Informazione
Da: Johnstone DianaData: 05 ottobre 2010 14.13.29 GMT+02.00Oggetto: Tr : Diana Johnstone // Nice Guys Finish LastThis was my address to a conference in Belgrade on October 5 which I was unable to attend.
Diana
http://www.nspm.rs/nspm-in-english/nice-guys-finish-last.html
Nice Guys Finish Last
понедељак, 04. октобар 2010.
La rivolta degli operai italiani e sloveni del rione di San Giacomo nel settembre 1920, a Trieste, costituisce un alto e significativo momento della lotta dei movimenti operai del Paese. Non si era ancora spenta la lunga occupazione delle fabbriche che fu per la borghesia e lo stato la “grande paura”. Qui da noi la rivolta fu diretta contro il potere oppressivo espresso allora da una gerarchia militare, e poi civile, sorda ad ogni istanza dei lavoratori. Quella coraggiosa insurrezione ancora oggi stranamente ignorata e dimenticata, va inserita nella volontà di resistere alla violenza delle squadre fasciste particolarmente efficienti e brutalmente violente nella città di Trieste, da poco passata sotto il controllo del regio esercito italiano, ma non ancora annessa all’Italia. Erano passate poche settimane dall’incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, provocato da una squadra fascista agguerrita e protetta dall’esercito. E va ad unirsi idealmente alle lotte in nome del socialismo e dell’anarchismo, in Emilia-Romagna e in val padana e in buona parte dell’Italia, per la difesa delle Case del Popolo. Idealmente si collega agli scioperi antifascisti delle città industriali del nord nel 1943 e 1945 nel contesto della lotta partigiana per la liberazione.
VENERDÌ 8 OTTOBRE ORE 17:00
INCONTRO DIBATTITO
“LA RIVOLTA OPERAIA DEL 1920
A SAN GIACOMO”
Interverranno:
Marina ROSSI, storica
Paolo NICCOLINI, operaio dirigente CGIL;
Miro IVANCIC, figlio di un insorto di San Giacomo;
Claudio Venza, storico,
Claudio COSSU, cittadino
Cittadini Liberi ed Eguali
Coordinamento Antifascista di Trieste
info: antifa-ts@...
Il 17 ottobre, alle ore 11, l'Anpi di Trieste poserà una targa commemorativa sull'ex caserma dei Carabinieri di via Cologna 6 a Trieste, dove ebbe sede, dal dicembre 1944 alla fine della guerra, il tristemente noto Ispettorato Speciale di PS, struttura creata per la repressione antipartigiane e che si macchiò di nefandezze e crimini.
La Provincia di Trieste, proprietaria dell'edificio, ha deciso di metterlo all'asta ed al suo posto dovrebbe sorgere un complesso residenziale.
Per evitare che la speculazione edilizia dia una mano all'ennesima manovra di cancellazione della memoria storica, chiediamo che la caserma rimanga di proprietà pubblica e vi si realizzi un museo, come quello esistente in via Tasso a Roma.
Vi chiediamo di far conoscere questo problema e far girare l'appello.
Ora e sempre Resistenza!
Claudia Cernigoi
Trieste
All'indirizzo sotto segnalato un articolo sull'attività dell'Ispettorato speciale nei mesi in cui ebbe sede in via Cologna, oggi inserito nel sito della Nuova Alabarda
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-l%27ispettorato_speciale_di_ps_di_trieste_nella_sede_di_via_cologna..php
Sempre dal sito della Nuova Alabarda, gli altri articoli sull'Ispettorato speciale:
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-note_sull%27ispettorato_speciale_di_ps_%28banda_collotti%29.php
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_il_rastrellamento_di_bor%9At..php
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_la_storia_di_lojze_bratu%9E_e_ljubka_%8Aorli..php
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_metodi_repressivi_dell%27ispettorato_speciale_di_ps..php
La Provincia di Trieste ha deciso di mettere all’asta l’ex caserma dei Carabinieri di via Cologna 6 e 8, e la stampa ha riferito che al suo posto dovrebbe sorgere un complesso residenziale.
Dato che in questo Paese la memoria storica, soprattutto quella che dovrebbe ricordare le cose “scomode”, tende a perdersi, non molti ormai sanno che dall’autunno del 1944 all’aprile del 1945 la caserma (che era stata sede di una tenenza dei Carabinieri fino al 25 luglio 1944, data di scioglimento dell’Arma su ordine del comando germanico) era divenuta la sede dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il corpo di repressione appositamente creato dal fascismo per “infrenare l’azione terroristica delle bande slave e difendere l’italianità di queste terre” (questa la definizione data dall’ispettore generale Giuseppe Gueli, dirigente la struttura, in una missiva che indirizzò nel 1947 alla Corte speciale di Trieste quando non si presentò al processo che lo doveva giudicare per i crimini di cui si macchiò l’Ispettorato).
Dell’attività repressiva di questo corpo (noto anche come “banda Collotti”, dal nome del commissario Gaetano Collotti, comandante la “squadra volante” che si occupava specificatamente delle operazioni, rastrellamenti, arresti ed interrogatori, e di conseguenza anche delle violenze sui prigionieri) e dei crimini commessi dai suoi componenti abbiamo parlato svariate volte (si vedano gli articoli pubblicati nel nostro sito di cui indichiamo i link in calce); in questa sede ci limiteremo a parlare del trasferimento della struttura dalla prima sede in via Bellosguardo (una villa requisita alla famiglia israelita Arnstein) a quella di via Cologna.
Il 17 ottobre, a cura dell’Anpi provinciale sarà posta una targa a ricordo di coloro che furono imprigionati e torturati nella sede di via Cologna, alcuni dei quali poi trovarono la morte fucilati dai nazifascisti o nei campi di sterminio. Un ricordo particolare lo vorremmo dedicare a Maria Merlach, la trentatreenne partigiana Maja di Servola che, secondo il racconto di una sua compagna di prigionia, “era stata torturata con la macchina elettrica e disse che preferiva darsi la morte anziché avere a che fare con quella gente. Il giorno in cui vennero gli agenti per prenderla di nuovo e condurla all’Ispettorato, la Merlach in preda ad una convulsione nervosa, si mise a piangere fortemente e diceva povera me, pregate perché io muoio” (testimonianza di Ada Benvenuti, in archivio IRSMLT n. 914).
Probabilmente l’Ispettorato operò il trasloco in via Cologna perché la villa di via Bellosguardo era stata danneggiata nel corso di un bombardamento, e lo spostamento avvenne tra la fine di novembre ed i primi di dicembre del 1944.
Una testimonianza resa nel 1947 in sede istruttoria del processo a “Gueli e soci” dice che “gli abitanti delle case vicine alla Villa Trieste dove aveva sede l’Ispettorato (…) dal 15 giugno 1942 al dicembre del ‘44, sentivano di notte e di giorno grida di detenuti, uomini e donne seviziati” (archivio IRSMLT n. 914)
In un appunto dattiloscritto, redatto da un anonimo informatore del movimento di liberazione e datato 30/10/44 leggiamo che “l’Ispettorato è stato traslocato in via Cologna: è tuttora in corso di sistemazione” (in archivio dell’ANPI di Trieste busta 10); mentre l’agente Giuseppe Giacomini dichiarò, in sede processuale, che l’Ispettorato si trasferì in via Cologna “ai primi di dicembre” (archivio IRSMLT n. 914).
