Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
Avevano tutti la stessa età,
scorrevano uguali per tutti
i giorni di scuola, andavano alle
cerimonie in compagnia,
li vaccinavano tutti
contro la stessa malattia.
Morirono tutti in una giornata sola.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un solo giorno morì
di morte gloriosa.
Cinquantacinque minuti
prima che la morte se li portasse via
sedevano sui banchi di scuola
i ragazzi della piccola compagnia,
e con lo stesso compito assillante;
andando a piedi, quanto
impiega un viandante
e così via.
Erano pieni delle stesse cifre
i loro pensieri,
e nei quaderni, dentro la cartella,
giacevano assurdi innumerevoli
i cinque e gli zeri
Stringevano in saccoccia con ardore
una manciata di comuni sogni,
di comuni segreti
patriottici e d'amore.
E ognuno, lieto della propria aurora,
credeva di poter correre molto
tanto ancora
sotto l'azzurro tetto rotondo
fino a risolvere
tutti i compiti di questo mondo.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
File intere di ragazzi
Si presero per mano
e, dall'ultima ora di scuola,
si avviarono alla fucilazione
calmi, col cuore forte,
come se nulla fosse la morte.
File intere di compagni
salirono nella stessa ora
verso l'eterna dimora.
Il
seguente articolo e' tratto da "Storia
Illustrata" del gennaio 1979
STERMINIO
NAZISTA IN SERBIA
In un solo giorno 7300 morti
nella città martire. È l'autunno del 1941.
Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno
di Jugoslavia, la penisola balcanica è
insorta contro l'occupante nazifascista.
Alla rivolta partigiana i tedeschi
rispondono facendo strage della
popolazione civile.
di ANTONIO PITAMITZ
Pančevo,
22 aprile 1941: un ufficiale tedesco
da il colpo di grazia a civili serbi
agonizzanti /
A German officer of the Gross
Deutschland Division
finishing off Serbian civilians
executed at random in Pancevo,
April 22, 1941(photo:
Der Spiegel)
Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo
l'invasione tedesca della Jugoslavia, nei
due Ginnasi di Kragujevac (leggi
Kragujevaz), la città serba posta nel centro
della regione della Šumadija, le lezioni
iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono
in programma quel giorno la sintassi della
lingua serbocroata, matematica, la poesia di
Goethe, la fisica. In una classe, un
professore croato, un profugo fuggito dal
regime fascista instaurato in Croazia da
Ante Pavelic, sottolinea il valore della
libertà. Poco lontano, un altro spiega
l'opera di un poeta serbo del romanticismo
risorgimentale. La mente rivolta alle
secolari lotte sostenute dai serbi per la
loro indipendenza e a quella presente che
cresce irresistibilmente, anch'egli parla di
libertà. La voce calma e profonda che
illustra i versi del poeta: "La libertà è un
nettare che inebria / Io la bevvi perché
avevo sete", ne nasconde a fatica la
tensione, che aleggia anche nell'aula, che
grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi
abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie
lontane da alcuni giorni alimenta.
Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua
regione sono teatro di una vasta azione di
rappresaglia, che i tedeschi stanno
conducendo con spietata decisione
contemporaneamente anche nel resto della
Serbia. La ferocia di cui essi in quei
giorni danno prova ha una ragione specifica
contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha
dissolto uno Stato, il regno dei
Karadjordjevic, ma non ha prostrato i popoli
della Jugoslavia. L'illusione tedesca di una
comoda permanenza in quella terra è stata
presto delusa. Sin dai primi giorni
dell'occupazione, i tedeschi hanno avuto
filo da torcere. La guerra, che anche in
Šumadija i resistenti fanno, è senza
quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin
dal mese di maggio. Linee telefoniche e
telegrafiche vengono tagliate, ponti e
strade ferrate saltano. Il movimento di
resistenza cresce così rapidamente, ben
presto è così ampio che i tedeschi e le
truppe collaborazioniste del quisling serbo
Milan Nedic abbandonano il presidio dei
villaggi. Gli invasori si sentono troppo
esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in
città. La lotta contro i patrioti la
organizzano dai centri urbani, e la
conducono secondo il metro nazista che
misura in tutti gli slavi una razza
inferiore, da sterminare. La traduzione
pratica di questo principio è all'altezza
della fama che si guadagnano. A Belgrado,
una moto incendiata della Wehrmacht vale la
vita di 122 serbi. Solo nella capitale, in
sette mesi fucilano 4700 ostaggi.
Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di
poter coprire con la propaganda questo pugno
di ferro che calano sul paese. Le
argomentazioni che diffondono sono quelle
care alla "dottrina" nazifascista
dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini
serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e
dai capitalisti, e promettono anche di
salvarli dal bolscevismo semita, che sta per
essere sicuramente sconfitto sul fronte
orientale.
