Elmo Di Giorgio fu uno dei tanti eroi dimenticati nel drammatico tornante della seconda guerra mondiale, disposto a mettere a rischio la propria vita nella ferma convinzione della indifferibilità della lotta per la solidarietà internazionale in una fase decisiva per la liberazione di un paese straniero dal giogo nazifascista.
Il giovane artigliere di Barete, paese della provincia aquilana, fu chiamato alle armi nel 1943 per essere impiegato sul fronte greco-albanese con il 36° raggruppamento artiglieria. Sbarcato a Rodi nell’agosto, dopo mesi di quasi assoluta inattività dal punto di vista strettamente militare partecipò alle convulse giornate seguite all’8 settembre sull’isola greca dove l’esercito italiano, dislocato su cinque settori e nettamente preponderante rispetto alle forze armate tedesche, ma senza direttive certe e con una titubante condotta militare delle operazioni, dopo quattro giorni di combattimenti alternati a trattative, finì per arrendersi al nemico.
Di Giorgio, con gli artiglieri del suo raggruppamento, era dislocato agli ordini del colonello Ghelli, nel settore Calato, particolarmente importante sul piano strategico per la presenza dell’Aeroporto di Gadurrà[1], e considerato anche dalla documentazione tedesca il settore dove la resistenza italiana si mostrò dal primo giorno più aggressiva[2] e dove i combattimenti continuarono ininterrottamente sino al momento della resa. Il 12 settembre iniziò il disarmo dei militari italiani ai quali fu da subito avanzata, con scarsi risultati, la proposta di inquadramento nell’esercito tedesco e di riconoscimento del nuovo regime fascista.
Dapprima utilizzati nei lavori di fortificazione e reclusi in centri di raccolta, la loro condizione peggiorò drasticamente in seguito al rifiuto alla collaborazione. Nei primi mesi l’azione di proselitismo per il costituendo esercito di Mussolini era affidata a ufficiali e sottufficiali italiani che avevano aderito alla Wehrmacht[3] e ai prigionieri veniva consentito di scegliere fra il prestare giuramento a Hitler combattendo con l’esercito tedesco, prestare servizio ausiliario armati, prestare servizio ausiliario disarmati o dichiararsi prigionieri e accettare il campo di concentramento con tutte le conseguenze che ne derivavano. La situazione divenne ancora più insostenibile quando a responsabile dell’intero settore dell’Egeo Orientale venne inviato il generale Otto Wagener ed ai centri di raccolta si sostituirono veri e propri campi di concentramento più grandi e meno numerosi, mentre le richieste di adesione al rinato fascismo ed al suo fedele alleato divenivano «più pressanti e minacciose utilizzando a questo scopo la deportazione, le restrizioni alimentari, le minacce e le percosse specie verso coloro che propagandavano idee contrarie»[4]. Di Giorgio fu tra coloro che non cedettero alle minacce ed alle pressioni materiali e psicologiche, disposto anche ad affrontare la prigionia ed i lavori forzati, senza essere però rassegnato ad un simile destino.
La condizione dei prigionieri era ormai del tutto assimilabile a quella dei deportati nei lager in Germania come ben sintetizzava il cappellano militare dell’isola, impotente testimone di tante tragedie: «La fame, i maltrattamenti e la morte per stenti e per rappresaglia era la tragica costante»[5]. A guerra finita gli atti della Commissione delle Nazioni Unite documenteranno come i prigionieri italiani fossero sistematicamente maltrattati e torturati – esisteva anche un apposito campo di punizione – e Wagener verrà condannato quale criminale di guerra dal Tribunale Militare Alleato.[6] Ai maltrattamenti e le esecuzioni sommarie andava poi ad aggiungersi quel triste periodo destinato a protrarsi per 14 mesi e ricordato a Rodi come “grande fame”, dovuto al blocco navale posto dalle navi inglesi che impedivano così ogni rifornimento, costituendo le isole dell’Egeo un’enclave dell’Asse all’interno di un Mediterraneo ormai controllato dagli alleati. L’amicizia con la povera gente di Rodi nei primi giorni e poi la comunanza di una sorte deliberatamente condivisa con i compagni di prigionia aiuteranno gli internati a conservare fino alla fine il senso dell’umanità e della solidarietà che animeranno le scelte di Di Giorgio anche in seguito, nella decisione di legarsi alla resistenza jugoslava.
Il problema del trasferimento dei prigionieri sul continente fu affrontato nell’immediato utilizzando il mezzo aereo e privilegiando gli ufficiali superiori ma la distanza sempre crescente tra Rodi e le posizioni raggiunte dai Tedeschi in ritirata nella Penisola Balcanica, ne resero impossibile la prosecuzione. La maggioranza delle truppe che avevano deciso di non collaborare fu così trasportata sulla terra ferma soprattutto via mare a volte con esiti drammatici come nel caso dei naufragi delle imbarcazioni Donizetti, Petrella ed Orion, sempre comunque in condizioni disumane[7]. Una volta giunti sul continente, l’attraversamento del Pireo e della Macedonia verso i campi di smistamento jugoslavi avveniva generalmente a piedi, attraverso marce estenuanti[8], ma senza cedimenti della gran parte dei prigionieri italiani alle continue richieste di adesione da parte degli ufficiali nazisti.
