Informazione



Le bombe di Monti sull'Afghanistan

la Redazione - Domenica 15 Luglio 2012 13:14

La Jugoslavia l'aveva già dimostrato: i «democratici», americani o italiani che siano, amano i bombardamenti a tappeto

Il Manifesto di oggi, 15 luglio, dedica giustamente un grande spazio alle notizie provenienti dall'Afghanistan. Cosa ci dicono queste notizie? Che gli aerei italiani schierati ad Herat stanno prendendo parte a veri e propri bombardamenti a tappeto del suolo afghano. La notizia può stupire solo i pacifinti alla Flavio Lotti (Tavola della pace), specializzati nel credere alle menzogne di politici e generali. In realtà l'Italia ha sempre partecipato a pieno alla guerra di occupazione dell'Afghanistan. Tuttavia le notizie odierne meritano qualche commento.

Ricordate i cosiddetti «caveat» che avrebbero dovuto limitare l'uso dei militari e delle armi italiane in azioni di guerra? Questi limiti altro non erano che un trucchetto per far accettare la partecipazione del nostro paese al conflitto, cercando (peraltro inutilmente) di salvare la faccia degli allora parlamentari (2006-2008) di Prc, Pdci e Verdi impegnati nei vari voti di rifinanziamento della «missione».

Che quei limiti non vi fossero è stata sempre cosa nota, ed oltretutto confermata dalle tante testimonianze sul campo. Ora, però, siamo all'ufficializzazione. Il perché è presto detto. Il 28 gennaio scorso, il ministro Di Paola - un ammiraglio alla Difesa, come si conviene ad un governo golpista -, così si esprime in parlamento: «Intendo far sì che i nostri militari e tutti i loro mezzi schierati in teatro siano forniti delle dotazioni e capacità necessarie a garantire la massima sicurezza possibile del nostro personale e dei nostri amici afgani e alleati». Ovviamente nessun cenno ai caveat, visto che questo governo non ne ha bisogno.

Questo passaggio viene silenziato dai media e accettato dal Pd. Eppure non si può dire che Di Paola sia stato reticente, vista la seguente precisazione: «Tutti i mezzi che abbiamo verranno utilizzati sulla base di tutte le loro capacità». Dunque, se si schierano dei bombardieri sarà ovviamente per bombardare. Più chiaro di così. Eppure, in questo strano paese la cosa non ha destato alcuna reazione degna di nota. Interessante, in particolare, il silenzio-assenso del Pd.

Questi «democratici», al pari dei loro omonimi a stelle e strisce (ieri Clinton, oggi il nobel Obama), amano i bombardamenti, meglio se a tappeto. Fu così anche per la Jugoslavia, quando l'ex comunista, allora diessino, oggi «democratico» D'Alema invio i caccia italiani a bombardare il paese balcanico, dicendo che i suoi aerei non sganciavano bombe, ma partecipavano semplicemente a non meglio precisate operazioni di «difesa integrata». Una presa in giro pari solo alla faccia tosta dell'allora primo ministro. Alla fine delle operazioni aeree saranno gli stessi alleati a riconoscere che l'Italia era stata solo seconda - dopo gli Usa, ma prima della Francia e della Gran Bretagna - per numero di raid sulla Jugoslavia.

Una situazione analoga si è determinata anche nel 2011 con l'aggressione alla Libia, con una partecipazione italiana alla  guerra voluta in primo luogo da Napolitano, cioè da un altro esponente «democratico», oggi non casualmente insediato dalle oligarchie euro-atlantiche al Quirinale, in barba all'art. 11 della Costituzione e a tutto ciò che dovrebbe conseguirne.

La partecipazione degli Amx italiani ai ripetuti bombardamenti nella provincia di Farah, nell'Afghanistan sud-occidentale, di cui ha già parlato il Sole 24 Ore nei giorni scorsi, non può dunque stupire. Solo gli ipocriti amano le ipocrisie. Ce lo ricorda il generale Mini: «Bombardiamo con gli Amx? Se è per quello, gli elicotteri Mangusta possono fare ancora più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un'operazione con 60 insorti uccisi. Non erano Amx ma elicotteri». (il manifesto, 15 luglio 2012)

La realtà della criminale guerra d'occupazione dell'Afghanistan è davanti a noi. Così pure il pieno coinvolgimento in essa dell'Italia. E' una guerra che non domerà la coraggiosa resistenza afghana, alla quale va tutto il nostro sostegno. Ma questa occupazione, che dura da 11 anni, è anche qualcosa di più, specie per un paese come l'Italia: è il segno dell'accettazione della «normalità» della guerra. Un altro segnale di un imbarbarimento crescente. Se così non fosse non potremmo avere i Monti, le Fornero, i Di Paola al governo.


Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" 
Data: 16 luglio 2012 22.14.16 GMT+02.00
Oggetto: [JUGOINFO] Gli italiani bombardano anche in piena estate

 



Escalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?


16 Luglio 2012

di Fausto Sorini, segreteria nazionale, responsabile esteri PdCI

“Dunque la guerra non va in vacanza, nemmeno per gli italiani – scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto di domenica 15 luglio. Ora è ufficiale: i nostri quattro cacciabombardieri Amx del 51esimo stormo dispiegati a Herat stanno bombardando a tappeto il nemico talebano”. 

La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.

“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.

Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.

Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.

“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”. 

Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».

Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.





29 AGOSTO 2012

La Serbia oggi: intervista a Marko Knežević del Movimento dei Socialisti serbi

a cura di Francesco Delledonne e Alessio Arena

L’aggressione NATO contro la Serbia nel 1999 ha segnato profondamente la storia recente. Ha dato origine a un precedente da allora ampiamente sfruttato per perpetrare aggressioni imperialiste, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. Condotta fuori da qualunque parvenza di legalità internazionale, quell’aggressione ha anche rappresentato uno dei momenti più drammatici dello smembramento della Jugoslavia da parte delle potenze atlantiche.

L’Italia ha svolto nell’intero processo di frantumazione dei Balcani e nella guerra del 1999 in particolare un ruolo di primo piano, partecipando all’occupazione del Kosovo e Metohija seguita alla fine dei bombardamenti e spalleggiando la proclamazione unilaterale d’indipendenza della provincia da parte albanese.

Per approfondire la situazione attuale e per contribuire a sviluppare una maggiore consapevolezza da parte degli italiani riguardo alle politiche imperialiste portate avanti dal nostro paese, abbiamo intervistato Marko Knežević, responsabile giovanile del Movimento dei Socialisti serbi (Pokret Socijalista) e dirigente del Comitato Centrale del Partito.

L’intervista, per la quale ringraziamo il compagno Knežević, vuole essere anche una manifestazione concreta di solidarietà nei confronti di un popolo che ha pagato a caro prezzo la sua fierezza e la resistenza all’imperialismo atlantico.

 ***

Puoi descriverci a grandi linee la situazione socio-economica della Serbia in questo momento? Che impatto ha la crisi economica sulla popolazione? Quali tracce ha lasciato l’aggressione militare subita nel 1999 da parte della NATO? Qual è l’umore del popolo? Ci sono stati movimenti di massa di recente?

La situazione è difficile. Per dodici anni la Serbia è stata saccheggiata da politici corrotti e magnati, ma il nuovo governo di cui fa parte il Movimento dei Socialisti ha iniziato una lotta accanita contro il crimine organizzato e la corruzione. In Serbia ci sono molti disoccupati, i nostri giovani non hanno speranza e molti emigrano in cerca della felicità e di una vita migliore. Il compito del nostro Partito è di dare lavoro e di riportare in Patria i nostri giovani.

La Serbia è in crisi economica da ormai vent’anni: i primi dieci a causa delle sanzioni e gli ultimi a causa dei politici corrotti. Come ho detto prima, ci sono molti disoccupati e molte persone che vanno via, ma credo che il nuovo governo abbia avuto troppo poco tempo per cambiare le cose. La Serbia non è un Paese povero, abbiamo terra coltivabile e miniere, la ripresa del mio Paese è possibile.

La NATO ha distrutto il mio Paese, ha distrutto la nostra economia, le nostre infrastrutture e ha massacrato migliaia di civili innocenti, tra cui molti bambini. Le tracce dell’aggressione sono ancora grandi e profonde, la Serbia non si è ancora ripresa da quell’attacco barbaro. La NATO continua ancora oggi a uccidere il nostro popolo, a causa dell’uranio lasciato dalle bombe che ancora avvelena il Paese. C’è un numero rilevante di malati di cancro, causato direttamente dai bombardamenti. La Serbia non farà mai parte della NATO.

C’è stato un grande movimento di massa e una coalizione di partiti si è unita per vincere le elezioni. Ora la coalizione è al governo della Serbia e il nostro partito è orgoglioso di aver contribuito alla cacciata dei politicanti corrotti.

Quali elementi di novità e quali questioni si presentano con il ritorno del Partito Socialista alla guida del governo? Come si è evoluto quel partito dopo la caduta di Milosevic?

Il Partito Socialista Serbo è al governo dal 2008 quando era alleato con il Partito Democratico ed è sopravvissuto rinnegando pubblicamente Slobodan Milosevic. Il nostro partito non è in un’alleanza con i socialisti, ma attualmente siamo al governo insieme.

Quali sono i rapporti tra il Movimento Socialista e la coalizione di governo? Quali sono le responsabilità affidate al vostro partito in questo momento?

Noi prima delle elezioni abbiamo firmato un accordo di coalizione, di cui fa parte il Partito Progressista Serbo [del presidente Nikolić, N.d.R.].

Il Movimento dei Socialisti è responsabile per il Kosovo e Metohija. I serbi che vivono in quell’area hanno chiesto di essere rappresentati da Aleksandar Vulin, che è il presidente del nostro Partito. Non potevamo rifiutare la richiesta dei serbi del Kosovo e Metohija: il Movimento dei Socialisti è presente e radicato da anni nel Kosovo e Metohija ed è nostro dovere difendere e proteggere il popolo di questo territorio, che da secoli è abitato dai serbi.

Come si presenta la situazione in Kosovo in questo momento e qual è la posizione del partito su questa questione? Perché il Kosovo è cruciale nei piani della NATO per sottomettere la Serbia?

Un’informazione: quando si parla della provincia meridionale della Serbia, il termine Kosovo non è corretto, solo i terroristi la
chiamano così. Si dice Kosovo e Metohija. La situazione in Kosovo e Metohija è difficile: i serbi vengono quotidianamente picchiati e uccisi dagli albanesi, non hanno libertà di movimento e vivono costantemente nel terrore.

Ci si preoccupa molto del comportamento della cosiddetta “comunità internazionale”, che altro non è se non i responsabili del massacro a danno dei Serbi. Chiediamo che i negoziati tra Belgrado e Pristina siano garantiti dall’ONU e basati sulla risoluzione n.1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Su questa questione ci basiamo sulla Costituzione della Repubblica di Serbia e sulla risoluzione n.1244: la situazione è molto chiara, la Serbia non riconoscerà mai la formazione terrorista chiamata “Repubblica del Kosovo”. Possiamo negoziare su ogni tipo di problema, ma quello dell’indipendenza è fuori questione.

Il sistema schiavistico è attualmente molto in voga, dal sistema bancario fino allo sfruttamento dei lavoratori. In Kosovo e Metohija è avvenuta una vera e propria rapina: politici e generali della NATO hanno privatizzato aziende e miniere serbe, naturalmente senza chiedere nulla ai serbi stessi. C’è inoltre l’aspetto militare della collocazione geografica del Kosovo e Metohija da non dimenticare, e ogni sorta di altri elementi. Ma oggi, finalmente, la Serbia ha un governo che lavora per gli interessi dei suoi cittadini e non per la NATO.

In che modo operano le forze militari italiane presenti nel Kosovo? In quali altri modi agisce l’Italia in quel contesto?

È difficile per me rispondere a questa domanda, perché rispetto il popolo italiano, ma non si può nascondere la verità. Il popolo italiano è buono e pacifico, ma le azioni dell’ignobile governo italiano, con i soldati italiani che in Kosovo e Metohija partecipano con i terroristi albanesi negli abusi verso i serbi, porta dolore e paura al mio popolo.

Recente è anche la separazione tra Serbia e Montenegro. L’Italia ha beneficiato fortemente della secessione, mettendo le mani su gran parte dell’economia montenegrina. Sai dirci qualcosa in proposito?

La Serbia e il Montenegro si sono separati pacificamente. L’unica cosa essenziale è che non vengano violati i diritti umani della comunità serba in Montenegro e che si sviluppino dei buoni rapporti.

Per finire, alcune domande sul vostro partito. Quando è stato fondato? Quali sono i suoi principi ispiratori e i suoi obiettivi?

Il Movimento dei Socialisti (Pokret socijalista, PS) è stato fondato nel 2008, come un tentativo di mostrare responsabilità nei confronti delle prossime generazioni. La nostra esistenza è basata sul marxismo. Siamo contro la globalizzazione, vediamo il futuro del mondo come un’unione di nazioni libere. L’obiettivo finale del nostro Partito è di creare felicità e libertà individuale e collettiva per il nostro popolo. È il fine della nostra azione politica. Il partito è stato fondato da Aleksandar Vulin e da Mihailo Marković. Potete trovare più informazioni sul nostro sito [http://www.pokretsocijalista.org/], la nostra pagina facebook e sul nostro profilo Youtube.

