COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU |
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Segnalazione libro:
Pol Vice LA FOIBA DEI MIRACOLI Indagine sul mito dei "sopravvissuti" KappaVu - Udine 2008 |
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Formato 17*24 cm - 256 pp
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Prezzo 18.00 €
Le ordinazioni si possono fare contattando direttamente l'editrice Kappa Vu s.r.l. (via Bertolo, 4 - 33100 Udine), tel. 0432 530540, fax 0432 530140 - info @ kappavu.it ulteriori informazioni alla pagina: http://www.kappavu.it/catalog/product_info.php?products_id=234&osCsid=c146226e913f8aaa3639e23db3cd9b6d Testo di presentazione “FOIBE E FOIBOLOGIA DI STATO” note integrative (eventuali) alla presentazione di La Foiba dei miracoli Note per la presentazione PRIMAVERA 2005: Graziano Udovisi, maestro in pensione ex tenente della Milizia Difesa Territoriale e rastrellatore di partigiani in Istria, sua terra natale, viene premiato nella manifestazione degli Oscar della Rai come "uomo dell'anno" per un'intervista da lui rilasciata a Minoli e più volte trasmessa nel corso degli anni. Racconta che nel 1945 è riuscito a salvarsi dalla foiba in cui è stato gettato, salvando nel contempo un suo commilitone... ESTATE 1945: Giovanni Radeticchio, milite della M.D.T., racconta alle autorità di Trieste di essersi salvato dalla foiba in cui è stato gettato, di essersi salvato da solo, e che in questa foiba è morto... Graziano Udovisi. ESTATE 1945: Graziano Udovisi, ricercato come criminale di guerra, per evitare l'arresto fugge a Padova con una carta d'identità falsa... Queste contraddizioni sono solo le punte emergenti di uno strano intrigo che in questo dopoguerra ha visto coinvolti: ex repubblichini rastrellatori di partigiani, agenti della X Mas, democristiani neoirredentisti, la Curia di Trieste, giornalisti e comunicatori massmediatici, storici compiacenti e istituzioni dello Stato italiano. Il tutto nel nome delle "terre perdute" dell'Istria e della Dalmazia e con l’uso spudorato degli strumenti di comunicazione di massa. Il come, il perchè e il chi di queste trame sono l'oggetto de "La foiba dei miracoli", la minuziosa indagine storica di Pol Vice. Questo libro è il risultato di una ricerca esemplare che il gruppo di Resistenza storica offre a tutti coloro che non si accontentano delle “verità ufficiali” diffuse sistematicamente da alcuni anni, in occasione della cosiddetta Giornata del Ricordo, sulle drammatiche vicende del confine orientale. Come abbiamo già dimostrato con precedenti studi, quali "Operazione foibe tra storia e mito" di Claudia Cernigoi, e "Revisionismo storico e terre di confine", a cura di Daniela Antoni, intorno a quei fatti sta funzionando una propaganda forsennata, che prescinde da qualsiasi seria analisi storica e documentale e che ha come scopo preciso quello della riabilitazione del fascismo. Con le nostre ricerche ci proponiamo di offrire materiali per contrastare questa deriva revisionistica. “La foiba dei miracoli”, infatti, è in realtà un trattato di “foibologia”: una dimostrazione puntuale di come un vero e proprio progetto mediatico di falsificazione della storia sia stato costruito ed imposto all’opinione pubblica (pur con alterne fortune, ma in sostanziale continuità dall'immediato dopoguerra ad oggi), da forze politiche sociali ed economiche tuttora dominanti nel nostro Paese. La lettura di questo libro è necessariamente complessa, perchè complessa è la vicenda studiata, ma chi avrà la pazienza di fare il percorso di lettura, analisi e confronto di documenti suggerito dall'autore, avrà alla fine la soddisfazione di scoprire i meccanismi profondi con cui il potere può manipolare, a proprio uso e consumo, l'immaginario collettivo. “FOIBE
E FOIBOLOGIA DI STATO”
note integrative (eventuali) alla presentazione di La Foiba dei miracoli N.B. Una versione aggiornata di questo testo (2012) è leggibile sul sito Diecifebbraio.info oppure su JUGOINFO Partiamo da qualche dato storico già noto a chi è informato correttamente. In Istria durante la seconda guerra mondiale furono estratti da una ventina di foibe (cavità carsiche) più di 200 cadaveri, e altri furono segnalati ma non fu possibile il loro recupero. Ciò avvenne dopo il breve e confuso periodo del “potere popolare” (8 settembre – primi di ottobre 1943) subentrato alla disfatta del regime italo fascista sulle regioni a est dell’Adriatico, che non fece in tempo ad organizzarsi stabilmente perché dovette subito opporsi, senza successo, alla “operazione nubifragio”, cioè alla travolgente riconquista della regione da parte delle truppe tedesche (i cosiddetti “ribelli” uccisi fra bombardamenti, scontri armati, devastazioni e fucilazioni in massa, secondo una fonte ufficiale di Berlino, furono 13.000; molti di loro erano di nazionalità italiana). Alla luce della ricerca storica successiva [pag. 27] «l’insieme di quegli episodi di “infoibamento” si può a ragione definire un eccidio. Ma le cause, le dimensioni e le modalità di esso furono “mostruosamente” ingigantite e distorte ad opera della propaganda nazifascista, allo scopo di giustificare e far dimenticare i crimini e i massacri perpetrati prima dal regime italo/fascista e poi dagli occupanti nazisti e dai loro fiancheggiatori». Alla