Informazione

Ancora su "foibe" e neoirredentismo italiano

1. Lettera Aperta di Aurelio Juri al segretario DS Piero Fassino
2. "La memoria è mia, è nostra" di Babsi Jones
3. "Parliamo di fogne" di A. Tarozzi
4. Re: [JUGOINFO] Fascio, fascino, fassino. Carissimi, ma perchè
sorprendersi? Di Alessandro Di Meo
5. Lettera al giornalista del "Sole-24 ore" ed a "Prima pagina", di
Ivan Pavicevac


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Da "La Voce del Popolo", Rijeka - Fiume, 14.2.04

http://www.edit.hr/lavoce

ESODO E FOIBE, LETTERA APERTA DI AURELIO JURI AL SEGRETARIO DS PIERO
FASSINO

«È fuori luogo parlare di espansionismo slavo»

La verità non si può accantonare solo perché così fa comodo

LUBIANA - Aurelio Juri, membro della Presidenza della Lista unita dei
socialdemocratici della Slovenia ha inviato una lettera aperta al
segretario dei democratici di sinistra Piero Fassino, riferita alle
posizioni assunte dai DS sulle vicende legate a foibe ed esodo.
Riportiamo integralmente il contenuto della missiva:
"Caro compagno e amico,
Non vi è amicizia e mutuo rispetto senza franchezza, per cui mi auguro
non me ne voglia se mi spingo a manifestare perplessità per le tue più
recenti esternazioni sulla martoriata storia del dopoguerra lungo la
frontiera italo-slovena e sulle ragioni dell'esodo dalla costa
orientale dell' Adriatico.
Pur comprendendo le motivazioni della Giornata della memoria che in
Italia avete deciso di dedicare alle sofferenze di quanti abbandonarono
le terre d'Istria, Quarnero e Dalmazia o furono in altro modo vittime
della persecuzione comunista jugoslava, non posso condividerle se
disgiunte dal contesto storico in cui l'esodo e le foibe avvennero e
cioè quello del precedente ventennio fascista e delle nefandezze
all'epoca commesse contro le popolazioni slave (in particolare la
"bonifica etnica" di Sloveni e Croati). Tantomeno vedo appropriate la
qualifica di "espansionismo slavo" che dai alla liberazione da parte
delle formazioni partigiane jugoslave dei territori occupati
dall'Italia durante il fascismo e la manipolazione di dati su esodo e
foibe non rispondenti a verità. A proposito di quest'ultime, è un falso
storico – ce lo dicono gli studiosi – dichiarare che chi vi finì
dentro, vi finì "solo perché erano Italiani". Nelle cavità carsiche
perirono tragicamente soprattutto vittime di faide ideologiche e
dell'abuso violento tipico dei periodi che seguono una lunga guerra.
A questo proposito ti invito a risfogliare le tante pagine della
relazione della Commissione storica intergovernativa italo-slovena sui
fatti della guerra e del dopoguerra nelle terre della sofferenza. E' la
"verità" più obiettiva che i più qualificati storici italiani e sloveni
in materia, dopo 7 anni di lavoro puntiglioso, sono riusciti a
raccontare e non la si può accantonare o sconvolgere solo perché in un
determinato momento così fa comodo, ti pare?!
Anzi, sarebbe ora che questa relazione entrasse nei libri di testo
delle nostre scuole, e slovene e italiane, e diventasse anche per la
politica, di sinistra e di destra, il riferimento più attendibile ogni
qualvolta si cerchi di mettere a nudo il periodo in questione e magari
giocarci sopra.
Certo della tua attenzione e comprensione, ti faccio i migliori auguri
per i prossimi appuntamenti elettorali.
Con stima"

Aurelio Juri


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http://www.exju.org/comments/649_0_1_0_C/

[jutopia 04] la memoria è mia, è nostra

la “memoria condivisa” di cui si ciancia tanto in questi giorni
["foibe", definizione magica che di tanto in tanto riapre il sesamo del
revanscismo] per cominciare dovrebbe passare per il vocabolario. perché
io, prima di condividere la mia memoria con qualcuno, voglio esser
certa che ci sia un’intesa semantica sui termini che adopreremo per
celebrarla. storace, il terminator-governator della regione lazio, ha
dichiarato di attendere dal parlamento “una decisione coerente che
renda giustizia all’olocausto italiano (di istria e dalmazia)”. per
cominciare, storace non specifica che la coerenza che va cercando è
coerente solo con il suo revisionismo: quello che vuole criminalizzare
la resistenza; è una coerenza funzionale ad un’incoerenza, ché il
parlamento a cui domanda una decisione è proprio il prodotto di quella
resistenza che storace vorrebbe affossare. vedete un po’ voi se è il
caso che si sproloqui di coerenza. quindi, il termine “olocausto” che
il governator sceglie: sebbene la computisteria dei morti non sia mai
particolarmente decorosa, storace dovrebbe sapere che il termine
‘olocausto’ non è a disposizione di chiunque voglia farne un
grimaldello per scassinare le (fragili) coscienze degli ascoltatori.
olocausto, ha detto? a meno che storace non voglia rifarsi al
significato primordiale (nelle religioni del mondo antico, sacrificio
cruento in cui la vittima veniva bruciata completamente sull’altare) e
debba quindi considerarsi un novello fascio-zoroastriano, la verità è
che il lemma olocausto è per diritto storico inteso come il genocidio
perpetrato contro gli ebrei, i comunisti, gli antifascisti, gli zingari
e gli omosessuali durante la seconda guerra mondiale. genocidio
perpetrato dai progenitori culturali di storace. olocausto non è
vocabolo per tutte le stagioni: se per storace un certo numero (5000?
come al solito, il balletto delle cifre) di “infoibati” valgono un
genocidio e una shoah, storace ha smarrito l’unità di misura o, come
più probabile, non ne ha mai avuta una.  intanto fini, che prima riga
dritto a gerusalemme dove domanda perdono, e poi torna a casa col suo
perenne grugnetto da camicia nera, dice che “non esistono tragedie di
serie A e di serie B”, e gli fanno pure eco i diessini. è la frase più
insulsa che un politico possa pronunciare: l’apoteosi della demagogia,
la degenerazione del pensiero in nullità. dire che “non esistono
tragedie di serie A e di serie B”, guardate, è come dire che le idee
giuste e quelle sbagliate si equivalgono. esistono eccome, tragedie di
serie A e di serie B, e ancor di più, esistono tragedie e non-tragedie:
la resistenza causò dei morti che furono necessari alla liberazione,
alla costituzione e alla democrazia. per comprendere le dimensioni e il
peso storico di ciascuna tragedia contano i numeri, i fatti, e
soprattutto contano le motivazioni, contano le idee. l’assassinio d’un
dittatore e l’assassinio d’un ciclista – pur avendo in comune la morte
d’un uomo- non hanno lo stesso valore ideologico né lo stesso peso
storico. questo “nuovo” pensiero, che vorrebbe tutte le “tragedie”
essere di serie A, in realtà vorrebbe pigiare il tasto reset per
cancellare i risultati della storia. se tutte le battaglie sono uguali,
nessuno può più avere torto. la logica che vorrebbe “appaiare” tutte le
morti, tutte le guerriglie, tutte le vittime e tutte le rivoluzioni è
la logica del pari e patta: far diventare la vittima una vittima
assoluta e generica significa assolvere il colpevole e togliere al
fruitore della storia il diritto a una coscienza critica. state attenti
alla ‘memoria condivisa’: esiste una memoria a cui hanno diritto solo
coloro i quali credono e hanno creduto nelle idee che diedero vita a
quella memoria, che le permisero di sopravvivere. il 25 aprile non è la
festa di tutti gli italiani, né mai vorrei che lo fosse. è la festa di
quegli italiani antifascisti che lottarono, con le armi o con le
parole, per la liberazione, e degli italiani che hanno raccolto il loro
testimone, la loro bandiera: il loro pensiero, signori miei, ed il
pensiero non è un optional. in mente, quegli uomini resistenti avevano
e hanno l’internazionalismo, i diritti dei lavoratori, la pari dignità
delle donne, la libertà e l’uguaglianza, la fine della guerra. io non
metto a disposizione la mia memoria, la memoria di primo levi, di elio
vittorini, di cesare pavese e dei fratelli cervi con dei fessi che da
sempre si battono per la conservazione di valori antitetici e
incompatibili, e men che meno la voglio condividere con i nipotini
degli assassini che mandarono milioni di persone a morte nel nome di
“dio, patria e famiglia”. di quegli individui -che ancora si aggirano,
spettri per l’europa- io ho ribrezzo, scelgo di averne ribrezzo; e io
non condivido pane, vino e la mia reminiscenza con chiunque passi per
la strada. chi di voi sa di cosa parlo ha in comune con me quella
memoria, e lo incontro ogni 25 aprile a festeggiare la bellezza di
un’idea che, mi dispiace per storace, non è mai morta. gli altri,
vadano pure questuando una memoria a cui non hanno alcun diritto. ecco,
questa faccenda sulle “foibe” è a metà strada fra il solito
revisionismo ottuso e la povertà morale di chi, privo di una classe
intellettuale e privo di ideali che non siano la cieca obbedienza ad un
padrone e ad un dio coglione, deve ridursi a implorare una ricorrenza
paritaria per sdoganare i nuovi imperi come se fossero “legittimi”. la
memoria di storace sono i forni di auschwitz, il mein kampf e la
bibbia. bisogna saperla scegliere, una memoria, prima di poterne alzare
gli stendardi. si rassegni.


