISTE
NELLE INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
E NELLE LOTTE SOCIALI


AREZZO, SABATO 7 DICEMBRE 2013, ORE 11-18
presso la Camera del Lavoro, via Monte Cervino 24


# organizzano:

 ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo

 CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino

# promuovono:

 Un Ponte per... ONG

 Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS

 Contropiano rivista


# il programma del convegno in dettaglio:

ORE 11:00 Interventi degli organizzatori e dei promotori

coordina Susanna Angeleri 

Guido Occhini (ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo)
saluto

Laura Vichi (CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino)
presentazione del Dossier Fondazione RSI

Alessandro Di Meo (Un Ponte per... ONG)
presentazione del Dossier I FALSI AMICI

Andrea Martocchia (Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS)
nazifascismo e Balcani

Sergio Cararo (Contropiano Rivista)
i fascisti del Terzo Millennio

ORE 13:30 Pausa

pranzo in loco, a sottoscrizione

ORE 14:30 Relazioni ad invito

Claudia Cernigoi (La Nuova Alabarda / Diecifebbraio.info - Trieste)
"rossobruni" e nuova destra "internazionalista"

Fabio De Leonardis (storico - Bari)
le "relazioni pericolose" del sionismo

Davide Conti (storico - Roma)
per una storia dell'infiltrazione "nera" nell'estrema sinistra 

Marco Santopadre (Rete dei Comunisti - Roma)
la strumentalizzazione della causa irlandese e basca

Vincenzo Brandi (Rete No War - Roma)
la strumentalizzazione della questione medio-orientale

A SEGUIRE Interventi programmati di gruppi e associazioni
Per intervenire è necessario iscriversi inviando anticipatamente la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it




"TANTO SEMO SEMPRE NOI MONA A PAGAR"



Roma stanzia 6,5 milioni per la memoria dell’esodo

La Farnesina firma una convenzione triennale per attività storiche e culturali Codarin: «Giusta attenzione». Tra i progetti una mostra permanente al Vittoriano

TRIESTE. Oltre 6,5 milioni di euro nel triennio 2013-2015 per la tutela del patrimonio storico e culturale degli esuli istriani, fiumani e dalmati. È stata firmata a Roma, nella sede del Ministero degli Esteri, la Convenzione triennale per la realizzazione del piano di interventi per la promozione culturale del dramma dell’esodo.
A firmare il documento, che rinnova la convenzione prevista per legge a partire dal 2003, sono stati il Segretario Generale del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e il Turismo, Antonia Pasqua Recchia, il Direttore Generale per l'Unione Europea, ambasciatore Luigi Mattiolo, e il presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Renzo Codarin. Con questo documento vengono assegnati, per attività di stampo storico, divulgativo e culturale, poco più di 2 milioni di euro per l’anno 2013, 2,3 milioni per il 2014 e altrettanti per il 2015.
«Siamo soddisfatti perché, nonostante il periodo di crisi e di risorse limitate, sono stati confermati gli stanziamenti – spiega Codarin – a conferma dell’attenzione che c’è nei nostri confronti da parte del Governo e della Presidenza della Repubblica come già dimostrato nel corso di questi anni da tutti i soggetti che si sono alternati».
I fondi possono essere utilizzati per pubblicazioni, centri di documentazioni (in particolare per l’informatizzazione), spettacoli (possibile che possano essere utilizzate delle risorse per divulgare “Magazzino 18” di Simone Cristicchi) e opere di divulgazioni. «Questi fondi – aggiunge Codarin – sono stati fondamentali negli ultimi anni per realizzare numerose iniziative che hanno permesso di accrescere la conoscenza delle vicende dell’esodo in Italia».
Nel corso di questi anni le risorse che sono arrivate da Roma hanno consentito di finanziare diversi progetti, tra cui i più conosciuti sono il Museo di via Torino e quello di Padriciano. L’obiettivo più ambizioso per il prossimo triennio, spiega ancora Codarin, è la realizzazione di una mostra permanente sull’esodo all’interno del Museo del Vittoriano a Roma che vada a completare il percorso storico contenuto nell’esposizione dell’Altare della Patria sulle vicende che hanno portato all’indipendenza e all’unificazione d’Italia.
«Ad oggi il museo sulla storia dell’indipendenza italiana si ferma alla Prima Guerra e a Nazario Sauro. Il nostro obiettivo è raccontare anche la storia dell’esodo che è parte integrante della storia d’Italia. L’ingresso della Croazia nell’Unione Europea e i rapporti migliorati tra i due Paesi – aggiunge Codarin – dovrebbe rendere più agevole il percorso per realizzare questo obiettivo».
Entro la fine di novembre si riunirà il tavolo di lavoro con la Presidenza del Consiglio e i Ministeri coinvolti nei vari progetti: siedono al tavolo i rappresentanti degli Esteri, dell’Economia (per le questione relative ai beni abbandonati), della Cultura, degli Interni e della Pubblica Istruzione. In questo tavolo verranno concretamente presentati e portati avanti i progetti per il triennio 2013-2015.