In molte testimonianze inserite nei fascicoli delle inchieste a carico di membri dell’Ispettorato condotte dal Tribunale militare di Ajdovščina (in Arhiv Slovenje, SI AS 1827 fascicolo 34) si legge che gli arrestati furono condotti in via Bellosguardo fino a tutto novembre 1944. In una di queste note leggiamo che il 27/11/44 gli agenti di Collotti Luciani e Cerlenco arrestarono Wilma Varich e la imprigionarono in via Bellosguardo, dove fu torturata, poi condotta al carcere dei Gesuiti e successivamente per 80 giorni nuovamente detenuta all’Ispettorato, però in via Cologna, prima di essere inviata al Coroneo e poi in Germania. Possiamo quindi presumere che il trasloco effettivo si svolse in dicembre e che per un certo periodo l’Ispettorato usò ambedue le sedi.
Possiamo qui inserire anche alcune annotazioni relativamente ad azioni della lotta partigiana. La prima è una testimonianza di Giorgio Marzi (raccolta nel luglio 2003), che ha narrato di un attentato fallito contro Gaetano Collotti. Nel 1944 il commissario abitava in via Piccardi ed ogni mattina un’automobile veniva a prenderlo per portarlo in via Bellosguardo. Un giorno dell’inizio di settembre un gruppo di gappisti aveva atteso che la macchina partisse con Collotti a bordo e la bloccò con un furgone prelevato alla ditta di pompe funebri Zimolo. Ma l’arma che doveva sparare si inceppò e l’attentato fallì. Secondo Marzi sarebbe stato proprio dopo questo attentato che l’Ispettorato decise il trasferimento da via Bellosguardo in via Cologna. Nella circostanza inoltre Collotti lasciò l’abitazione di via Piccardi e si stabilì, assieme alla propria convivente Pierina Martorelli, in un appartamento ricavato all’interno della caserma di via Cologna. Il commissario si recava ogni mattina a messa nella chiesa dei Gesuiti di via del Ronco, vicina a via Cologna, e ad un certo punto i GAP avevano pensato di organizzare un attentato proprio in chiesa, idea però subito accantonata per le ripercussioni che avrebbe potuto avere dal punto di vista politico.
Di un altro attentato che era stato progettato nella primavera del ‘45, ha parlato invece Nerino Gobbo (testimonianza raccolta nel dicembre 1998): l’idea era di passare attraverso le condotte fognarie partendo dalla zona della Rotonda del Boschetto, a due chilometri circa da via Cologna, e di piazzare dell’esplosivo sotto la sede dell’Ispettorato. Anche questa idea fu accantonata, sia perché le piogge primaverili avevano ingrossato i torrenti e di conseguenza reso impraticabili le condotte, ma soprattutto perché erano troppi i partigiani imprigionati nella caserma e l’esplosione avrebbe ucciso anche loro.
Con molta probabilità tutti gli arrestati nel corso dei rastrellamenti effettuati dall’Ispettorato da gennaio 1945 fino alla fine della guerra passarono per la caserma di via Cologna. Ricordiamo qui le operazioni di maggiore entità, riportando alcuni dei nomi che abbiamo rintracciato.
Tra il 27/12/44 ed il 2/1/45, in seguito ad un’operazione nella zona di Sottolongera furono arrestate le seguenti persone:
Carlo Grgič, nome di battaglia “Filtro”, operaio alla fabbrica di birra Dreher ed attivista dell’OF fu arrestato la sera del 27 dicembre 1944 alla trattoria Bellavista di Strada per Longera. Fu rilasciato quasi subito.
Bruno Kavčič classe 1922, arrestato il 31/12/44 in Strada per Longera, fu portato in via Cologna, interrogato e torturato fino al 15 aprile. Condotto al Coroneo, fu fucilato il 28/4/45 ad Opicina.
Kavčič Giuseppe, padre di Bruno, fu arrestato lo stesso giorno e portato in via Cologna, interrogato, torturato, dopo tre giorni fu trasferito ai Gesuiti e poi al Coroneo; il 24/2/45 fu inviato a Dachau dove morì il 18/4/45.
La madre di Bruno, Antonia Kavčič, fu arrestata l’1/1/45 nella casa della sorella dove era riparata dopo l’arresto del marito. Fu portata in via Cologna, poi imprigionata Gesuiti e al Coroneo. Il 24/2/45 fu inviata in Germania; liberata dagli inglesi rientrò a Trieste il 15/8/45.
A questi arresti avrebbero collaborato, secondo le accuse raccolte nel dopoguerra dal Tribunale militare di Ajdovščina, gli agenti Cerlenco, Luciani, Nussak e Soranzio.
Tra l’8 ed il 10 gennaio 1945 si svolse una grossa operazione di rastrellamento a Boršt (S. Antonio in Bosco). Furono uccisi tre attivisti del Fronte di liberazione. Ivan Grzetic (Žitomir), classe 1922, che era stato incaricato dalla VDV di organizzare i collegamenti radio; Stanko Gruden (Carlo), classe 1926 e Dušan Munih (Vojko, ma si trova anche come Darko), classe 1924, comandante dei servizi di sicurezza a Trieste. A questi bisogna aggiungere Danilo Petaros (Lisjak), nato a Boršt nel 1924, catturato dopo essere stato gravemente ferito, che risulta ucciso in Risiera il 5/4/45.
Uno degli arrestati era il sedicenne Jordan Zahar, che fu arrestato il 10 gennaio, condotto in via Cologna e torturato: “nel lungo corridoio della caserma di Collotti”, ricorda, “ci contarono e ci divisero; in mezzo giaceva Romano Rapotec, delirante di febbre, sulla sedia accanto a lui stava Danilo Pettirosso piegato in due per la ferita al ventre, attorno a loro sedici tra ragazze, donne e vecchi che fissavano in silenzio il vuoto accanto a sé”.
Zahar ha narrato anche un altro fatto: “nel dicembre del 1945 dovevo richiedere la carta d’identità, e l’ufficio che le rilasciava era situato in via Cologna, nell’ex sede dell’Ispettorato. Quando arrivai lì dentro e vidi che l’ufficio per le carte d’identità era stato sistemato proprio in una delle stanze in cui si torturava e che l’appendiabiti a cui era stato legato un mio compagno per essere torturato era nello stesso posto in cui si trovava otto mesi prima, mi sentii male, ero quasi deciso ad andarmene e rinunciare a richiedere i documenti. Vidi anche che due degli agenti di Collotti erano rimasti a lavorare lì, li avevano adibiti al servizio carte d’identità. Anche loro mi riconobbero, ma non ci dicemmo nulla” (testimonianza giugno 2002).
Il 13/3/45 un rastrellamento si svolse a Ricmanje (S. Giuseppe della Chiusa): furono arrestate una ventina di persone tra le quali il quattordicenne Bogdan Berdon. In quanto minorenne fu rinchiuso al Coroneo, e venne rilasciato il 20 aprile assieme alla diciottenne Maria Coretti, perché in occasione del “genetliaco” di Hitler, era uso delle autorità germaniche fare dimostrazione di “magnanimità”, liberando detenuti giovanissimi o donne.
Il 14/3/45 un’operazione svoltasi nella zona di Guardiella San Cilino portò all’arresto di Ruggero Haas e sua moglie Albina Brana, detenuti in via Cologna, poi al Coroneo e fucilati il 28/4/45 ad Opicina; anche la sorella di Ruggero, Emilia Haas fu arrestata, ma non fu deportata perché già gravemente malata, e morì qualche tempo dopo.
Il 21/3/45 un rastrellamento nella località di Longera causò la morte di quattro partigiani: Andrej Pertot (Hans), 44 anni, Pavel Petvar (Komandir Pavle), 22 anni, Angel Masten (Radivoj), 21 anni, Evald Antončič (Stojan), 21 anni. Quasi tutti gli abitanti del villaggio furono arrestati, molti di loro (non ne conosciamo il numero esatto) furono condotti in via Cologna e torturati. Tra essi le giovanissime Milka Čok e Meri Merlak, alla quale furono mostrate una serie di bare e fu detto che in una di esse era servita per una donna con il suo stesso nome (evidente il riferimento alla Maria Merlach che si uccise per le torture cui era stata sottoposta).