=== 3 ===


PARLIAMO DI FOGNE

esame di storia delle fogne (per passare rispondere bene ad almeno 2
domande su 3).

molti anni fa, certo piu di dieci, al momento in cui lo squartamento
della jugo comincio a prendere violentemente forma, un giovane leader
di un relativamente piccolo partito di minoranza, in italia, prese la
parola per dire che l'italia avrebbe potuto approfittare della
situazione per avanzare le proprie rivendicazioni contro
l'ingiustificata perdita di territori in istria e dalmazia. venne
sommerso di critiche, soprattutto da sinistra.''bell'idea!!!'', gli si
rispose ironicamente ''cosi ci andremmo a ''infognare'' nella guerra
che gia sta insanguinando la jugoslavia''.

quiz n. 1: chi era quel giovane leader?
a. fini
b. fassino
c. pannella

il giovane leader del relativamente piccolo partito di minoranza si
dette una calmata, fece carriera e il suo divento' un forte partito di
maggioranza ed egli fattosi esperto, lascio che le stesse cose che
aveva detto lui, le ripetesse solamente qualche muscolare esponente da
curva sud di quel partito, ancora un po piu giovane di lui e nel
frattempo divenuto
assessore, a suo tempo reiteratamente invitato, da sinistra, a tornare
nelle ''fogne''.

quiz n. 2: come si chiama l'assessore muscolare?
a. menia
b. illy
c. lavazza

quelle strane idee pero si diffusero ai partiti della nuova minoranza e
un ''mai stato giovane'' leader di un grosso partito di minoranza le
fece sue... cosi quelle idee sono diventate idee della grande
maggioranza del parlamento italiano e solo in pochi le ritengono oggi
tali da far ''infognare'' (non ''infoibare'', pls) chi le formula.

quiz n. 3: chi è il ''mai stato giovane'' leader?
a. fini
b. fassino
c. casini


(A. Tarozzi)


=== 4 ===


Re: [JUGOINFO] Fascio, fascino, fassino

carissimi, ma perchè sorprendersi?
fassino, insieme al "torvo" ranieri, chi se li dimentica, nel 99,
durante l'aggressione al popolo della jugoslavia mentre, insieme al
loro capo d'alema, descrivevano l'ampiezza delle fosse comuni, viste
dal satellite, grandi come laghi, dove i serbi affossavano gli albanesi
e, comunque, i diversi da loro?
Chi se la scorda la bonino mentre ci parlava del quasi mezzo milione di
profughi che vagavano disperati fra le montagne del Kosovo, in balia
delle truppe del despota milosevic? e lasciamo stare le destre
fasciste, quelle che ora "vogliono le foibe sui libri di storia". Gia
ci sono, basta andarle a cercare con l'occhio dello storico, non con
quel del fascista.
Forse erano chiaroveggenti, perchè di li a poco, centinaia di migliaia
di profughi ci furono davvero. E veri. Erano serbi, ma pure albanesi
dissidenti e di altre etnie.
Ne porteremo ancora in Italia, a Roma, la prossima estate, per il terzo
anno consecutivo. Vengono da Kraljevo, poco sopra il Kosovo, hanno una
età da veri "pulitori etnici"... partono dagli otto anni di Danijela,
ai dodici di Sonja e Danilo, passando per i dieci di Stefan, i nove di
Milisav. Sono una quindicina, di più non riusciamo. Ma sono le prove
viventi dell'infamia.
Noi, che l'infamia la ricordiamo bene, cerchiamo solo di far passare
loro dei giorni sereni, in amicizia. L'amicizia con la quale ci
accolgono le loro famiglie quando li andiamo a trovare, in quelle che
sono le loro case abituali, dove noi, civilizzati occidentali, non
passeremmo neppure una notte.
Forse, sarebbe il caso di portarceli, da fassino, ranieri (dov'è
finito) d'alema, bonino, ecc. ecc. O forse no, meglio di no.
Perchè gli vogliamo bene e non sarebbe giusto far loro conoscere questa
gentaglia!
un saluto

alessando di meo (un ponte per...)


=== 5 ===


Egregio Signor Gianfranco Fabi, giornalista de "Sole-24 ore", (spero di
aver scritto bene il Suo cognome),

Ho provato ad intervenire nella diretta di "Prima Pagina", senza
riuscirci.
La storia italiana dopo il 1918 viene insegnata ben poco, anzi fino a
tempo fà proprio per niente. Lei forse non ha avuto tempo, o non la
vuole ricordare. Quando Lei dice, o ritiene, che l'Istria sarebbe
"terra italiana" è come se dicesse che l'Alto Adige alias Sud
Tirolo sia da sempre "terra italiana". Oppure, per "Zara italiana", e'
come Gibilterra inglese. In verità, qualche cosina in più Le potrei
concedere: se vogliamo ricordare le conquiste dei romani o dei greci su
quelle coste, oppure un pò più avanti, le conquiste venete... Ma come
può Zara con un pezzetto d'intorno oltremare essere una "normale" terra
italiana?!
Ritorno alla mia Istria e alla mia città natale di Pola - Pula. Per
settanta anni fu austroungarica insieme a Fiume - Rijeka, che è stato
porto commerciale per l'Ungheria fino al 1918, mentre il porto di Pola
è stato ricostruito come porto militare austriaco. L'occupazione
italiana dura per trent'anni, dopo quella austriaca. Ecco
l'italianizzazione dei nomi e dei cognomi: Bozac (col dovuto accento
sulla "z") in Bosazzi, Fonovic in Fonio, Motika in Matticchio, Antonac
in Antonelli (Laura, l'attrice nata a Pola, i genitori originari
dell'entroterra istriano) e tanti altri... Non escluso il sottoscritto
- battezzato in chiesa slava ortodossa - da Ivan Pavicevac in Giovanni
Pavichievaz. Si può certo definire italiana la polesana Alida Valli, il
cui vero cognome e' Altenburger...
Non faccia soltanto chiacchiere in materia, egregio giornalista. La
invito a documentarsi meglio su certi tragici eventi, strascichi di
guerre terribili. Per quanto riguarda, per es., le foibe, Le consiglio
di leggere "Operazione Foibe a Trieste" di Claudia Cernigoi, Edizioni
KappaVu.
Si, tanti sono dovuti scappare da quelle terre: alcuni scappavano
perché sognavano il "miraggio" americano. Tanti, in particolare nel
1946 - 1947, optavano l'esilio per l'Italia, per poi proseguire verso
l'America, o l'Australia...
                                                
Distinti saluti, 
Ivan Pavicevac

"Foibe" ed espansionismo italiano

1. Nelle foibe la falsa innocenza della patria (di Enzo Collotti)

2. «Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo» (intervista a
Galliano Fogar)

3. Confine orientale: le foibe tra imperialismo e resistenza (di
Antonino Marceca)


=== 1 ===

il manifesto - 14 Febbraio 2004

FOIBE - La storia dal nulla

Nelle foibe la falsa innocenza della patria

Un groviglio di silenzi, rimozioni, pentimenti, confessioni e
riabilitazioni a metà. L'uso politico della storia è connaturato alla
classe politica italiana. Di destra e di sinistra. E così, sul solco di
una macabra par condicio, nasce la legge che istituisce la giornata
della memoria dedicata alle vittime delle foibe. Delle cui sofferenze
poco importa agli eredi dei fascisti che sono al governo. In gioco,
soltanto interessi elettorali

ENZO COLLOTTI

Quali che siano le buone intenzioni dei politici le manipolazioni della
storia producono sempre veleno. L'uso politico della storia è così
connaturato alla nostra classe politica, di destra e di sinistra, che
diventa sempre più difficile districarsi nel groviglio di silenzi,
rimozioni, pentimenti, confessioni e riabilitazioni a metà per cui il
risultato della memoria e della storia condivisa finisce per essere
sempre una verità dimezzata. Si è perduta la capacità di distinguere
tra storia e memoria, anche perché questa si impone per
l'amplificazione che ne fanno i media sempre sensibili ai gruppi di
pressione, a chi grida più forte, e soprattutto la capacità di leggere
criticamente la storia, a cominciare dalla propria storia, che viene
schiacciata dall'alternativa di essere ritenuta verità assoluta o di
essere condannata all'abiura. Un effetto devastante per una cultura
politica nella quale si finisce per affermare con cinismo ripugnante
che una memoria vale l'altra, continuando così ad eludere ogni serio
esame di coscienza sul proprio passato. Purtroppo è una metodologia
politica che ha una lunga tradizione e che non ha mai insegnato che il
vittimismo paga sempre e soltanto a destra, altro non essendo che uno
scampolo di patriottismo nazionalista, una proiezione di provincialismo
apparentemente anacronistico nel momento in cui tutti si riempiono la
bocca di afflati europeistici.