Come si pone il vostro partito riguardo alla prospettiva dell’adesione della Serbia all’UE?

Prendere impegni con l’Unione Europea non è necessariamente un’azione contro la Serbia, ma prima di tutto l’UE deve iniziare a rispettare la Repubblica di Serbia. I negoziati devono avvenire in entrambe le direzioni. Ora non avviene più come durante il governo precedente, in cui venivano accettate tutte le pretese dell’UE. Bisogna discutere sulle questioni concrete e l’integrità territoriale della Serbia deve essere rispettata. Il popolo serbo non ha fiducia dell’Unione Europea, e con buone ragioni. Non siamo contro il dialogo, ma esso deve basarsi sul rispetto reciproco.

Come valuta il vostro partito l’esperienza storica del socialismo jugoslavo? Che giudizio date del ruolo di Milosevic nella difesa della Serbia e della sua economia pianificata dall’imperialismo? Quali sono stati i suoi errori?

Il socialismo jugoslavo è stato positivo per il popolo, ma ha ceduto di fronte agli attacchi delle attitudini nazionaliste. Come conseguenza di ciò, è scoppiata la guerra.

Il mio Partito non ha a che fare con Slobodan Milosevic, ma lo rispetto come un vero combattente contro la globalizzazione e l’imperialismo. Il suo unico errore è stato di difendere i serbi. Quello che ho detto verrà capito solo dai serbi, non mi aspetto che voi capiate.

In che modo dovrebbero muoversi gli italiani progressisti, a tuo avviso, per sanare la ferita inferta all’amicizia tra i nostri popoli dall’aggressione del 1999 e da quanto ne è seguito?

Sì, l’Italia ha giocato un ruolo cruciale nel bombardamento del mio Paese. I serbi vengono ancora oggi discriminati pesantemente, derubati della loro tradizione culturale in Kosovo e Metohija. Siamo una nazione che sembra non abbia il diritto di vivere. Ma, come ho già detto, i serbi non odiano l’Italia. Dovete trasmettere questo messaggio a tutti in Italia: il governo italiano deve ritirare le truppe dal Kosovo e Metohija e smettere di recare danno al nostro popolo. Basterà dire al vostro popolo la verità riguardo a quanto successo in Serbia. Vi ringrazio a nome del mio popolo per questa intervista.





ONORANZE USA-E-GETTA


LACOTA (UNIONE ISTRIANI): "REVOCARE ONORIFICENZA A TITO"

IL MARESCIALLO ERA STATO NOMINATO CAV. GRAN CROCE NEL 1969 (ANSA) - TRIESTE, 27 AGO - Dopo la decisione del governo di chiedere al Quirinale la revoca, per indegnita', dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce conferita nel 2011 da Giorgio Napolitano al presidente siriano Bashar al-Assad, l'Unione degli Istriani scrive al Governo Monti chiedendo che ''la stessa onorificenza venga tolta al maresciallo Tito, i cui crimini contro centinaia di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, e di varie nazionalita' jugoslave, sono stati definitivamente acclarati e condannati''. L'onorificenza era stata concessa al maresciallo Tito nel 1969 dall'allora presidente della repubblica Giuseppe Saragat. ''Non e' accettabile, non puo' esserlo per nessun motivo - afferma in una nota il presidente Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota - che lo Stato onori contemporaneamente le vittime di una bestiale pulizia etnica, come quella subita dai giuliano-dalmati, e il persecutore che la mise in pratica: un simile atteggiamento tradisce la moralita' dello Stato''. Il Presidente dell'Unione degli Istriani chiedera' un incontro con il sottosegretario Staffan De Mistura, affinche' ''non si debba trascorrere un altro 10 Febbraio, Giorno del Ricordo, con ancora in piedi una simile, disumana situazione''. (ANSA). 27-AGO-12 17:11 


LACOTA (UNIONE ISTRIANI): "SONO L'UNICO ITALIANO CHE HAIDER HA INVITATO A PRANZO"


Stralcio da Ansa del 12 ottobre 2008: "Non solo la Carinzia e l'Austria, ma l'intera Europa perde un leader politico di grande intuito e carisma, certamente populista ma in senso positivo": lo ha affermato il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, a proposito della morte di Joerg Haider. Lacota - informa una nota - aveva pranzato ieri a Klagenfurt con Haider." 
 
Stralcio da "Il Piccolo" del 13 ottobre 2008: «Sono l’unico italiano che Haider ha salutato dal palco, venerdì mattina, nella piazza gremita di Klagenfurt. E l’unico che ha invitato a pranzo» ricorda Lacota. E spiega: «Il governatore mi aveva ufficialmente invitato a partecipare ai festeggiamenti nella piazza del Landhof in occasione della ricorrenza del 10 ottobre, assai sentita in Carinzia». Detto, fatto: «C’era un sacco di gente e Haider era molto soddisfatto. Si è presentato in abiti tradizionali con la madre a braccetto, arrivata in Carinzia dall’Alta Austria, nonostante camminasse un po’ a fatica, con l’aiuto dei bastoni».
L’occasione, del resto, era speciale: la madre Dorothea compiva novant’anni e Haider voleva festeggiarla, insieme a tutta la famiglia, nella tenuta del Baerental. Venerdì notte, quando si è schiantato con la sua auto, stava tornando a casa proprio in vista del «raduno» del giorno dopo, cui non sarebbe mancata la figlia Ulriche che vive a Roma ed è sposata con un italiano. «Haider, quando ci siamo visti in piazza, mi ha presentato la madre che non avevo mai conosciuto prima» continua, intanto, Lacota. Poi, si sono rivisti tutti a pranzo e il presidente dell’Unione degli istriani racconta di un governatore come sempre iperattivo. Impegnato in un valzer frenetico di saluti e telefonate. «Ci siamo lasciati attorno alle 15 dopo aver messo insieme una serie di iniziative comuni. La prima - continua Lacota - doveva tenersi già il 18 ottobre, a Klagenfurt, quando ci saremmo rivisti in occasione della firma di un protocollo di collaborazione tra l’Unione degli istriani e le associazioni patriottiche di Carinzia». 





LADRI DI LAMPADE



Il presidente della Lega nazionale di Trieste, avvocato Paolo Sardos Albertini, ha denunciato che nella notte tra il 19 e il 20 agosto sarebbe stata asportata la “lampada votiva” collocata sul cippo realizzato da Tristano Alberti che riproduce lo spaccato della “foiba” di Basovizza, nell’area del monumento nazionale.
Non è la prima volta che questa lampada viene rubata. Fu donata nel 1961 da una non meglio identificata Opera Mondiale delle Lampade della Fraternità (cui aderirebbero, stando a quanto scritto in un opuscolo diffuso nel 1959, “le 32 maggiori Associazioni combattentistiche e d’Arma italiane, nonché le Associazioni Combattentistiche qualificate di 19 nazioni”; nel 1957 San Benedetto fu nominato da papa Pio XII patrono degli speleologi e protettore della pace, ed ogni anno si trovano sulla sua tomba, al monastero di Montecassino, “vincitori e vinti dell’ultima guerra” per accendere assieme una “lampada della fraternità”) sotto il patrocinio della quale si svolse il 2/11/59 la prima cerimonia a Basovizza, dove era stata da poco chiusa l’imboccatura dell’ex pozzo minerario.
La lampada fu posta assieme al cippo con lo spaccato della “foiba” e benedetta da padre Flaminio Rocchi.

Quanto segue è ricostruito attraverso la stampa dell’epoca e la cronologia di “Nazionalismo e neofascismo al confine orientale” pubblicato a Trieste dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel 1975.
Il 7/1/62 la lampada votiva fu “asportata con il favore delle tenebre”; le indagini dei Carabinieri portarono qualche mese (8 aprile) dopo al ritrovamento di essa, assieme ad alcune lettere bronzee asportate anch’esse dal cippo di Basovizza nelle abitazioni di Armando Turco e di un certo P. N., di cui non si hanno altri dati (forse era minorenne all’epoca dei fatti).
I due non erano però nostalgici “slavo comunisti”, anzi: facevano parte di un gruppo speleologico legato all’estrema destra, il GEST (Gruppo Escursionisti Speleologi Triestini), e furono scoperti in seguito alle indagini per un attentato incendiario ai danni dell’abitazione del professor Carlo Schiffrer (socialista, già esponente del CLN giuliano), nel corso del quale era rimasta ferita la suocera novantenne.
L’attentato era stato rivendicato dal MIN (Movimento Italiano Nazionale) ed i responsabili identificati in un altro speleologo del GEST, Ugo Fabbri ed i futuri attivisti di Avanguardia nazionale e Ordine nuovo Manlio Portolan e Claudio Bressan, che poi saliranno agli “onori” delle cronache per le indagini in cui furono coinvolti relativamente alla “strategia della tensione”.
Il MIN era comparso a Trieste all’inizio del 1959 con alcuni volantini incitanti alla difesa contro “l’avanzata delle orde slave” a “qualsiasi costo e qualsiasi mezzo”; tra le loro azioni ricordiamo oltre all’attentato a Schiffrer, lanci di bombe contro una sede del PCI e contro una torretta confinaria jugoslava, un attentato al consolato austriaco di Trieste (11/4/59), ed un lancio di volantini contro il bilinguismo corredati da una bomba carta all’interno dell’aula del consiglio comunale di Trieste, bomba che ustionò, ironia della sorte, la consigliera missina Ida De Vecchi (tanto per restare in tema, Fabbri asserì che sarebbe stato incaricato proprio da lei, che negli anni ’60 presiedeva l’Associazione caduti e dispersi della RSI, di partecipare al “recupero delle salme degli infoibati”).
Per questo lancio furono identificati Fabbri e Giuseppe Baldo, ma Fabbri avrebbe poi addossato a Turco, dopo il suicidio del giovane avvenuto il 14 aprile, “le maggiori responsabilità” relativamente agli attentati sopra descritti.
Ciò che colpisce come coincidenza nell’attività del MIN e del GEST è che siano stati proprio loro attivisti (tra l’altro due speleologi del GEST avrebbero compiuto un’esplorazione nel Pozzo della miniera di Basovizza proprio poco prima che venisse chiuso con la lapide) ad asportare la lampada votiva dalla “foiba” di Basovizza, a lanciare una bomba carta contro Ida De Vecchi, che era una delle persone ad affermare di essere state “testimoni oculari” degli “infoibamenti” di Basovizza (la signora De Vecchi in quei giorni si trovava prigioniera a Gorizia, quindi non è attendibile) ed a compiere un attentato a Schiffrer, che fu uno dei membri del CLN che avevano smentito di avere firmato un documento riguardante i presunti massacri di Basovizza. Tutto legato a quella foiba, dunque?

Chiuse le indagini, la lampada votiva fu ricollocata al suo posto nel cippo di Alberti, ed a distanza di 50 anni (quasi un anniversario…) è stata nuovamente rubata.
Da chi, stavolta? Dagli stessi che hanno anche imbrattato il cippo della foiba 149 di Monrupino, con una scritta in sloveno? Strana scritta, fatta con una mascherina ed uno spray; “prontamente” cancellata da anonimi ma segnalata con una foto in alcuni comunicati del Comitato 10 febbraio e del Movimento Irredentista Italiano (MII), che hanno poi fatto una commemorazione assieme ad un’associazione di Alpini il 21 agosto.
Nel comunicato diffuso il giorno successivo, il Comitato 10 febbraio parlò di un nuovo imbrattamento avvenuto subito dopo la pulizia del cippo, inviando una foto nella quale si vede il cippo imbrattato di vernice nera con la scritta Ozna, e così descritto:
“A distanza di poche ore dall’esser ripulita dalle scritte rosse in sloveno trovate il giorno 15 agosto, viene nuovamente imbrattata, completamente, di nero e con esplicita sigla di ben noto apparato repressivo titino, evidentemente ancora esistente”.
(in http://www.triesteprima.it/trieste/44-cronaca/5608-comitato-10-febbraio-qsui-danneggiamenti-dei-monumenti-ai-martiri-delle-foibe-non-bisogna-stare-in-silenzioq.html)
Che l’Ozna sia ancora esistente è un’affermazione talmente grottesca da non meritare altri commenti, ma dobbiamo osservare che la foto è una vecchia foto del 2006, che si riferisce ad un altro imbrattamento. Che non si sia trattato di un errore di invio di foto ma di una bufala vera e propria (per non parlare di diffusione di notizie false atte a turbare la pacifica convivenza) appare chiaramente dal comunicato diffuso dal MII il 23 agosto, nel quale si legge anche:
“Vogliamo inoltre smentire le notizie circolate in questi giorni di un nuovo danneggiamento al monumento alla foiba di Monrupino. In rete e sui giornali sono state diffuse le foto del vilipendio del 2003 (sic), quando con della vernice nera venne imbrattato il monumento con falce, martello, stella di rito e la scritta OZNA. Gli organi di stampa si sono confusi, dando modo ai soliti ignoti di strumentalizzare le denunce precedenti”.
(in http://movimentoirredentistaitaliano.wordpress.com/2012/08/23/il-monumento-di-monrupino-torna-a-brillare/)
Ma qui non si sono confusi gli organi di stampa, è stato il Comitato 10 febbraio ad inviare la notizia e la foto sbagliate.
Perché tutta questa confusione? O dovremmo definirlo un “gioco sporco”?
Aggiungiamo una curiosa coincidenza: il MII parla anche di alcune “lettere della scritta situata alla base della croce, divelte in gran numero” che non si è potuto ancora ripristinare. Ricordate che anche nel 1962 erano state trovate in casa dei membri del MIN alcune “lettere” divelte dal cippo di Basovizza?