Anche alcuni esponenti del CLN italiano furono arrestati dall’Ispettorato e passarono per via Cologna. Tra essi ricordiamo: Paolo Blasi, redattore della stampa clandestina democristiana, arrestato il 9/2/45; Carlo Dell’Antonio, esponente del CLN, vicecomandante della divisione “Domenico Rossetti” ed a capo dell’ufficio informazioni militari della DC, arrestato verso metà febbraio ’45: sia Blasi, sia Dell’Antonio sarebbero evasi da via Cologna in circostanze non ben chiarite.
Inoltre furono detenuti in via Cologna: l’avvocato Ferruccio Lauri, arrestato il 15/1/45; i familiari (la moglie ed i due figli Alice e Sigfrido) di Mario Maovaz (il corriere del Partito d’Azione, arrestato il 16/1/45 e fucilato il 28/4/45). Alice Maovaz e sua madre dissero alla loro vicina di casa ed amica Maria Ursis, anch’essa imprigionata e poi torturata in via Cologna “che le avevano seviziate ed entrarono in particolari che mi facevano venire la pelle d’oca e che non avrei voluto sentire” (dal “Diario di prigione” di Maria Ursis, in archivio IRSMLT 908).
Infine in via Cologna avvenne l’incontro tra l’emissario della “missione Nemo” del Regno del Sud Luigi Podestà (collegato con il CLN triestino di don Marzari) ed il commissario Collotti, in seguito al quale i due svilupparono l’accordo che Podestà avrebbe informato Collotti sui movimenti della Resistenza jugoslava, mentre Collotti avrebbe aiutato Podestà nello “svolgimento del suo compito” fornendogli anche mezzi dell’Ispettorato, in modo tale da “far valere i suoi meriti all’arrivo degli Alleati” (dalla relazione redatta da Podestà in archivio IRSMLT 867).
In conclusione vorremmo ricordare che già la prima sede dell’Ispettorato, quella di via Bellosguardo, è stata demolita per lasciare spazio ad un complesso residenziale. Permettere che venga distrutta, assieme alla caserma di via Cologna, anche l’ultima memoria dei crimini dell’Ispettorato speciale sarebbe gravissimo, anche se coerente con le operazioni di cancellazione della memoria del nazifascismo e della Resistenza, in atto da anni nel nostro Paese.
Ci rivolgiamo pertanto ad amministratori, storici, a tutta la cittadinanza che è ancora sensibile a questi problemi, per chiedere che via Cologna rimanga di proprietà pubblica e diventi un punto di informazione, di memoria, come il museo di via Tasso a Roma, per fare sì che certi fatti non vengano dimenticati, per fare sì che non si ripetano mai più.
Ottobre 2010
http://www.beoforum.rs/index.php?option=com_content&view=article&id=150:okrugli-sto-27-maj-2010-zbornik-izlaganja-ucesnika-okruglog-stola&catid=42:okruglistolovi&Itemid=71
A 10 anni dalla caduta di Slobodan Milosevic, in Serbia l'80% della popolazione rimpiange Tito e il regime socialista dell’ex Jugoslavia, mentre al contempo quasi il 25% dei cittadini ritiene che a governare ora la Serbia siano i criminali.
In un sondaggio dell'Istituto della socialdemocrazia Friedrich Ebert e del Centro demoscopico Cesid, serbo, e apparso ieri sul quotidiano ”Danas”, 80 serbi su 100 hanno detto di ritenere che il periodo migliore per il Paese sia stato il socialismo di Tito, per il 6% l'era migliore è stata quella di Milosevic (1987-2000), mentre il 10% degli intervistati ha detto di ritenere che l'epoca attuale sia la migliore per il Paese. Nello stesso sondaggio è stato chiesto ai serbi di dire chi governi attualmente nel loro Paese: la maggioranza, il 23%, ha indicato la criminalità, il 18% presidente, governo, parlamento e premier, un altro 18% gli imprenditori, il 14% i partiti politici, il 12% la comunità internazionale, mentre un 15% ha detto di non sapere chi governi la Serbia. Il regime di Milosevic cadde il 5 ottobre 2000 sotto la pressione della protesta popolare [sic].
Ne napadaju oni Srbiju zbog Miloševića nego napadaju Miloševića zbog Srbije
Broj 134 | Piše: Uglješa Mrdić • 30. septembar 2010Govor Slobodana Miloševića pred drugi krug predsedničkih izbora 2. oktobra 2000. godine, u kojem je tadašnji predsednik SRJ predočio građanima kakve će biti političke, nacionalne, ekonomske, socijalne, naučne i kulturne posledice, ukoliko vlast u državi preuzme DOS. Deset godina posle Petog oktobra svedoci smo da su se Miloševićeve mračne slutnje, nažalost, u potpunosti ostvarile.
Pštovani građani, pred drugi krug izbora želim da vas na ovaj način upoznam sa svojim viđenjem izbornih i političkih prilika u našoj zemlji, posebno u Srbiji. Kao što i sami znate, punu deceniju traju napori da se Balkansko poluostrvo stavi pod kontrolu nekih zapadnih sila. Veliki deo tog posla je obavljen uspostavljanjem marionetskih vlada u nekim zemljama, pretvaranjem tih zemalja u zemlje ograničenog suvereniteta, ili zemlje lišene svakog suvereniteta. Zbog našeg otpora takvoj sudbini za našu zemlju, mi smo bili izloženi svim pritiscima kojima u savremenom svetu ljudi mogu biti izloženi. Broj i intenzitet tih pritisaka umnožavao se kako je vreme prolazilo.
Svoje iskustvo u drugoj polovini dvadesetog veka koje velike sile imaju u rušenju vlada, izazivanju nemira, podsticanju građanskih ratova, kompromitovanju i likvidiranju boraca za nacionalnu slobodu, dovođenja država i naroda na rub siromaštva – sve je to primenjeno na našu zemlju i narod. Događaji koji su organizovani za naše izbore su, takođe, deo organizovane hajke na zemlju i narod, zato što su naša zemlja i narod barijera uspostavljanju potpune zapadne dominacije na Balkanskom poluostrvu.
OKUPACIJA I RASPARČAVANJE SRBIJE U našoj javnosti je već dugo prisutna grupacija koja, pod imenom opozicione političke partije demokratske orijentacije, zastupa interese vlada koje su nosioci pritiska na Jugoslaviju, a posebno na Srbiju. Ta grupacija se na ovim izborima pojavila kao Demokratska opozicija Srbije. Njen stvarni šef nije njihov kandidat za predsednika države. Njihov dugogodišnji šef je predsednik Demokratske stranke i saradnik vojne alijanse koja je ratovala protiv naše zemlje. On svoju saradnju sa tom alijansom nije mogao ni da sakrije. Uostalom, čitavoj našoj javnosti je poznat njegov apel NATO-u, da se Srbija bombarduje onoliko nedelja koliko je neophodno da bi se njen otpor slomio. Na čelu tako organizovane grupacije na ovim izborima nalazi se, dakle, zastupnik vojske i vlada koje su nedavno ratovale protiv Jugoslavije. Zastupajući te interese, iz ove grupacije su našoj javnosti poslate poruke – da će sa njima na čelu Jugoslavija biti izvan svake opasnosti od rata i nasilja, da će doći do ekonomskog prosperiteta, vidno i brzo ostvarenog višeg standarda, takozvanog povratka Jugoslavije u međunarodne institucije, i tako dalje.