Siamo andati così avanti nel nostro cammino verso l'Europa che ora, a
sessant'anni o poco meno dalla liberazione, ci accorgiamo che è
esistito e che esiste un problema del nostro confine orientale. Credo
che delle vittime delle foibe e dei dolori e delle sofferenze di coloro
che condivisero l'esodo istriano ai politici che ne vogliono
monumentalizzare il ricordo in un secondo ambiguo giorno della memoria
interessi relativamente poco. Sono in gioco esclusivamente interessi
elettorali e riscaldare l'opinione pubblica su questi temi con gli
eredi dei fascisti al governo non può che aprire nuovi varchi nelle
infinite operazioni di mistificazione della storia con le quali, ad una
cultura legata ai valori della Resistenza e dell'antifascismo capace di
rinnovarsi e di rivedere criticamente i propri errori, si va
sostituendo una cultura diffusa fatta di parole obsolete, di miti duri
a morire, di meschino localismo, di preconcetti e pregiudizi e di vere
e proprie falsificazioni.

A quasi trent'anni dal processo per la Risiera di S. Sabba non si
vuole allargare la cerchia delle conoscenze e della ricerca della
verità, ma si vuole rovesciare un paradigma storico e non soltanto
storiografico, che dovrebbe rappresentare anche un impegno di
comportamento democratico e civile, restituendo all'Italia l'onore
dell'innocenza ed elevandola sull'altare della vittima. Ne siano o no
consapevoli i protagonisti di questa operazione, questa è la percezione
che non si può non avere del loro disinvolto modo di procedere.

E'stato giustamente sottolineato come per i protagonisti di simili
operazioni la storia cominci nel 1945. Ma ciò che accadde nel 1945 e
non solo in Italia ma su scala continentale europea, non è che un
momento di passaggio di qualcosa di molto più complesso che ha un
prologo molto più lontano. Per crudeli e spiacevoli che possano essere
i fatti del 1945, di cui nessuno può auspicare una ripetizione, essi
non sono scaturiti dal nulla, a meno appunto di accettare un criterio
di atemporalità che può consentire di riabilitare categorie
vetero-antropologiche e di contrapporre all'Italia faro di civiltà la
sempiterna barbarie slava. Ma pensavamo che simili metafore
appartenessero ormai alla cattiva propaganda di un lontano passato.
Evidentemente così non è se ci troviamo a dover cercare di riportare i
fatti alle loro origini e alle loro dimensioni. Foibe ed esodo
dall'Istria sono sicuramente due episodi ben distinti accomunati
problematicamente dal fatto di rappresentare due fasi del processo
storico avviato con la sconfitta del fascismo e con la dissoluzione
dello stato italiano nel settembre del 1943; ma l'origine di questi
sviluppi risalgono molto più indietro negli anni ed è difficile
comprenderne la logica, ci piaccia o no, estrapolandoli dal contesto
nel quale presero corpo. E questo contesto non è rappresentato soltanto
dall'aggressione alla Jugoslavia nel 1941, ma è costituito dal
complesso della politica condotta dall'Italia (purtroppo anche prima
dell'avvento del fascismo) nei confronti del nascente stato dei
serbi-croati e sloveni e successivamente della rilevante minoranza
slava (sloveni e croati) che si trovò inclusa nei confini del regno
d'Italia al termine della prima guerra mondiale. E' noto e arcinoto che
nell'euforia della guerra l'Italia liberale non fu in grado di arginare
il montante nazionalismo imperialista che guardava all'Adriatico come a
un mare interno italiano ed osteggiava perciò la creazione di uno stato
degli slavi del sud. Una politica che ebbe il suo prolungamento ed il
suo culmine nella ostinata avversione con la quale il regime fascista
guardò costantemente alla vicina Jugoslavia, considerandola, al di là
del gioco delle influenze internazionali, come possibile area da
sottomettere alla propria influenza e al limite da disgregare,
alimentando in funzione dei propri obiettivi il separatismo croato e
l'irredentismo di Pavelic e degli ustaÜa. Peggio ancora, dal punto di
vista interno l'avvento del fascismo significò l'esasperazione di una
politica di snazionalizzazione violenta delle comunità nazionali slave
e mano libera accordata al nazionalismo estremo del cosiddetto
«fascismo di frontiera», che è stato fatto oggetto di importanti studi
da parte di una generazione di storici critici della tradizione
storiografica nazionalista (Apih, Sala, Anna Vinci e altri).
L'equiparazione italiani uguali fascisti non è stata una invenzione
degli slavi ma una equazione inventata dal fascismo all'atto di operare
una vera e propria «pulizia etnica» nella Venezia Giulia, rendendo la
vita impossibile alle popolazioni locali, impedendo l'uso della lingua,
sciogliendone le amministrazioni, chiudendone le scuole,
perseguitandone il clero e le manifestazioni associative, boicottandone
lo sviluppo economico, costringendole all'emigrazione. L'espressione di
«genocidio culturale» che è stata adoperata per definire la condizione
della minoranza slava alla luce della vastissima documentazione
esistente risulta corretta.

Ma neppure la contrapposizione frontale tra italiani e slavi è stata
inventata dai titini. Anch'essa fu uno dei cavalli di battaglia del
«fascismo di frontiera». Qualche anno fa, ragionando sulle modalità del
grande e intimidatorio processo che il Tribunale speciale celebrò a
Trieste nel dicembre del 1941 mi ponevo il problema del perché in
quella circostanza il regime avesse voluto unificare in un unico
processo almeno tre diversi filoni dell'opposizione slovena al regime e
concludevo che doveva trattarsi di una circostanza riconducibile non a
strategie processuali ma ad una strategia politica «come per il passato
rivolta a una contrapposizione frontale nei confronti degli slavi». Ne
trovo conferma in una recentissima ricerca appena pubblicata
dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel
Friuli Venezia Giulia dedicata a tre dei processi che il Tribunale
speciale per la difesa dello stato celebrò a ridosso del confine
orientale (Puppini - Verginella - Verrocchio. Dal processo Zaniboni al
processo Tomazic. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale
1927-1941 Udine, 2003). Come scrivono gli autori «al Tribunale speciale
spetta il compito di ristabilire l'ordine affermando sia il primato
della razza e della civiltà italiana, sia il ruolo giocato da un
confine che funge da barriera con un mondo barbaro e inferiore».

Nell'aprile del 1941 l'aggressione alla Jugoslavia segnò un'ulteriore
escalation del livello di violenze e di sopraffazione, con l'annessione
al regno d'Italia della Slovenia, la cosiddetta «provincia di Lubiana».
Ne derivarono da una parte l'esportazione del «fascismo di frontiera»
con il suo carico di lutti e di violenze, dall'altra la saldatura delle
opposizioni slave nella Venezia Giulia alla ribellione degli sloveni
della provincia annessa. La violenza della repressione italiana ebbe
poco da invidiare alle spedizioni punitive dei tedeschi in altre parti
della Jugoslavia. Esecuzioni in massa, incendi di località,
deportazioni in campi di concentramento nel territorio occupato o
all'interno dei vecchi confini del regno d'Italia (Gonarsi, Renicci).
Impressionante la documentazione che possediamo, tra la quale spiccano,
oltre a pochi studi italiani (Cuzzi, Sala, ora Rodogno), tre volumi
documentari dello storico sloveno Tone Ferenc, scomparso da poche
settimane, uno dei quali stampato a Lubiana nel 1999 reca per titolo Si
ammazza troppo poco, da una frase del generale Mario Robotti,
comandante dell'XI Corpo d'armata di stanza in Slovenia. Saremmo
curiosi di sapere se i libri di questo compianto amico sloveno
entreranno tra i materiali con i quali scuole e istituzioni «culturali»
dovrebbero celebrare questo secondo giorno della memoria, che di fatto
vuole essere un ambiguo contraltare a quello del 27 gennaio, ne siano o
no consapevoli i compiacenti politici. Ai quali dovrebbe essere noto
anche che nessuno dei responsabili dei crimini commessi in Jugoslavia è
mai stato chiamato a rispondere del suo operato, qualcuno anzi su di
essi ha costruito la progressione di una onorata carriera.