fine della guerra si verificarono altri casi nella zona di Trieste e Gorizia. Alcuni (qualche decina) furono accertati o come omicidi politici (esecuzioni sommarie nell’ambito del fenomeno che fu chiamato “la resa dei conti”, che coinvolse tutta l’Alta Italia), o come vendette personali o anche delitti comuni (rapine ecc.); quasi tutti i colpevoli furono individuati, processati e condannati (alcuni dalle stesse autorità militari jugoslave). Ma moltissime furono le segnalazioni di “scomparsi” militari e civili, a seguito sia delle sanguinose battaglie che si svolsero in quelle zone negli ultimi giorni di guerra, sia degli arresti e degli internamenti (alcune migliaia) eseguiti nelle settimane successive da parte della polizia politica jugoslava. La drammatica mancanza di notizie sulla sorte dei propri cari fu un terreno ideale per seminare ancora in grande stile il terrorismo mediatico sulle “foibe” da parte degli ambienti nazionalisti italiani e della stampa legata al CLN anticomunista triestino. Così crebbe ancora a dismisura il numero dei presunti “infoibati”, e furono diffuse altre mitiche “leggende”, oltre a quelle che circolavano già dal ‘43, col sostegno di massicce campagne di propaganda. Quelle angosciose notizie, sebbene quasi mai verificate né verificabili, riuscirono ad esasperare i sentimenti collettivi di terrore e di odio in quegli italiani giuliano dalmati che erano stati classe dominante e privilegiata durante il periodo del “fascismo di frontiera” e che si sentivano minacciati a morte dai tanto disprezzati “s-ciavi”, diventati “demoni slavo comunisti” ed ora perfino vincitori nella guerra che avrebbe invece dovuto sancire il trionfo imperiale dell’Italia e la totale sottomissione (o espulsione) di quei “barbari”. Tutto ciò, sommandosi alle reali difficoltà della dura situazione postbellica in zone già povere, portò all’esodo di massa, con tutte le note conseguenze (cfr. Sandi Volk, Esuli a Trieste..., KappaVu 2004). Tuttavia l’obiettivo principale dei neo irredentisti, cioè l’assegnazione all’Italia dei territori contesi, non fu raggiunto (salvo che per Trieste e dintorni). Però è un dato di fatto che già nell’immediato dopoguerra le “sensazionali rivelazioni sulle foibe” già diffuse dagli agenti nazisti e della Xa MAS, opportunamente “aggiornate” e ulteriormente ampliate, furono usate anche al tavolo delle trattative di pace di Parigi dagli esponenti del governo De Gasperi, come argomento “forte” a sostegno delle rivendicazioni di sovranità italiana sulle regioni del “confine orientale”. Esse infatti furono inserite in un dossier dal titolo Trattamento degli italiani da parte jugoslava dopo l’8 settembre 1943, che fu trasmesso dal Ministero Affari Esteri - Divisione Generale Affari Politici – alle ambasciate italiane di Washington, Londra e Parigi il 28 agosto 1946. In esso si afferma in sostanza che gli slavo-comunisti avevano “occupato” l’Istria e parte della Venezia Giulia, e che vi stavano compiendo una vero e proprio “genocidio” (già iniziata nel ’43) ai danni degli italiani là residenti. Alcuni miti della “foibologia” riuscirono nei decenni successivi (pur con alterne fortune) a conquistare sempre più l’immaginario collettivo, anche perché qualche storico professionista compiacente (v. p. es. R. Pupo e R. Spazzali nel loro Foibe, B. Mondadori 2003) li accettò in quanto «informazioni date generalmente per acquisite» senza fare alcuna verifica critica, confermando così la loro presunzione di verità. Ma soprattutto furono i riconoscimenti ufficiali da parte delle autorità statali della “nuova” Repubblica che trasformarono le montature mediatiche in “verità inconfutabili”. Un esempio emblematico in questo senso è quello del pozzo di Basovizza, dichiarato “monumento di interesse nazionale” negli anni ’80, nonostante l’inconsistenza delle presunte “testimonianze”; nonostante le smentite delle stesse autorità alleate; nonostante l’evidenza dei risultati negativi di numerose esplorazioni e svuotamenti; nonostante, infine, che sulla lapide fatta porre dai “foibologi ufficiali” siano state scritte cifre “variabili” sia sulla profondità del pozzo (prima 250, poi 500, infine, nel 1997, 300 metri) sia sulla quantità di “salme di infoibati” (“misurate” addirittura in metri cubi: prima 300 e poi 500), mostrando con evidenza quale fosse il grado di attendibilità delle informazioni. Eppure diversi Presidenti della Repubblica, a partire da Cossiga, andarono a celebrare solennemente, si badi bene, non i caduti nelle sanguinose battaglie che ci furono in quella zona fra le formazioni tedesche in ritirata e quelle jugoslave negli ultimi giorni di guerra (i resti trovati nel pozzo furono infatti di militari di entrambi gli eserciti), ma i “martiri – italiani” che sarebbero stati gettati in quella “foiba” dal “furore slavo-comunista” (per saperne di più si legga Claudia Cernigoi, Operazione “FOIBE” tra storia e mito, Kappa Vu 2005). Insomma, ai risultati di ricerche e studi rigorosi, che pure esistono, continua a sovrapporsi la propaganda politica, funzionale ad obiettivi nazionali. Solo che nel dopoguerra l’ambiente politico di appoggio al neo irredentismo ex fascista era quello dei democristiani anticomunisti; oggi è quello degli ex comunisti. Lascio a voi le riflessioni sulle cause di questo sorprendente “passaggio