Poštovani građani, moja je dužnost da vas javno i na vreme upozorim da su ta obećanja lažna. I da stvari stoje obrnuto, jer upravo naša politika garantuje mir – a njihova samo trajne sukobe i nasilje. A evo zašto. Uspostavljanjem vlasti koju podržava, odnosno koju instalira zajednica zemalja okupljenih u NATO alijansi, Jugoslavija bi neizbežno postala zemlja čija bi se teritorija brzo rasparčala. To nisu samo namere NATO-a, to su i predizborna obećanja Demokratske opozicije Srbije. Od njihovih predstavnika smo čuli da će Sandžak dobiti autonomiju za koju se član njihove koalicije Sulejman Ugljanin, vođa separatističke muslimanske organizacije, zalaže već deset godina i koja faktički definitivno izdvaja Sandžak iz Srbije. Njihova su obećanja takođe vezana za davanje autonomije Vojvodini koja je takva da je ne samo izdvaja iz Srbije i Jugoslavije, već je, po svemu, čini sastavnim delom Mađarske. Na sličan način bi se odvojila od Srbije i druga područja, naročito neka njena rubna područja. Njihovo pripajanje susednim državama odavno je vruća tema tih država, koje stalno podstiču pripadnike manjina tih država u Jugoslaviji da daju doprinos prisjedinjenju delova naše zemlje susednim državama.
Više u 134. broju magazina “Pečat”
Ma chi era Norma?
(Igor Canciani, segretario provinciale PRC Trieste
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=7784 )
COSSETTO Norma, Istria 1943, infoibata a Villa Surani.
"Giovane vita tutta dedicata allo studio e alla Patria", leggiamo nel necrologio apparso sul "Piccolo" del 16/12/43. La vicenda di Norma Cossetto è però controversa. La giovane, figlia di Giuseppe Cossetto, era stata attiva nelle organizzazioni giovanili fasciste, e delle sevizie cui sarebbe stata sottoposta l'unica "testimonianza" che viene
citata è quella di una donna, della quale non viene mai fatto il nome, che avrebbe visto, dall'interno della propria casa in cui stava nascosta con le finestre sbarrate, quello che accadeva nella scuola di fronte a casa sua, anch'essa con le finestre chiuse. Dal verbale redatto dal maresciallo Harzarich dei Vigili del Fuoco di Pola, che aveva diretto i recuperi dalle foibe istriane, il corpo della giovane non appare essere stato oggetto delle mutilazioni di cui parlano le "cronache", né sarebbe stato possibile stabilire, con le conoscenze mediche dell'epoca, se fosse stata violentata prima di essere uccisa.
(da "La Nuova Alabarda", n. 203 - 2/2006)
Norma Cossetto pag. 32-33 ..... i vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich recuperarono la sua salma: era caduta nuda, supina.....; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.
Al Rocchi piace le descrizioni crude, non per niente nell'intervista dice che è un uomo violento o qualcosa del genere.
Strano che il rapporto di Harzarich dica: "e il suo corpo non presentava a prima vista segni di sevizie. Sembrava dormire e neppure lontanamente si poteva immaginare che fosse morta da diverse settimane (... .... la salma non era per niente in putrefazione, era ancora intatta." Arch. IRSMLT n. 346
Come è possibile che un corpo possa rimanere intatto per 44 giorni?
Ci sono parecchi dubbi sul fatto. Dicono cha accanto al corpo siano state trovate 17 bustine con la stella rossa (Il Piccolo, 16/12/43). Strano ancora che Rocchi parli di "17 torturatori" (pag. 34) esattamente quante erano le bustine trovate nella foiba. Era proprio nella foiba da 44 giorni???
(fonte: N.L. sulle falsificazioni contenute nel libro di Padre Flaminio Rocchi, si veda: https://www.cnj.it/documentazione/IRREDENTE/medaglie_infoibati.htm#cossetto )
I crociati della menzogna
Da: <press@...>
Date: 28 settembre 2010 12:59
Oggetto: [Stampa] Amnesty International chiede all'Ue di sospendere i rimpatri forzati dei rom in Kosovo
A: stampa@...
COMUNICATO STAMPA
CS85-2010
AMNESTY INTERNATIONAL CHIEDE ALL’UNIONE EUROPEA DI SOSPENDERE I RIMPATRI FORZATI DEI ROM IN KOSOVO
In occasione del lancio di un nuovo rapporto intitolato ‘Benvenuti da nessuna parte: stop ai rimpatri forzati dei rom in Kosovo’, Amnesty International ha chiesto ai paesi dell’Unione europea (Ue) di sospendere il rimpatrio forzato dei rom e di altre minoranze etniche in Kosovo.
Il rapporto descrive come rom e appartenenti ad altre minoranze, anche coi loro bambini, siano costretti con la forza a rientrare in Kosovo, spesso coi soli vestiti che indossano, verso un possibile futuro di discriminazione e violenza.
‘I paesi dell’Ue rischiano di violare il diritto internazionale rinviando persone verso paesi dove potrebbero subire persecuzione. L’Ue, invece, dovrebbe continuare a dare protezione internazionale ai rom e alle altre minoranze kosovare, fino a quando non potranno tornare in condizioni di sicurezza’ – ha dichiarato Sian Jones, esperto di Amnesty International sul Kosovo. ‘Le autorita’ del Kosovo, a loro volta, devono garantire che i rom e le altre minoranze possano rientrare in modo volontario e reintegrarsi a pieno nella societa’’.
Nel rapporto, Amnesty International descrive come molte persone rimpatriate in Kosovo siano state fermate dalla polizia alle prime luci del giorno e trasferite spesso coi soli vestiti che indossavano. Una volta rientrate in Kosovo, poche ricevono assistenza e molte incontrano problemi nell’accesso all’istruzione, alle cure mediche, agli alloggi e ai servizi sociali.
Sono pochissimi i rom in grado di trovare un lavoro e il livello di disoccupazione in questa comunita’ raggiunge il 97 per cento. All’interno del 15 per cento della popolazione kosovara che vive in condizioni di poverta’ estrema, i rom costituiscono il doppio degli altri gruppi etnici.
La violenza interetnica in Kosovo continua e la discriminazione contro i rom rimane massiccia e sistematica, anche a causa della percepita associazione di questi con i kosovari di etnia serba. Poiche’ la maggior parte di loro parla il serbo e spesso vive nelle aree serbe, i rom sono visti come alleati della comunita’ serba.
‘Nonostante il governo del Kosovo abbia recentemente introdotto alcune misure destinate a migliorare le condizioni in cui i rom vengono rimpatriati e reintegrati, le autorita’ non hanno fondi, capacita’, risorse e volonta’ politica per assicurare loro un ritorno sostenibile’ – ha precisato Jones.
Si stima che il 50 per cento delle persone rimpatriate a forza lascera’ nuovamente il Kosovo.
Questi rimpatri forzati avvengono sulla base di accordi bilaterali negoziati, o in corso di negoziazione, tra le autorita’ del Kosovo e gli stati dell’Ue piu’ la Svizzera. Le autorita’ della Germania hanno intimato di lasciare il paese a quasi 10.000 rom, che sono dunque a rischio di rimpatrio forzato.
Anche se non si puo’ escludere che vi siano stati casi di rimpatrio volontario, Amnesty International si e’ detta preoccupata per le notizie secondo cui l’assenso sia stato ottenuto solo con la minaccia del rimpatrio forzato.
‘Fino a quando le autorita’ del Kosovo non saranno in grado di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali dei rom e delle altre minoranze, queste persone andranno incontro a un clima di violenza e di discriminazione’ – ha concluso Jones.