Torniamo all’imbrattamento dell’ottobre 2006, intorno al quale pure fu fatta confusione, dato che i primi comunicati dicevano che era stata imbrattata la “foiba” di Basovizza, e di essa aveva parlato in consiglio comunale l’allora assessore Paris Lippi (di antica storia missina); mentre in realtà l’imbrattamento era avvenuto alla 149, ed interrogato in merito Lippi aveva serenamente risposto “erroneamente è stata riportata la foiba di Basovizza come monumento lordato dai barbari incivili inneggianti al comunismo, al posto della foiba 149. Il succo non cambia”.
Nel frattempo, però, per diversi giorni sulla stampa locale e regionale erano apparsi svariati interventi e prese di posizione dal tenore revanscista e razzista, come se per un imbrattamento, per quanto possa essere considerato un atto deprecabile, fosse giusto criminalizzare un’intera classe politica ed un intero popolo (nella fattispecie gli antifascisti e gli sloveni, accusati in toto di essere i responsabili di tale azione).
Quindi, come al solito di fronte a certi eventi, non possiamo fare a meno di ricordare quei vecchi adagi di saggezza popolare, dal cui prodest? al la prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo…

Claudia Cernigoi

Agosto 2012





In merito alla inveterata leggenda dei rom che rapiscono i bambini, e sui pogrom che dal 2008 si susseguono in Italia contro i campi rom, si vedano tutti i link da noi raccolti:


In particolare sulla montatura razzista e camorrista contro Angelika, del campo rom di Ponticelli successivamente devastato da un'orda di italiani razzisti, ricordiamo:

Italia, i media fomentano pogrom contro i rom. Opera nomadi: i rom rubano i bambini? Non esistono prove

Il caso di Angelica, ragazza Rom accusata del tentato rapimento di una bambina di sei mesi avvenuto a Napoli, nel quartiere Ponticelli, è una montatura
http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o11920http://www.everyonegroup.com/it/EveryOne/MainPage/Entries/2008/5/18_Follia_antizigana_in_Italia._EveryOne_sul_rapimento_di_Napoli.html

La documentazione video raccolta dalla equipe di Riccardo Iacona per il programma Presa Diretta:
Caccia agli zingari (in onda domenica 22 febbraio 2009 alle 21.30, Durata: 01h 35' 16'') 
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-4a7c8533-7b4a-43c1-882e-b430d6cabfe1.html?p=0

Una lettera-appello di Elisabetta Vivaldi (pubblicata su http://www.sivola.net/
contro la persecuzione giudiziaria di Angelika, ingiustamente accusata del falso rapimento della bimba di Ponticelli (NA), corredata da ottime fonti

La vincita al lotto che bruciò i campi rom di Ponticelli

Su altri pogrom a Ponticelli, di matrice camorristica, si veda la notizia recente (10 luglio 2012):

Clan Casella-Circone bruciò un campo rom per odio razziale [nel 2012]: 18 arresti

Video: Napoli, rogo al campo nomadi: arrestati 18 presunti camorristi


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14/08/2012 
Fonte: il mattino 
Autore: leandro del gaudio

"Sono Rom, ma non ladra di bambini la mia verità sui roghi di Ponticelli". Angelica libera 4 anni dopo


Il suo nome è entrato negli annali come esempio - più unico che raro - di cittadina rom condannata per sequestro di persona. Si chiama Angelica Varga, sta per compiere venti anni, gli ultimi quattro trascorsi in cella: una vicenda personale legata a un pezzo di storia di Napoli, con tanto di attenzione mediatica nazionale.
Ricordate? Metà maggio del 2008, sabato mattina, una stradina di Ponticelli. Poi: la ragazzina arrestata per sequestro di persona, la rabbia popolare, l’espulsione di oltre ottocento rom dal quartiere orientale. E ancora: un giudice che non scarcera Angelica, perché di «etnia rom», quindi incline a compiere delitti analoghi», la sentenza definitiva e il suo caso diventa un primato da giurisprudenza: una ladra di bambini, l’incubo metropolitano messo su carta bollata, con tanto di firma di un giudice.

Un caso chiuso. Quattro anni e mezzo dopo, Angelica si racconta. È stata scarcerata da poco, proprio negli stessi giorni in cui a Ponticelli venivano arrestati alcuni presunti camorristi che «con odio razziale» incendiavano i campi rom (storia del 2010) per impedire che i piccoli zingari frequentassero le scuole del quartiere. Storie simili, anche secondo Angelica Varga, che su una panchina del centro di Napoli si racconta: «Desidero cose elementari: la verità, poi un lavoro qui a Napoli, una famiglia, l’integrazione. Ma anche una cultura dell’integrazione a Napoli, che - come la mia storia insegna - non esiste ancora».

C’è una sentenza, una verità giudiziaria, lei ha rapito una bambina in fasce, punto. Qual è la sua versione?
«Ero a Napoli da un mese e mezzo, ero da poco arrivata da Bistrita (Transilvania, Romania), la mia città natale. La mattina uscivo con una mia amica di poco più grande, che faceva piccoli sbagli. Mi portò con lei in una casa, voleva rubare qualche oggetto di valore. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale, che venimmo bloccati da un uomo. La mia compagna riuscì a scappare, io finii in cella. Non parlavo italiano, ma ero tranquilla, mi dicevo: non ho portato via niente, ora mi rilasciano. Invece, quindici giorni di cella e ho capito: sequestro di persona, rapimento, stavo impazzendo».

Eppure, lei in quella stanza ci è entrata. Ha accarezzato quella bimba nel carrozzino, l’ha abbracciata?
«Mai. Non l’ho neppure vista quella bambina. Non siamo entrate in casa, non ci riuscimmo. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale che fummo bloccate, la mia compagna scappò via, io rimasi lì senza immaginare cosa mi sarebbe toccato vivere».

Poi, mentre lei era in cella, a Ponticelli è scoppiato il finimondo: un quartiere in fiamme, raid incendiari, un popolo in fuga. Venne a sapere cosa stava accadendo?
«Lo seppi in cella, me lo dissero le altre ragazze, che provavano a sostenermi. È stato orribile e assurdo. Sono stati espulsi tutti, in una notte è stato spezzato il progetto di integrazione che tante famiglie avevano intrapreso. Non c’erano solo ladri in quegli accampamenti, ma anche ragazzi che andavano a scuola, c’era mio fratello, i miei parenti: via tutti, dalla notte al giorno. Hanno trovato una scusa orribile per cacciarci, per allontanarci. E io sono stata quattro anni e mezzo in cella».

Un mese fa sono stati arrestati alcuni presunti camorristi di Ponticelli: per «odio razziale» hanno scatenato incendi nel 2010, non volevano gli zingari a scuola dei loro figli.
«Conosco questa storia. Credo sia molto simile alla mia, perché al di là dell’episodio che mi ha visto condannata, credo che qualcuno abbia soffiato sul fuoco, credo che qualcuno aspettasse un pretesto - come il rapimento di un bambino - per scatenare la guerriglia contro di noi».

Ripetiamo: per i giudici lei è responsabile di quel rapimento, la sentenza è definitiva, se potesse incontrare la mamma della bimba rapita per pochi minuti, cosa le direbbe?
«Nutro ancora troppa rabbia per quello che mi è successo, voglio guardare avanti, niente polveroni polemici».

Cosa fa da quando è libera?
«Voglio ringraziare i miei legali, gli avvocati Liana Nesta e Cristian Valle che hanno creduto in me e hanno provato a difendermi anche contro i pregiudizi. Ho trovato attorno a me tanta solidarietà, ora provo a ripartire. Ho vent’anni, vorrei un lavoro (so fare la parrucchiera), una vita normale da cittadina napoletana. Nel frattempo, quando posso, faccio anche un po’ di volontariato».

In che senso?
«Parlo bene italiano, spesso mi reco in alcuni campi rom dell’hinterland assieme ad altri volontari, dove cerco di svolgere un ruolo in un più ampio progetto di integrazione».

È andata anche a Ponticelli?
«No, lì non sono mai tornata. Mi fa troppo male rivedere quei posti, per anni ho rivissuto dentro di me quella scena, quel cancello che si apre, gli scalini, l’uomo che mi afferra il braccio, qualcuno che mi chiede di firmare carte che ho fatto bene a non firmare: perché io quella piccola nel carrozzino, non l’ho neppure vista una volta in vita mia».


Fonti: 





A Teheran i Non Allineati, a Washington il progetto di scudo missilistico anti-cinese

24 Agosto 2012 - di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it


Contrariamente a quanto si pensi non esiste una sola “comunità internazionale” limitata alla voce della Nato e dei suoi alleati d'occasione. C'è n'è un'altra che non appartiene a blocchi e che ha posizioni diverse e anche critiche nei confronti dell'Occidente. Quest'ultima, comunque composita e varia negli orientamenti, si è data appuntamento a Teheran dal 26 al 31 agosto per il 16° vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM).

L'organizzazione internazionale, che ha come scopo originario quello di riunire i Paesi che non si riconoscono all'interno dei blocchi militari, è sorta in pieno processo di decolonizzazione in Africa e Asia per iniziativa di Tito, Nasser e Nehru e tenne il suo primo vertice a Belgrado nel 1961 ribadendo i principi alla base della storica conferenza di Bandung del 1955: lotta al colonialismo e al neocolonialismo, rispetto della sovranità nazionale e delle autonome vie di sviluppo.
Allora ad incontrarsi furono i rappresentanti di 25 Paesi, mentre nei prossimi giorni nella capitale iraniana dovrebbero arrivarne in rappresentanza di 120 (ma restano ancora dubbi sulla presenta di alcune delegazioni) provenienti da Asia, Africa e America Latina. Su un totale di 193 Stati rappresentati all'Onu, quello che si riunisce a Teheran è certo un blocco consistente di comunità internazionale e che rappresenta la maggioranza, o poco meno, della popolazione mondiale.

L'attesa è, però, per l'arrivo dell'egiziano Morsi, per la prima visita di un presidente egiziano in Iran dal 1979 dopo la proclamazione della repubblica islamica, e del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon

L'Egitto lascerà, come da rotazione prevista, proprio all'Iran la presidenza triennale del Nam per i prossimi tre anni. L'incarico era in precedenza passato dalle mani di Hosni Mubarak, spodestato dalle rivolte popolari e dal pronunciamento dell'esercito egiziano, a quelle del feldmaresciallo Tantawi, recentemente accantonato proprio da Morsi.

Preoccupazioni e inviti al dietro-front per la partecipazione di Ban Ki-moon sono arrivati da Washington e da Tel Aviv. Per il Washington Post il vertice sarà pure un “baccanale di sciocchezze”, ma nelle due capitali è vivo il timore che questa presenza serva solo a forgiare una vittoria diplomatica della repubblica islamica.

La presidenza iraniana potrebbe coincidere con una svolta più radicale e attiva dell'organizzazione anche perché avviene in piena esplosione della crisi siriana con Teheran, tradizionale e solida alleata di Damasco, impegnata su più fronti nella critica all'intervento straniero.

Da Washington, per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, viene proprio l'allarme sull'intenzione iraniana di “manipolare” a suo beneficio il vertice, soprattutto per quanto riguarda la sua agenda nucleare e l'embargo petrolifero ai suoi danni. Nel vertice dell'Avana del 2006 fu, infatti, approvata una mozione a sostegno del diritto di ogni Stato allo sviluppo pacifico dell'energia nucleare. E' comunque da escludersi che si formi un consenso unanime, mentre è più probabile che, proprio in riferimento ai fatti siriani, si formi un generico consenso sulla necessità del dialogo tra governo e opposizione in linea con la filosofia originaria del movimento. Resta la certezza che il vertice rappresenta per l'Iran una straordinaria opportunità di uscire dall'isolamento e allentare una pressione che si fa sempre più forte.

Per Farideh Farhi, studioso iraniano dell'Università delle Hawaii, lo sforzo messo in campo da Teheran per il vertice ha lo scopo “di presentare il ruolo globale dell'Iran e mostrare con prove concrete che la politica di isolamento degli Usa nei confronti dell'Iran ha fallito” e di dimostrate come “non sia la comunità internazionale che ha problemi con l'Iran, ma solo una coalizione messa sotto pressione degli Stati Uniti" [1].

E' già allo studio un documento composto da 688 dichiarazioni e 166 pagine, mentre durante il consesso saranno al lavoro il Comitato politico, diretto da Cuba, il Comitato economico, diretto dall'Egitto e il Comitato per la Palestina diretto da rappresentanti palestinesi.

Dal fronte caldo mediorientale, passiamo a quelle sempre più ribollente dell'Asia Orientale. Nell'attesa che il vertice Nam prenda il via, Washington prosegue a passo spedito nel suo riposizionamento strategico intorno alla Cina. Secondo le rivelazioni del Wall Strett Journal, sarebbe iniziata la pianificazione di uno scudo missilistico asiatico ufficialmente in funzione anti-Corea del Nord, ma che ha indubbi fini di contenimento della crescente forza militare cinese, testimoniata –sempre agli occhi del Pentagono – da una crescente assertività nelle dispute marittime con i vicini.