di consegne”. Dico solo che a mio avviso anche oggi, come allora, gli obiettivi nazionali della “operazione foibe” non sembrano limitarsi alla riabilitazione del fascismo di Salò, ma si inquadrano nel rilancio “bipartisan” della politica imperialista italiana, proiettata in particolare proprio verso i Balcani, come indicano le cronache recenti: si vedano la partecipazione diretta alla disgregazione della ex Jugoslavia, l’impegno militare e di penetrazione economica in Albania, ed ora il tentativo di avere un ruolo primario nella creazione del nuovo “protettorato” NATO in Kossovo. Per questi gravi motivi probabilmente anche questo lavoro sul mito dei “sopravvissuti” avrà vita difficile, come altri, altrettanto o più rigorosi e coraggiosi. Ne siamo coscienti, ma non abbiamo rinunciato a farlo, perché siamo « convinti che lavorare per far emergere la verità può essere difficile e pericoloso, ma non è mai inutile.» [pag. 45] Maggio 2008 Pol Vice La foiba dei miracoli – indagine sul mito dei “sopravvissuti” Note per la presentazione
Questo libro è il risultato di un percorso di ricerca non solo mio, ma di tutto il gruppo di Resistenza storica coordinato da Alessandra Kersevan, senza il cui determinante aiuto non avrei potuto nemmeno sperare di condurre a termine un lavoro così impegnativo. L’argomento apparentemente è molto specifico, localizzato e “datato”, ma ha avuto ripercussioni importanti sia sulla politica nazionale sia sul dibattito storico e culturale dalla seconda guerra mondiale ad oggi, ed è ancora oggetto di accese discussioni e polemiche. Purtroppo, sulle tragiche vicende che durante e alla fine della seconda guerra mondiale coinvolsero alcune regioni del contestato “confine orientale” italiano, e che sono note col nome di “foibe” (le voragini carsiche usate come sbrigative e anonime “fosse comuni” da chi in quel periodo voleva liberarsi di “cadaveri scomodi” – ma è certo che l’origine di tale macabra usanza risale a tempi più lontani), risulta estremamente difficile distinguere la corretta informazione storica dalla “mitologia” costruita e diffusa a scopi politici dai cosiddetti “foibologi”. Anche in opere per altri versi serie e ben documentate spesso si incontrano citazioni di altre citazioni, di documenti o di “testimonianze” che a un esame più approfondito si dimostrano poi del tutto inattendibili. A volte sembra che anche gli studiosi più seri ci mettano del proprio per aumentare la confusione. Ma limitatiamoci al caso particolare che è l’oggetto della nostra indagine. La “Foiba dei miracoli” che dà il titolo al libro è quella in cui, all’alba di un giorno di maggio 1945, gli slavo-comunisti avrebbero gettato sei militari istriani della Milizia Difesa Territoriale (MDT), dopo averli arrestati nella zona di Pola, imprigionati e trasferiti in diverse località, sottoposti a una lunga serie di umiliazioni, persecuzioni e torture insieme con molti altri, infine portati sull’orlo della voragine e mitragliati (secondo alcune versioni, nell’acqua profonda dove le vittime erano precipitate sarebbero scoppiate anche una o due bombe a mano, tanto per gradire). Nonostante tutto ciò uno degli “infoibati” (oppure due, la cosa è controversa) si sarebbe salvato (ovviamente in modo miracoloso) e avrebbe raccontato la sua avventura alle autorità alleate (di Pola e/o di Trieste).
Ebbene: com’è stata presentata questa vicenda negli ultimi anni da storici autorevoli? Quali sono le loro fonti originarie? Gianni Oliva all’inizio del suo libro Foibe, le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria (2002) riportò una dopo l’altra (pp. 17 e 18) due “testimonianze dirette di sopravvissuti”. Giovanni Radetticchio era il nome (impreciso) del primo testimone: uno sconosciuto «originario da Sissano» (circa dieci km a sud di Pola). Di lui non dice nient’altro; si sa (da altre fonti) che nel 1944/45 era “milite del presidio di Marzana” e che “dopo aver lasciato la sua deposizione emigrò in Australia”. L’altro, invece, è l’ormai “mitico” protagonista di questa vicenda, da qualche anno giunto alla celebrità per essere l’unico “sopravvissuto alle foibe” ancora in vita: Graziano Udovisi (premiato nel 2005 con l’Oscar TV come “uomo dell’anno”, sull’onda delle celebrazioni ufficiali dei “martiri delle foibe”). Oliva scrive solo che era un “insegnante istriano”, tacendo ciò che lo stesso Udovisi dichiara con orgoglio, cioè che aveva aderito da subito alla Milizia fascista dopo l’8 settembre ’43 diventando ufficiale della MDT e comandante di presidio a soli 19 anni. I brevi racconti di Oliva parlano però di due “prodigi” diversi avvenuti in due foibe separate: Radetticchio fu portato “in direzione di Arsia” e cadde “nell’acqua profonda”, Udovisi nei pressi di “Fianona” si salvò aggrappandosi a “un alberello sporgente”.