L'itinerario di questa vittoria, a
Kragujevac può essere seguito sulla grande
carta geografica che campeggia nel centro
della città. Una croce uncinata segna la
progressione delle forze dell'Asse in
direzione di Mosca. Però, come altrove,
nemmeno a Kragujevac terrore, repressione,
lusinghe, denaro fatto circolare per
corrompere, valgono a indebolire il sostegno
alla lotta partigiana, a ridurne il seguito.
A dare contorni netti alla situazione, le
risposte alla propaganda tedesca non
mancano. La carta geografica dell'Asse viene
bruciata in pieno giorno. Il fuoco divora
anche una delle fabbriche militari della
città. Un treno di quaranta vagoni viene
distrutto sulla linea Kragujevac-Kraljevo,
provocando la morte di cinquanta tedeschi.
Da vincitori e occupanti, i tedeschi si
trovano nella condizione di assediati.
È Kragujevac, città da sempre ribelle, che
prende il suo nome da kraguj, dal rapace
grifone che popolava i sui boschi, che
alimenta la Resistenza della zona. È questa
città di antiche tradizioni nazionali e
socialiste che guida la lotta della
Šumadija, il cuore della Serbia. Gli operai
comunisti che costituiscono il nerbo delle
formazioni partigiane vengono dal suo
arsenale militare. Dalle sue case dai cento
nascondigli, che hanno già ingannato turchi
e austroungarici, escono le armi, le
munizioni, il materiale sanitario, i libri
che donne, bambini e ragazzi portano
quotidianamente ai combattenti del bosco.
Per contenere la sua iniziativa, per
fronteggiare questa lotta di bande, che è
lotta di popolo e che sconvolge gli schemi
bellici dei signori nazisti della guerra,
già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac
conta la guarnigione tedesca più forte di
tutta la Serbia centrale. Ma i due
battaglioni e i mezzi corazzati di cui i
tedeschi dispongono non sono sufficienti ad
arrestare lo slancio delle tre compagnie
partigiane che operano fuori della città. Né
tantomeno la Gestapo è in grado di bloccare
i gruppi clandestini che si annidano dentro.
La loro azione anzi si fa sempre più audace,
punta sul risultato militare, ma ricerca
anche l'effetto psicologico. Per i
partigiani, importante è non soltanto
colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi
oppressi a sperare, a vivere. Una notte
d'agosto, cento metri di ferrovia vengono
fatti saltare in città, proprio sotto il
naso dei tedeschi.
È una sfida, che ha sapore di beffa. In
questa situazione, la rabbia e il desiderio
di vendetta dei tedeschi crescono
quotidianamente. Quando nel settembre 1941,
la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più
profonde in Šumadija, il generale Boehme,
comandante delle forze tedesche nel Paese,
considera che la misura è colma. Il
prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere
somministrata ai serbi. Una spietata
repressione, da condurre senza esitazione, è
decisa. A rendere più chiara la direttiva
che passa ai subalterni, e che precisa la
"filosofia" del comando tedesco, Boehme
ricorda che "una vita umana non vale nulla",
e che perciò per intimidire bisogna
ricorrere a una "crudeltà senza eguali". A
metà settembre i tedeschi passano
all'azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata
in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono
bruciati, spesso, come a Novo Mesto o a
Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi
muoiono a migliaia, uccisi, massacrati. A
Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini
dai 14 ai 70 anni che rimangono vittime
della razzia tedesca. Cinquecento muoiono
durante una marcia fatta fare al passo di
corsa per 46 chilometri. Gli altri sono
fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono
al muro. "Pagano" 10 tedeschi uccisi e 24
feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è
"sentenziata" la punizione di Kraljevo,
un'altra città che resiste. I plotoni di
esecuzione lavorano per cinque giorni, le
vittime sono 5000. Sembra impossibile
immaginare una strage ancora più grande.
Eppure, l'allucinante escalation non ha
toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario.
La "spedizione punitiva" comincia il 13
ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio
di Kragujevac, i tedeschi prendono 30
uomini. Per 3 giorni se li trascinano dietro
nella puntata che fanno contro il paese
vicino, Gornji Milanovac. Affamati,
percossi, costretti a rimuovere tronchi
d'albero e a tirare fuori dal fango carri
armati, adoperati come scudo contro i
partigiani, sono testimoni della sorte del
piccolo paese di pastori. Vivono un'agonia
che ha fine solo con il grande massacro, nel
quale scompaiono anche i 132 ostaggi di
Gornji Milanovac. In quanto al paese, anche
questo viene bruciato. I tedeschi saldano
così un vecchio conto che avevano in
sospeso. Anche per questa impresa però
devono pagare uno scotto. Trentasei uomini
vengono messi fuori combattimento dai
partigiani, che attaccano senza sosta.