Il progetto prevede la messa in azione di un radar nel sud del Giappone – ma non a Okinawa dove sono forti le tensioni con la popolazione locale – e un secondo in un Paese del sud est del Pacifico e un terzo nelle Filippine. Inoltre, secondo i progetti della Marina, la flotta di navi da guerra con missili balistici dovrebbe passare dalle 26 di oggi alle 36 nel 2018. Secondo un alto funzionario statunitense “le nuove installazioni di difesa missilistica sarebbero in grado di monitorare e respingere almeno un primo colpo limitato proveniente dalla Cina, e sarebbe potenzialmente sufficiente a scoraggiare Pechino dal tentare un attacco" [2]. E' chiaro che oggetto dell'eventuale attacco cinese sarebbe l'isola di Taiwan.

I timori di Pechino per un prossimo inizio di guerra fredda prendono sempre più corpo.

Diego Bertozzi

NOTE

Rick Gladstone, “UN visits will set back a push to isolate Iran”, New York Times, 22 agosto 2012.
Wall Street Journal, “US plans new Asia Missile Defenses”, 23 agosto 2012.




Italian right wing honours fascist war criminal


By Marianne Arens 
22 August 2012


On August 11, an ominous ceremony was held with great pomp in the small town of Affile, east of Rome. The ceremony commemorated the erection of a mausoleum for fascist war criminal Field Marshal Rodolfo Graziani (1882-1955) in the town’s Radimonte Park.

About 100 participants took part, led by the priest Don Ennio Innocenti Sakrarium, who consecrated the mausoleum. Alongside giant Italian tricolours hung flags from Giovine Italia, the youth organisation of the People of Freedom (PDL) of former Italian premier Silvio Berlusconi.

The mayor of Affile, Ercole Viri (PDL), declared that the monument, engraved with the words “fatherland” and “honour”, was “of national importance”. The regional transport minister, Francesco Lollobridgida (also PDL), praised Graziani: “We have always loved him.”

The construction of the mausoleum and the expansion of the park cost no less than 180 million euros—the monument alone cost €127 million—monies paid by the taxpayers of a region marked by unemployment and poverty.

Who is Rodolfo Graziani?

Graziani is a legally convicted war criminal. On behalf of the fascist dictator Benito Mussolini, he commanded Italy’s wars of conquest in North and East Africa, in which nearly half a million people were killed.

Fascist Italy sought to brutally subjugate the African colonies of Cyrenaica and Tripolitania (now Libya), as well as Abyssinia (now Ethiopia) and Somaliland. Libya had already been conquered by Italy in the Italian-Turkish War of 1911.

Mussolini gave the generals a free hand for crimes of genocidal proportions. The Italian air force bombed the civilian population, dropped poison gas over oases and vital water supplies, and shot columns of refugees from the air. Italian ground forces launched raids, massacres and executions to force the surrender of Libyan resistance fighters and their leader, Omar al-Mukhtar. Graziani was the commander of the Italian troops and governor of Cyrenaica.

In the summer of 1930, Graziani resettled hundreds of thousands of inhabitants of Cyrenaica to the desert where they were exposed to the scorching sun, thirst, starvation, exhaustion and disease. Half of these people died within three years. In Fezzan, a desert region in southern Libya, he personally ordered the murder of Omar al-Mukhtar by hanging, earning the nickname “the Butcher of Fezzan”.

His crimes were compounded in Abyssinia, now Ethiopia. Italian troops invaded the country on October 3, 1935. Graziani led the invasion along with Marshal Pietro Badoglio, and in May 1936 was appointed viceroy of Italian East Africa. For the first time in modern history, Italian troops systematically employed weapons of mass destruction, including bombs and chemical weapons, against civilians.

Following persistent resistance and an assassination attempt against him, Graziani personally gave the order on February 19, 1937, for a wave of bloody repression that went down in history as “Yekatit 12,” based on the date in the Ethiopian calendar. During the pogroms, Italian troops massacred up to 30,000 civilian residents of Addis Ababa. Graziani laid waste to entire villages and dispatched large numbers of victims to concentration camps. His notorious dictum from this period was “The Duce will get Ethiopia, with or without the Ethiopians.”

During World War II, the Italian army under Graziani was defeated in North Africa by British troops, and Graziani was relieved of his duties. As the end of the war neared, he took over command of forces of the fascist “Social Republic of Salò”, Mussolini’s last territory in northern Italy. Together with the German general Kesselring, Graziani led the fascist “final battle” until forced to capitulate in 1945.

In 1948, he was convicted of war crimes and sentenced to 19 years in prison. He was released after just 2 years. Although fascism was officially banned in post-war Italy, the neo-fascist Movimento Sociale Italiano (MSI) named him its honorary chairman. He died in Rome in 1955.

This latest, macabre ceremony by prominent leaders of the PDL in Affile left many political observers dumbstruck. David Willey, Italian correspondent of the BBC, expressed his surprise to find “that the cult surrounding Fascist heroes has been kept alive in some parts of Italy, even though the fascist party was banned by the country’s post war constitution.”

In fact, the ceremony in honour of Graziani is by no means unique. Just a few months ago, the same local community erected a bronze bust of Giorgio Almirante, founder and leader of the neo-fascist post-war MSI. Almirante was editor in fascist Italy of the racist, anti-Semitic paper Difesa della Razza(Defense of the Breed).

In his 2010 book “Viva Mussolini!”—the rise of fascism in Berlusconi’s Italy, author Aram Mattioli cites numerous examples of the “trivialisation of fascism by centre-right circles”.

In 1994, media mogul Silvio Berlusconi became prime minister, following a wave of corruption scandals (“Tangentopoli”) involving all the republic’s major post-war parties. One of his first acts was to appoint former MSI leader Gianfranco Fini as minister. For the first time since the end of World War II, a neo-fascist minister sat in the cabinet of a European government.

Since then, the Italian right has systematically worked to rehabilitate “good fascists”, arguing that their activities in the war were on a par with those of members of the Resistance.

At the same time, research into Italy’s fascist past is systematically boycotted. The film Omar Mukhtar—Lion of the Desert (1979), starring Anthony Quinn in the title role and Rod Steiger as Mussolini, was denied a distribution licence until the visit to Italy of former Libyan leader Gaddafi in 2009. The BBC documentary “Fascist Legacy” (1989) by Ken Kirby has still not been shown on television in Italy, although an Italian version has existeed since 1992.

In his book, Mattioli concludes: “In less than twenty years, Silvio Berlusconi changed Italy so drastically that the founding fathers of the post-war republic would have hardly recognised the country.” He warns of the “political and ideological abuse of history” which “is a threat to civilised coexistence.”

How is it possible for fascist thugs in Italy to be honoured with impunity in such a way? Two factors should be mentioned in this context.

First, fascism in Italy has never been really overcome, not even at the end of World War II. A thorough coming to grips with fascist crimes, both legally and ideologically, was stymied by Stalinism, embodied in the former Italian Communist Party (CPI).

The PCI played a leading role in the guerrilla war against fascism and had a mass following among workers. Workers assumed that the collapse of fascism would be accompanied by the overthrow of capitalism and socialist revolution. At the end of the war, the PCI rapidly betrayed these expectations.

According to the Stalinist maxim of “peaceful coexistence with capitalism,” the PCI in late 1944 entered the “national unity government” led by Marshal Pietro Badoglio, who had led the Italian campaign in Ethiopia alongside Graziani. He had changed sides after the victory of the Allies in southern Italy in 1943.

PCI leader Palmiro Togliatti was made minister of justice in the civil war government and in this function headed off the revolutionary struggles of Fiat workers in Turin and saved the capitalist state. In June 1946, he personally organised a general amnesty for fascist crimes, thereby preventing any political settlement before it had begun.

After it had somewhat stabilised its rule, the Italian bourgeoisie lined up with the Western powers and tossed the PCI out of government in May 1947. Today, the successor parties to the PCI—the Democratic Party (PD) and the successor organisations of Rifondazione Comunista (PRC) led by Nichi Vendola and Paolo Ferrero—are fully integrated into the Italian state.

The second reason is the global economic crisis and the massive programmes of cuts introduced by the Italian government aimed at destroying all the post-war social gains of working people.

Such a social counter-revolution cannot be imposed with democratic methods. Mario Monti, the unelected prime minister and former Goldman Sachs consultant, recently declared in a Spiegel interview that European governments had “a duty to educate parliament”. He was admitting that maintaining the euro and the European Union is incompatible with democracy.

Against this background, the public acknowledgment of Graziani, a man implicated in the worst war crimes of the Mussolini dictatorship, is a clear warning to the working class.

Some of Berlusconi’s political rivals have expressed their criticism over the incident. Esterino Montini, head of the Democratic Party in Lazio, asked: “Is it possible that in 2012 one simply allows, tolerates or accepts that we commemorate the fascist General and Minister Rodolfo Graziani with a park and a museum”.

And Luigi Nieri, SEL leader in Latium, wrote: “It is inconceivable for a democratic country to celebrate such persons. Even worse is the fact that this is done with the money of citizens.” The SEL (Sinistra, Ecologia e Libertà) is a successor party of the PRC, led by the governor of Puglia, Nichi Vendola.

Such remarks are both hypocritical and misleading. The same parties recently supported Italian participation in the war against Libya, which once again has reduced the country to the status of a colony of the Western powers.



Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" 
Data: 19 agosto 2012 11.01.59 GMT+02.00
A: JUGOINFO
Oggetto: [JUGOINFO] Visnjica broj 896

 


ITALIANI BRAVA GENTE


AFFILE, GRANDE FESTA PER IL "MARESCIALLO D'ITALIA"... ORA AFFILE COME PREDAPPIO

Una gran bella festa come quelle che si vivono nei piccoli paesi come e' Affile, che con le sue 1.500 anime ha attirato tutta l'attenzione della politica dell'intero Lazio su di se' per il fatto che si e' dedicato un sacrario al generale Rodolfo Graziani, cittadino di Affile, militare, "maresciallo d'Italia" e ministro della Guerra della Repubblica di Salo'. Un fiume di gente in cammino verso il sacrario, il sindaco Pdl Ercole Viri e' in testa alla coda di istituzioni e cittadini. C'e' anche l'assessore regionale ai Trasporti Francesco Lollobrigida, l'assessore regionale Teodoro Buontempo, il senatore Oreste Tofani e molti sindaci della provincia romana: da Tivoli, a Morlupo, a Vallepietra a diversi Comuni non lontani da Affile. Il sacrario e' pronto ad attendere il bagno di folla, ci sono persone che sorreggono bandiere d'Italia all'ingresso. In piazza San Sebastiano, nel paese della Valle Aniene, è comparsa anche qualche bandiera della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. C'e' un tricolore che sventola in cima alla struttura che separa le parole "Patria" e "Onore".  Poi arriva la benedizione di don Ennio Innocenti, autore del libro "disputa sulla conversione del Duce". E' un momento solenne per i concittadini del generale Graziani. Per il monumento alla memoria e la riqualificazione del parco di Radimonte e' stato speso un finanziamento regionale, stanziato dalla giunta Marrazzo, di 130 mila euro, "in realta' - dice l'assessore Lollobrigida - il finanziamento era di 230 mila euro ma si e' riusciti a risparmiare e il sindaco ne ha restituiti 100 mila". Tra l'altro, come spiega Lollobrigida, si e' inteso riqualificare un Parco divenuto pubblico oltre che ricordare  un illustre cittadino che ha dato la vita per l'esercito e ha pagato le sue scelte in termini personali. Non e' stato un criminale di guerra ma un soldato italiano pluridecorato". Questo voler rimarcare da parte di Lollobrigida il ricordo di Graziani come valoroso militare e illustre concittadino affiliano e' probabilmente voluto per mettere a tacere una volta per tutte "le sterili polemiche", cosi' le ha definite l'assessore,, sollevate da esponenti di sinistra, "gli stessi - dice l'assessore alla Mobilita' della Regione - che il 15 gennaio del 2007 erano ad Affile a commemorare i 50 anni dalla morte di Graziani con un sindaco Ds e oggi strumentalizzano un evento promosso da un primo cittadino democraticamente eletto". Mette a tacere le "chiacchiere" anche il sindaco di Affile, orgoglioso e sereno in un giorno atteso dai suoi cittadini: “Il progetto che abbiamo realizzato - ha detto Viri - ha suscitato vane chiacchiere. L'opera era attesa non solo qui ma anche dall'Italia intera”.  Dopo la conferenza e' stata deposta una corona sulla tomba di Graziani, sepolto nel vecchio cimitero affiliano.

autore: Chiara Rai


GRAZIANI Rodolfo.