Due casi
Irfan aveva lasciato il Kosovo, insieme alla sua famiglia, nel 1992, all’eta’ di 5 anni. Quest’anno ad aprile la polizia tedesca si e’ presentata senza preavviso alle 3.30 di mattina, lo ha ammanettato, fatto salire su un furgone e portato all’aeroporto di Baden Baden. Non ha fatto in tempo a prendere alcun oggetto personale. Ha ricevuto 300 euro da un’organizzazione non governativa. Arrivato all’aeroporto, e’ stato registrato, gli sono stati dati 50 euro e una stanza d’albergo per due notti. Giunto in Kosovo, si e’ recato dove una volta c’era la casa di famiglia, a Plemetina, e ha tentato di renderla abitabile. Ha rimosso le macerie ma non aveva denaro per sostituire tetto, finestre e porte di casa. ‘E adesso che devo fare?’- ha chiesto ad Amnesty International.
Anche Luli, 20 anni, fuori dal Kosovo da quando ne aveva due, e’ stato rimpatriato dalla Germania nell’aprile di quest’anno. Svegliato dalla polizia in piena notte, gli sono stati concessi solo 10 minuti per vestirsi e radunare le sue cose. Non parla serbo ne’ albanese e coi pochi rudimenti di romanes non riesce a comunicare neanche col fratello maggiore, rimpatriato in Kosovo diversi anni prima. Gli sono stati forniti sei mesi di assistenza, 350 euro e un appartamento in affitto. Nessuno si e’ offerto di aiutarlo ad apprendere il serbo o l’albanese.
Ulteriori informazioni
Dopo la guerra del 1999, molti serbi e rom hanno lasciato il Kosovo diretti in Serbia, in paesi dell’Ue e in Svizzera. Nel marzo 2004, i serbi e i rom sono stati di nuovo costretti alla fuga, a seguito delle violenze interetniche tra albanesi e serbi, che hanno interessato anche le comunita’ rom.
Molti di coloro che ora subiscono rimpatri forzati hanno lasciato il Kosovo persino all’inizio degli anni ’90, quando scoppio’ la guerra nell’allora Repubblica federale socialista di Jugoslavia.
Dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del febbraio 2008, le autorita’ del Kosovo hanno subito pressioni sempre piu’ insistenti da parte degli stati membri dell’Ue affinche’ accettassero i rientri dei rom e delle altre minoranze.
FINE DEL COMUNICATO
Roma, 28 settembre 2010
Il rapporto ‘Benvenuti da nessuna parte: stop ai rimpatri forzati dei rom in Kosovo’ e’ disponibile in lingua inglese all’indirizzo: http://www.amnesty.it/Unione-europea-rimpatria-forzatamente-rom-in-Kosovo e presso l’Ufficio stampa di Amnesty International Italia.
Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361, e-mail: press@...
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=1
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=4&ID_sezione&sezione
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=7&ID_sezione&sezione
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=8&ID_sezione&sezione
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=16&ID_sezione&sezione
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=18&ID_sezione&sezione
I FALCHI DI DECANI
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=19&ID_sezione&sezione
http://www.youtube.com/watch?v=YXaPtbq1WmU
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/rashomon/grubrica.asp?ID_blog=316&ID_articolo=28&ID_sezione=&sezione
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?IDmsezione=10&IDalbum=29283&tipo=FOTOGALLERY
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?p=5&IDmsezione=10&IDalbum=29278&tipo=FOTOGALLERY#mpos
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?p=5&IDmsezione=10&IDalbum=29276&tipo=FOTOGALLERY#mpos
Giovedì 30 settembre
Circolo ARCI Martiri di Turro
via Rovetta 14 - Milano
Paul Polansky
Ingresso gratuito[//] con tessera Arci
Paul Polansky è nato a Mason City, Iowa, nel 1942. Poeta, fotografo, antropologo, operatore culturale e sociale, è diventato negli anni un personaggio importantissimo per il suo impegno a favore delle popolazioni Rom. Le sue poesie descrivono le atrocità commesse da cechi, slovacchi, albanesi ed altri contro quelle popolazioni. Ha anche svolto studi accurati sui campi di concentramento nazisti, in particolare quello ceco di Lety, nei quali venivano trucidate, insieme a quelle ebraiche, intere comunità Rom. E' stato il primo a presentare al mondo il dramma dei rifugiati del Kosovo, lasciati morire nei campi di accoglienza avvelenati dal piombo. Ha pubblicato diversi libri, realizzato esposizioni fotografiche e film video.
ALLA FINE
"Alla fine,
tutti
scapperanno dal
Kosovo", mi
disse la zingara
chiromante.
"Anche Dio"
(Poesia di Paul Polansky innalzata sui cartelli di una manifestazione di Rom del Kosovo in Germania)
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3919
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3933
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3946
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3956
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3966
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3979
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3986
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3997
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=4006
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=4018
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=4030
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=4047
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=4062
Mercy Corps
[(immagine da oregonlive.com) Il nuovo quartier generale di Mercy Corps a Portland, Oregon, USA. Non ci sono stati ritardi nel costruire il loro quartier generale.]
IL PREMIO PROCRASTINAZIONE: disonora quella OnG di Portland, Oregon, premiata con un contratto di 2,4 milioni di $ nel settembre 2008 per costruire 50 case per le famiglie dei campi zingari e fornire loro cure mediche contro l'avvelenamento da piombo. Ad oggi (17 mesi dopo) Mercy Corps non ha posto ancora un mattone né ha curato nessuna persona, nei termini del loro contratto USAID.
Ci si meraviglia di quanto denaro vada perso. Immediatamente dopo aver ottenuto il loro contratto da USAID, Mercy Corps stabilì un ufficio ed uno staff a tempo pieno, ma non fece niente per gli alloggi e per curare gli zingari dei campi. Naturalmente, Mercy Corps da la colpa alle vittime. L'ultima scusa che ho sentito dall'ufficio di Mercy Corps è stata: "E' difficile lavorare con gli zingari." Ma è ovvio che Mercy Corps non sta correndo per salvare questi esseri umani.
Ho vissuto e lavorato con zingari per quindici anni. Se vuoi fare progetti per i Rom e gli Askali, aiuta conoscere la loro cultura e mentalità. Il Consiglio Rifugiati Danese (DRC ndr) ha lavorato con questi zingari dei campi dal 1999 e ognuno ha potuto imparare dall'altro. Il legame tra loro è stato il migliore che abbia mai visto nei miei dieci anni in Kosovo. Quindi, perché è stata Mercy Corps che non aveva mai lavorato con gli zingari del Kosovo ad aver ottenuto il contratto, e non DRC che pure aveva fatto un'offerta per il progetto?
Naturalmente, non molte OnG e meno di tutte Mercy Corps stanno correndo per salvare questi Rom e Askali che l'ONU ha messo su terreni contaminati circa undici anni fa. Quindi, dov'è la "misericordia" in Mercy Corps (mercy in inglese significa misericordia ndr). Perché non stanno cercando di essere fedeli al loro nome?
Forse non è solo l'anima umanitaria che fa loro difetto. Forse i loro direttori e staff stanno anche perdendo ingegno e senso comune. Oltre un anno dopo aver ricevuto il loro contratto per costruire 50 case, MC decise di testare il suolo per vedere se potevano costruirci sopra o se anche quello era contaminato. La maggior parte degli architetti controlla il terreno prima di stendere il progetto. Mercy Corps fa sempre le cose col culo? O solo quando si tratta di salvare degli zingari?