La tragedia delle foibe si inserisce in questo contesto. Fu Giovanni
Miccoli nel 1976, all'epoca del processo della Risiera, a rigettare
energicamente l'accostamento foibe-Risiera e a sottolineare la
necessità di considerare il problema delle foibe nel quadro della
risposta ai crimini del fascismo prima o dopo il 1941. E' da questa
presa di coscienza che sono ripartiti gli studi, resi difficili e
complicati dalle interferenze politiche e dall'impossibilità di
arrivare a determinazioni statistiche certe, una impossibilità che di
fronte allo sforzo più equilibrato di riportare il fenomeno a
dimensioni attendibili ha lasciato libero campo a quanti erano
interessati a gonfiare le cifre a dismisura, per fare colpo
sull'opinione pubblica per ragioni che nulla avevano a che vedere con
la ricerca della verità.

Nel corso degli anni successivi la ricerca ha fatto notevoli progressi
facendosi strada a fatica tra le ricorrenti polemiche dell'estrema
desta, l'unica ad avere come punto di orientamento esclusivamente
l'odio antislavo e l'unica anche a non avere mai cambiato nulla nel suo
bagaglio politico-culturale. Contrariamente a quanto si continua a
ripetere, le foibe non sono mai state un tabùù per la pubblicistica e
la storiografia antifascista; nella nuova fase degli studi cessarono di
essere un tabù anche per la storiografia slovena, tanto che la
commissione mista di storici italo-slovena ha potuto consegnare nel
2000 ai rispettivi ministeri degli esteri un ampio rapporto contenente
ipotesi interpretative e ricostruttive dei rapporti tra i due popoli in
cui il problema delle foibe è collocato in una corretta
contestualizzazione e tenendo conto dei risultati acquisiti dalla
storiografia.

Il complesso iter delle conoscenze e del dibattito storiografico è
ricostruito in un lavoro recentissimo a cura di due storici di una
generazione nuova (anche se non più giovanissima) di studiosi cui
spetta il merito di avere rotto lo schema della contrapposizione
frontale tra gli opposti nazionalismi (nessuno dei quali è migliore
dell'altro) (Raoul Pupo -Roberto Spazzali, Foibe, Milano, Bruno
Mondadori, 2003). Almeno due sono i suggerimenti interpretativi che
emergono dalla loro ricognizione; anzitutto la corretta
contestualizzazione nel quadro generale del secondo conflitto mondiale:
«E' difficile concepire le stragi delle foibe senza l'educazione alla
violenza di massa compiuta nell'Europa centro-orientale a partire dal
1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne seguì». In
secondo luogo un generale spostamento dell'ottica dalla quale guardare
al problema delle foibe, che rifiuta la tesi del «genocidio» a danno
degli italiani per riportare le violenze del 1943 e soprattutto del
1945 nell'alveo della dinamica del processo di conquista del potere da
parte del movimento rivoluzionario capeggiato da Tito, in un incrocio
di lotta di classe e di lotta nazionale in cui evidentemente l'essere
italiani «costituiva un fattore di rischio aggiuntivo tutt'altro che
trascurabile».

Lo stesso contesto nel quale, alla luce della situazione
internazionale di allora e dei rapporti di forze, si inserisce anche la
vicenda dell'esodo dall'Istria, che suggellava la posizione di
sconfitta dell'Italia e che ripeteva le modalità di altri coatti
movimenti di popolazioni (nei fatti non nelle procedure) che avvennero
su larga scala in altre parti d'Europa. Che allora non si fossero
trovati strumenti per tutelare i diritti delle minoranze nazionali fu
certo una grossa lacuna della nuova sistemazione che le potenze
vincitrici si apprestavano al predisporre per l'Europa, ma fu anch'esso
un retaggio della devastazione dell'Europa operata dalle potenze
fascista e nazista. Diverso sarebbe il discorso sui limiti
dell'integrazione degli esuli nella società italiana, che implicherebbe
un discorso specifico tutto interno alla politica italiana.


=== 2 ===

il manifesto - 11 Febbraio 2004

«Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo»

A colloquio con lo storico triestino Fogar: «Gli eredi del Msi ci
parlino di cosa avvenne prima delle foibe»
MATTEO MODER
TRIESTE

Il messaggio di Ciampi a Storace per la giornata dei valori nazionali
è solo la ciliegina sulla torta delle celebrazioni - il ricordo
dell'esodo degli istriani, giuliani e dalmati - che vengono presentate
da An del tutto fuori dalla storia. La tragedia delle foibe e
dell'esodo dalle terre perse - perché il fascismo fu sconfitto - viene
così presentata come esclusivo frutto della violenza «slavocomunista»,
materializzatasi dal nulla per abbattersi terribile su tutto ciò che
era italiano. Lo storico triestino Galliano Fogar, uno dei maggiori
conoscitori delle vicende storiche di queste terre di confine - dove il
ventennio fascista imperversò, ancor prima dell'invasione della
Jugoslavia, con una violenta opera di snazionalizzazione nei confronti
di tutto ciò che non era «italiano» e perciò «fascista» - non vuole
rassegnarsi al fatto che la storia venga dimezzata, che l'ignoranza e
la disinformazione su quanto realmente è avvenuto qui, in quella che fu
la Venezia Giulia, la facciano da padrone e che perfino gli eredi
dell'ex Pci si appiattiscono sulle tesi antistoriche di Alleanza
Nazionale. «An fa nascere la storia - dice - dal 1945, dall'occupazione
di Trieste da parte delle truppe di Tito. Io rispetto ciò che dice
Ciampi per il fatto che gli italiani dell'Istria, di Fiume e di Zara
dovettero abbandonare le terre perse, ma anche lui dimentica di
ricordare che tutto ciò, anche se certamente da condannare
assolutamente sul piano umano e morale, ebbe il suo terreno di coltura
nella violenza fascista e nell'invasione e disgregazione della
Jugoslavia da parte italiana e tedesca. Senza questo - aggiunge - non
si può discutere, non esiste una storia a metà».

«Era quello che volevo dire l'altro giorno a Fassino e Violante -
continua Fogar - quando sono venuti a Trieste per aderire alla proposta
di Roberto Menia (An) di istituire il 10 febbraio, giorno della firma
del Trattato di Pace di Parigi, nel 1947, la giornata della memoria
dell'esodo e per fare un "mea culpa" attribuendo al Pci di allora colpe
ed errori di valutazione. Ma io mi domando - aggiunge - come può
Fassino dire che il Pci sbaglio "perché l'aggressione fascista alla
Jugoslavia non poteva giustificare in nessun modo la perdita di
territori né l'esodo degli Italiani"? Ma è stata quella la causa
scatenante, l'Italia fascista è stata responsabile e corresponsabile
con la Germania di Hitler delle devastazioni e delle stragi che hanno
insanguinato l'Europa. Cosa dovrebbero dire gli ebrei, i polacchi, i
russi, i milioni che sono stati sterminati?».

Ma Fogar non ha potuto parlare, la conferenza stampa di Violante e
Fassino, come ha sottolineato il segretario triestino dei Ds, Bruno
Zvech, «era solo per giornalisti». «Io sono giornalista dal 1946 -
ricorda lo storico - e ho vissuto in prima persona gli avvenimenti di
queste terre e conosco la terribile ignoranza della grande stampa
nazionale e della Rai sulle vicende storiche della Venezia Giulia, dove
gli infoibati, "tutti italiani e solo perché italiani", sono a seconda
delle "disinformazioni" 10, 20, 50mila e i profughi 350mila, quando
l'Opera profughi giuliano dalmati e non certo il Soviet supremo ne
censì fino al 1960 204mila, più altri 40-50mila non censisti e che
hanno preferito allontanarsi senza lasciar traccia di sé».