[1] Ovviamente le fonti sono citate. Vediamo la prima (anche l’altra è interessante, ma qui devo scegliere): “L’eccezionale testimonianza di Giovanni Radetticchio” scrive Oliva “è stata pubblicata per la prima volta il 26 gennaio del 1946 sul periodico della Democrazia cristiana di Trieste «La Prora», e in seguito frequentemente utilizzata dalla pubblicistica del dopoguerra”. Anche Raoul Pupo e Roberto Spazzali a pag. 98-100 del loro Foibe (2003) presentano lo stesso testo (con lievi differenze), indicando come fonte La Prora, e anch’essi attribuiscono il racconto a Radeticchio (con una “t”). Solo i lettori pignoli notano che la fonte diretta di entrambe le citazioni è il fascicolo Foibe ed esodo, allegato al n° 3/1998 della rivista “Tempi&Cultura”. Ma in realtà anche qui la “testimonianza di un sopravvissuto all’infoibamento... relativa ad un fatto accaduto nel maggio 1945” non è ripresa direttamente da La Prora, bensì da un opuscolo che il “CLN dell’Istria” pubblicò fra la fine del ’46 e l’inizio del ’47 col titolo Foibe, la tragedia dell’Istria, su cui quel racconto “venne riportato integralmente” (così si legge su Tempi&Cultura). Nel 1990 Roberto Spazzali l’aveva scritto nel suo Foibe, un dibattito ancora aperto (pag. 186): “L’articolo pubblicato da La Prora e la vicenda narrata nell’occasione (comparve) pure su una pubblicazione curata dal C.L.N. d’Istria sulle Foibe... per divulgare lo stato politico presente nei territori occupati dalle forze militari jugoslave”. Bene, direte voi: perché ci racconti queste “pignolerie”? Perché ci hanno permesso di scoprire alcune “strane” cose che si sono rivelate di estremo interesse. Primo: il CLN Istria dichiarò palesemente il falso: la “testimonianza” pubblicata da La Prora non fu affatto riportata integralmente in quell’opuscolo di propaganda. Il racconto là inserito e presentato come quello “pubblicato dal giornale di Trieste «La Prora», che ne garantisce l’autenticità, il 26 gennaio 1946”, in realtà ne è una drastica riduzione (poco più della metà), con ulteriori variazioni. Le omissioni e le modifiche più importanti riguardano la localizzazione della foiba: “da Fianona in direzione di Pozzo Littorio”[2] (La Prora) diventò “in direzione di Arsia”, senza alcuna indicazione precedente (CLN Istria). Notate che G. Oliva attribuisce le due foibe (di Fianona e di Arsia) separatamente ai “due sopravvissuti”, mentre nel 1946 l’episodio raccontato era lo stesso: solo il luogo della foiba era (o sembrava) cambiato. Ma ecco la seconda “stranezza”: sia l’articolo de La Prora, sia la sua riduzione del CLNI ... sono rigorosamente anonimi! In essi non appare affatto il nome del “sopravvissuto” autore del racconto (nel primo è scritto che l’«originale, regolarmente firmato, si trova in nostro possesso»). Dunque gli storici Oliva, Pupo e Spazzali hanno “forzato” l’attribuzione di quel racconto a Radeticchio, senza fornire alcuna spiegazione. Quanto al maestro ex tenente Udovisi, egli va sostenendo in pubblico la sua “verità”, con crescente successo, anche se, oltre che decisamente incredibile, essa è in contrasto sia con gli storici citati, sia col racconto anonimo de La Prora, sia infine con i primi documenti riservati del 1945 (dove appare la firma di Radeticchio - peraltro anche qui storpiata, perciò di dubbia autenticità – e dove quest’ultimo appare essersi salvato da solo, mentre Udovisi non è nominato, oppure risulta addirittura deceduto come gli altri “infoibati” con lui!). In sostanza egli afferma che lui e “un altro” si salvarono insieme, o più precisamente che lui aiutò “l’amico” ad arrampicarsi dopo averlo fortunosamente “abbrancato per i capelli”... Bisogna dire però che fino alla fine degli anni ’80 la sua “testimonianza” non fu resa nota al pubblico: solo nel 1987 comparve la prima versione a stampa nella raccolta di G. Bedeschi Fronte italiano: c’ero anch’io, ma era siglata con le sole iniziali G.U.; e la prima intervista “in esclusiva” rilasciata a Marco Dolcetta e trasmessa da Giovanni Minoli in TV è del 1991 (lì fece per la prima volta il nome di «Raddeticchio [sic] Giovanni, detto Ninni», ma poi non lo nominò più per altri dieci anni). A dire il vero c’è un precedente “d’epoca”: nel settembre del 1946 una dichiarazione del giovane ufficiale collaborazionista dei nazisti fu messa agli atti dalla corte d’assise straordinaria di Trieste che lo giudicava per accuse di delazione, maltrattamento di prigionieri e sospetto omicidio. Nel testo della sentenza di condanna ad «anni due mesi undici giorni 16 di reclusione» (riportata integralmente nel libro) si legge che «Nel maggio 1945 presentatosi ai comandi jugoslavi, come prescritto dai bandi, venne arrestato, deportato ed infine assieme ad altri cinque compagni portato dinanzi una foiba istriana per essere giustiziato. Però egli ed un altro compagno, riuscirono, svincolandosi dai ceppi, a gettarsi nella foiba incolumi, uscendone miracolosamente salvi.». E’ facile immaginare perché questa prima “memoria” del “sopravvissuto” Udovisi rimase negli archivi per molti decenni (e nessuno “storico accreditato delle foibe” ne fece mai cenno, nonostante l’evidente importanza di un tale fatto per la ricostruzione documentaria). Insomma, come vedete questa vicenda è un enorme “pasticcio”. Siamo certi che esso non fu generato da una serie di “errori di memoria” o di incomprensioni in buona fede, ma è il risultato di una serie di depistaggi creati ad arte fin dall’inizio per motivi precisi, che analizziamo puntualmente nel libro. Comunque una cosa è chiara: evidentemente non ci si può fidare della storiografia prodotta fino ad ora su questo argomento, per quanto “autorevole” essa sia: sembra che anche gli storici più competenti e seri si lascino “menare per il naso” dai “foibologi”, o ne siano complici (per qualche ragione che qui non commentiamo).