A settembre dell'anno scorso visitai gli uffici di Mercy Corps a Mitrovica sud, in quanto ero parte della squadra OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). OMS aveva recentemente rilasciato un comunicato stampa dove nuovamente chiedeva "l'immediata evacuazione [dei campi] appena fossero stati organizzati i piani di rilocazione".
Il capo regionale dell'OMS chiese al capo di Mercy Corps in Kosovo perché non avevano iniziato le costruzione? E quale fosse il piano medico che dicevano di avere nel progetto?
Anche se si suppone che tutti i progetti USAID sostenuti dai dollari dei contribuenti americani siano trasparenti, Mercy Corps ritiene che ogni cosa nel loro progetto USAID sia un segreto di stato. Cominciare a costruire? Forse a ottobre (intanto siamo già a febbraio e niente è iniziato). Soluzione medica? Sarà rivelata in futuro. Quando? In futuro. Gli zingari dei campi non hanno il diritto a conoscere ciò che li riguarda? In futuro.
Anche se Mercy Corps, KAAD, ACNUR ed il governo del Kosovo hanno promesso ad ogni famiglia di ritorno nel loro vecchio quartiere che sarebbero stati curati dall'avvelenamento da piombo, nessuno è stato curato. Non molto tempo fa un neonato è morto, un anno dopo che i suoi genitori erano tornati nel loro vecchio quartiere. La madre aveva lasciato Osterode con alti livelli di avvelenamento da piombo. Non venne curata, come invece le era stato promesso alla partenza. Il neonato è morto, come la maggior parte dei bambini avvelenati da piombo nell'utero.
Quindi, chi sta facendo qualcosa per salvare queste persone? Sono persone, non è così? Forse dovremmo chiedere a Mercy Corps di definirsi. Con le loro azioni. Di sicuro MC pensa che non ci sia nessuna urgenza di salvarli. Forse Mercy Corps pensa che non valga la pena salvare degli zingari musulmani.
Quante scuse si devono aspettare prima che qualcuno interrompa questo gioco di insensibile compiacenza? Oppure Mercy Corps sta cercando di vedere quanti zingari moriranno intanto che loro aspettano? Naturalmente, se aspettano abbastanza non ci saranno più zingari da salvare. Ciò significa che Mercy Corps può intascarsi i soldi e richiederne sempre più?
ULTIME NOTIZIE: L'Unione Europea ha appena annunciato che finanzierà altre 90 case cosicché tutti gli zingari dei campi possano risistemarsi. Whoops! La UE ha anche annunciato che Mercy Corps ha ottenuto l'incarico pure per queste 90 case.
ULTIMISSIME NOTIZIE: Mercy Corps ha appena confermato che il loro nuovo partner di sviluppo per queste 140 case sarà KAAD (che non può permettersi di spendere sette euro al giorno per salvare due bambini zingari che stanno morendo)!
Patricia N. Waring-Ripley
[(immagine da saputnik.net)]
IL PREMIO LACRIME DA COCCODRILLO: disonora quell'incaricata ONU incaricata nel 2005 di "evacuare" gli zingari di Mitrovica dai loro campi tossici. Dopo aver preso ufficio come vice SRSG, questa signora canadese pianse davanti alle telecamere della televisione, proclamando che nessuno zingaro dei campi sarebbe morto sotto il suo sguardo. Ne sono morti ventinove.
Quando intervistai Patricia Waring nel 2006 con un ex giornalista della TV canadese, Waring non smetteva di raccontare come avesse salvato le vite di circa 1.200 Albanesi dal villaggio di Hade all'aeroporto di Pristina. Anche se le loro case mostravano crepe per le gallerie delle miniere sotto il loro villaggio, nessuno voleva lasciare la propria terra ancestrale. Nessuno era stato offeso. Ma Waring era determinata a salvarli. Quando si rifiutarono di andarsene, ordinò ai poliziotti dell'ONU di portarli via forzatamente. Furono mandati a Pristina dove erano stati affittati per loro degli appartamenti. Più tardi Waring offrì loro l'opzione che il governo del Kosovo costruisse loro una casa nuova in un altro villaggio, o che ogni famiglia ricevesse 45.000 euro per trovare da sé una soluzione. Waring era così orgogliosa di questa storia che pianse per diversi minuti di fronte alla nostra videocamera.
Waring smise di piangere quando le chiesi perché non avesse fatto la stessa offerta ai nostri zingari nei campi le cui vite erano davvero in pericolo. C'erano soltanto 600 zingari in fuga dalle devastazioni dell'avvelenamento da piombo, così sarebbe costato solo la metà di quanto aveva pagato per "salvare gli Albs".
Waring rifiutò di rispondere. Mi guardò come se fossi proprio naif. Allora le chiesi come intendeva salvare i nostri Rom ed Askali (non c'erano Egizi nei campi). Disse che aveva da leggere molto prima di poter affrontare la questione. Le diedi una copia del mio libro, UN-Leaded Blood. Scosse la testa come se non fosse nella sua lista.
L'offerta di Waring per salvare i nostri zingari risultò di spostarli da due campi inquinati da piombo in quello che chiamo un campo "libero da piombo" dove potessero essere curati con medicine pagate dall'Ufficio USA (e poi dall'ambasciata USA) a Pristina. Sfortunatamente, non prevalse il buon senso. Il suo campo "libero da piombo" era l'ex base francese chiamata Osterode, che i Francesi avevano abbandonato a causa della contaminazione da piombo.
Poco prima di lasciare il Kosovo, a Waring venne chiesto quale fosse il suo più importante successo nella sua posizione ONU. Dichiarò: "...il mio più grande privilegio è stato di lavorare con la squadra che ha accelerato la chiusura dei campi rom contaminati a Mitrovica." Ci sono voluti sette anni per chiudere due dei campi; due sono ancora aperti.
Patricia N. Waring-Ripley lasciò il Kosovo nel 2007. Il suo contratto come capo dell'Amministrazione Civile in Kosovo non venne rinnovato, dopo che spedì lettere alla polizia ONU del Kosovo ordinando di riferirle di ogni attacco cono le minoranze. Si ritirò ad Halifax, NS, Canada, ad insegnare a cucinare.
Fine quattordicesima puntata
Da: Johnstone DianaData: 18 settembre 2010 17.28.55 GMT+02.00Oggetto: My article, "Serbia Surrenders to the EU"My latest article, "Serbia Surrenders to the EU", is now on CounterPunch [*], and also, with a well-chosen illustration, on Electric Politics.http://www.electricpolitics.com/2010/09/serbia_surrenders_to_the_eu.html
I also attach the original to this message.
Diana
Serbia Surrenders to the EU
By Diana Johnstone
September 15, 2010
On September 10, at the UN General Assembly, Serbia abruptly surrendered its claim to the breakaway province of Kosovo to the European Union. Serbian leaders described this surrender as a “compromise”. But for Serbia, it was all give and no take.
In its dealings with the Western powers, recent Serbian diplomacy has displayed all the perspicacity of a rabbit cornered by a rattlesnake. After some helpless spasms of movement, the poor creature lets itself be eaten.
The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union. These two were always mutually incompatible. Recognition of Kosovo’s independence is clearly one of the many conditions – and the most crucial – set by the Euroclub for Serbia to be considered for membership. Sacrificing Kosovo for “Europe” has always been the obvious outcome of this contradictory policy.
However, his government, and notably his foreign minister Vuk Jeremic, have tried to conceal this reality from the Serbian public by gestures meant to make it seem that they were doing everything possible to retain Kosovo.
Thus in October 2008, six months after U.S.-backed Kosovo leaders unilaterally declared that the province was an independent State, Serbia persuaded the UN General Assembly to submit the following question to the International Court of Justice for an (unbinding) advisory opinion: “Is the unilateral declaration of independence by the Provisional Institutions of Self-Government of Kosovo in accordance with international law?’”