Indifferenza, ignoranza, bassa politica elettorale, sono i fattori che
impediscono una lettura veramente storica dei fatti, per lasciarli
sospesi in un limbo pseudopatriottico, ignorando del tutto le colpe
fondamentali del fascismo di frontiera in Istria prima e poi nella
Jugoslavia occupata. «Fassino ha detto poi - spiega Fogar - che bisogna
ristabilire la verità storica, assumersi le proprie responsabilità, non
leggere quella vicende - foibe e esodo - che non sono così
consequenziali, se non nella visione antistorica degli eredi dei
fascisti - come una modalità dello scontro fascismo-antifascismo, come
secondo lui fece il Pci allora, perché "andava letta come una
manifestazione di un nazionalismo pericoloso che ha provocato molti
danni e sofferenze in quella parte d'Europa e torna periodicamente a
risvegliarsi". Certo - prosegue - c'era questa componente nel comunismo
di Tito, ma se non si racconta quello che è avvenuto prima come si può
capire, si sposano solo tout court le tesi di An che sono quelle del
Msi, che sono poi quelle repubblichine che perseguitano queste terre
dal 1943, dalle prime foibe istriane. Tralasciamo pure - rileva lo
storico - le nefandezze del fascismo tra le due guerre e partiamo dal
1940, quando l'Italia entra in guerra. La causa storica della nostra
disgrazia delle foibe e del calvario dei profughi è la guerra fascista,
l'occupazione della Jugoslavia, la politica di persecuzione, di
deportazione e di stragi, come nel 1942 a Podhum, vicino a Fiume quando
91 abitanti del paese, considerato "sospetto" dall'esercito e dalla
milizia fascista, furono fucilati e gli 800 abitanti deportati. La
destra attuale, gli ex missini - incalza Fogar - ben si guardano dallo
storicizzare le foibe e l'esodo con i quali tanto si riempiono la
bocca, perché dovrebbero per primi fare ammenda di quanto è successo.
Questi eredi dei missini, che hanno continuato a spadroneggiare e a
compiere atti di inaudita violenza a Trieste dal 1948 a tutti gli anni
Ottanta, e non solo contro comunisti e slavi ma contro gli esponenti e
i militanti di quegli stessi partiti democratici che avevano fatto
parte del Cln e che avevano difeso, pagando anche con la vita,
l'italianità di Trieste e di parte dell'Istria. Di questo non parlano,
ma di questo - conclude Fogar - parlano i nostri libri dell'Istituto
regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia
Giulia, le indagini di polizia, le inchieste della magistratura, anche
se furono sempre troppo indulgenti verso questi "difensori
dell'italianità" che flirtavano con Avanguardia Nazionale e Ordine
Nuovo, con le cellule nere di Freda e Ventura. Si parta da questa
storia, ammettano le colpe del fascismo e dopo parleremo di giornate
dell'esodo e delle foibe, fatti tragici, fatti tremendi ed esecrabili,
ma che non sono nati da un buco nero della storia».


=== 3 ===

PROGETTO COMUNISTA
giornale dell'Associazione marxista rivoluzionaria
Progetto comunista - sinistra del PRC
febbraio 2004 - n. 5 nuova serie - anno II - Euro 2,00
(per informazioni: redazione@...
oppure scrivere a: Redazione Progetto comunista - via Ghinaglia, 93 -
26100 Cremona)