Governatore della Libia dal 1930 al 1934, dove “pacificò” la Cirenaica mediante deportazione di circa 100.000 persone, bombardamenti all’iprite, esecuzioni sommarie e torture anche di vecchi donne e bambini; il comandante della resistenza libica, il settantatreenne Omar el-Muktar, il “leone del deserto”, fu impiccato dopo un processo sommario il 16/9/31.
Tra il 1935 ed il 1936 comandò le operazioni militari contro l’Abissinia, utilizzando anche le bombe all’iprite. Nominato viceré d’Etiopia nel 1937, sfuggito ad un attentato il 19/2/37, ordinò una repressione che provocò 3.000 morti secondo le fonti britanniche e 30.000 secondo quelle etiopiche. Si ricorda in particolare il massacro del monastero di Debre Libanos, dove furono uccisi più di 1.500 monaci, molti dei quali giovanissimi diaconi.
Rientrato in Italia, nel 1938 firmò il Manifesto per la difesa della razza e dal settembre 1943 ricoprì la carica di ministro delle Forze armate della RSI.
Fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra. Processato nel 1948, fu condannato a 19 anni di reclusione di cui 17 condonati. Aderì al MSI fin dal momento della sua fondazione.
Padre di Clemente Graziani, il dirigente di Ordine Nuovo che in un’intervista pubblicata su “Panorama” del 19/12/74 dichiarò “Siamo i veri eredi della Repubblica sociale italiana e del nazismo. Vogliamo distruggere la democrazia e duellare politicamente gli ebrei e l’ebraismo, abolire il voto, affidare la guida dello Stato a pochi aristocratici dell’intelligenza”.

a cura della redazione de La Nuova Alabarda (Trieste)



(english / francais / italiano)

La loro Kosova senza Rom e senza Metohija

0) Abbecedario per la Grande Albania

1) Kosovo : Pristina veut interdire l’usage du terme de « Metohija »(B92 - 10 juillet 2012)
2) Prospects Bleak For Kosovo’s Roma Refugees (Balkan Insight - July 11, 2012)
3) Nascoste all'opinione pubblica parti dell'accordo con Pristina (Beta / Vecernje Novosti 18 luglio 2012)
4) Ostacolate le ricerche delle vittime dell'UCK (Il Piccolo, 18 luglio 2012)
5) Western Europe Sends Kosovo Roma To Serbia (Balkan Insight - July 20, 2012)
6) In Kosovo, dangers in returning home (Southeast European Times - July 20, 2012)
7) Monténégro : le camp de réfugiés roms [du Kosovo] de Podgorica dévasté par les flammes (Vijesti 24 juillet 2012)
8) Kosovo : Eulex confirme les assassinats politiques de « dizaines d’opposants à l’UÇK »(CdB 28 juillet 2012)
9) "International" Missions Patronize Apartheid in Kosovo (Strategic Culture Foundation - August 21, 2012)


LINK: VIDEO, Poverty in Kosovo under UNSC res. 1244 [1999]

Street life in the capital of Kosovo under UNSC res. 1244 is as lively as it is in any other European city. 
And like any other European city, there is another, bleaker side to life. Its out at the city limits, hard up against the decaying remnants of its Yugoslav industrial past. Here live Pristinas most impoverished inhabitants an ethnic ghetto of people who describe themselves as Roma, Ashkali and Egyptian - amongst whom unemployment is said to be nudging 100 percent. (c) UNICEF 2009 / Peter George



=== 0 ===

A Prizren è stato promosso l’abbeccedario albanese

18. 05. 2012. -

A Prizren, nella Serbia meridionale, è stato promosso il primo abbeccedario dell’Albania e il Kosovo. Alla promozione hanno presenziato il presidente e il premier del Kosovo Atifete Jagjaga e Hasim Taci e il premier albanese Salji Berisa. Berisa ha dichiarato che gli albanesi sono oggi più che mai disposti a realizzare il progetto dell’unione nazionale. Taci ha detto che la presentazione dell’abbeccedario comune è un grande avvenimento storico per la cultura nazionale degli albanesi. L’abbeccedario che è stato scritto da due autori albanesi e kosovari sarà introdotto nel programma scolastico l’anno prossimo. Durante la storia i Paesi limitrofi si opponvano con tutti i mezzi alla sola idea della creazione della cosiddetta Grande Albania, perché le pretese territoriali degli albanesi minacciavano di destabilizzare l’intera regione.

da www.glassrbije.org


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Kosovo : Pristina veut interdire l’usage du terme de « Metohija »


B92 - Traduit par Jacqueline Dérens
Mise en ligne : mardi 10 juillet 2012

Les autorités du Kosovo considèrent que l’usage du terme de « Metohija » serait anticonstitutionnel. C’est ainsi que les Serbes appellent la région qui s’étend de Peć/Peja à Prizren, d’un nom qui rappelle l’importance des possessions monastiques dans la région. Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, dénonce une logique de « génocide culturel ».

Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, a informé par lettre les ambassades étrangères à Pristina que les autorités ont qualifié « d’anticonstitutionnel » le terme de « Metohija », qui désigne une région spécifique et qui fait partie de l’appellation complète du territoire selon la Constitution serbe.

Dans sa lettre, Rada Trajković explique que l’utilisation de ce mot ne peut pas soulever de controverse politique puisqu’il ne comporte aucune connotation négative envers la population albanaise du Kosovo et Metohija. Ce terme « Metohija » n’a jamais été utilisé à des fins de propagande politique ou d’incitation à des conflits interethniques, mais la députée rappelle que ce terme a une connotation historique et religieuse très importante.

Pour elle, ce mot exprime le rapport identitaire des Serbes du Kosovo à leur mère patrie. Le terme de Metohija est d’origine grecque et désigne « la terre administrée par les monastères », en référence à la multitude de lieux sacrés orthodoxes dans la région.

Selon Rada Trajković, « il est évident que les autorités albanaises du Kosovo ont bien conscience de la minceur de leur lien culturel et historique avec ce territoire, aussi ont-elles recours à des méthodes qui relèvent du du génocide culturel pour masquer cette réalité ».

Dans une déclaration à l’agence de presse Tanjug, Rada Trajković a expliqué qu’elle demandait au nom du parti de la Liste serbe unifiée que « cette tentative de supprimer les droits et les libertés des Serbes soit abandonnée ». Elle a ajouté que des ambassades l’avaient informée qu’elles prenaient sa lettre en considération et qu’elles adopteraient une position sur cette question.

Rada Trajković a aussi indiqué qu’au cours d’une séance au Parlement, on l’avait empêchée de parler parce qu’elle utilisait le nom complet serbe de la province : Kosovo et Metohija. Après avoir informé l’ambassade des États-Unis de cet incident, elle a été de nouveau autorisée à utiliser ce terme « controversé ».

La réaction de Radmila Trajković fait suite à l’annonce par les autorités de Pristina que les partis politiques qui utiliseraient des termes « anticonstitutionnels » dans leur appellation ne seraient plus enregistrés légalement au Kosovo.



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Prospects Bleak For Kosovo’s Roma Refugees



By: Balkan Insight

July 11, 2012


Thousands of Kosovo Roma are still living as refugees in neighboring Serbia, Macedonia and Montenegro, where they face the prospect of permanent statelessness, poverty and social exclusion.

Whilst the 1999 war in Kosovo is ancient history for many people, this is not the case for thousands of Kosovo’s displaced Roma. Unable to return to Kosovo, or scared to do so, and mostly refused asylum status in neighbouring Macedonia, Montenegro and Serbia, where they have sought refuge, they live in dire poverty and face the risk of permanent statelessness. Estimates put the number of Roma, Askhali and Egyptian refugees from Kosovo in Serbia at 22,000 to 40,000; whilst there are some 3,000 in Montenegro and 1,200 in Macedonia. Life in refugee camps, illegal settlements or in rented accommodation is difficult, jobs and money are scarce, and the help they get from state governments and humanitarian organizations is scant.

Redza Pajazitaj, 41, a former resident of the Kosovo municipality of Istok, has lived in the Konik refugee camp near Podgorica, Montenegro, for 13 years; a camp he shares with some 1,500 of his compatriots. “We manage somehow here. Even if there is no job, if you go to the dumpsters you will find some piece of bread,” he said. “People here do not throw old food in the dumpsters but leave it beside them, because they know that our Roma use this bread to feed their children,” Pajazitaj remarked. Life may be grim in the camps, but many are too scared to return to Kosovo.

During the Kosovo conflict, Roma were seen as allies of the former Serbian regime by Kosovo’s ethnic Albanian majority. After the Serbian authorities withdrew from Kosovo, many Roma fled, and they fear reprisals if they return. “My son was three months old when we fled from Kosovo. Now he is 13. If I took him back to Kosovo, he wouldn’t know where he was, and all my other children were born here,” Pajazitaj explained. He says he is better off in Montenegro, where he takes pride in watching his seven children go to school, thanks to the Red Cross. He provides for his family by unloading trucks when needed – a paid, unsteady job, he says. “But at least there is some work here. In Kosovo there is nothing for me,” he added.

Although the authorities in Serbia, Montenegro and Macedonia would like the Roma to return to Kosovo, they are bound by the Geneva Convention on refugees and cannot expel them. In the meantime, they remain without proper papers, regulating their status in the countries where they have taken refuge. They also lack access to education and healthcare services as well as proper accommodation. Redza is one of them. Left to the mercy of local humanitarian organizations and some state help, he is trying to obtain asylum status in Montenegro so that he can continue building a new life there.

Mohammad Arif, from the UN Agency for Refugees, UNHCR, in Macedonia, explains that after 13 years, either the return home of these people – or their integration into the countries where they now live – is complicated.
“Their problems are not easy to solve. Some serious security issues need to be solved first, so these remaining cases are always tough,” he says.

Least Bad In Montenegro

“Konik camp presents apoor image of Montenegro, and representatives of the international institutions are well aware of that,” says Zeljko Sofranac, director of the Montenegrin Bureau for the Care of Refugees.

At a donor conference held in April in Sarajevo, Bosnia, international donors pledged to find €300m for a programme to provide homes for some 74,000 people displaced during the wars in the Balkans. “All their activities, which are conducted with our cooperation, primarily focus on this area.”

Montenegro’s plan is to attract some of that money to its own proposed national housing programme for Roma refugees. The idea is to build more than 1,000 housing units, either by providing prefabricated houses or by providing construction materials to those who have bought land. The total cost of the project is estimated at over €27m, to which Montenegro would contribute approximately €4m.

Sofranac says that the proposed voluntary return of around 500 refugees to Kosovo remains highly problematic, so most of them will probably have to be integrated into Montenegro. “Voluntary return is the best way of solving refugees’ problems. But the only cooperation we receive in Kosovo on this is with local authorities,” he says. “Kosovo’s government, probably with the support of some powerful higher echelons, doesn’t want to fulfill its international obligations in this regard.

Musa Demiri, from Kosovo’s Labour Ministry, says his country is ready to help returnees. “When it engages in the accession process with the EU, it will have to meet those obligations, but that’s not satisfactory for us because we have to act now.” But Demiri admits that with a very high unemployment rate in Kosovo, they cannot guarantee that returnees will find any work or a sustainable livelihood there. “All Kosovo citizens have to be treated equally, and as a ministry we have no special programmes for refugees and returnees,” Demiri says.

Segregated In Serbia

While some Roma refugees in Montenegro at least feel hopeful, NGOs and Serbia’s own Commissariat for Refugees admit that many Roma refugees in Serbia are in a worse position. Serbia treats Roma from Kosovo as internally displaced persons (IDPs), but a problem is that many Roma cannot prove that they are from Kosovo and hence cannot access welfare services. “Since most of the Roma who fled from Kosovo did not have IDs while they were in Kosovo, when they came to Serbia they could not gain the documents that other internally displaced people from Kosovo have got,” Jadranka Jelincic, head of the Open Society Foundation – Serbia, explains.

Regular IDPs from Kosovo receive different levels of state aid, including monthly allowances of around €80. However, this kind of help is blocked to these Roma because of lack of proof that they actually come from Kosovo. Although there are no official statistics, the Commissariat for Refugees estimates that about 22,500 Roma from Kosovo have taken refuge in Serbia. NGOs say the real number is much higher, at about 40,000. Most are situated in and around Belgrade. Usually having no documents and living in informal settlements, they are frequent victims of forced evictions and have to move to other informal settlements, collective centres, or return to Kosovo. They are also often hindered from obtaining legal counsel.

One such eviction recently took place in Belgrade, when the city authorities decided to bulldoze ‘Belville’, an informal Roma settlement located in the heart of the city. Nenad Djurdjevic, head of the Directorate for Human and Minority Rights, maintains that the eviction was “an example of good practice.”

Djurdjevic and other Serbian officials insist that some Roma are “abusing” the fact that the city provides accommodation to Roma who possess documents proving that they have resided in the capital for more than five years. “We’ve helped many of them to find accommodation, and those who refused what we offered left their settlements voluntarily,” he maintains. The Commissariat for Refugees also believes it would be “unfair” to local Serbian Roma, who also face housing problems, if those from Kosovo obtained permanent housing in the capital.

Facing Statelessness In Macedonia

According to the Macedonian Ministry of Labour, Macedonia has some 1,200 Kosovo Roma on its territory.

Human rights activists say that only some of the refugees receive proper treatment in Macedonia, as laid down in the 1951 Geneva Convention. A recent report by the international human rights watchdog Amnesty International says that Macedonia’s Ministry of Labour and Social Welfare has “failed to provide them with the financial assistance and housing required under the 2010 local integration agreement”. That year, Macedonia took over responsibility for the Kosovo Roma from the UNHCR, promising to provide a path to local integration for those who wished to stay.