This was risky at best, because Serbia had more to lose by an unfavorable opinion than it had to gain by a favorable one. After all, most of the UN member states were already refusing to recognize Kosovo’s independence, for perfectly solid reasons of legality and self-interest. At best, a favorable ICJ opinion would merely confirm this, but would not in itself lead to any positive action. Serbia could only hope to use such a favorable opinion to ask to open genuine negotiations on the status of the province, but the Kosovo Albanian separatists and their United States backers could not be forced to do so.
One must stop here to point out that there are two major issues involved in all this: one is the status and future of Kosovo, and the other is the larger issue of national sovereignty and self-determination within the context of international law. If so many UN member states supported Serbia, it was certainly not because of Kosovo itself but because of the larger implications. Nobody objected to the splitting of Czechoslovakia, because the Czechs and the Slovaks negotiated the terms of separation. The issue is the method. There are literally hundreds, perhaps thousands, of potential ethnic secessionist movements within existing countries around the world. Kosovo sets an ominous precedent. An armed separatist movement, with heavy support from the United States, where an ethnic Albanian lobby had secured important political backing, notably from former Senator and Republican Presidential candidate Bob Dole, carried out a campaign of assassinations in 1998 in order to trigger a repression which it could then describe as “ethnic cleansing” and “genocide” as a pretext for NATO intervention.
This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force. Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion. The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground. It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.
The reality of this cynical manipulation has been assiduously hidden from Americans and most Europeans, but elsewhere, and in certain European countries such as Spain, Greece, Cyprus and Slovakia, the point has not been missed. Separatist movements are dangerous, and whenever the United States wants to subvert an unfriendly government, it has only to incite mass media to portray the internal problems of the targeted government as potential “genocide” and all hell may break loose.
So Serbia did not really have to work very hard to convince other countries to support its position on Kosovo. They had their own motivations – which were perhaps stronger than those of the Serbian government itself.
What did Serb leaders want?
The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.
There are very mixed feelings about Kosovo within the Serb population. It is hard to know how widespread is the sense of concern, or guilt, regarding the beleaguered Serb population still living there, vulnerable to attacks from racist Albanians eager to drive them out. The sentimental attachment to “the cradle of the Serb nation” is very strong, but few Serbs would choose to go live there, even if the province were returned to them. In former Yugoslavia, the province was a black hole that absorbed huge sums of development aid, and would certainly be a heavy economic burden to impoverished Serbia today. Economically, Serbia is probably better off without Kosovo. Nearly twenty years ago, the leading Serb author and patriot Dobrica Cosic was arguing in favor of dividing Kosovo along ethnic and historic lines with Albania. Otherwise, he foresaw that the attempt to live with a hostile Albanian population would destroy Serbia itself.
Few would admit this, but the proposals of Cosic, echoed by some others, at least suggest that in a world with benevolent mediators, a compromise might have been worked out acceptable to most of the people directly involved. But what made such a compromise impossible was precisely the US and NATO intervention on behalf of armed Albanian rebels. Once the Albanian nationalists knew they had such support, they had no reason to agree to any compromise. And for the Serbs, the brutal method by which Kosovo was stolen by NATO was adding insult to injury – a humiliation that could not be accepted.
By taking the question to the UN General Assembly and the ICJ, Serbia sought endorsement of a reopening of negotiations that could lead to the sort of compromise that might have settled the issue had it been taken up in a world with benevolent mediators.
International Court of No Justice
On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?
Of course, this was widely interpreted by Western governments and media, and most of all by the Kosovo Albanians, as endorsement of Kosovo’s independence, which it was not.
Nevertheless, it was a shameful cop-out on the part of the ICJ, which marked further deterioration of the post-World War II efforts to establish some sort of international legal order. Perhaps the most flagrant bit of sophistry in the lengthy opinion was the argument (in paragraphs 80 and 81) that the declaration was not a violation of the “territorial integrity” of Serbia, because “the illegality attached to [certain past] declarations of independence … stemmed not from the unilateral character of these declarations as such, but from the fact that they were, or would have been, connected with the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international law…”
In short, the ICJ pretended to believe that there has been no illegal international military force used to detach Kosovo from Serbia, although this is precisely what happened as a result of the totally illegal NATO bombing campaign against Serbia. Since then, the province has been occupied by foreign military forces, under NATO command, which both violated the international agreement under which they entered Kosovo and looked the other way as Albanian fanatics terrorized and drove out Serbs and Roma, occasionally murdering rival Albanians.
The ICJ judges who endorsed this scandalous opinion came from Japan, Jordan, the United States, Germany, France, New Zealand, Mexico, Brazil, Somalia and the United Kingdom. The dissenters came from Slovakia, Sierra Leone, Morocco and Russia. The lineup shows that the cards were stacked against Serbia from the start, unless one actually believes that the judges leave behind their national mind-set when they join the international court.
Digging Itself Deeper Into a Hole
Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb.
Oddly, despite the bad omen of the ICJ opinion, the Tadic government went right ahead with plans to introduce a resolution before the UN General Assembly. The draft resolution asked the General Assembly to state the following:
Aware that an agreement has not been reached between the sides on the consequences of the unilaterally proclaimed independence of Kosovo from Serbia,
Taking into account the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues,
1. Acknowledges the Advisory opinion of the ICJ passed on 22 July 2010 on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law,
2. Calls on the sides to find a mutually acceptable solution for all disputed issues through peaceful dialogue, with the aim of achieving peace, security and cooperation in the region.
3. Decides to include in the interim agenda of the 66th session an item namely: "Further activities following the passing of the advisory opinion of the ICJ on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law.”
The key statement here was “the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues”. This was the point on which the greatest agreement could be attained. The United States made it known that it was totally unacceptable for the General Assembly to hold a debate on such a resolution. The main Belgrade daily Politika published an interview with Ted Carpenter of the Cato Institute in Washington saying that the Serbian draft resolution on Kosovo was "irritating America and the EU's leading countries". American diplomats were “working overtime” to thwart the resolution, he said. Carpenter said that the Serbian resolution was seen in Washington as an unfriendly act that would lead to a further deterioration in relations, and that as a result of its Kosovo policy, Serbia’s EU ambition could suffer setbacks that would have negative consequences for the Serbian government "and the Serb people".
Carpenter conceded that this time around, the country would not be threatened militarily, but noted that the United States was influential enough to "make life very difficult" for any country that stood up against its policies. He concluded that Serbia would "have to accept the reality of an independent Kosovo", and that Washington would thereupon leave it to Brussels to deal with the remaining problems.
The American stick was accompanied by a dangling EU carrot. Carpenter expressed his hope that the EU would consider various measures, "including adjustment of borders, regarding Kosovo, and the rest of Serbia", but also, he noted, Bosnia-Herzegovina, suggesting that Serbs could be satisfied if a loss of Kosovo were compensated by a unification with Bosnia's Serb entity, the Republika Srpska. Giving his own opinion, Carpenter said such a solution would at least be much better than the current U.S. and EU policy, “which seems to be that everyone in the region of the former Yugoslavia, except Serbs, has a right to secede”.
Carpenter, who was a sharp critic of the 1999 NATO bombing of Serbia, and who warned that secessionist movements around the world could use the Kosovo precedent for their own purposes, said that such a solution was possible “in the coming decades”… a fairly distant prospect.
The decisive arm twisting was perhaps administered by German foreign minister Guido Westerwelle on a visit to Belgrade. Whatever threats or promises he made were not disclosed, but on the eve of the scheduled UN General Assembly debate, the Tadic government caved in entirely and allowed the EU to rewrite the resolution.