Di fronte a questo "smacco" la logica
tedesca della ritorsione non tarda a
scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la
vita di 100 cittadini ogni tedesco morto, e
con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a
morte.
La rappresaglia punta per primo sui "nemici
storici" del Reich: comunisti e ebrei. Gli
ebrei maschi, e un certo numero di
comunisti, 66 persone in tutto, vengono
arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non
basta. Il giorno successivo, il 19 ottobre,
una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre
paesi, posti nel giro di tre chilometri,
sono travolti della furia tedesca. Grošnica,
Meckovac, Maršic bruciano, 423 uomini
muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo
stesso macabro rituale è imposto a Grošnica,
dove si distinguono i Volontari
Anticomunisti di Dimitrjie Ljotic. Il paese
quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dall'altare
con il vangelo ancora in mano, i fedeli
vanno a morire stringendo i pani benedetti
della comunione ortodossa. Vengono falciati
tutti lì vicino, con le mitragliatrici.
Così, intorno a Kragujevac si è fatto un
cerchio di morte. La prova generale è
compiuta. Ora si passa al "grande massacro".
L'azione inizia la mattina del 20 ottobre.
Alle prime luci dell'alba, gli accessi a
Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici
sono postate nei punti nevralgici. Nessuno
può più uscire dalla città, nessuno può più
entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si
avvicina, viene ucciso. È quanto accade a
uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un
vecchio che in città muove verso il mercato.
Agli ordini del maggiore Koenig, tedeschi e
collaborazionisti aprono la caccia all'uomo.
Nessuno sfugge, nessuno è "dimenticato". Il
gruppo di operai che lavora tranquillamente
a un torrente, i tre popi di una chiesa, che
sperano di trovare la salvezza dietro le
icone. I razziatori entrano a stanare
ovunque. Gli impiegati sono portati fuori
dal municipio; giudici, scrivani, pubblico,
dal tribunale. Dalle abitazioni vengono
tratti anche gli ammalati. Un barbiere è
prelevato dal negozio insieme al suo
cliente, che con altri disgraziati marcia
verso il suo destino, una guancia
insaponata, l'altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei
due ginnasi. L'apparizione di quelle
uniformi verdi armate di fucili e
parabellum, infrange la normalità forzata
che da tre giorni nelle due scuole vige. Il
barone Bischofhausen, il comandante tedesco
della piazza, il 17 ha minacciato presidi,
professori e genitori di severe sanzioni se
i ragazzi non frequentavano la scuola. Lo ha
fatto ripetere anche per le vie della città,
a suon di tamburo, dal banditore pubblico.
Li vuole tutti in aula, sempre. L'ufficiale
tedesco, che da civile è insegnante,
combatte l'assenteismo degli studenti non
certo perché mosso da passione pedagogica.
Chiedendo che proprio per quel giorno 20
tutti siano presenti, egli fa apparire di
voler esercitare un controllo; che però si
trasforma in una trappola. In realtà, egli
non dimentica che i ginnasiali di Kragujevac
hanno manifestato sin dai primi giorni la
più violenta opposizione all'occupante. Un
giovane è finito impiccato dopo uno scontro
con la polizia. Il barone sa pure che anche
in quelle aule la Resistenza attinge, per
alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi
propagandisti e sabotatori.
L'ispezione annunciata per quel giorno è
arrivata. I registri chiesti dal barone sono
pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i
ragazzi hanno cancellato i loro nomi
dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente
nelle aule, e rastrellano. Hinaus, fuori
tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il
ragazzo invalido che si trascina con la
stampella, per il quale invano una
professoressa intercede. Anche la classe che
il professore di tedesco tenta di salvare.
Ai soldati che si affacciano, il professore
dice, per rabbonirli, che stanno facendo
lezione di tedesco. Mente. E mente una
seconda volta quando gli chiedono quanti
anni hanno i suoi ragazzi. Quindici dice. I
tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma
in quel momento un alunno si alza
dall'ultimo banco. È lo spilungone della
classe. I tedeschi, dalla soglia si girano,
capiscono, e sbattono fuori tutti.
I ginnasiali raggiungono le file dei
razziati, i professori in testa. Con loro,
ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di
chimica, celibe, e Djordje Stefanov, di
letteratura croata, anche lui rifugiato in
Serbia con la moglie e le due figlie per
sfuggire ai fascisti della Croazia. Quel
giorno i due professori non hanno lezione.
Ma quando hanno visto che in città i
tedeschi rastrellavano, certi che la scuola
non sarebbe stata risparmiata, sono venuti
lo stesso, per essere insieme ai loro
ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo.
Andranno insieme a loro alla fucilazione.