10 novembre 2013

I COMMENTI

Andrea Assistenza Self Everio ·  Top Commentator · Università degli studi di Trieste
e CODARIN quanto prende o lo fa gratis!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!,e dopo non ci sono i soldi per gli ammortizzatori sociali
Rispondi · 2 ·  · 10 novembre alle ore 4.18

Marina Furlani ·  Top Commentator
tutti soldi rubadi ai esuli che aspetta ancora de esser risarcidi dai beni nazionalizzati con la truffa de osimo invece li magna i vari enti e associazioni varie istriane ma italiotte per far ste robe inutili giusto per cior in giro la gente de trieste
Rispondi ·  · Ieri alle 8.16

Bruno Kaiser ·  Top Commentator
Però del dramma de quando xe rivadi lori a redimerne e farne far le valige per scampar, mai più, vero?
Rispondi · 1 ·  · 10 novembre alle ore 15.26

Dany Beau
Promozione culturale del dramma del'esodo??? Tra poco si renderanno conto del dramma delle scuole che cadono a pezzi?!!!
Rispondi ·  · 10 novembre alle ore 7.26

Gianluigi Rupel ·  Top Commentator · HTWG Konstanz
tanto semo sempre noi mona a pagar.
Rispondi ·  · 11 novembre alle ore 7.17

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Confronta con i contenuti dello spettacolo di Cristicchi:
Confronta con la minaccia di taglio dei fondi anche per l' ANPI:





Nazi looted art works discovered in Munich


By Verena Nees 
13 November 2013


Two weeks ago, the German FOCUS magazine revealed that, while conducting the authorised search of a flat in Munich-Schwabing on February 28, 2012, police found and seized about 1,400 paintings and prints, most of which probably consisted of Nazi-looted property that was considered lost.

Among the works are paintings by Picasso, Chagall, Matisse, Nolde, Renoir, Toulouse-Lautrec, Liebermann, Beckmann, Otto Dix, as well as artists of the Dada, Expressionism, Surrealism and Cubism movements, outlawed by the Nazis as “degenerate art”. There are also works by artists from earlier centuries, such as Dürer and Spitzweg.

The flat is owned by the almost 80-year-old Cornelius Gurlitt, son of Nazi art dealer Hildebrand Gurlitt, who apparently harboured this huge collection of paintings until his death in 1956.

His son Cornelius, who is not an art dealer, ostensibly lived from the proceeds of the sale of some of these works on the art market. On September 22, 2010, customs officers had searched him on a train from Zurich to Munich, found €9,000 in cash in his bag and arrested him on suspicion of tax evasion.

In December 2011, Gurlitt was nevertheless easily able to auction off a gouache painting until then considered lost—The Lion Tamer, by expressionist painter Max Beckmann—at the Lempertz auction house in Cologne. A search warrant issued a few months later led to the confiscation of 121 framed and 1,285 unframed works of art from his flat.

A fierce debate about the Nazi art theft has been triggered by this large-scale recovery of valuable art works in the middle of Munich almost 70 years after the war and nearly 80 years after the Nazis’ “degenerate art” propaganda offensive. More remarkable still is the fact that the public prosecutor had been secretly in possession of the confiscated pictures since February 2012 and is even now unwilling to publish a complete list of the works found.

The federal government was informed of the matter several months ago, according to spokesman Steffen Seibert. But the general public, relatives of the former Jewish owners and public museums throughout Europe, from which the Nazis seized works of art, were—and continue to be—denied the right to inspect the collection.