Dalle scarne notizie del foglio matricolare non emergono informazioni sui luoghi di detenzione di Di Giorgio una volta lasciato il campo n.6 dell’isola né su come, dopo il trasferimento in Jugoslavia, si sia liberato dopo un anno dai campi di prigionia tedeschi lì predisposti per lo smistamento dei militari catturati verso i lager di Germania, Austria e Polonia. Di certo, pur potendo rientrare in patria dopo la liberazione di Belgrado, egli resterà a combattere sul fronte balcanico nelle fila dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo per portare a compimento l’affrancamento del paese dal giogo nazifascista accettando i rischi della guerra ed i patimenti di un altro inverno affrontato in condizioni di estremo disagio, puntualmente descritti dai comandanti italiani:
Continua sempre tenacemente la pressione sul nemico che pur subendo colpi mortali dal fuoco d’artiglieri oppone resistenza. E’ da notare l’alto spirito di sacrificio e senso del dovere dei nostri militari, che pur essendo equipaggiati solo in parte per mancanza di pastrani, indumenti calzature ecc., sopportano in linea temperature rigidissime, oltre tutti gli altri disagi cui può essere sottoposto un combattente. Il loro morale altissimo fa loro superare con serenità ogni dura fatica, qualsiasi inclemenza della stagione e la scarsezza del cibo che, secondo le possibilità, possono ricevere alle postazioni. Il loro intendimento è uno solo: “annientare il nemico comune, distruggere il fascismo e conseguire la più strepitosa vittoria.[9],
Prostrato dalle malattie e sofferenze patite Di Giorgio tornerà in patria nel maggio 1945.
NOTE:
[1] Sugli avvenimenti relativi alla difesa dell’aeroporto e le titubanti posizioni assunte dalle gerarchie militari si veda, impegnato in quel settore come sottotenente A. Natta, L’altra Resistenza, Torino, Einaudi, 1997, pp.21-25.
[2] P. Iuso, La resistenza dei militari italiani nelle isole dell’Egeo, Roma, Rivista Militare, 1994, p.187.
[3] «Di fronte agli internati adunati i neofascisti consumavano anzitutto una colazione abbondante - scatolette di carne, pane, vino - che avrebbero dovuto essere, nella loro intenzione, un modo per adescarci, e che si risolveva invece in offesa e in disgusto. Poi il maggiore, le mani sui fianchi, improvvisava discorsi in cui le lusinghe sfacciate si alternavano alle minacce violente, tentando poi di carpire almeno un grido di assenso alla massa muta e sospettosa invitando a gridare “Viva l'Italia” e subito dopo” viva Mussolini” e” viva la Germania”.» A. Natta, L’Altra Resistenza, Torino, Einaudi, 1997, p.12.
[4] AUSSME, relazioni, b.2129, fs. A/2/5 e B/1/27 in P. Iuso, La resistenza dei militari italiani nelle isole dell’Egeo, Roma, Rivista Militare, 1994, p.286.
[5] E. Fino, La tragedia di Rodi e dell’Egeo, Roma, Eica, 1957, p.22°. Durante il mandato britannico la Commissione per gli interessi italiani nel Dodecaneso presieduta da Antonio Macchi registrò per Rodi 157 decessi per denutrizione nei campi di prigionia, 154 condannati dal Tribunale di guerra tedesco, 53 fucilati senza sentenza e 52 a seguito di sentenza.
[6]Il generale Otto Wagener ebbe una pena di anni quindici di reclusione, il maggiore Herbert Niklas alla pena di anni dieci di reclusione, il tenente Walter Mai (comandante del Campo) alla pena di anni dodici di reclusione. In seguito nel 1951, con Decreti Presidenziali, fu condonata loro la pena residua in seguito ad accordi fra i governi italiano e tedesco.
[7] Alessandro Natta, allievo ufficiale a L'Aquila, nel novembre 1942, a seguito di una punizione, trasferito in a Rodi, dove venne ferito, catturato e rinchiuso nel campo di Asguro, conserva vivissimo il ricordo di quei trasferimenti: «settembre Si scendeva nelle stive per mezzo di scalette di corda. Fu allora il primo contatto con la brutalità e l'odio dei tedeschi. Le S.S. e la Feldgendarmerie portavano via gli zaini migliori, soprattutto quelli degli ufficiali, nella speranza di far bottino (anche le gavette e le coperte erano oggetto di preda) e chi tentava di difendersi o di resistere alle offese veniva legato, minacciato con le pistole, schernito. Nelle stive alcuni energumeni, armati di bastoni, stipavano fino all'inverosimile gli italiani via via che giungevano. Il carico era enorme: si stava in piedi uno accanto all'altro, stretti e pigiati, senza possibilità neppure di muoversi, e già dai primi momenti l'aria era divenuta irrespirabile.» A.Natta, L’Altra Resistenza, Torino, Einaudi, 1997, p.37.
[8] Si veda in merito la testimonianza resa dal Dottor. Vittorio Vitali a Maria Teresa Giusti in E.Aga Rossi e M.T.Giusti, Una guerra a parte, Bologna, Il Mulino, 2011, p.595. Prigioniero, fece a piedi il tragitto dalla Grecia fino a Lubiana (dove giunse lo stesso giorno della capitolazione dei Tedeschi) per poi tornare indietro fino a Spalato. Tenuto prigioniero per moltissimo tempo tornò a casa solo alla fine di giugno 1946.
[9] S. Loi, La brigata d’assalto Italia 1943-1945, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1985, p.179.