I
rapporti tra la «sottorazza slava» e
i nazisti nelle zone di occupazione
tedesche
Estratto da: P. Diroma, La
Jugoslavia dal 1941 al 2000: tra
esodi, scontri etnici e movimenti di
popolazione, tesi di laurea
Università degli studi di
Firenze, AA. 2006-2007 - fonte
La
razza inferiore.
L’idea nazista dell’inferiorità
razziale della gente balcanica, e in
particolare dell’assoluta mancanza di
valore della vita umana dei popoli
slavi, si realizzò praticamente nei
territori della Slovenia, del Banato e
della Serbia con uno dei più duri
regimi di occupazione e di repressione
del secondo conflitto mondiale. Se nei
confronti degli sloveni i tedeschi
vollero imporre nuovamente con le armi
la supremazia politica, economica e
militare che già detenevano in
Slovenia all’epoca del Regno degli
Asburgo, molto più radicali si
dimostrarono i metodi nazisti in
Serbia.
Ritenendo il popolo serbo
responsabile della guerra e della
sconfitta tedesca nel primo conflitto
mondiale, dell’affronto delle
manifestazioni di piazza antitedesche
del marzo 1941, dello slittamento del
ben più importante piano Barbarossa,
Hitler decise di far pagare a caro
prezzo il secolare carattere ribelle
dei serbi[1]. Spinte da un odio
viscerale contro i popoli balcanici,
le autorità militari germaniche nel
corso delle vaste operazioni condotte
contro il movimento di liberazione
jugoslavo, si abbandonarono ad
efferati crimini contro i civili
residenti nelle zone di guerra.
Nell’ambito del programma di
epurazione e di rappresaglie i
tedeschi saccheggiarono, violentarono,
sterminarono e deportarono le
popolazioni di interi villaggi[2].
[1] F. TUDJMAN, Il
sistema d’occupazione cit.,
p. 210; M. WALDENBERG, Le
questioni nazionali nell’Europa
centro-orientale cit.,
pp. 61-5; G. SCOTTI, Kragujevac:
la città fucilata, Milano,
Ferro edizioni 1967, pp. 3-12; P.
MORAČA, I crimini commessi
da occupanti e collaborazionisti cit.,
pp. 517-8.
[2] Ibidem, pp.
536-8.
Il
Banato «tedesco».
Nel Banato (regione della Vojvodina
che non era stata concessa nel 1941
all’Ungheria per ottenere i servigi
dei rivali rumeni) ad occuparsi della
persecuzione dei serbi, degli ebrei e
degli zingari fu soprattutto la
minoranza tedesca locale (Volksdeutsche).
Presenti in quell’area dai tempi di
Maria Teresa d’Austria, quando fu
decisa la colonizzazione delle terre
strappate ai Turchi dal comandante
principe Eugenio di Savoia, i
«tedeschi etnici» convivevano con gli
slavi e con i magiari e avevano dal
1920 le loro organizzazioni nazionali
(Schwabisch-Deutscher Kulturbund).
Quest’ultime subirono nel corso degli
anni Trenta la progressiva
nazificazione e in esse si fece largo
l’idea di annettere il Banato al
Reich[1].
Con l’invasione del Regno di
Jugoslavia, le formazioni paramilitari
locali (le «squadre tedesche»)
sgominarono l’esercito regio e
spartirono i poteri amministrativo e
di polizia con la Wehrmacht. La
regione rimase sotto il diretto
controllo delle truppe di occupazione
fino al 14 giugno 1941, quando fu
stipulato un accordo tra i
rappresentanti dei Volksdeutsche e i
membri del governo fantoccio serbo che
prevedeva l’incorporamento del Banato
nell’amministrazione militare e civile
della Serbia. Speciali diritti e un
autonoma giurisdizione spettavano alla
minoranza tedesca[2].Parallelamente
alle misure amministrative di
esproprio delle proprietà jugoslave,
all’istituzione di tribunali militari,
si moltiplicavano le violenze, le
condanne a morte e le esecuzioni di
militari jugoslavi, serbi, ebrei e
zingari. L’uccisione di un soldato
tedesco e il ferimento di un altro
nell’aprile del 1941 nella città di
Pančevo, causò la fucilazione di cento
civili. Sempre nella stessa città,
numerosi civili furono fucilati e
impiccati come ammonimento per la
popolazione.