Davor Politov, spokesperson for the ministry, admits that they are helping only a portion of those people, who have obtained refugee or asylum status. “We are providing social welfare, paying health and social insurance contributions and paying [housing] rent for some 780 people from Kosovo who wish to stay here,” Politov says, adding that the country is also trying to find them jobs. Macedonia gives 2,150 denar, (some €35) a month in welfare to each Kosovan refugee, he adds.

The Luxembourg-based non-profit organization, Chachipe, which tackles the human rights situation of Kosovo Roma across the Balkans, says that the situation of some 260 Roma refugees in Macedonia remains a concern. “The situation of refugees in Macedonia has deteriorated considerably following the transfer of responsibility from the UNHCR to the Ministry of Labour,” says Karin Waringo, from Chachipe. After being rejected for asylum, they are now left without any status, stateless, and in dire need of assistance. “Based on our calculations, more than 20% of the refugees have left Macedonia under financial pressures. Some went to Western Europe, where their chances of getting asylum on the basis of the persecution they experienced in Kosovo are slim,” Karin asserted.

The local branch of UNHCR says it has limited resources to help this group of people, but they insist they at least provide them with legal help. UNHCR financial aid for these people stopped in 2010 due to a lack of funds, they say. “Some of them wish to return to Kosovo and we are considering ways to provide them with housing there,” explains Tihomir Nikolovski, Legal Officer at UNHCR Macedonia. “We are also helping some to get Macedonian citizenship, as they have meanwhile established ties with the local population through marriages and are thus eligible,” he adds.

About the author:

Balkan Insight

The Balkan Insight (fornerkt the Balkin Investigative Reporting Network, BIRN) is a close group of editors and trainers that enables journalists in the region to produce in-depth analytical and investigative journalism on complex political, economic and social themes. BIRN emerged from the Balkan programme of the Institute for War & Peace Reporting, IWPR, in 2005. The original IWPR Balkans team was mandated to localise that programme and make it sustainable, in light of changing realities in the region and the maturity of the IWPR intervention. Since then, its work in publishing, media training and public debate activities has become synonymous with quality, reliability and impartiality. A fully-independent and local network, it is now developing as an efficient and self-sustainable regional institution to enhance the capacity for journalism that pushes for public debate on European-oriented political and economic reform.


=== 3 ===

Fonte: agenzia BETA.
La intervista completa è stata data per Vecernje Novosti, qui: 
Giovedi, 07.19.2012.
 
Nascoste all'opinione pubblica parti dell'accordo con Pristina

BELGRADO, 18 Luglio 2012. (Beta) - Il presidente serbo Tomislav Nikolic ha detto che è stata nascosta al pubblico una parte dell'accordo con Pristina stipulato a Bruxelles [dal precedente governo serbo] e che "con questa apparentemente innocua soluzione" la stessa Belgrado "sta realizzando una effettiva indipendenza del Kosovo".
"E' stato nascosto, per esempio, che negli incontri, davanti alle delegazioni albanesi può stare soltanto la dicitura Kosovo con un asterisco, senza nota [*]. L'inganno è che i serbi del Kosovo settentrionale non devono prendere le targhe automobilistiche kosovare, ma la condizione per questa operazione è che si devono iscrivere come cittadini del Kosovo. Ci sono anche dei dubbi circa la gestione integrata dei valichi," ha detto Nikolic all'intervista per Vecernje Novosti di questo giovedì.
"Quando terremo dei negoziati sullo status e ci dovremo confrontare con un'enormità di documenti, da cui risulta che ormai praticamente si tratta di uno Stato, cosa faremo? Non so con quale serietà sono stati condotti dei negoziati fino ad ora né a chi, in verità, stia bene il principale negoziatore attuale... Mi sembra che molto sia stato fatto in fretta, quando si doveva ottenere lo status di candidato [alla UE]. E tutto ciò perché un partito si potesse guadagnare la propria favorevole posizione per le elezioni. Si è passato troppo facilmente sopra quello che loro credevano fosse buono per la Serbia, in realtà - non era neanche stato messo su carta."
Nikolic ha annunciato che non appena si formerà il governo, radunerà tutti i personaggi di una certa valenza per la Serbia perché sia creata una piattaforma di dialogo sul Kosovo, e che lui insisterà che nelle successive trattative politiche sula provincia, oltre all'UE, sia inclusa anche l'ONU.


[*] Dopo un accordo raggiunto tra Belgrado e Pristina nel febbraio 2012, con la mediazione dell'UE, il Kosovo potrà essere rappresentato nei summit regionali e potrà siglare accordi commerciali con Paesi terzi. Ad una condizione però: il nome dovrà essere seguito da un asterisco che rimanda ad una nota a piè pagina dove si fa riferimento sia alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che garantisce l'integrità territoriale della Serbia, sia alla decisione con cui la Corte internazionale di giustizia ha sancito che la dichiarazione di indipendenza di Pristina non è contraria al diritto internazionale.


=== 4 ===

Ostacolate le ricerche delle vittime dell'UCK

da Il Piccolo del 18 luglio 2012

Fumo nero, vampate alte 10 metri, pompieri impegnati per un’intera giornata ad estinguere le fiamme. Non è stato un incendio estivo causato dall’ondata di calore che sta investendo i Balcani quello che ha interessato un’area nei pressi del paesino di Zilivoda, in Kosovo. Ma un rogo enorme, forse doloso, che ha provocato «danni estesi» in un sito dove la missione di polizia europea, Eulex, sta effettuando scavi per riportare alla luce una fossa comune. Nella fossa - secondo Eulex «uno dei più vasti siti di inumazione scoperti in Kosovo negli ultimi anni» - sarebbero sepolti i resti di almeno venti cittadini serbi del Kosovo, rapiti nel 1998 e durante il conflitto del 1999 e ancora “desaparecidos”. Fra questi ci sarebbero anche i corpi di nove minatori di Belacevac, miniera di carbone conquistata dai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) nel giugno del 1998, dopo una dura battaglia contro i soldati di Belgrado.
 
Dopo la presa dell’impianto, presso Obilic, non lontano dalla sospetta fossa comune, dieci operai serbi sparirono nel nulla. L’unico che riuscì a fuggire affermò che i suoi colleghi erano stati liquidati dall’Uck. «I lavori di scavo sono stati interrotti, Eulex valuterà la sicurezza dell’area ed è troppo presto per fare previsioni», ha spiegato uno dei responsabili degli scavi, Alan Robinson. Eulex che ha confermato di aver iniziato a indagare sulle cause del rogo, per ora «non ancora identificate». Le associazioni dei familiari dei rapiti e degli scomparsi serbi del Kosovo hanno invece puntato il dito sull’inazione di Pristina. L’incendio sarebbe scoppiato addirittura sabato, hanno accusato le famiglie dei desaparecidos serbi, ma solo ieri mattina i vigili del fuoco si sarebbero attivati seriamente per spegnere le fiamme. Il tutto per occultare le prove dei massacri, lo “j’accuse” dei serbi. Anche il ministro serbo per il Kosovo, Goran Bogdanovic, ha espresso dubbi sulla natura dell’incendio e ha chiesto a Eulex di dissiparli «per evitare confusione» sul delicato caso. «Completeremo gli scavi e le esumazioni molto presto, ultimando questo progetto», ha assicurato in risposta il governo kosovaro. Nell’ex provincia serba, a 13 anni dalla guerra, si contano ancora 1800 desaparecidos, di cui un terzo serbi.


=== 5 ===


20 Jul 12

Western Europe Sends Kosovo Roma To Serbia


Due to loopholes in their readmission procedures, countries that recognise Kosovo as an independent state are returning Kosovo Roma asylum seekers to Serbia, instead of Kosovo.

According to the head of the Belgrade office of the Fund for Open Society, Jadranka Jelincic, the Western European countries that recognise Kosovo as an independent state are misusing the rights that protect refugees and internally displaced people by returning them to Serbia, and not to their country of origin - Kosovo.

Following the war in Kosovo in 1999, around 200,000 people fled to Serbia where they were given the status of the internally displaced people, IDPs. How many subsequently went on to seek asylum in other countries remains unknown.

“People rarely speak about this problem. I understand when Spain returns Kosovo Roma to Serbia, since it does not recognise the independence of Kosovo, but I cannot understand it when the countries that recognize Kosovo, such as Sweden or Finland, do that,” says Jelincic.

The Swedish Agency for Migration says that they are not guided by political, but legal reasons. 

“The documents that Roma IDPs have are either from Serbia or from the former Yugoslavia, and since Serbia is a successor of the former country, we are obliged to send them to Belgrade,” the Swedish Agency for Migration told BIRN.

The Belgrade lawyer Nikola Lazic says that in this situation political conditions cannot be ignored. 

“Bearing in mind the complexity of the situation, until this is legally settled between the countries, the process should be either stopped or resolved differently. For example, people should be asked whether they want to go back to Serbia as IDPs or to Kosovo as returnees, “ explains Lazic.

In 2010 the Council of Europe and Amnesty International called on countries to stop deporting Roma to Kosovo “until it is proven that they could live safely there”.

In its report Amnesty wrote: “Following Kosovo’s unilateral declaration of independence, the Kosovo authorities have come under increasing pressure from Germany and other EU member states to accept returnees. However, the authorities in Kosovo lack the resources and political will to provide forced returnees with assistance.” 

As a condition of a visa free regime, Serbia signed a readmission agreement with the European Union in January 2008, while Kosovo started signing individual agreements with  EU member states in 2004.

It is not clear how many people should be returned to Serbia on the basis of the readmission agreement. In 2003, the Council of Europe estimated that the figure could be between 50,000 and 100,000 but over the last few years, figures as high as 150,000 have also been cited.

The majority of returnees to Serbia, around 70 per cent, are returning from Western European countries, mainly Germany, followed by Scandinavian countries, Switzerland and The Netherlands.Between 60 and 70 per cent were Roma, according to estimates.

Kosovo declared its independence from Serbia in 2008, but Serbia still regards it as its southern province and opposes its independence.


=== 6 ===


In Kosovo, dangers in returning home


20/07/2012

One of the challenges for the returnees is their safety and the security.

By Linda Karadaku for Southeast European Times in Pristina -- 20/7/12


More than 330,000 of the 3 million people displaced during the Balkan conflict in the 1990s remain separated from their homes, with as many as 200,000 Kosovars still living in surrounding countries.

Since 2000, more than 23,000 from minority communities have voluntarily returned to Kosovo. But experts say the return and reintegration, especially for the Serb community, can often be difficult.

"The challenges affect not only returnees, but Kosovo society as a whole; weak rule of law, struggling economy, lack of infrastructure, inadequate delivery of basic services, including access to health, education, social protection," Dejan Radivojevic, manager at the Inclusive Local Development, UNDP Kosovo, told SETimes.

Since 2010, Bosnia and Herzegovina (BiH), Croatia, Montenegro, and Serbia renewed their efforts to find permanent solution for some 73,000 refugees from the Yugoslav conflict.

Some 2,200 people, mainly Serbs, remain displaced within Croatia. Montenegro hosts more than 16,000 displaced persons from BiH, Croatia and Kosovo. Macedonia hosts some 1,600 refugees, mostly Roma, from Kosovo.

Jo Hagenauer, the head of Kosovo UNCHR, told SETimes that the return is slow, with many obstacles.

"One of the challenges is that the overall security situation for minorities in Kosovo is relatively stable but fragile. Incidents targeting property of minorities and the quality of response from the law enforcement negatively impacted the perception of Kosovo security among the minority communities," Hagenauer said.

Radivojevic agreed. "Although overall security in Kosovo remains relatively stable, some incidents targeting individual returnees and recent clashes in northern Kosovo continue to pose challenges to the actual and perceived safety of returnees from minority communities, and their freedom of movement in Kosovo," she said.

Hagenauer said that the number of reported security incidents, potentially ethnically motivated, is steadily declining, "However, tensions continue to exist between communities and interactions are still very limited, especially in Kosovo north."

In early July, a Serb couple, Milovan and Liljana Jevtic, returned to Kosovo, but were killed in their house in the Talinoc village, near Ferizaj. Kosovo and international representatives condemned the murders, asking for the perpetrators to face justice, but they are still at large.

"Despite regular co-operation with Kosovo police, the perpetrators remain unidentified and unpunished, therefore, we are for an enlargement of institutional co-operation on all levels, so that security, which is already fragile, does not get more complicated," Radojica Tomic, Kosovo minister for returns and communities, told SETimes.

Tomic said the returns process faces many security challenges for returnees in areas of Albanian majority population.

"We still consider necessary the inter-ethnic dialogue between the local community and the returnees," Tomic told SETimes.

UNHCR confirmed that in the last two years, a total of 159 houses were handed over to returnee families, but in 2012 there has been a slowdown in returns, mainly due to the absence of housing assistance projects and finding a more lasting solution elsewhere.


Economic conditions for both majority and minority communities remain poor in Kosovo. Poverty and unemployment prevail. Some 1,250 internally displaced persons and refugees continue to live in collective centres in Gjilan, Mitrovica and Pristina, UNHCR confirms.

Tomic told the media that 425 people returned in 2011, most of them elderly.