The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”
According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people's lives.”
By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.
Still More to Lose
In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.
A usual aim of all policy is to keep options open, but Serbia has now put all its eggs in the EU basket, in effect rebuffing all the member states of the UN General Assembly which were ready to support Belgrade as a matter of principle on the issue of unnegotiated unilateral secession.
Rather than gain anything, the Tadic government has apparently chosen to try to avoid losing still more than it has lost already. After the violent breakup of Yugoslavia along ethnic lines, Serbia remains the most multiethnic state in the region, which means that it includes minorities which can be incited to demand further secessions. There is a secession movement in the ethnically very mixed northern province of Voivodina, which could be more or less covertly encouraged by neighboring Hungary, an increasingly nationalist EU member attentive to the Hungarian minority in Voivodina. There is another, more rabid separatist movement in the southwestern region of Raska/Sanjak led by Muslims with links to Bosnian Islamists. Surrounded by NATO members and wide open to NATO agents, Serbia risks being destabilized by the rise of such secession movements, which Western media, firmly attached to the stereotypes established in the 1990s, could easily present as persecuted victims of potential Serb genocide.
Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.
It would take political genius to steer little Serbia through this geopolitical swamp, infested with snakes and crocodiles, and political genius is rare these days, in Serbia as elsewhere.
EU to the rescue?
Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union. Serb patriots quite naturally decry this as a sell-out. Indeed it is, but Russia and China are far away, and could not be counted on to do anything for Serbia that would seriously annoy Washington. The fact is that much of the younger generation of Serbs is alienated from the past and dreams only of being in the EU, which means being treated as “normal”.
How will the EU reward these expectations?
Up to now, the EU has responded to each new Serb concession by asking for more and giving very little in return. At a time when many in the core EU countries feel that accepting Rumania and Bulgaria has brought more trouble than it was worth, enlargement to include Serbia, with its unfairly bad reputation, looks remote indeed.
In reality, the most Belgrade can hope for from the EU is that it will muster the courage to take its own policy line on the Balkans, separate from that of the United States.
Given the subservience of current EU leaders to Washington, this is a long shot. But it has a certain basis in reality.
United States policy toward the region has been heavily influenced by ethnic lobbies that have pledged allegiance to Washington in return for unconditional support of their nationalist aims. This is particularly the case of the rag tag Albanian lobby in the United States, an odd mixture of dull-witted politicians and gun-running pizza parlor owners who flattered the Clinton administration into promising them their own statelet carved out of historic Serbia. The result has been “independent” Kosovo, in reality occupied by a major US military base, Camp Bondsteel, NATO-commanded pacifiers and an EU mission theoretically trying to introduce a modicum of legal order into what amounts to a failing state run by clans and living off various criminal activities. Since Camp Bondsteel is untouchable, and the grateful hoodlums have erected a giant statue to their hero, Bill Clinton, in their capital, Pristina, Washington is content with this situation.
But many in Europe are not. It is Europe, not the United States, that has to deal with violent Kosovo gangsters peddling dope and women in its cities. It is Europe, not the United States, that has this mess on its doorstep.
The media continue to peddle the 1999 fairy tale in which heroic NATO rescued the defenseless “Kosovars” from a hypothetical “genocide” (which never took place and never would have taken place), but European governments are in a position to know better.
As evidence of this is a letter written to German Chancellor Angela Merkel on October 26, 2007 by Dietmar Hartwig, who had been head of the EU (then EC) mission in Kosovo just prior to the NATO bombing in March 1999, when the mission was withdrawn. In describing the situation in Kosovo at a time when the NATO aggression was being prepared on the pretext of “saving the Kosovars”, Hartwig wrote:
“Not a single report submitted in the period from late November 1998 up to the evacuation on the eve of the war mentioned that Serbs had committed any major or systematic crimes against Albanians, nor there was a single case referring to genocide or genocide-like incidents or crimes. Quite the opposite, in my reports I have repeatedly informed that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive, their law enforcement demonstrated remarkable restraint and discipline. The clear and often cited goal of the Serbian administration was to observe the Milosevic-Holbrooke Agreement to the letter so not to provide any excuse to the international community to intervene. … There were huge ‘discrepancies in perception’ between what the missions in Kosovo have been reporting to their respective governments and capitals, and what the latter thereafter released to the media and the public. This discrepancy can only be viewed as input to long-term preparation for war against Yugoslavia. Until the time I left Kosovo, there never happened what the media and, with no less intensity the politicians, were relentlessly claiming. Accordingly, until 20 March 1999 there was no reason for military intervention, which renders illegitimate measures undertaken thereafter by the international community. The collective behavior of EU Member States prior to, and after the war broke out, gives rise to serious concerns, because the truth was killed, and the EU lost reliability.”
Other official European observers said the same at the time, and in 2000, retired German general Heinz Loquai wrote a whole book, based especially on OSCE documents, showing that accusations against Serbia were false propaganda. While the public was fooled, government leaders have access to the truth.
In short, EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.
Now as then, there are insiders who complain that the situation in reality is very different from the official version. Voices are raised pointing out that Republika Srpska is the only part of Bosnia that is succeeding, while the Muslim leadership in Sarajevo continues to count on largesse due to its proclaimed victim status. There seems to be a growing feeling in some leadership circles that in demonizing the Serbs, the EU has bet on the wrong horse. But that does not mean they will have the courage to confront the United States. In Kosovo itself, the most radical Albanian nationalists are ready to oppose the EU presence, by arms if necessary, while feeling confident of eternal support from their U.S. sponsors.
The Betrayal of Serbia
If the latest self-defeat at the UN General Assembly can be denounced as a betrayal, the betrayal began nearly ten years ago. On October 5, 2000, the regular presidential election process in Yugoslavia was boisterously interrupted by what the West described as a “democratic revolution” against the “dictator”, president Slobodan Milosevic. In reality, the “dictator” was about to enter the run-off round of the Yugoslav presidential election in which he seemed likely to lose to the main opposition candidate, Vojislav Kostunica. But the United States trained and incited the athletically inclined youth organization, Otpor (“resistance”), to take to the streets and set fire to the parliament in front of international television, to give the impression of a popular uprising. Probably, the scenarists modeled this show on the equally stage-managed overthrow of the Ceaucescu couple in Rumania at Christmas 1989, which ended in their murder following one of the shortest kangaroo court trials in history. For the generally ignorant world at large, being overthrown would be proof that Milosevic was really a “dictator” like Ceaucescu, whereas being defeated in an election would have tended to prove the opposite.
Proclaimed president, Kostunica intervened to save Milosevic, but not having been allowed to actually win the election, his position was undermined from the start, and all power was given to the Serbian prime minister, Zoran Djindjic, a favorite of the West who was too unpopular to have won an election in Serbia. Shortly thereafter, Djindjic violated the Serbian constitution by turning Milosevic over to the International Criminal Tribunal for Former Yugoslavia (ICTY) in The Hague – for one of the longest kangaroo court trials in history.
Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy. The scapegoat turned out to be not just Milosevic, but Serbia itself. Serbia’s guilt for everything that went wrong in the Balkans was the essential propaganda line used to justify the 1999 NATO aggression, and by going along with it, the “democratic” Serbian leaders undermined their own moral claim to Kosovo.
In June 1999, Milosevic gave in and allowed NATO to occupy Kosovo under threat of carpet bombing that would destroy Serbia entirely. His successors fled from a less perilous battle – the battle to inform world public opinion of the complex truth of the Balkans. Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.
Diana Johnstone is author of Fools’ Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions.
She can be reached at diana.josto@...
[*] http://www.counterpunch.org/johnstone09172010.html
Превод: Рајко ДОСКОВИЋ