Pančevo,
22 aprile 1941: un ufficiale
tedesco
da il colpo di grazia a civili
serbi agonizzanti /
A German officer of the Gross
Deutschland Division
finishing off Serbian civilians
executed at random in Pancevo,
April 22, 1941 (photo:
Der Spiegel)
Dall’aprile 1941 all’ottobre 1944 nel
Banato si ebbero un numero totale di
vittime pari a 7513 (di cui 2211
uccise in loco, 1294 morte nei campi
di concentramento in cui furono
deportate, 1498 uccise nei campi di
lavoro forzato)[3]. Dal marzo 1942 ben
21100 tedeschi etnici del Banato
furono reclutati, volontariamente o
per coscrizione, nei reparti delle SS.
Essi costituirono la famigerata
divisione Principe Eugenio
che dalla base operativa di Pančevo
dilagò in tutto il territorio
jugoslavo, abbandonandosi ad efferati
crimini contro la popolazione inerme
(anche contro centinaia di croati di
numerosi villaggi attorno a Spalato) e
dando una spietata caccia ai «ribelli»
comunisti e ai četniči di
Mihajlović[4].
La
Serbia: tra resistenza e
collaborazionismo.
L’estrema brutalità nazista nei
confronti della Serbia fu evidente sin
dalle prime ore dell’invasione del
Regno di Jugoslavia il 6 aprile 1941.
Gli impressionanti bombardamenti della
Luftwaffe sulla città aperta di
Belgrado provocarono la morte di 17
mila civili. I militari del regio
esercito jugoslavo, composto per il
90% da serbi, furono subito internati
nei campi per prigionieri di guerra in
Germania[5]. Immediatamente posta
sotto la diretta amministrazione
militare tedesca, la Serbia fu ridotta
territorialmente ai confini precedenti
la prima guerra balcanica, divenendo
terra di conquista del Reich. Come
prospettato alla conferenza di Vienna
del 16 aprile 1941, la Serbia e la sua
capitale rappresentavano nel Nuovo
Ordine europeo un avamposto
imbattibile, come lo era stato nei
secoli precedenti nelle guerre tra
l’impero asburgico e i turchi, per la
difesa dell’Europa centrale e di
Vienna[6]. Perciò concesso il Kosovo
all’Albania (tranne la sua punta
settentrionale) e parte della Serbia
sudorientale alla Bulgaria,
l’amministrazione tedesca, dipendente
dal 9 giugno dai comandi militari per
il settore sud est nella persona del
feldmaresciallo List, fin da subito
occupò le ricche miniere del
territorio serbo e kosovaro,
strategicamente importanti per
l’industria bellica tedesca,
garantendo la sicurezza e la
funzionalità delle vie di
comunicazioni lungo il Danubio nonché
il più ampio collegamento tra Belgrado
e Salonicco, fondamentale per i
rifornimenti sul fronte africano[7].
Il quartier generale amministrativo
del comandante militare per la Serbia,
facente funzioni di governo e guidato
dall’alto funzionario nazista H.
Turner, da subito introdusse la
legislazione antiebraica del Reich e
obbligò donne e uomini al servizio del
lavoro. Esso in pratica affiancava e
controllava le autorità civili serbe
collaborazioniste che dal maggio 1941,
con la formazione del cosiddetto
Consiglio dei commissari presieduto da
M. Acimović, erano sì state restaurate
ma erano totalmente subordinate agli
occupanti. I tedeschi avevano trovato
fedeli servitori in ex funzionari del
Regno dei Karadjeordjević
espressamente filotedeschi e
filofascisti nonché in politici dei
vecchi partiti borghesi decisamente
anticomunisti. Convinti della vittoria
delle forze dell’Asse e della
definitiva morte della Jugoslavia,
questi ultimi decisero di lavorare
politicamente in favore dello Stato e
del popolo serbo ma in realtà finirono
per rendersi complici di gravissimi
crimini contro i loro stessi
connazionali[8]. Ben presto
cominciarono ad affluire in Serbia i
profughi e i deportati dalle regioni
della smembrata Jugoslavia.
L’inizio della lotta armata popolare
convinse i tedeschi della necessità di
allargare il consenso politico attorno
alle autorità collaborazioniste.
Furono intavolate trattative per la
formazione di un esecutivo serbo che
si conclusero con la nascita il 29
agosto 1941 del cosiddetto «governo
di salvezza nazionale», guidato
dall’ex ministro della difesa
jugoslavo, generale M. Nedić (già
destituito nel 1940 per essersi
espresso in favore di una più stretta
collaborazione con le forze
nazifasciste)[9]. Il governo fantoccio
fu da subito spalleggiato dalle
milizie del partito fascista serbo (ZBOR)
di D. Ljotić, già designato dai
tedeschi quale capo del governo
quisling, di cui però aveva declinato
la guida in favore di Nedić. I
cosiddetti ljotičevci, al
fianco dei reparti di polizia e della
Gestapo serba, collaborarono
attivamente con le forze d’occupazione
germaniche alla repressione e al
massacro di comunisti ed ebrei così
come alle azioni di rappresaglia
contro la popolazione[10]. Il maggiore
obiettivo del governo
collaborazionista fu sempre quello di
annientare tutte le forze della
resistenza e di arrestare coloro che
si connotavano per le loro idee
progressiste e antifasciste[11].