Dunque?... Dunque bisogna porsi le domande giuste, e trovare correttamente le risposte, se si vuole combinare qualcosa di buono. E’ quello che abbiamo provato a fare. E’ stato necessario “scavare” a lungo e profondamente, ma dopo circa quattro anni di lavoro possiamo dire senza tema di smentite di aver portato alla luce gran parte della verità. Al di là delle nostre stesse speranze iniziali, non solo siamo riusciti a dare risposte certe a quasi tutti gli interrogativi posti dalle strane reticenze, incongruenze e contraddizioni che si trovano sparse dappertutto nei racconti dei presunti sopravvissuti. Abbiamo anche contribuito, contestualmente, a chiarire parecchi passaggi dello sviluppo, dall’immediato dopoguerra ad oggi, di quella che chiamiamo “foibologia”, cioè di quella mitologia sulle foibe che è uno dei pilastri del revisionismo storico[3] oggi imperante nella cultura politica del nostro Paese. Comunque potrete constatare che in questo libro il percorso di ricerca (e di scoperta) della verità è interamente spiegato, senza usare alcun “principio di autorità”. «Infatti, al contrario di molto del materiale qui esaminato, il nostro sforzo è stato di non fare alcuna affermazione che non sia controllabile (distinguendo tra fatti accertati, ipotesi e giudizi soggettivi). A cominciare dal contesto in cui vanno collocati i fatti originari sui quali poi fu costruita ad arte la “mitologia delle foibe”, e in particolare il mito dei sopravvissuti che qui prendiamo in esame. Perché ogni storia, anche la più fantastica, ha sempre un fondamento di realtà nell’esperienza umana.» [pag. 32]. Questo è il metodo che il nostro gruppo di lavoro ha cercato di seguire. Se ci sia riuscito o no, giudicherete voi dopo aver letto il libro (se non vi stancate prima, ma vi assicuro che ci sono gli ingredienti per mantenere viva l’attenzione).
Siamo partiti da una constatazione semplice e logica. In estrema sintesi, tutta la documentazione su questa vicenda, per quanto imponente e varia, esprime questo solo messaggio: «chi racconta si è salvato “per miracolo” dalla foiba in cui è stato gettato (nucleo centrale) e dunque ci può narrare quali spaventose torture ha subìto dai barbari slavo-comunisti (contorno). E’ logico che tutta la narrazione può aver valore solo se è vero il nucleo, cioè l’episodio della salvezza dalla foiba» [pag. 39] (attenzione: non è in discussione la natura più o meno miracolosa del fatto, ma se esso sia realmente accaduto oppure no). Perciò la domanda che ci siamo posti è: quali sono i dati di realtà che possono confermare (o smentire) il nucleo centrale dei racconti dei “sopravvissuti”? La risposta è: prima di tutto il fatto che la foiba esista davvero (o no), e poi che le sue caratteristiche (all’epoca) fossero compatibili (o meno) coi fatti narrati. Nel primo capitolo sono esposti tutti i passi della ricerca “sul campo” che ci hanno permesso di individuare con sicurezza la foiba dei miracoli (cosa mai fatta da altri prima d’ora) e di «svelare i suoi segreti». [proiezione foto foiba] Oggi funge da pozzo per la fornitura dell’acqua alla grande centrale termoelettrica che sta nella “piana” ai piedi di Plomin/Fianona. La posizione, le dimensioni e la morfologia interna (non quella esterna, dati i lavori eseguiti negli anni ’50 / ‘60) corrispondono alle descrizioni dei primi documenti (in particolare de La Prora). Una serie di ulteriori verifiche - valutazioni e confronti fra i documenti e le condizioni fisiche e ambientali (esterne e interne) del sito, con la consulenza di esperti; interviste a persone che abitavano nel luogo da ragazzi - ci hanno permesso inoltre di dimostrare l’impossibilità pratica che nel maggio del 1945 là siano stati gettati quelli o altri prigionieri, almeno con le modalità descritte in una qualunque delle versioni della “testimonianza”, e tanto più è impossibile che una persona ridotta nelle condizioni descritte in quei racconti possa arrampicarsi da sola per quelle pareti (non parliamo poi di aiutare un altro!). «Alla luce di queste conclusioni risulta chiara la motivazione che ha spinto Udovisi, da quando le frontiere istriane furono aperte, a non voler mai tornare, né indirizzare chi glielo chiedeva, alla foiba di Fianona – mentre egli stesso, in diverse occasioni, ha “depistato” lettori e ascoltatori. Ed è chiaro perché nessun altro, fra coloro che continuano a strepitare contro “l’occultamento della verità sulle foibe”, si sia mai premurato di localizzare e individuare quella foiba, per “dimostrare la veridicità” dei racconti di U. (ammesso che egli non se la sentisse di tornare sul posto per motivi sentimentali). Il fatto è che un sopralluogo accurato, come il nostro, avrebbe dimostrato non la verità, ma al contrario la falsità dei fatti raccontati» [pag. 66].