At a press conference on November 4, Augsburg senior prosecutor Reinhard Nemetz justified this by claiming that proceedings against Cornelius Gurlitt for tax evasion and embezzlement had not yet been completed. “Priority is given to the investigations. I can’t speculate about who may be the owners of any of these objects”, he said, adding that people believing they are entitled to any of the works are welcome to register their claim.

No indication was given regarding Cornelius Gurlitt’s whereabouts. “I don’t know where he is, because that’s not a matter we’re dealing with”, Nemetz said. No investigations have been carried out by the judicial authority either in Salzburg, where Gurlitt owns a house and—according to press reports—also rents a flat, nor in the home of his sister.

Nemetz’s assertion that informing the public about the trove would threaten the preservation of the art works was criticised by Berlin art expert and lawyer Peter Raue as “verging on insolence”. A list of images published on the Internet would enable museums and relatives of former Jewish owners to help resolve questions of ownership.

The Israeli Haaretz newspaper wrote that the works found in Munich were “only the tip of the iceberg”. According to the Culture and Media Advisor to the German government, there were about 80 German art dealers who had acted like Hildebrand Gurlitt.

Alfred Weidinger, vice director of the Vienna Belvedere Palace Museum, told the Austrian APA news agency: “It was no secret that this collection existed. Basically, every important art dealer in southern Germany knew it existed—and knew how much of it there was, too”.

Weidinger claimed the collection would have been found much earlier, if the relevant German authorities had carried out their investigations more carefully. “If they didn’t know until 2013 that there was a Gurlitt collection in Munich, they weren’t doing their job properly”, he said.

In a FOCUS Online video interview, Lempertz auction house legal adviser Karl-Sax Feddersen defended the auction of the Beckmann painting from Gurlitt’s collection as “a normal affair”. He admitted that Gurlitt was known to the house: “The name Gurlitt—Gurlitt was a colourful character who did business even in those crazy times (sic). If you are familiar with the background, you will of course understand that there can be problems in this respect”. But the auction house reconciled itself to the inheritance of the Beckmann picture.

“Degenerate Art”

In 1937 the Nazis launched their “Degenerate Art” campaign with a touring exhibition in Munich and later in other major cities in Germany and Austria. In preparing for the exhibition more than 21,000 works of modern art were confiscated from German museums. After the war began, another 600,000 works of art were stolen in the occupied countries of Europe.

The propaganda exhibition, “Degenerate Art”, displayed to the public for the last time many modern masterpieces that had been confiscated from museums. It attracted a record number of over 2 million visitors. The confiscated works were then stored in depots in Berlin—for example, in the Victoria warehouse in Kreuzberg, in the Schönhausen Palace in Berlin-Niederschönhausen and also in the basement of the wartime propaganda ministry, where a number of leading Nazis like Hermann Göring stored valuable appropriated works they later privately sold.

In May 1938, the confiscation of the art works was legitimised by the “Law on Sequestration of Products of Degenerate Art”.

A total of 1,004 paintings and 3,825 graphics, officially declared to be unusable eminent pictures, were burned in the courtyard of Berlin’s main fire station on March 20, 1939. Some 125 works, chosen by a “Commission for the Liquidation of Products of Degenerate Art” under the direction of Hermann Göring, were scheduled for an auction in Switzerland, which was to be transacted by the Theodor Fischer auction house in Lucerne.

Joseph Goebbels’s propaganda ministry then commissioned qualified art experts to sell other works of art in order to obtain foreign currency for the imperial treasury and the war. Among these art sellers were Ferdinand Möller, Karl Buchholz, Bernhard A. Böhmer and others, including the Dresden art historian, Hildebrand Gurlitt.

Although Gurlitt had a Jewish grandmother and was involved in modern art prior to 1933 as director of the Zwickau Museum and head of the Hamburg Art House, he rose to become one of the Nazis’ most successful art dealers after Hitler’s seizure of power.

From 1942, Gurlitt operated in France and the Netherlands on behalf of Hitler’s “Special Mission Linz”, cooperating there with Erhard Göpel and Bruno Lohse. The commission involved the gathering of looted art objects for a monumental “Führer Museum” in Linz.