Momcilo Jovanovic, 50, decided to return to Kosovo from Serbia, to the village of Brusince, in Kamenica municipality. He said the main problem is unemployment and his only in

(Message over 64 KB, truncated)



ITALIANI BRAVA GENTE


AFFILE, GRANDE FESTA PER IL "MARESCIALLO D'ITALIA"... ORA AFFILE COME PREDAPPIO

Una gran bella festa come quelle che si vivono nei piccoli paesi come e' Affile, che con le sue 1.500 anime ha attirato tutta l'attenzione della politica dell'intero Lazio su di se' per il fatto che si e' dedicato un sacrario al generale Rodolfo Graziani, cittadino di Affile, militare, "maresciallo d'Italia" e ministro della Guerra della Repubblica di Salo'. Un fiume di gente in cammino verso il sacrario, il sindaco Pdl Ercole Viri e' in testa alla coda di istituzioni e cittadini. C'e' anche l'assessore regionale ai Trasporti Francesco Lollobrigida, l'assessore regionale Teodoro Buontempo, il senatore Oreste Tofani e molti sindaci della provincia romana: da Tivoli, a Morlupo, a Vallepietra a diversi Comuni non lontani da Affile. Il sacrario e' pronto ad attendere il bagno di folla, ci sono persone che sorreggono bandiere d'Italia all'ingresso. In piazza San Sebastiano, nel paese della Valle Aniene, è comparsa anche qualche bandiera della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. C'e' un tricolore che sventola in cima alla struttura che separa le parole "Patria" e "Onore".  Poi arriva la benedizione di don Ennio Innocenti, autore del libro "disputa sulla conversione del Duce". E' un momento solenne per i concittadini del generale Graziani. Per il monumento alla memoria e la riqualificazione del parco di Radimonte e' stato speso un finanziamento regionale, stanziato dalla giunta Marrazzo, di 130 mila euro, "in realta' - dice l'assessore Lollobrigida - il finanziamento era di 230 mila euro ma si e' riusciti a risparmiare e il sindaco ne ha restituiti 100 mila". Tra l'altro, come spiega Lollobrigida, si e' inteso riqualificare un Parco divenuto pubblico oltre che ricordare  un illustre cittadino che ha dato la vita per l'esercito e ha pagato le sue scelte in termini personali. Non e' stato un criminale di guerra ma un soldato italiano pluridecorato". Questo voler rimarcare da parte di Lollobrigida il ricordo di Graziani come valoroso militare e illustre concittadino affiliano e' probabilmente voluto per mettere a tacere una volta per tutte "le sterili polemiche", cosi' le ha definite l'assessore,, sollevate da esponenti di sinistra, "gli stessi - dice l'assessore alla Mobilita' della Regione - che il 15 gennaio del 2007 erano ad Affile a commemorare i 50 anni dalla morte di Graziani con un sindaco Ds e oggi strumentalizzano un evento promosso da un primo cittadino democraticamente eletto". Mette a tacere le "chiacchiere" anche il sindaco di Affile, orgoglioso e sereno in un giorno atteso dai suoi cittadini: “Il progetto che abbiamo realizzato - ha detto Viri - ha suscitato vane chiacchiere. L'opera era attesa non solo qui ma anche dall'Italia intera”.  Dopo la conferenza e' stata deposta una corona sulla tomba di Graziani, sepolto nel vecchio cimitero affiliano.

autore: Chiara Rai


GRAZIANI Rodolfo.

Governatore della Libia dal 1930 al 1934, dove “pacificò” la Cirenaica mediante deportazione di circa 100.000 persone, bombardamenti all’iprite, esecuzioni sommarie e torture anche di vecchi donne e bambini; il comandante della resistenza libica, il settantatreenne Omar el-Muktar, il “leone del deserto”, fu impiccato dopo un processo sommario il 16/9/31.
Tra il 1935 ed il 1936 comandò le operazioni militari contro l’Abissinia, utilizzando anche le bombe all’iprite. Nominato viceré d’Etiopia nel 1937, sfuggito ad un attentato il 19/2/37, ordinò una repressione che provocò 3.000 morti secondo le fonti britanniche e 30.000 secondo quelle etiopiche. Si ricorda in particolare il massacro del monastero di Debre Libanos, dove furono uccisi più di 1.500 monaci, molti dei quali giovanissimi diaconi.
Rientrato in Italia, nel 1938 firmò il Manifesto per la difesa della razza e dal settembre 1943 ricoprì la carica di ministro delle Forze armate della RSI.
Fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra. Processato nel 1948, fu condannato a 19 anni di reclusione di cui 17 condonati. Aderì al MSI fin dal momento della sua fondazione.
Padre di Clemente Graziani, il dirigente di Ordine Nuovo che in un’intervista pubblicata su “Panorama” del 19/12/74 dichiarò “Siamo i veri eredi della Repubblica sociale italiana e del nazismo. Vogliamo distruggere la democrazia e duellare politicamente gli ebrei e l’ebraismo, abolire il voto, affidare la guida dello Stato a pochi aristocratici dell’intelligenza”.

a cura della redazione de La Nuova Alabarda (Trieste)


(srpskohrvatski / francais / italiano)

Olimpiadi

1) La Jugoslavia alle Olimpiadi 2012
2) Doping politico (Manlio Dinucci)
3) Olimpiadi e minoranza italiana in Croazia (Fabio Muzzolon)
4) Olimpiadi: il sogno infranto degli atleti kosovari (Jacopo Corsini)
5) LONDONSKE OLIMPIJSKE IGRE - IGRE SMRTI (Ljubodrag Simonović Duci)


ALTRI LINK:

OLIMPIJSKE IGRE – MIT I STVARNOST
Ljubodrag Duci Simonović - јун 10, 2012 · by nedjeljnilistborba

L'horreur économique des Jeux Olympiques
Par Daniel Salvatore Schiffer - 26 Juillet 2012 

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2004
JUGOINFO 3 settembre 2004

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2008
JUGOINFO 28 agosto 2008

Su alcune questioni sportive si veda anche la documentazione alla nostra pagina:


=== 1 ===

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2012


Il numero riportato tra parentesi indica la posizione del paese nella graduatoria dei corrispondenti giochi olimpici.

oro argento bronzo totale

LONDRA 2012

(25) Croazia 3 1 2 6
(42) Slovenia 1 1 2 4
(42) Serbia 1 1 2 4
(69) Montenegro 0 1 0 1
( - ) Bosnia-Erzegovina 0 0 0 0
( - ) FYROM 0 0 0 0

totale 5 4 6 15


A confronto:


Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia

( 14 ) Parigi 1924 2 0 0 2
( 21 ) Amsterdam 1928 1 1 3 5
( 25 ) Berlino 1936 0 1 0 1
( 24 ) Londra 1948 0 2 0 2
( 21 ) Helsinki 1952 1 2 0 3
( 26 ) Melbourne 1956 0 3 0 3
( 18 ) Roma 1960 1 1 0 2
( 19 ) Tokyo 1964 2 1 2 5
( 16 ) Città del Messico 1968 3 3 2 8
( 20 ) Monaco 1972 2 1 2 5
( 16 ) Montreal 1976 2 3 3 8
( 14 ) Mosca 1980 2 3 4 9
( 9   ) Los Angeles 1984 7 4 7 18
( 16 ) Seul 1988 3 4 5 12


Slovenia

( 52 ) Barcellona 1992 0 0 2 2
( 55 ) Atlanta 1996 0 2 0 2
( 35 ) Sydney 2000 2 0 0 2
( 64 ) Atene 2004 0 1 3 4
( 41 ) Pechino 2008 1 2 2 5


Croazia

( 44 ) Barcellona 1992 0 1 2 3
( 45 ) Atlanta 1996 1 1 0 2
( 48 ) Sydney 2000 1 0 1 2
( 44 ) Atene 2004 1 2 2 5
( 57 ) Pechino 2008 0 2 3 5


Bosnia-Erzegovina

( - ) Barcellona 1992 0 0 0 0
( - ) Atlanta 1996 0 0 0 0
( - ) Sydney 2000 0 0 0 0
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0


Repubblica ex-jugoslava di Macedonia - FYROM

( - ) Atlanta 1996 0 0 0 0
( 70 ) Sydney 2000 0 0 1 1
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0


Repubblica Federale di Jugoslavia,
dal 2004: Unione di Serbia-Montenegro

( 41 ) Atlanta 1996 1 1 2 4
( 42 ) Sydney 2000 1 1 1 3
( 62 ) Atene 2004 0 2 0 2


Serbia

( 62 ) Pechino 2008 0 1 2 3


Montenegro

( - ) Pechino 2008 0 0 0 0
http://www.athens2004.com/en/OlympicMedals/medals
http://www.olympic.it/italian/country )


=== 2 ===

Doping politico

 

Fonte: il manifesto, 7.08.2012

Autore: Manlio Dinucci 

Tra le squadre alle Olimpiadi di Londra ce n’è una multinazionale, formata da giornalisti che, allenati da coach politici, eccellono in tutte le discipline della falsificazione. La medaglia d’oro va ai britannici, primi nello screditare gli atleti cinesi, descritti come «imbroglioni, scherzi di natura, robot». Un secondo dopo che la nuotatrice Ye Shiwen ha vinto, la Bbc ha insinuato il dubbio del doping. Il Mirror parla di «brutali fabbriche di addestramento», in cui gli atleti cinesi vengono «costruiti come automi» con tecniche «ai limiti della tortura», e di «atleti geneticamente modificati». 
La medaglia d’argento va al Sole 24 Ore che, tramite l’inviata Colledani, descrive così gli atleti cinesi: «La stessa faccia squadrata, la stessa concentrazione militaresca, fotocopia l’uno dell’altro, macchine senza sorriso, automi senza eroismo», creati da una catena di montaggio che «sforna ragazzini come bulloni», costringendoli alla scelta «piuttosto che fame e povertà, meglio disciplina e sport». C’è nostalgia a Londra dei bei tempi andati, quando nell’Ottocento i cinesi venivano «scientificamente» descritti come «pazienti, ma pigri e furfanti»; quando gli imperialisti britannici inondavano la Cina col loro oppio, dissanguandola e asservendola; quando, dopo che le autorità cinesi ne proibirono l’uso, la Cina fu costretta con la guerra a cedere alle potenze straniere (tra cui l’Italia) parti del proprio territorio, definite «concessioni»; quando all’entrata del parco Huangpu, nella «concessione» britannica a Shanghai, c’era il cartello «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi». Liberatasi nel 1949, la nuova Cina, non essendo riconosciuta dagli Usa e dai loro alleati, venne di fatto esclusa dalle Olimpiadi, alle quali poté partecipare solo nel 1984. Da allora è stato un crescendo di successi sportivi. Non è però questo a preoccupare le potenze occidentali, ma il fatto che la Cina sta emergendo come potenza in grado di sfidare il predominio dell’Occidente su scala globale. Emblematico che perfino le uniformi della squadra Usa alle Olimpiadi siano made in China. Dal 2014 saranno usate solo quelle made in America, ha promesso il Comitato olimpico Usa, organizzazione «non profit» finanziata dalle multinazionali. 
Che, con le briciole di quanto ricavano dallo sfruttamento delle risorse umane e materiali di Asia, Africa e America latina, finanziano il reclutamento di atleti da queste regioni per farli gareggiare sotto la bandiera a stelle e strisce. La Cina invece considera «lo sport come una guerra senza uso di armi», accusa il Mirror. Ignorando che la bandiera olimpica è stata issata da militari britannici, che hanno usato le armi nelle guerre di aggressione. La Cina è l’ultima ad avere «atleti di stato», accusa Il Sole 24 Ore. Ignorando che, dei 290 olimpionici italiani, ben 183 sono dipendenti statali in veste di membri delle forze armate, poiché solo queste (per una precisa scelta politica) gli permettono di dedicarsi a tempo pieno allo sport. Una militarizzazione dello sport, che il ministro Di Paola chiama «binomio sport-vita militare, fondato su un’etica condivisa, caratteristica dell’appartenenza ad un corpo militare così come ad un gruppo sportivo». Allora quella contro la Libia non è stata una guerra, ma l’allenamento per le Olimpiadi.



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Da: Fabio Muzzolon
Data: 13 agosto 2012 20.05.45 GMT+02.00

in margine alle Olimpiadi (e alle vacanze), un fatto sfuggito sul croato bilingue che ha battuto la nostra medaglia d'argento Massimo Fabbrizi nel tiro a volo... 


SULLA MINORANZA ITALIANA IN CROAZIA.
Mi trovavo da quelle parti quando il tiratore croato, medaglia d'oro olimpica, Giovanni Cernogoraz, professione cameriere di famiglia, veniva festeggiato nella sua Città Nova, in slavo Novi Grad, sulla costa istriana. Il cronista della RAI era un po'  imbarazzato davanti a questo nome  un po' ibrido ed esotico. Un cognome forse strano per un atleta della minoranza italiana che in casa parla dialetto veneto-istriano, cognome scritto in grafia italiana ma che in serbo-croato significa "montenegrino" o di qualche altro Monte Nero nei paraggi, a conferma che le identità non sono mai del tutto separate e definitive.
Qualcuno avrà pensato: ma come può esserci un italiano in Croazia, ex Tito-slavia, non erano stati tutti cacciati o "infoibati"? Eppure da fonti croate si sa che gli italiani dichiarati (senza timori o pigrizie di dichiararsi!) sono almeno 20.000 nella sola Croazia, ma il rappresentante della Comunità Italiana (Talijanska Zajednica) di Dignano-Vodnjan dice che potrebbero aggirarsi sui 35.000, ma la presenza di moltissimi "misti" -tipica eredità jugoslava- rende il conto molto difficile. Tanto più arduo contare gli Istriani e Dalmati che usano l'italiano o il croato in modo bilingue nonostante il crescente centralismo croato. Intanto sempre di più da noi si sente dire "Vado a Porec in Croazia" quando in italiano sarebbe preferibile "Vado in Istria, a Parenzo".