CONFINE ORIENTALE: LE FOIBE TRA IMPERIALISMO E RESISTENZA

Una storia che merita di essere conosciuta... prima che la riscrivano

di Antonino Marceca


Appena eletto alla presidenza del Friuli-Venezia Giulia, Illy si recò a
Lubiana in Slovenia, a Venezia dal presidente del Veneto Galan, a
Villaco presso il governatore della Carinzia Haider, in Istria dal
presidente Jakovcic e infine in Croazia dal presidente Mesic e ogni
volta propose ai rispettivi interlocutori la realizzazione
dell'Euroregione. Un progetto che vede l'appoggio del presidente del
Veneto Galan ed il sostegno dei presidenti della Confindustria del
Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Un quadro di relazioni
istituzionali mirante al controllo imperialistico della regione
orientale. Interessi strategici imperialistici verso l'oriente che per
quanto riguarda l'Italia possiamo considerare storici. Per limitarci al
'900 con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e
Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in
caso di vittoria nella guerra imperialistica del 1914-1918,
l'assegnazione all'Italia del Trentino, del Sud Tirolo, la
Venezia-Giulia, la penisola dell'Istria, gran parte della Dalmazia e
delle isole adriatiche. Conclusa la prima guerra mondiale, crollato
l'Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilisce la costituzione
del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il nuovo assetto pone la
necessità di definire i confini con l'Italia, mentre migliaia di
sloveni si trovano sotto occupazione dell'esercito italiano ed aspirano
a ricongiungersi al nuovo stato jugoslavo. Gli sloveni per quanto
riguarda l'Italia, non si facevano illusioni: i loro connazionali delle
Valli del Natisone, passati sotto l'Italia nel 1866, avevano subito da
allora un costante e sistematico processo di "snazionalizzazione". Il
combinato disposto dell'occupazione militare e dell'iniziativa
nazionalistica (impresa di G. D'Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel
Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegna all'Italia nuovi
territori: l'Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso,
Lussino, Lagosta e Pelagosa, infine nel 1927 la città di Fiume. La
regione assume il nome di Venezia Giulia. La borghesia slovena benché
disponibile alla collaborazione con il governo italiano, a condizione
di preservare la propria identità e ruolo sociale, trova nel governo di
Roma, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare
gli "alloglotti", come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste,
avamposto colonialista verso l'oriente, diviene terreno fertile per lo
sviluppo del fascismo: "di fronte ad una razza inferiore e barbara come
la slava" afferma Mussolini percorrendo la Venezia Giulia nel settembre
1920 "non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella
del bastone". Nel 1921 la federazione fascista di Trieste è la maggiore
d'Italia, nel maggio del 1920 vengono create le "squadre volontarie di
difesa cittadina", bande armate fasciste, sotto la direzione di Giunta,
che scatenano aggressioni contro la classe operaia delle industrie
tessili, cantieristiche, minerarie e contro le popolazioni slovene e
croate. Tutti i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati
vengono aggrediti e distrutti: società corali, società sportive, sale
di lettura, circoli dopolavoristici, le scuole.
Nel 1920 a Trieste è incendiato il Narodni Dom, sede delle associazioni
culturali ed economiche slovene. Il fascismo si identifica con
l'italianità e conquista il consenso della borghesia liberalnazionale
triestina. Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la
repressione acquista il timbro delle leggi dello stato. Il regio
decreto del 15 ottobre 1925 proibisce l'uso delle lingue diversa da
quella italiana. La lingua slovena e serbo-croata viene rimossa da
tutti i luoghi pubblici e dalle insegne, con il regio decreto del 7
aprile del 1927 viene imposta l'italianizzazione dei cognomi, vengono
soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali,
ricreative, economiche slovene e croate. La scuola è al centro della
politica di "snazionalizzazione", gli insegnanti di lingua slovena
vengono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investe
anche i preti slavi in quanto "si ostinano a celebrare le funzioni
religiose in lingua slovena", e in Italia "si prega in italiano".
Contro questa azione di feroce repressione, contro l'imperialismo
coloniale italiano si organizza la resistenza, in particolare si
formano due organizzazioni clandestine, la T.I.G.R. (dalle iniziali
slovene di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la "Borba" (lotta) che
affermano la parola d'ordine dell'unione alla Jugoslavia, in
particolare nella T.I.G.R. all'inizio degli anni '30 emerge la figura
di Pinko Tomazic che pone l'obiettivo di una repubblica slovena
inserita nel quadro di una confederasione di repubbliche sovietiche
balcaniche. Negli anni '28-'30 gli agricoltori slavi sono costretti a
mettere all'asta le proprietà, acquisite da coloni italiani mediante
l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli
anni '27-'43 condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e
croati è particolarmente feroce. La stessa cultura della foiba (1)
viene utilizzata da nazionalisti e fascisti, in canzoni e in poesie nei
testi scolastici, per intimorire con la minaccia di finire "in fondo
nella foiba" le popolazioni slave. Il 6 aprile 1941 l'Italia, assieme
alle forze dell'Asse, sferra l'aggressione alla Jugoslavia, che viene
smembrata; l'Albania era stata occupata nell'aprile 1939. Dalla
spartizione della Jugoslavia l'Italia incorpora la Slovenia
meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro,
le isole e la regione della Carniola, costituendo la nuova Provincia di
Lubiana e il Governatorato della Dalmazia; a Sud incorpora all'Albania
la Macedonia meridionale e il Kosovo, il Montenegro diviene un
protettorato. L'occupazione fu contrassegnata da particolare durezza:
incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio italiani (202
complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e
tedeschi, eccidi di rappresaglia, rastrellamenti, fucilazioni ed
impiccagioni. Dopo l'invasione nazifascista a Lubiana il 27 aprile 1941
si costituisce l'OF, Osvobodilna Fronta (Fronte di Liberazione
Sloveno), a cui aderiscono personalità indipendenti e gruppi di
ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito
comunista sloveno (2). L'OF inizia la resistenza armata con l'obiettivo
dell'indipendenza nazionale e l'unificazione della Slovenia nel quadro
della Jugoslavia federativa, organizza forze prevalentemente contadine
e popolari. Le forze liberalconservatrici slovene, espressione della
borghesia nazionale, restano in attesa della fine del conflitto o
collaborano con l'occupante. La risposta italiana è la repressione
civile e militare: nell'aprile del 1942 a Trieste viene istituito
l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si caratterizzerà per
i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell'8
settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000
persone deportate, pari al 10% della popolazione, quasi 13.000 edifici
distrutti, 9000 danneggiati, ed un numero di fucilati, caduti in
combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell'ordine di
alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani). Dopo l'8 settembre
1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l'esercito
regio, i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la
Wehrmacht occupa i centri strategici della Venezia Giulia, le città
portuali di Trieste, Pola, Fiume, l'area industriale di Monfalcone,
Gorizia ma per carenza di forze trascura l'entroterra. Il vuoto di
potere nella penisola istriana è presto riempito dall'insurrezione
popolare e contadina, coinvolge la popolazione italiana dei centri
costieri e quella slava dell'interno, presenta connotazioni di
liberazione nazionale e lotta di classe, ad una fase spontanea con
fenomeni di jacquerie segue l'assunzione del controllo
politico-militare da parte del Novj (l'esercito di liberazione). Una
liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone
circa un mese. Tra l'11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj
occupano Pisino, nel cuore dell'Istria, organizzandovi il Comando
operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccano i simboli e i
rappresentanti dello stato colonizzatore: podestà e segretari comunali,
fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle
campagne i coloni e i mezzadri attaccano i possidenti terrieri
italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, in
particolare nella zona di Albona, con una forte tradizione di lotte
operaie e socialiste, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e
capisquadra. Mentre la maggior parte vengono arrestati e concentrati
soprattutto a Pisino, in questo contesto alcune centinaia (300-500) di
vittime della furia popolare vengono gettate nelle foibe istriane. La
propaganda nazifascista utilizzerà il fenomeno delle foibe istriane per
incitare all'odio antislavo, moltiplicando il numero e sottolineando la
nazionalità italiana delle vittime. Il primo ottobre 1943 con
l'Operazione Nubifragio le forze armate tedesche rioccupano tutta
l'Istria, il loro passaggio segna decimazione di massa, distruzioni,
incendi, i morti sono migliaia. I territori riconquistati vengono uniti
alle altre aree del confine nordorientale e organizzati nella
Operationszone Adriatisches Kustenland (Zona Operazioni Litorale
Adriatico) comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola,
Fiume, Lubiana, nelle quali l'autorità suprema è un commissario alle
dipendenze di Hitler. L'Amministrazione tedesca emana una serie di
disposizioni e ordinanze, nomina prefetti e podestà, assegna ad ogni
amministrazione un consigliere tedesco. I giovani di leva vengono
incorporati nella Wehrmacht o nella organizzazione tedesca del lavoro
coatto Todt. Vengono pubblicati giornali e riviste in lingua tedesca,
slovena e serbo-croata, viene quindi ridimensionata la politica di
snazionalizzazione delle popolazioni slave. Il potere decisionale a
tutti i livelli è accentrato in mani tedesche, dai tribunali al
controllo poliziesco, quest'ultimo è gestito dal generale Odilo Lotario
Globocinik, capo delle SS del Litorale, stimato da Himmler per
l'attività svolta nei campi di sterminio in Polonia. A Trieste
organizza nel rione industriale di San Sabba, in edifici già utilizzati
per la pilatura del riso, un lager che funziona come campo di
smistamento, concentramento e sterminio. A San Sabba trovano la morte
migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni e
croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei. Per larga parte della
comunità italiana della Venezia Giulia, la borghesia e larghi strati di
piccola e media borghesia la creazione della Zona del Litorale
Adriatico, la presenza della Wehrmacht è una garanzia contro la
minaccia "slavo-comunista". A Trieste la borghesia industriale e
finanziaria vede nella annessione al Reich il rilancio commerciale
della città, porto meridionale del Reich. Nella Venezia Giulia si
costituiscono corpi volontari di milizie fasciste che collaborano col
comando tedesco: la Polizia annonaria, la Guardia Civica-Stadtshutz, la
Milizia Difesa Territoriale, la X Mas, la Guardia di Finanza, inoltre
collaborano con l'occupante anche forze slovene: Slovenski narodni
varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti domobranci
e Slovensko domobranstvo (difesa territoriale Slovena). All'interno
della popolazione italiana della Venezia Giulia gli operai di Trieste,
Monfalcone, Fiume e delle cittadine costiere istriane diedero origine a
formazioni quali la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità
Operaia che collaborano con la resistenza jugoslava nella prospettiva
della rivoluzione socialista, prospettiva che le organizzazioni egemoni
del movimento operaio italiano (PCI e PSI) non sostengono provocando
grosse contraddizioni tra quadri e militanti comunisti. Il PCI infatti
partecipava attraverso il CLN al Fronte popolare con i partiti borghesi
(DC, PDA, Monarchici, Liberali), e a questa alleanza subordina
l'indipendenza di classe. In Jugoslavia il PCJ, pur aderendo alla
politica dei Fronti popolari, in presenza di una borghesia nazionale
legata al capitale straniero, tipica di un paese semicoloniale, le cui
forze politiche collaboravano con l'occupante o restano passive, è
costretto dalla dialettica della rivoluzione a superare la fase
democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma
agraria) fino a liquidare una borghesia che queste esigenze non aveva
risolto o risolto parzialmente. Un intreccio di contraddizioni
nazionali e di classe che si riversano nel movimento partigiano della
Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel CLN, qui le forze
borghesi, liberali e cattolici, si oppongono per ragioni di classe
alla rivoluzione jugoslava, tale avversione porterà, come nel caso
delle Brigate Osoppo, alla collaborazione con forze fasciste in
funzione antislava e anticomunista. La situazione politico-militare
costringe gli inglesi a limitare il controllo alla parte occidentale
della regione, per l'importanza strategica delle comunicazioni verso
Nord, in particolare Trieste e Gorizia, rinunciando all'ipotesi greca.
L'offensiva finale jugoslava inizia il 20 marzo 1945 e sono i reparti
del Novj ad arrivare il 1° maggio per primi a Trieste e Gorizia
anticipando le armate britanniche, con essi collaborano le formazioni
partigiane comuniste. Il CLN triestino, costituito dal PSI, PDA, DC, e
Liberali, oscilla tra l'attesa e l'insurrezione, in attesa dell'arrivo
degli inglesi da avvio all'insurrezione mediante il Corpo Volontari
della Libertà, ma questi si scontrano con le forze jugoslave e si
ritirano dalla lotta. Le forze neozelandesi raggiungono Trieste e
Gorizia il 2 maggio, la situazione rimane aperta per circa un mese fino
a quando i governi inglese ed americano costringono le forze jugoslave
a ritirarsi da Trieste e Gorizia. Il nuovo potere jugoslavo nelle zone
liberate si basa sull'Armata, sulla Difesa popolare, sull'Ozna, il
servizio segreto, mentre mancano strutture consiliari tipo i soviet.
L'obiettivo è affermare prima possibile la nuova sovranità jugoslava,
epurare l'apparato amministrativo e di polizia, prelevare i reazionari
e trasferirli per processarli in campi di prigionia in Slovenia, altri
vengono fucilati dopo la cattura o la resa. Nemici vengono considerate
le forze armate dello stato imperialista, le formazioni fasciste, le
forze antislave e anticomuniste tra cui aderenti al CVL del CLN
triestino. In questo quadro, tra il maggio-giugno del '45, si
ripresenterà il fenomeno delle foibe nell'entroterra carsico di Trieste
e Gorizia con aspetti simili al precedente istriano. Da una ricerca
accurata svolta da C. Cernigoi e pubblicata nel libro Operazioni foibe
a Trieste nella provincia triestina le vittime finiti nelle foibe sono
circa 517 di cui 112 della Guardia di Finanza, 149 della Pubblica
Sicurezza, 115 delle Forze armate, 105 civili, tra questi
collaborazionisti e spie. Siamo sicuri che la propaganda reazionaria e
liberaldemocratica, per esorcizzare la rivoluzione proletaria,
continuerà a rivangare di "migliaia di martiri delle foibe", di
"partigiani rossi e violenti", mentre i riformisti, come Bertinotti,
pur di allearsi con i liberali giureranno sulla nonviolenza, per parte
nostra con Marx, Lenin e Trotsky riaffermiamo la necessità della
rivoluzione socialista fino a quando le masse proletarie di questo
pianeta non si saranno liberate dal capitalismo e dall'imperialismo.


1) Geologicamente sono un aspetto tipico del paesaggio carsico,
indicano le fenditure di diametro variabile, profonde decine di metri,
provocate dall'erosione millenaria delle acque nelle rocce calcaree.
Usati dagli abitanti dei luoghi per far sparire ciò di cui intendevano
disfarsi: oggetti, animali, ma anche vittime di tragedie private o
delle violenze della storia.

2) Sulla storia dei comunisti jugoslavi vedi le schede del n°24 di
Proposta del maggio 1999 e il Quaderno, a cura del centro P. Tresso,
A. Ciliga, Come Tito si impadronì del PCJ.