Bruno Lohse, SS lieutenant colonel and deputy head of a special staff for visual arts at the notorious Task Force of Reich Leader Alfred Rosenberg (ERR) in Paris, organized—among other cultural crimes—the destruction of Alphonse Schloss’s famous Jewish collection in southern France. The collection contained numerous Dutch masterpieces of the 17th century, including some by Rembrandt, Brueghel, Rubens and Frans Hals. Hermann Göring selected hundreds of paintings from those confiscated in the ERR’s Jeu de Paume headquarters for his personal collection. Apparently, Gurlitt also had access to this collection and was in a position to exploit it for himself. Only a few of the works were to resurface after the war.

As is now known, Hildebrandt Gurlitt also participated in an October 1943 visit by Erhard Göpel to expressionist painter Max Beckmann, who was living in exile in Amsterdam. The two art dealers talked Beckmann into selling his pictures. In the postwar period, this was portrayed as an heroic feat on part of Göpel, who allegedly wanted to secure Beckmann’s financial livelihood. Such euphemistic accounts survive even today on Wikipedia.

No legal consequences after 1945

After the war, the raids conducted by the Nazi looters went unpunished. Hildebrand Gurlitt and many others continued to work as art dealers. Gurlitt participated in denazification proceedings that exonerated him, partly because of his Jewish grandmother.

Gurlitt claimed during his interrogation that most of the works in his collection were burned in the bombing of Dresden, shortly before the war ended. In the 1960s, his widow repeated this claim, which the discovery of the Munich trove has now proved to be a lie.

Approximately a hundred works, found and confiscated by the Americans during Gurlitt’s arrest at the von Pölnitz family castle in northern Bavaria, were described by Gurlitt as “a private collection”. His demand for their return proved successful. The Allies also handed collections back to many other Nazi art dealers.

In the postwar period, Hildebrand Gurlitt again dealt in modern art, heading the Düsseldorf Art Association until his death in 1956. He was revered in polite society to such an extent that a street in Düsseldorf was named after him.

Following the war, other Nazi art dealers also managed to pursue their former profession undisturbed or attain honourable positions in the cultural sector, as did Ferdinand Möller and Erhard Göpel. The latter was an editor at the Prestel publishing company from 1948, as well as art critic for theSüddeutsche Zeitung and Die Zeit newspapers. His museum career at the Bavarian State Picture Collection failed only because his advocates had themselves been connected with “Special Mission Linz”—as was attested by the director general of the collection, Ernst Buchner, formerly one of Hitler’s most important art advisers.

Hermann Voss, head of “Special Mission Linz”, was appointed director of the Dresden State Art Collections by Goebbels in 1943 and removed from the post by the Soviet occupiers in 1945. Only when he fled to the West was he arrested and interrogated by the American occupation authorities. However, he was able to evade conviction and eventually even managed to rise to the position of Bavarian state government adviser on the sale of works of art.

In the latest issue of Die Zeit, US historian and expert on Nazi looted art Jonathan Petropoulos declared that trading in stolen art is once again flourishing, particularly in Munich, where a network of former Nazis is active. He pointed out that those involved included Bruno Lohse, Andreas Hofer, Karl Haberstock and Hildebrand Gurlitt.

When former SS officer Bruno Lohse died at the age of 95 in 2007, stolen paintings by Claude Monet, Auguste Renoir and Camille Pissarro were discovered in his Zurich safe, which was managed under the code name of a certain “Schönart” company based in Liechtenstein.

The German judiciary, itself riddled with former Nazi attorneys, showed no interest in pursuing the art dealers and museum directors who were involved in Nazi art theft. “The parties concerned were able to continue their lives unmolested and became a normal part of the West German art scene”, says Petropoulos.

When two members of the Task Force of Reich Leader Alfred Rosenberg, Robert Scholz and Walter Andreas Hofer, were sentenced to ten years’ incarceration in Paris in 1950, the Federal Republic refused to extradite them.

To this day, works that the Nazis seized from public museums and passed on to their licensed art dealers—including Gurlitt—in order to be resold are regarded as property lawfully acquired through purchase. The transactions made at the time under conditions of force were never declared annulled. The “Law on Sequestration of Products of Degenerate Art” was not revoked after 1945, and art dealers consequently had free rein to trade in the stolen works of art.

The current conduct of the office of the public prosecutor has to be seen in this context. It wants to avoid an open debate about the recently discovered paintings and the behaviour of the post-war German judiciary in relation to art theft perpetrated by the Hitler regime. At the same time, it wants to protect stakeholders in the art market, who are still enriching themselves through the sale of art works plundered by the Nazis.