Del corpo insegnante, solo le donne non sono
razziate. Dalle finestre della scuola vedono
sfilare i professori e gli alunni, e "cento
berretti levarsi in segno di saluto". I
ragazzi credono ancora che torneranno.
Pochi sono i fortunati che riescono a
filtrare tra le maglie di quella immensa
rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va
a unirsi ai partigiani. Avrà sicuramente
qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il
giorno scorrono per Kragujevac dirette ai
luoghi di raccolta. I razziati sono quasi
10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta
la città. I tedeschi non hanno tralasciato
nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei
detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i
primi ad essere fucilati.
Dai luoghi dove sono concentrati in attesa
di conoscere la loro sorte, la sera di quel
20 ottobre i prigionieri sentono le prime
scariche di fucileria. È l'avvio della
grande carneficina. Contando sulla sorpresa,
e sulla iniziale "distrazione" dei
fucilatori, alcuni dei condannati riescono a
salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in
riga. Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla
scarica si getta a terra anche se non è
colpito, poi balza e corre. Viene
ricatturato a un posto di blocco. Tenta di
nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara
a bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo
avergli dato il colpo di grazia nella spalla
invece che in testa, lo lascia a terra
credendolo morto. L'uomo striscia tutta la
notte a palmo a palmo finché arriva alla
casa di un amico. È soccorso, si crede in
salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo
riprendono. Dopo averlo picchiato decidono
che, essendo ormai in fin di vita, tanto
vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna,
alla professione, al sangue freddo che
riescono ad avere anche in un tale
frangente. A mano a mano che inquadrano i
gruppi per condurli alla fucilazione, i
tedeschi fanno la selezione. Alcuni criteri
non sono molto chiari. Risparmiano, per
esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i
panettieri. Altri lo sono di più. Ai loro
collaboratori fascisti concedono di tirare
fuori i loro amici e parenti. In questo
mercato i fascisti serbi sono generosi.
Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni
in cambio dei loro protetti. Viene
risparmiato anche chi è cittadino di un
paese alleato dell'Asse. O che lo faccia
credere. Escono romeni, ungheresi. Un
dalmata si dichiara italiano. Forse lo è
davvero, forse è solo un croato acculturato
italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e
a salvare il ragazzo che gli è accanto,
affermando alla guardia, con la sua
"autorità" di "alleato", che non ha ancora
16 anni. Un serbo, invece, mostra un
certificato bulgaro qualunque, rilasciato
dalle truppe di Sofia che occupano il suo
Paese di origine, e viene messo da parte.
Non fa nulla invece per salvarsi Jovan
Kalafatic, professore, insegnante di
religione, che invece potrebbe. Tutti sanno
che è un fascista convinto. A scuola
sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti
in galera per opera sua. Basterebbe che dica
chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche
quando passano i fascisti serbi per la
"loro" selezione. Forse, nelle lunghe ore
della tragedia passate con il suo popolo,
deve aver capito la vera natura dell'Ordine
Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente,
alla fucilazione con gli altri. Vanno
volontari anche due vecchi genitori che non
vogliono abbandonare i figli. Alla
fucilazione vanno, divisi in due gruppi,
anche i 300 studenti ginnasiali e i loro
professori. Alla testa di un gruppo vi è il
preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia
verso la morte in fila indiana, le mani
sulle spalle, come dovessero danzare il
kolo, la danza nazionale serba. Poi,
cantano. Intonano "Hej Slaveni!", l'inno
antico e comune a tutti gli slavi. Cadono
cantando.
Il massacro dura a lungo. Su un fronte di
morte lungo oltre dieci chilometri, fuori
della città le armi crepitano fino alle 14
del giorno 21 ottobre. Settemilatrecento
uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni
cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere
2300. I tedeschi hanno più che triplicato il
"coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I
graziati sono circa 3000. Molti di questi
sopravvissuti rientreranno a piangere un
morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi
fucilati il sabato successivo al massacro.
Il rito ortodosso per il quale il sabato è
il giorno dei morti, vuole anche che per
ogni morto sia accesa una candela gialla e
per ogni candela, cui si accompagna un pane
che è da benedire con il vino santo, il pope
reciti la parola dei defunti. I sacerdoti
rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri
sette sono stati fucilati. Ma il rito deve
essere compiuto. Mentre le donne piantano le
candele, presentano i pani, gridano il nome
del defunto, i due preti cantano l'antica
preghiera della liturgia veteroslava.
Dandosi il cambio pregano per ventiquattro
ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di
nascondere la verità sulla strage, alterando
registri, imbrogliando le cifre, esumando e
cremando cadaveri. Kragujevac ha fatto il
"suo" appello. È la prova che Zivotjin
Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte,
porta ai giudici di Norimberga:
"...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac
furono esposte più di settemila bandiere
nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila
pani... E furono accese settemila e trecento
candele...".