Slovenia: le micidiali conseguenze della secessione dalla Jugoslavia
per l'economia della piccola repubblica


Sulle micidiali conseguenze della liberalizzazione dell'economia in
Slovenia vedi:
Delocalizzazione ad est: la manodopera slovena è troppo cara
http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2722 )

---

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2789

La Slovenia ed i mercati del sud est

Gorenje, Lasko, Radenska. Marche ben conosciute nei mercati delle ex
Repubbliche della Jugoslavia. Con l’entrata nell’UE però i prodotti
sloveni subiranno dazi all’export che influiranno sino del 30% sui loro
prezzi. A Lubjana intanto ci si attrezza.

(11/02/2004)

Di Donald F. Reindl – Radio Free Europe
Traduzione a cura dell’Osservatorio sui Balcani

La Slovenia già percepisce i vantaggi economici che potrebbero arrivare
con l’Unione europea, in particolare l’accesso libero ai mercati
europei. Ma l’allargamento potrebbe creare anche problemi ad alcuni
settori dell’economia slovena.

Il primo maggio decadrà automaticamente il trattato di libero scambio
firmato dalla Slovenia con le altre Repubbliche dell’ex-Jugoslavia ed
ai beni sloveni si applicheranno nuove tariffe doganali sino a
raggiungere, in alcuni casi, un 30% del prezzo originale. Lo riporta il
quotidiano “Delo” dello scorso 28 dicembre.

Le nuove tariffe riguarderanno tutti i membri dell’Unione ma avranno
naturalmente effetti in particolare sulla Slovenia che conserva forti
legami economici con i mercati del sud est Europa. France But, Ministro
per l’agricoltura sloveno, su “Delo” del 3 gennaio sottolinea come le
nuove regole colpiranno in particolare il settore agro-alimentare
dell’industria slovena.

L’Unione Europea non ha alcun accordo sul commercio con la Bosnia
Erzegovina ed ha accordi asimmetrici con la Croazia e la Macedonia.
Permette loro di esportare alcuni beni a tariffe ridotte nel mercato
europeo ma non può avvenire viceversa.

Prima del crollo della Jugoslavia, nel 1991, la Slovenia godeva di una
posizione privilegiata nel mercato interno jugoslavo grazie alle sue
industrie ben strutturate ed una manodopera altamente specializzata.
Materia prime o semilavorati venivano inviati da altri luoghi della
Jugoslavia in Slovenia dove venivano trasformati in beni finiti poi
esportati verso l’occidente o rivenduti, con profitto, nelle altre
Repubbliche.

Nel 1949 l’ideologo comunista Edvard Kardelj ed il Ministro per
l’economia Boris Kidric – entrambi sloveni – decisero di promuovere in
Slovenia un’industrializzazione più rapida che in altre parti del
Paese, avvantaggiandosi del relativamente già avanzato stadio di
sviluppo della regione. Questa ed altre decisioni lanciarono la
Slovenia ai vertici della modernizzazione economica nel sud est europeo.

Le tensioni nazionali iniziarono a disgregare il modello economico
jugoslavo ben prima che crollasse la Jugoslavia. Più il benessere
cresceva più gli sloveni percepivano negativamente la necessità di
ridistribuire, attraverso il budget federale, la ricchezza con altre
Repubbliche meno sviluppate, investendola in industrie datate e on
poche prospettive.

Accuse di sfruttamento arrivavano da entrambe le parti in causa: gli
sloveni si lamentavano di essere privati di risorse che avrebbero
potuto investire in modo più efficiente autonomamente; le altre
Repubbliche affermavano che la crescita slovena avveniva sulle loro
spalle. Gli economisti Mojmir Mrak e Joze Damijan descrivono bene come
si decise di imporre sui beni sloveni una sorta di dazio, il che portò
lentamente il mercato interno al collasso (vedi la loro ricerca
[commissionata dall'attuale regime nazionalista antijugoslavo, ndCNJ]).

Dopo l’indipendenza la Slovenia ha ricostruito molti dei legami
economici che aveva con le Repubbliche jugoslave. Nonostante i maggiori
partner commerciali rimangano Germania ed Italia, sia per quanto
riguarda le importazioni che le esportazioni, intensi rapporti, per
quanto riguarda le esportazioni, esistono anche con la Croazia, la
Bosnia Erzegovina, la Macedonia e la Serbia Montenegro. Per l’export
però la questione è diversa. La Croazia, nel 2003, è il quinto Paese
dal quale la Slovenia importa maggiormente. Ma nessuna delle altre
Repubbliche è riuscita ad entrare tra i primi 20 Paesi dai quali la
Slovenia si rifornisce.

La Slovenia, rispetto alle altre ex Repubbliche, ha una bilancia
commerciale sempre in attivo. Da un minimo del 200 per cento ad un
massimo del 600 per cento. Il mercato del sud est Europa è estremamente
attraente per i settori industriali sloveni meno competitivi vista una
domanda di bassa qualità. In particolare per quello agricolo, quello
alimentare, quello chimico e per quanto riguarda il legname. Un solo
esempio riportato da “Delo”. Il 30% della produzione di latte slovena
viene esportato, l’85% di questo verso Paesi della ex-Jugoslavia.

Questi ultimi hanno poco da offrire in cambio. Sempre su di un articolo
di “Delo” si nota come nel 2003 la Slovenia ha esportato beni in
Montenegro per un valore di 51 milioni di dollari mentre ne ha
importati solo per un controvalore di 78 mila dollari. Il Montenegro
poco può offrire oltre al turismo, il vino ed i distillati.

Dati simili anche per quanto riguarda i rapporti con la Macedonia. 23
milioni di export, per la maggior parte acqua minerale, carne in
scatola e salumi e 6 milioni di import: vino, tabacco e pomodori che
vengono diretti verso nord. La Macedonia sarebbe interessata ad
aumentare le proprie esportazioni verso la Slovenia di metalli e
prodotti chimici.

Un modo con il quale la Slovenia ha provato a riequilibrare il rapporto
import-export è quello degli investimenti diretti nelle altre ex
Repubbliche. Lo scorso anno 220 aziende slovene sono state registrate
in Bosnia Erzegovina. E sembra ve ne siano molte altre interessate. Nel
settembre del 2003 Dragan Covic, membro della Presidenza bosniaca,
approfittò di una visita ufficiale a Lubiana per invitare gli
imprenditori sloveni a partecipare, nel febbraio 2004, ad una fiera per
gli investitori organizzata a Mostar. La Slovenia è già attualmente uno
dei maggiori investitori stranieri [SIC] in Bosnia Erzegovina.

Le altre ex Repubbliche jugoslave vedono l’entrata della Slovenia
nell’UE come un’opportunità per rettificare l’andamento delle bilance
commerciali. “Delo” lo scorso 28 dicembre notava come gli importatori
spesso venivano attaccati sui media macedoni quali responsabili di
bilance commerciali pesantemente passive.

D’altro canto gli imprenditori sloveni temono invece che, dati i nuovi
dazi, a trarne vantaggio potrebbero essere i colleghi serbi, che
potrebbero aumentare le loro fette di mercato alle spese della Slovenia.

Vi è un chiaro interesse sloveno a proteggere i propri interessi
commerciali nel sud est Europa che emerge anche dal pieno appoggio che
viene dato all’allargamento dell’Unione verso sud. “Ma questo deve
avvenire in tempi relativamente rapidi perché i prodotti sloveni non
godranno all’infinito di vantaggi comparati derivanti da marchi già
conosciuti nel sud est Europa”, ha commentato a “Delo” Silvester Cotar,
della Camera di Commercio slovena.

Inoltre la somiglianza delle lingue parlate e le affinità culturali non
potranno che significare, nel riavvicinamento tra le ex Repubbliche,
opportunità economiche. [SIC]


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

Da: ICDSM Italia
Data: Gio 12 Feb 2004 17:35:16 Europe/Rome
A: Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.
Oggetto: [icdsm-italia] N. Clark: The Milosevic trial is a travesty


[L'editorialista del Guardian Neil Clark: "Il processo Milosevic e' una
messinscena. La necessita' politica impone che l'ex leader jugoslavo
sia dichiarato colpevole - benche' le prove non sussistano"...]


http://www.guardian.co.uk/print/0,3858,4856972-103677,00.html

Comment

The Milosevic trial is a travesty

Political necessity dictates that the former Yugoslavian leader will be
found guilty - even if the evidence doesn't

Neil Clark

Thursday February 12, 2004
The Guardian

It is two years today that the trial of Slobodan Milosevic opened at
The Hague. The chief prosecutor, Carla Del Ponte, was triumphant as she
announced the 66 counts of war crimes and crimes against humanity and
genocide that the former Yugoslavian president was charged with. CNN
was among those who called it "the most important trial since
Nuremburg" as the prosecution outlined the "crimes of medieval
savagery" allegedly committed by the "butcher of Belgrade".