Fin da subito la Serbia dimostrò nei
confronti delle forze d’occupazione
naziste il suo carattere indomabile:
già nel mese di maggio le forze
nazionaliste filomonarchiche del
generale D. Mihajlović ripararono
sulle pendici della Ravna Gora nella
Serbia sud-orientale, da dove
iniziarono azioni di sabotaggio contro
le truppe tedesche. Dalla valle del
fiume Toplica nella Serbia meridionale
i ben più noti četniči di K. Pečanac,
incaricato dal governo monarchico di
condurre azioni di guerriglia contro
le forze nazionaliste bulgare e
albanesi, ingrossavano le loro fila
con profughi serbi provenienti dalla
Macedonia e dal Kosovo.
Contemporaneamente si organizzava e si
preparava ad entrare in azione il PCJ
gravemente minacciato dalle pesanti
retate delle forze di polizia tedesche
e collaborazioniste nel mese di
giugno.
Nel giorno dell’invasione nazista
dell’Unione Sovietica numerosi
attentati e sabotaggi furono
realizzati a Belgrado dalle
organizzazioni giovanili
comuniste[12]. Il 7 luglio nel
villaggio di Bela Crkva sotto la guida
di Z. Jovanović scoppiava la prima
grande rivolta della più vasta
insurrezione popolare condotta dai
partigiani comunisti e dai četniči di
Mihajlović: tra luglio e settembre le
forze della resistenza riuscirono a
liberare gran parte delle località
minori e dei villaggi, infliggendo
gravi perdite alle truppe tedesche
costrette dall’impeto della rivolta a
riparare nelle maggiori città. La
risposta tedesca fu tremenda e piena
di odio razziale: nei bilanci inviati
agli alti comandi militari si rendeva
conto dell’uccisione di migliaia di
comunisti ma in realtà ad essere
colpita indiscriminatamente fu
l’inerme popolazione civile. Nelle
direttive del capo di stato maggiore
W. Keitel e del generale
plenipotenziario per la Serbia F.
Böhme, furono fissate precise quantità
di ostaggi da fucilare come
rappresaglia: per ogni soldato tedesco
o Volksdeutsche ucciso o ferito
bisognava uccidere rispettivamente
cento e cinquanta ostaggi. I comunisti
arrestati dovevano essere impiccati ed
esposti pubblicamente come ammonimento
per la popolazione. Le località
ribelli dovevano essere date alle
fiamme; tutta la popolazione maschile
avviata nei campi di prigionia e di
internamento mentre quella femminile
destinata ai campi di lavoro[13].
L’applicazione di tali misure fu
rigorosa. Già in aprile l’uccisione di
un ufficiale della Wehrmacht aveva
portato all’incendio del villaggio di
Dobrić. La distruzione di una
motocicletta costò la vita di 122
ebrei e comunisti il 29 luglio. Nel
periodo tra il 24 settembre e il 9
ottobre 1941 i tedeschi fucilarono
nella Mačva 1127 civili, internarono
nei campi di concentramento oltre 21
mila persone, saccheggiarono e
incendiarono numerosi villaggi.
Identica sorte subì la popolazione
maschile delle città di Šabac (circa 3
mila morti) e di Belgrado (4750
fucilati al 30 ottobre).