D’altro lato, però, era necessario capire chi avesse realmente rilasciato le prime testimonianze che diedero avvio al “mito”, e perché lo avesse fatto. Infatti «sembravano perse completamente le tracce di uno dei due protagonisti: quel Giovanni Radeticchio - di cui perfino il cognome era incerto[4] -, che nei primi documenti “riservati” appare come l’unico uscito vivo da una foiba, e che poi era misteriosamente scomparso, come ingoiato dalle nebbie dell’emigrazione in Australia: lo stesso Graziano Udovisi, che pure dichiara di essere stato il suo salvatore, non fece il suo nome in pubblico se non molti anni dopo la sua morte. Ebbene, abbiamo rintracciato la vedova di Giovanni, Adele, e la figlia Rosanna: dal 1973 erano tornate in Italia, ma fino a poco tempo fa sono vissute del tutto appartate, ignare di quanto veniva scritto e detto sulle foibe e sul loro congiunto. Il colloquio che ho avuto con loro ha permesso di far “riemergere” almeno in parte una memoria che appariva sepolta - smascherando, fra l’altro, un’ignobile operazione editoriale di falsificazione in cui la sig.ra Rosanna appare coinvolta a sua insaputa -. Inoltre, su gentile segnalazione della stessa Rosanna, ho potuto parlare anche con suo zio Nicola (confidenzialmente Nico), il fratello minore di Giovanni che vive tuttora in Australia. Entrambe le interviste sono presentate nel capitolo 2: “Nini: ricordi di famiglia”.» [p. 47]
Le ottanta pagine della seconda parte sono dedicate alla storia della produzione, della diffusione e dell’uso politico del mito dei sopravvissuti alla foiba. Vi assicuro che si tratta di una lettura avvincente, degna, direi, di un romanzo giallo – ma ciò che è scritto è tutto vero e documentato (abbiamo esaminato una trentina di racconti, diretti e indiretti, scritti e video, prodotti dal 1945 al 2006; diciotto di essi, che rappresentano tutte le “varianti”, più altri tre falsi d’autore raccolti sotto il titolo “altre favole”, sono inseriti nella terza parte del libro). Sarebbe troppo lungo descrivere tutti i passaggi dell’intreccio, ricco di sorprese e colpi di scena. Posso solo fare qualche altro cenno, seguendo lo stesso criterio cronologico del libro. Il primo luogo dove apparvero le prime due testimonianze dattiloscritte, una intestata «Trieste il 23 luglio 1945 racconto di Radeticchi Giovanni scampato dalla morte in una foiba», e l’altra senza data, col titolo «Rapporto del signor Giovanni Radetticchio da Sissano salvato miracolosomente (sic) da una foiba ove era stato gettato», fu appunto Trieste, e precisamente la curia dell’arcivescovo (il capodistriano mons. Santin). I due scritti sono diversi sia per la forma linguistica e grammaticale, sia perché nel primo (all’apparenza più “grezzo”) non appare alcun nome oltre a quello del protagonista; mentre nel secondo ci sono molti cognomi e nomi, elencati con una certa pedanteria burocratica, fra cui quello del tenente «Udovisi Graziano da Pola», uno dei cinque gettati nella foiba con Giovanni, e deceduti. Da lì la notizia giunge subito, per via riservata, allo Stato Maggiore del Regio Esercito a Roma, dove viene ritenuta importante, tanto che il giorno dopo, 24 luglio, il «capo centro dell’ufficio I (informazioni, oggi si direbbe intelligence), capitano Carlo Barbasetti di Prun» la trasmette a uno o più destinatari, in allegato a una “informativa” che ha per oggetto: “Foibe.-”», pregandoli di mantenere la riservatezza; qui il cognome è Radeticchio, quello giusto, e ci sono anche tutti i dati della carta d’identità. Le due testimonianze “originarie” furono poi inserite nel dossier dal titolo Trattamento degli italiani da parte jugoslava dopo l’8 settembre 1943, che fu trasmesso dal Ministero Affari Esteri - Divisione Generale Affari Politici – alle ambasciate italiane di Washington, Londra e Parigi il 28 agosto 1946, e fu usato al tavolo delle trattative di pace di Parigi dagli esponenti del governo De Gasperi, come argomento “forte” a sostegno delle rivendicazioni di sovranità italiana sulle regioni del “confine orientale”. Quel dossier - dove si afferma in sostanza che gli slavo-comunisti stavano compiendo una vera e propria “pulizia etnica” o addirittura un “genocidio”, già iniziato nel ’43, a danno degli italiani residenti nei territori “occupati” della (ex) “Venezia Giulia” - non fu però mai messo a disposizione degli studiosi “indipendenti”. Solo una parte del suo contenuto divenne disponibile al pubblico quando fu inserito agli atti dell’inchiesta giudiziaria contro alcuni presunti infoibatori che fu aperta a Roma dal P.M. Pititto nel 1995 e si concluse nel 2004 senza esiti significativi. Di altri documenti che i “foibologi” citano continuamente come “fondamentali”, «cioè la relazione Chelleri, il rapporto del maresciallo Harzarich, quello dell’ispettore De Giorgi, non è provata non solo l’autenticità, ma neppure l’esistenza» [5]. Nel frattempo (il 26 gennaio, come sappiamo) il racconto del “sopravvissuto” (sempre solo uno) era stato per la prima volta pubblicato anonimo dall’organo di stampa della D. C. triestina: la versione è simile a quella coi nomi ma, mentre questi mancano, ci sono informazioni più dettagliate sulla foiba (e uno stile più “aulico”). Il “colpo di scena” (per chi lo credeva morto) fu la notizia dell’arresto, della detenzione e del processo di Udovisi. Era successo che il nostro eroe a fine agosto del ’45 invece di essere (come doveva), in fondo alla sua foiba, era latitante a Padova, dove era fuggito servendosi di una carta d’identità falsa. Ma la sua fama lo seguì, al punto che (leggo dalla sentenza) «venne riconosciuto da certo Callegarini Umberto, il cui fratello era stato arrestato dai tedeschi a Pola e trucidato la notte di Natale del 1944, e siccome il Callegarini riteneva l’Udovisi responsabile della cattura di suo fratello, lo indicò a due vigili urbani che lo arrestarono». Non potendo giustificare la “resurrezione”, Udovisi dichiarò (con la breve “memoria” difensiva inserita nella sentenza) di essersi salvato anche lui dalla foiba insieme al suo amico: era pur sempre un “miracolo”, ma meno “scandaloso”. Fatto sta che la giuria mostrò di credergli, lo ritenne innocente degli omicidi e gli concesse una serie di attenuanti, condannandolo a una pena mite, come abbiamo visto. Ora però i due “amici miracolati” si trovavano in difficoltà: uno era comunque in galera, per l’altro era difficile giustificare di fronte alle autorità la strana reticenza su una così prodigiosa “doppia salvezza dalla foiba”. Inoltre i due non apparivano affatto così amici come sarebbe stato logico dopo una simile avventura: si smentivano a vicenda sulla modalità del salvataggio, ciascuno affermando di aver salvato l’altro. La sopravvenuta ostilità tra i due non appare da nessun documento dell’epoca, ma è emersa chiarissima dall’intervista con la signora Adele Maraspin, vedova di Giovanni (Nini) e con la figlia Rosanna. Da loro e dal fratello Nico abbiamo appreso anche altre cose sul loro congiunto: per esempio, che Nini se ne andò tristemente da Trieste non «alla fine della guerra», ma all’inizio del ’47, e non «perché non trovava lavoro», come ha affermato ipocritamente il suo presunto amico, ma perché aveva perso quello che gli avevano dato presso un corpo di polizia quando “l’unico uscito dalla foiba” era lui; inoltre egli non emigrò in Australia subito dopo, ma per quasi due anni restò in campo profughi a Torino, dove si sposò ed ebbe la figlia: se non ci furono più contatti fra loro, dunque, non fu per la distanza, ma perché avevano troncato i rapporti. Infine, Giovanni morì nel 1970: questa notizia, mai data da Udovisi nelle rare occasioni in cui lo nominò fino a qualche anno fa, può spiegare perché proprio in quell’anno il nostro eroe si risvegliò da un lungo silenzio (durato un quarto di secolo) e consegnò a Giulio Bedeschi la prima copia della sua personale versione della vicenda (lo abbiamo saputo per caso leggendo uno scritto del “foibologo” forse più strambo e fantasioso di tutti, per giunta francescano: padre Flaminio Rocchi – al secolo Anton Sokolić, nato da padre croato a Neresine, sull’isola di Lussino, nel 1914, deceduto nel 2003). Da allora (anzi, a dire il vero l’attesa si protrasse ancora per più di tre lunghi lustri, fino al 1987, quando il clima politico tornò ad essere favorevole) la figura di Udovisi cominciò ad emergere. Non vado oltre; mi limito a dire che anche in seguito non fu facile per il nostro eroe imporsi come “l’unico sopravvissuto alla foiba, che riuscì a portare in salvo un amico”: sembrava quasi che il fantasma di Giovanni Radeticchio lo perseguitasse. Ma molti amici, vecchi e nuovi, lo aiutarono. I più importanti, a cui nel libro sono dedicate apposite schede, oltre al già citato “frate combattente” Flaminio Rocchi, sono: - Luigi Papo, ex comandante del 2° reggimento Istria della MDT. Fu tra i fondatori della “foibologia” (con gli agenti della X MAS nel 1944). Ricercato come criminale di guerra e arrestato nel maggio del ’45 a Trieste, e internato, ma non fu riconosciuto avendo dato un falso nome e fu liberato due mesi dopo. E’ la smentita vivente di quanto continua ad affermare sulla “volontà di sterminio degli italiani” da parte dell’esercito di Tito. Tuttora attivo e accreditato come “storico esperto”. - Fausto Pecorari, noto medico, esponente di spicco della D.C. triestina e nazionale (fu deputato e vicepresidente dell’assemblea Costituente), oltre che fervente e attivissimo irredentista (fu fondatore, dirigente e animatore dei più importanti Enti per l’aiuto ai profughi giuliano dalmati e per la loro organizzazione politica). Marco Pirina, il più noto “foibologo” della seconda generazione, autore ed editore di molti libri sull’argomento, per i quali ha ottenuto anche i finanziamenti della Regione Friuli. Fra i molti altri (politici, scrittori, pubblicisti, giornalisti) merita un cenno particolare