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NB. Riportiamo l'articolo seguente per le informazioni attuali in esso contenute, benché la sua impostazione sia fuorviante in quanto, storicamente e al presente, non esiste alcuna "aspirazione nazionale kosovara" ma solamente la aspirazione irredentista del nazionalismo pan-albanese che mira a strappare la provincia del Kosovo dalla Serbia allo scopo di annetterla alla Repubblica di Albania, realizzando quella "Grande Albania" etnicamente intesa che fu già effimera creazione del nazifascismo.



Olimpiadi: il sogno infranto degli atleti kosovari


Non è un problema recente. Per gli atleti kosovari è impossibile difendere i colori della propria bandiera. E' accaduto anche alla judoka Majlinda Kelmendi, alle olimpiadi di Londra. "Ma a Rio 2016 gareggerò per il Kosovo"

Il Presidente bielorusso Lukashenko, cui venne rifiutato sia il visto per recarsi in Gran Bretagna sia l’accreditamento dal Comitato Olimpico Internazionale, già prima dell’inizio dei giochi sentenziò: “non sono sport ma politica, sporca politica”.
Anche se siamo distanti dalla tensione politica internazionale che aleggiava su Mosca ’80 o Los Angeles ’84, l’edizione di quest’anno ha sollevato non poche polemiche nella regione dei Balcani Occidentali, in particolare Kosovo e Serbia, a causa della decisione di non far partecipare gli atleti kosovari all’interno di una rappresentanza nazionale kosovara.

Il veto di Divac

Il Presidente del Comitato Olimpico serbo ed ex stella internazionale del basket, Vlade Divac, si pronunciò in merito già nel marzo scorso quando disse chiaramente che se gli atleti kosovari, di etnia albanese o serba, avessero voluto partecipare ai giochi olimpici di Londra lo avrebbero potuto fare solo ed esclusivamente all’interno della delegazione serba.
Di diversa opinione fu invece il Parlamento di Strasburgo che pochi giorni dopo, il 29 marzo, adottò una Risoluzione in cui chiese ufficialmente l’inizio dei negoziati di adesione con la Serbia, che già da un anno aveva ottenuto lo status di paese candidato, e allo stesso tempo sollecitava Belgrado perché desse nuovo impulso ai negoziati diretti con Pristina, bloccati ormai da alcune settimane (e ancora oggi non ripresi); nello stesso documento fece appello al Comitato Olimpico Internazionale affinché lasciasse partecipare atleti kosovari sotto la propria bandiera.
A maggio la questione venne portata a Losanna, sede del Comitato, il quale sentenziò che, secondo lo statuto, per poter partecipare ai giochi olimpici uno stato deve essere riconosciuto dalla Comunità internazionale, cioè dalle Nazioni Unite. E il Kosovo, ad oggi riconosciuto ufficialmente da 91 Paesi, deve fare i conti con l’opposizione della Serbia sostenuta dalla protettrice Russia che detiene il potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza.

Non solo le olimpiadi

In questi giorni a Londra solo un’atleta kosovara, la famosa judoka Majlinda Kelmendi, ha preso parte ufficialmente alle olimpiadi sfilando all’interno della rappresentativa di Tirana. Medaglia d’oro ai campionati mondiali junior di Parigi di tre anni fa, negli ultimi mesi la giovane atleta nata nel maggio del 1991, si è dovuta scontrare con le resistenze del Comitato il quale, oltre a negarle la possibilità di gareggiare sotto la propria bandiera nazionale, le ha proibito anche quella di gareggiare come atleta indipendente sotto la bandiera olimpica, a differenza di quanto è stato concesso a quattro altri atleti provenienti dal neonato Stato del Sud-Sudan e dalle ex Antille olandesi. Senza possibilità di rappresentare ufficialmente il proprio Paese, Majlinda si è ritrovata così costretta a partecipare all’interno della delegazione albanese. E' scesa sul tatami nella categoria del judo femminile dei 52 kg.
La non partecipazione ai giochi olimpici di Londra è solo il più clamoroso dei tanti dinieghi che Pristina si è vista presentare in campo sportivo. L’isolamento internazionale in questo campo è generalizzato e neppure il recente accordo con Belgrado sul famoso “asterisco”  sembra sia stato sufficiente. L’accordo, raggiunto nel febbraio scorso, consentiva la partecipazione del Kosovo ad eventi internazionali a patto che il nome fosse seguito da un asterisco che rimandasse ad una nota a piè di pagina in cui si menzionava la Risoluzione 1244 e il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia.
È evidente come l’isolamento internazionale di Pristina in ambito sportivo abbia anche ricadute politiche: molti atleti di etnia albanese sono stati allenati e sono cresciuti in Kosovo e successivamente “dati” alla vicina Albania per poter competere in eventi internazionali con la conseguenza che si stanno facendo sempre più numerose le richieste di una maggiore integrazione, quando non una vera e propria fusione, delle federazioni sportive kosovare con quelle albanesi.

Arrivederci a Rio

Nel frattempo, i sogni di Majlinda di dedicare una medaglia olimpica al proprio Paese sono stati infranti sul tatami: arrivata tra le 16 atlete di finale dopo aver battuto la finlandese Jaana Sundberg, si è dovuta arrendere alla judoka delle Mauritius, Christianne Legentil. Nonostante questo, la ventunenne kosovaro-albanese ha affermato che continuerà la battaglia per realizzare il sogno di gareggiare, alle prossime olimpiadi di Rio de Janerio, con la bandiera kosovara cucita sul proprio kimono.

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La nota a margine 

Dopo un accordo raggiunto tra Belgrado e Pristina nel febbraio 2012, con la mediazione dell'UE, il Kosovo potrà essere rappresentato nei summit regionali e potrà siglare accordi commerciali con Paesi terzi. Ad una condizione però: il nome dovrà essere seguito da un asterisco che rimanda ad una nota a piè pagina dove si fa riferimento sia alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che garantisce l'integrità territoriale della Serbia, sia alla decisione con cui la Corte internazionale di giustizia ha sancito che la dichiarazione di indipendenza di Pristina non è contraria al diritto internazionale.


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("Le Olimpiadi di Londra. Olimpiadi della morte." 
Dello stesso autore - filosofo ed ex giocatore di pallacanestro - sullo stesso sito:


LJUBODRAG SIMONOVIĆ: OLIMPIJSKI PLAMEN




LONDONSKE OLIMPIJSKE IGRE. IGRE SMRTI.

 

Piše: Ljubodrag Simonović Duci

 
 

Olimpijske igre.

Najznačajnija svetkovina kapitalističkog sveta.

„Plava loža“ je puna.

Dželati čovečanstva su na okupu.

Tu je i kraljica.

Britanska kraljevska kuća…

Najkrvavija zločinačka organizacija za koju istorija zna.

London slavi!

Bojni brodovi, avioni, rakete, policajci, komandosi…

Pravi olimpijski ambijent.

Fanfare, olimpijska koračnica…

Roboti marširaju.

Ave cæsar! Morituri te salutant!

Kraljica maše.

Kraljica se smeje.

Kraljica zeva.

„Golubi mira“ nestaju u tami otrovanog neba.

To su Olimpijske igre, budalo!

Smej se!

Svi moraju biti srećni!

„Sport je najjeftinija duhovna hrana za radne mase -

koja ih drži pod kontrolom.“

Stari, dobri Kuberten.

Znao je kako treba vladati.

Olimpijske igre.

Bile su „festival mladosti“.

Sada su festival smrti.

Kraljica je zadremala.

Neka je.

Neka utone u večni san.

Kao i Bler, Buš, Klinton, Sarkozi, Obama…

Kao i svi kapitalistički zlikovci.

Spavajte! – olimpijski anđeli.

Spavajte! – olimpijski gadovi.

I nikada se nemojte probuditi.

 

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Le Conseil de sécurité refuse de condamner un attentat contre ses casques bleus


RÉSEAU VOLTAIRE | 17 AOÛT 2012

Sergey Lavrov, ministre russe des Affaires étrangères, a indiqué sur Twitter « ne pas comprendre la position » des membres occidentaux du Conseil de sécurité qui ont refusé de condamner l’attentat perpétré, le 15 août 2012, à l’arrière de l’hôtel Rose de Damas où résident les observateurs de l’ONU.
C’est la première fois dans l’histoire de l’Organisation que le Conseil de sécurité refuse de condamner une action terroriste visant ses propres observateurs.




Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia onlus si unisce al cordoglio per la scomparsa di Spartaco Ferri, cristallina figura di partigiano comunista e di internazionalista appassionato. 
Spartaco mosse i primi passi della lotta armata antifascista nelle file della Brigata Gramsci dell'Umbria, sotto il comando di combattenti jugoslavi sfuggiti ai campi di concentramento sulla nostra penisola. Dopo la Liberazione si formò soprattutto sui testi di Engels, maturando una convinta adesione al materialismo storico e dialettico e ponendosi fermamente in contrasto contro le derive opportunistiche e anti-scientifiche di gran parte del movimento comunista italiano. Nei decenni successivi fu tra l'altro impegnato in iniziative internazionaliste e di amicizia "con la Cina di Mao, con l'Albania di Hoxha, con la Jugoslavia di Tito, con la Corea di Kim Il Sung, con Cuba", come ricorda la sua compagna di vita, la partigiana Miriam Pellegrini, alla quale va il nostro più affettuoso abbraccio in questo momento.
Con Miriam, nel 1998 Spartaco è stato tra i fondatori del GAMADI (Gruppo Atei Materialisti Dialettici) (1), organizzazione con cui CNJ-onlus da anni collabora ad esempio attraverso la redazione di un foglio comune sulle questioni jugoslave (2), nonché nell'organizzazione di iniziative (3) e nella gestione della sede romana. Come CNJ-onlus siamo fieri di avere avuto Spartaco tra i componenti del nostro Collegio dei Garanti. 
Porteremo avanti gli ideali internazionalisti e di giustizia sociale di Spartaco, facendo tesoro dell'esempio e dell'insegnamento che ci ha trasmesso.

Per CNJ-onlus, il Consiglio Direttivo

(3) Tra tutte ricordiamo la due-giorni organizzata nel 60.mo della Liberazione dell'Europa dal nazifascismo, cui intervennero ex combattenti, studiosi ed antifascisti da molti paesi: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/resoconto.htm


Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Miriam" <gamadilavoce @ aliceposta.it>
Data: 14 agosto 2012 21.18.08 GMT+02.00
Oggetto: [vocedelgamadi] Lutto assai doloroso

 

Il Partigiano, il comunista, il combattente contro  tutte le ingiustizie in ogni parte del mondo: Spartaco Ferri non é più con noi.
Aveva la tessera del partito comunista nel 1943, quando aveva solo 19 anni. Diffondeva l' Unità (un solo fogio clandestino) cosa che avrebbe potuto costargli la vita.e imparò a sparare al nemico dal suo comandante che era un valido jugoslavo, quando partì per  essere partigiano nelle montagne umbre  Aveva creduto e sperato nel Partito comunista di Gramsci. Ma quando nel 1968 i burocrati del partito   chiamavano la polizia contro gli studenti in lotta, anzichè ascoltarli, capirli e indirizzarli alle teorie scientifiche della classe, Spartaco  non esitò a lasciare il Partito. Lavorò per l' amicizia con la Cina di Mao, con l' Albania di Hoxha, con la Jugoslavia di Tito,con la Corea di Kim Il Sung, con Cuba. Accolse con grande entusiamo la proposta  della sua compagna di vita e di lotta, Miriam, madre dei suoi figli, che ideò di fondare il G.A.MA.DI. per la diffusione della cultura scientifica della nostra classe.
Nel suo lavoro di Perito industriale specialista in cemento precompresso, é stato premiato con medaglia dal ministero dei Lavori Pubblici per aver collaborato alla costruzione del Ponte in Tor di Quinto in Roma. Il tentativo più volte fallito di costruire l' autocamionale della CISA, che unisce il parmense a La Spezia, é stato realizzata con la direzione di Spartaco e a tutt'oggi (dopo più di trent' anni) é funzionante.Spartaco é stato un uomo nel senso più pieno del termine per la sua intelligenza per la sua onestà, per la sua lealtà e per l' impegno politico e sociale per il quale é stato sempre protagonista.  Insieme alla sua compagna, Egli ha scritto una delle pagine d' amore più belle e più intense vissute nel corso della loro unione durata oltre sessant' anni.
Addio Spartaco!!! Non ti dimenticheremo e continueremo a lottare!!!
 
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La lista [vocedelgamadi] e' di supporto a "La Voce",
notiziario del Gruppo Atei Materialisti Dialettici (GAMADI).
Per informazioni sul GAMADI e per abbonarsi al mensile "La Voce":
telefono e fax: 06-7915200;
indirizzo: Piazza L. Da Vinci, 27 - 00043 Ciampino (Roma)
POSTA ELETTRONICA gamadilavoce @ aliceposta.it