Ma le rappresaglie più spietate le
truppe tedesche le commisero
nell’ottobre del 1941 nella regione
“rossa” della Šumadija: in pochissimi
giorni le città e i villaggi di
Kraljevo (almeno 2 mila morti),
Krupanj, Gornj Milanovac, Mečkovac,
Maršić, Lapovo, Grošnica furono
saccheggiate e incendiate mentre la
popolazione maschile arrestata
arbitrariamente per le vie e nelle
case fu fucilata. Come ritorsione per
gli attacchi partigiani tra Čačak,
Valjevo e Gornj Milanovac, che avevano
causato la morte di dieci soldati
tedeschi e il ferimento di altri 26,
il generale Böhme decise una grande
azione di rappresaglia: vittima
designata fu la città di Kragujevac,
già distintasi nei mesi estivi per
spettacolari azioni di guerriglia. Tra
il 20 e il 21 ottobre 1941 almeno 5
mila persone (ma nelle testimonianze a
carico dei responsabili durante il
processo di Norimberga si è parlato di
7300 vittime) furono fucilate dalle
truppe tedesche, dai collaborazionisti
ljotičevci e dai
Volksdeutsche. Come descrive lo Scotti
nella sua appassionata cronaca della
strage, i soldati tedeschi comandati
dal maggiore plenipotenziario Köenig e
i reparti volontari di M. Petrović,
rastrellarono palmo a palmo la città
industriale in una grande razzia di
uomini (10 mila arrestati). Non furono
risparmiati nemmeno 300 studenti delle
ultime classi del Ginnasio mentre i
fascisti serbi scambiavano con le
truppe tedesche propri simpatizzanti
arrestati con bambini rom in un
macabro baratto di uomini destinati
alla morte. Condotti alla periferia
della città innocenti, comunisti,
ebrei, zingari, studenti, professori,
detenuti, sacerdoti, operai,
funzionari, ammalati e alcune donne
furono fucilati dai plotoni di
esecuzione tedeschi. Tra le stesse
autorità germaniche si sollevarono
dubbi sul reale potere deterrente
della strage (esse lavorarono per
nascondere la verità dichiarando
«l’uccisione matematica di 2300
ribelli»), che al contrario rinfocolò
l’odio della popolazione civile che
andò ad ingrossare le fila della
resistenza[14].
In quel periodo i partigiani
comunisti erano riusciti persino a
proclamare il primo territorio libero
d’Europa, la cosiddetta Repubblica
partigiana di Užice, che
sopravvisse fino alla fine di
novembre, quando fu abbattuta sotto i
colpi della prima controffensiva delle
forze dell’Asse, che per tutta la sua
durata nell’autunno del 1941 causò la
morte di oltre 35 mila civili e un
numero superiore di internati[15]. Dal
mese di giugno le autorità militari
tedesche avevano intrapreso la
deportazione e l’internamento in massa
della popolazione «ribelle» in
numerosi campi di concentramento sul
territorio serbo come quelli di Niš,
Smederevska Palanka, Šabac, Čačak,
Stari Trg, Kruševac, Zasavica,
Pančevo, Sajmište, Banjica, nonché nei
campi di sterminio in Germania.
Centinaia di migliaia di serbi, ebrei,
zingari (bambini compresi) furono
massacrati al loro interno. Il
genocidio ebraico era cominciato nel
Banato nel settembre del 1941 (Jabuka)
ed era proseguito con l’internamento
degli ebrei di Belgrado e del resto
della Serbia. Il 29 agosto 1942 i
tedeschi affermavano con soddisfazione
che «la questione ebraica in Serbia è
stata completamente risolta» (non
erano stati risparmiati nemmeno 800
ammalati che nel marzo 1942 furono
eliminati con i gas)[16]. Più di 15
mila ebrei della Serbia, del Banato e
del Sangiaccato furono soppressi.
La comparsa della resistenza
comunista e il mancato accordo con i
distaccamenti di Mihajlović avevano
spinto i četniči di Pečanac a cercare
un accordo con le autorità tedesche e
serbe. I cosiddetti «četniči legali»
con i loro metodi brutali divennero
allora strumento nelle mani del regime
d’occupazione per stroncare i
comunisti; essi stabilirono contatti
con l’esercito italiano di stanza in
Albania per azioni antipartigiane nel
Sangiaccato[17]. Intanto partigiani di
Tito e monarchici di Mihajlović
cercavano vanamente di giungere ad
accordi di cooperazione ma le
differenti strategie di guerriglia, la
distanza ideologica, gli opposti
obiettivi di guerra, la pretesa di
mostrarsi agli occhi degli Alleati
come unici rappresentanti della
resistenza si dimostrarono elementi di
contrasto troppo forti[18].
In seguito all’offensiva nazista
dell’autunno 1941, alcune migliaia di
četniči di Mihajlović cercarono e
trovarono riparo presso il governo di
Nedić, con il quale raggiunsero
accordi di cooperazione che
consentirono loro di guadagnare il
controllo delle campagne. Dal novembre
1941 cominciarono a verificarsi in
Serbia scontri armati tra i comunisti
e le forze nazionaliste serbe che
avrebbero caratterizzato sempre più i
successivi anni di guerra: una guerra
civile che faceva il gioco degli
occupanti[19]. Nel frattempo i
«četniči legali» furono sempre più
implicati nelle delazioni, negli
omicidi e negli arresti di comunisti,
ebrei e di tutti coloro che si
opponevano alle autorità militari
germaniche; il loro programma politico
era tutto proteso verso la costruzione
della «Grande Serbia»[20]. Così sul
finire del 1941, mentre il grosso
delle forze partigiane erano costrette
a rifugiarsi nella Bosnia
sud-orientale per non far più ritorno
sul territorio serbo (almeno fino
all’avanzata dell’Armata Rossa
nell’autunno del 1944), la Serbia era
stata sostanzialmente normalizzata.