Giovanni Minoli. Nell’intervista ad Udovisi presentata in TV per la prima volta nell’ottobre del 1991 (MIXER, RAI Uno) e replicata varie volte negli anni successivi (es. RAI educational, 14 feb. 2004 e 10 feb. 2005 “giornata del ricordo”), il ben noto comunicatore ha infilato una serie notevole di “perle”. Cito solo un breve passaggio che da solo ne contiene ben tre. Il racconto di U. finisce così [pag. 206]: «Con Ninni, Raddeticchio [sic] Giovanni, detto Ninni, attendemmo tutto il giorno e decidemmo di uscire.”» (senza un cenno a come ci sarebbero riusciti). Ecco il commento di Minoli: «Graziano Udovisi dunque è salvo, l’unica persona che si è salvata [1: l’altro è “scomparso”, dunque non conta...?!] fra quelle migliaia di persone che sono state infoibate. Da vittima si è trasformato in un testimone della storia. Lui in quei tragici giorni del 1945 c’era, a Trieste [2: confonde Pola, o l’Istria, con Trieste]. Come c’era l’operatore che nel ’48 ha girato il filmato che documenta la riesumazione di centinaia di cadaveri recuperati nella foiba di Groppada, l’abbiamo visto.» [3: nel filmato, mostrato all’inizio, si vedeva bene che i corpi erano cinque, come le bare preparate. Perfino lo speaker parla di “5 recuperati e 35 accertati” (tuttavia dalle notizie dell’epoca su un presunto “rapporto” dell’ispettore Umberto De Giorgi (coordinatore delle ricerche nelle foibe su incarico del GMA di Trieste) non sembra che risultassero altre vittime “accertate” a Gropada)].
Per finire, se a qualcuno interessa la mia opinione, vorrei leggere due passaggi in cui cerco di esprimere ciò che secondo me bisogna davvero ricordare, imparare e superare, magari senza tante ipocrite cerimonie e celebrazioni ufficiali. Ho scritto a pag. 30 e 32: «All’interno, e al seguito, della più grande tragedia nella storia della nostra cosiddetta civiltà – la seconda guerra mondiale – si svilupparono tragedie locali acute, sanguinose e devastanti, specialmente in alcuni territori contesi, fra i quali appunto le regioni di confine fra l’Italia e la Jugoslavia... (anche lì come in altri luoghi e tempi) la “guerra civile” scatenata dai potenti per i loro interessi di dominio non finì con la “liberazione”. Gli eserciti si fermarono, ma i contrasti di interesse (politici ed economici) non furono affatto risolti. Cambiarono i soggetti e le modalità di gestione del potere, ma la “libertà”, la “pace” e la “giustizia”, anche se scritte su qualche documento, per la gente del popolo restarono parole prive di senso reale; i conflitti ideologici, gli odi, le paure, le vendette, le delazioni e le violenze personali non si sopirono. Non c’erano solo italiani contro slavi e slavi contro italiani, ma slavi contro slavi, italiani contro italiani, addirittura parenti contro parenti appartenenti alla stessa famiglia ma di opposte fazioni.
A chi si debbano attribuire le responsabilità storiche e politiche di tutto ciò, noi non abbiamo alcun dubbio, almeno per quanto riguarda la nostra storia nazionale: fu chi preparò e portò l’Italia alla guerra, cioè i nonni e i padri (in senso ideologico, non ovviamente genetico) di coloro che oggi dagli scranni parlamentari e da posti di governo nella cosiddetta “alternanza democratica” strepitano per far ottenere il riconoscimento di “combattenti per la patria italiana” ai miliziani fascisti che sotto le insegne della repubblica fantoccio di Salò collaborarono attivamente con l’occupazione nazista e coi suoi crimini. E per quanto riguarda l’esodo, a pag. 159: Possiamo solo esprimere la più sincera e forte solidarietà a quanti, senza loro colpa, hanno dovuto e devono ancora subire la triste sorte di esiliati o profughi, in qualunque parte del mondo questo succeda, qualunque sia il colore della loro pelle, la lingua, le tradizioni e la terra che hanno dovuto abbandonare. Ma non è accettabile che qualcuno rivendichi il “diritto al ritorno” sulla base di falsificazioni di fatti storici e di accuse generalizzate e infamanti ad altri popoli che sono già state ampiamente dimostrate prive di fondamento (nel nostro caso, il presunto “genocidio” degli italiani “programmato” dagli slavo/comunisti). Paolo Consolaro (Pol Vice) [1] Arsia/Raŝa e Fianona/Plomin sono due paesi nella zona di Albona/Labin, distanti fra loro circa 15 km. [2] Pozzo Littorio (oggi Podlabin) è un sobborgo di Albona, costruito dal regime fascista. [3] cioè l’operazione sistematica con cui si trasforma «la cancellazione della memoria (in) storiografia, e la falsificazione delle prove (in) testimonianza di verità» (La foiba dei miracoli pag. 12). [4] A volte compare “Radeticchi”, altre “Radetticchio” (o anche “Raddeticchio”); nel suo Genocidio... Il “grande foibologo” Marco Pirina lo “reinventò: lo chiamò “Antonio” e lo fece apparire come «unico superstite» nientemeno che dalla foiba di Vines, nel settembre del 1943! [5] C. Cernigoi, cit. pag. 159 |
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