L’apporto della popolazione serba alla
guerra di liberazione negli anni a
seguire fu decisamente scarso rispetto
a quel mitico 1941[21].
Nel marzo del 1943 i tedeschi
decisero di sbarazzarsi degli
inaffidabili ed inefficienti «četniči
legali»; lo stesso Pečanac internato
dalle autorità serbe concluse la sua
avventura nel giugno del 1944 quando
fu fucilato dai četniči di Mihajlović.
Quest’ultimi dopo aver stretto un
disperato accordo con Nedić, oramai
braccati dall’avanzata dell’Armata
Rossa e dell’Esercito di
liberazione jugoslavo, negli
ultimi mesi di guerra intavolarono
trattative con gli accaniti nemici dei
serbi, gli ustaša croati,
per aprirsi un varco che dalla Bosnia
nord-orientale permettesse loro di
riparare nella Venezia Giulia (nel
mese di maggio 1945 essi sono fatti
prigionieri a Gorizia) e verso il
confine austro-sloveno. Qui nel maggio
del 1945, inseguiti dalle truppe di
Tito, subirono assieme a migliaia di
ustaša, domobranci sloveni e
croati, anticomunisti, la vendetta e
la radicale epurazione degli
oppositori del nuovo regime comunista.
Il loro capo, Mihajlović, era stato
già catturato a marzo presso Višegrad
e riportato a Belgrado dove nel corso
del 1945 fu processato e condannato a
morte[22].
[1] S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER,
The “expulsion” of the German
speaking minority from Yugoslavia
cit., p. 50.
[2] F. TUDJMAN, Il
sistema d’occupazione cit.,
pp. 224-26.
[3]
http://en.wikipedia.org/wiki/Crimes_of_the_occupiers_in_Vojvodina,_1941-1944.
[4] C. K. SAVICH, Genocide
in Vojvodina and Greater Hungary,
1941-44, in
www.serbianna.com/columns/savich/058;
S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER, The
“expulsion” of the German speaking
minority from Yugoslavia
cit., pp. 53-4.
[5] G. SCOTTI, “Bono
taliano” cit., pp. 21-3; F.
TUDJMAN, Il sistema
d’occupazione cit., p. 199.
[6] F. TUDJMAN, Il
sistema d’occupazione cit.,
p. 211.
[7] N. MALCOLM, Storia
del Kosovo cit., pp. 326-8.
[8] F. TUDJMAN, Il
sistema d’occupazione cit.,
pp. 210-15.
[9] R.W. SETON-WATSON, R.G.D.
LAFFLAN, La Jugoslavia
tra le due guerre cit., p.
226.
[10] G. SCOTTI, Kragujevac
cit., pp. 74-5, 93-4.
[11]
http://en.wikipedia.org/wiki/Nedić’s_Serbia.
[12] S. CLISSOLD, L’occupazione
e la resistenza cit., pp.
236-241; G. SCOTTI, Kragujevac
cit., pp. 16-7;
www.vojska.net/eng/worldwar2/serbia/chetniks/pecanac.
[13] P. MORAČA, I crimini
commessi da occupanti e
collaborazionisti cit., pp.
531-8; G. SCOTTI, Kragujevac
cit., pp. 18-32.
[14] G. SCOTTI, Kragujevac
cit., pp. 92-212; P. MORAČA, I
crimini commessi da occupanti e
collaborazionisti cit., pp.
531-35, 550-2.
[15] G. SCOTTI, “Bono
taliano” cit., pp. 41-2,
57-8; Id., Kragujevac
cit., p. 38.
[16] J. ROMANO, Jews of
Jugoslavia 1941- 1945 cit.
[17]
www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac;
N. MALCOLM, Storia del Kosovo
cit., p. 335.
[18] S. CLISSOLD, L’occupazione
e la resistenza cit., pp.
241-3.
[19] N. MALCOLM, Storia
del Kosovo cit., pp. 335-6.
[20] Ibidem, p. 335;
www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac;
P. MORAČA, I crimini commessi
da occupanti e collaborazionisti cit.,
pp. 547-8.
[21] J. PIRJEVEC, Le
guerre jugoslave cit., p.
19.
[22] S. CLISSOLD, L’occupazione
e la resistenza cit., pp.
257-60;
http://en.wikipedia.org/wiki/Bleiburg_massacre.
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