But since those heady days, things have gone horribly wrong for Ms Del
Ponte. The charges relating to the war in Kosovo were expected to be
the strongest part of her case. But not only has the prosecution
signally failed to prove Milosevic's personal responsibility for
atrocities committed on the ground, the nature and extent of the
atrocities themselves has also been called into question.

Numerous prosecution witnesses have been exposed as liars - such as
Bilall Avdiu, who claimed to have seen "around half a dozen mutilated
bodies" at Racak, scene of the disputed killings that triggered the
US-led Kosovo war. Forensic evidence later confirmed that none of the
bodies had been mutilated. Insiders who we were told would finally
spill the beans on Milosevic turned out to be nothing of the kind. Rade
Markovic, the former head of the Yugoslavian secret service, ended up
testifying in favour of his old boss, saying that he had been subjected
to a year and a half of "pressure and torture" to sign a statement
prepared by the court. Ratomir Tanic, another "insider", was shown to
have been in the pay of British intelligence.

When it came to the indictments involving the wars in Bosnia and
Croatia, the prosecution fared little better. In the case of the worst
massacre with which Milosevic has been accused of complicity - of
between 2,000 and 4,000 men and boys in Srebrenica in 1995 - Del
Ponte's team have produced nothing to challenge the verdict of the
five-year inquiry commissioned by the Dutch government - that there was
"no proof that orders for the slaughter came from Serb political
leaders in Belgrade".

T o bolster the prosecution's flagging case, a succession of
high-profile political witnesses has been wheeled into court. The most
recent, the US presidential hopeful and former Nato commander Wesley
Clark, was allowed, in violation of the principle of an open trial, to
give testimony in private, with Washington able to apply for removal of
any parts of his evidence from the public record they deemed to be
against US interests.

For any impartial observer, it is difficult to escape the conclusion
that Del Ponte has been working backwards - making charges and then
trying to find evidence. Remarkably, in the light of such breaches of
due process, only one western human rights organisation, the British
Helsinki Group, has voiced concerns. Richard Dicker, the trial's
observer for Human Rights Watch, announced himself "impressed" by the
prosecution's case. Cynics might say that as George Soros, Human Rights
Watch's benefactor, finances the tribunal, Dicker might not be expected
to say anything else.

Judith Armatta, an American lawyer and observer for the Coalition for
International Justice (another Soros-funded NGO) goes further, gloating
that "when the sentence comes and he disappears into that cell, no one
is going to hear from him again. He will have ceased to exist". So much
then for those quaint old notions that the aim of a trial is to
determine guilt. For Armatta, Dicker and their backers, it seems that
Milosevic is already guilty as charged.

Terrible crimes were committed in the Balkans during the 90s and it is
right that those responsible are held accountable in a court of law.
But the Hague tribunal, a blatantly political body set up and funded by
the very Nato powers that waged an illegal war against Milosevic's
Yugoslavia four years ago - and that has refused to consider the prima
facie evidence that western leaders were guilty of war crimes in that
conflict - is clearly not the vehicle to do so.

Far from being a dispenser of impartial justice, as many progressives
still believe, the tribunal has demonstrated its bias in favour of the
economic and military interests of the planet's most powerful nations.
Milosevic is in the dock for getting in the way of those interests and,
regardless of what has gone on in court, political necessity dictates
that he will be found guilty, if not of all the charges, then enough
for him to be incarcerated for life. The affront to justice at The
Hague over the past two years provides a sobering lesson for all those
who pin so much hope on the newly established international criminal
court.

The US has already ensured that it will not be subject to that court's
jurisdiction. Members of the UN security council will have the power to
impede or suspend its investigations. The goal of an international
justice system in which the law would be applied equally to all is a
fine one. But in a world in which some states are clearly more equal
than others, its realisation looks further away than ever.

· Neil Clark is a writer specialising in east European and Balkan
affairs

Guardian Unlimited © Guardian Newspapers Limited 2004


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intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC

[Il seguente articolo e' apparso su "Famiglia Cristiana". Dopo una
introduzione "politically correct" che chiama in causa, a sproposito, i
"mostri" mediatici dei nostri tempi, il giornalista descrive
circostanze storiche importanti, delle quali la stampa della sinistra
opportunista preferisce non parlare...]


http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2793

Pulizia etnica all’italiana

Tra il ‘42 ed il ’43 il nostro esercito internò nel campo di Gonars
migliaia di persone: quasi 500 morirono in pochi mesi. Il progetto:
ripopolare il territorio sloveno con italiani. Un articolo di Alberto
Bobbio pubblicato su Famiglia Cristiana.


(10/02/2004) E’ una storia rimossa che emerge oggi, 65 anni dopo, con
grande difficoltà dalle pieghe della memoria. E’ la storia della
pulizia etnica all’italiana, che ha lo stesso linguaggio, nasce dalle
stesse intenzioni e procede con le stesse azioni dei signori della
guerra nei Balcani dell’ultimo decennio del secolo appena passato.
Cambiano i nomi, ma quello dell’alto commissario fascista di Lubiana,
annessa al Regno d’Italia nel 1941, Emilio Grazioli, potrebbe essere
equivalente a quelli di Milosevic o Karadzic, e a quelli dei generali
Mario Robotti e Mario Roatta al generale serbo Ratko Mladic o al croato
Ante Gotovina, criminali di guerra.

Ma nessun militare né civile italiano è mai stato processato da un
tribunale. L’Italia si è assolta e l’amnistia del dopoguerra non ha
permesso neppure di conservare la memoria giudiziaria dei fatti. Ora
qualcosa lentamente riemerge e il difetto di conoscenza e di coscienza
collettiva è tragico. Alessandra Kersevan, ex insegnante di scuola
media in Friuli, ricercatrice a contratto in didattica delle lingue
all’Universitа di Trieste, ha pubblicato, con il contributo del Comune
di Gonars, uno straordinario studio sul campo di concentramento
fascista di quel paese, ricostruendo tutta la storia della "pulizia
etnica all’italiana" in Slovenia e in Croazia.

Spiega la Kersevan: “Ho lavorato per 15 anni negli archivi sloveni a
Lubiana, all’archivio di Stato di Udine e in quelli dell’Esercito
italiano a Roma. Gonars è una faccenda tutta italiana. Tra il 1942 e il
’43 vennero internate migliaia di persone, rastrellate dall’Esercito
italiano, donne, vecchi, bambini. Quasi 500 morirono in pochi mesi”.

Ma Gonars, come le altre decine di campi di concentramento fascisti,
rimase invisibile nell’Italia del dopoguerra. Spiega il professor
Spartaco Capogreco, docente alla facoltà di Scienze politiche
dell’Università della Calabria, il maggior esperto dei campi di
concentramento fascisti, di cui a febbraio uscirа per Einaudi il volume
I campi del Duce: “E’ una storia di minimizzazioni e amnesie, che hanno
offuscato gravi e precise responsabilità e che hanno contribuito
all’affermazione di un pregiudizio, quello della naturale bontà del
soldato italiano. Va anche rilevato il potente effetto assolutorio di
Auschwitz nei confronti degli altri campi di concentramento. Ma ciò non
giustifica l’oblio, né della politica di internamento fascista né della
pulizia etnica all’italiana”.

Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Roatta, Robotti e
Grazioli fanno circondare Lubiana con reticolati di filo spinato: la
cittа diventa così un immenso campo di concentramento. Robotti spiega
al Duce il suo "metodo deciso": “Gli uomini sono nulla”, e comunica la
sua intenzione di “arrestare in blocco gli studenti di Lubiana”. I
rastrellamenti sono operati dai Granatieri di Sardegna. Il generale
Orlando, comandante della divisione, prevede lo sgombero delle persone
“prescindendo dalla loro colpevolezza”.

Alla fine di giugno Orlando comunica che con l’arresto di “5.858
persone si è tolto dalla circolazione un quarto della popolazione
civile di Lubiana”. Scrive il tenente dei Carabinieri Giovanni De
Filippis in un promemoria che Alessandra Kersevan ha rintracciato a
Roma: “Continua caotico e disorientato il procedimento dei fermi… La
popolazione vive in uno stato di vero incubo”.

La filosofia della pulizia etnica era stata indicata nella circolare
"3C" del generale Roatta: “Internamento di intere famiglie, uso di
ostaggi, distruzione di abitati e confisca di beni”.

“Internamento di massa”

Il 24 agosto 1942 Grazioli prospettava al ministero dell’Interno
“l’internamento di massa della popolazione slovena” e la sua
“sostituzione con la popolazione italiana”. Robotti spiega ai
comandanti: “Non importa se all’interrogatorio si ha la sensazione di
persone innocue. Quindi sgombero totalitario. Dove passate, levatevi
dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi
preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha
voluto lei, quindi paghi”.

In un altro rapporto, Robotti lamentava: “Si ammazza troppo poco”.
Roatta raccomandava l’uso dell’aviazione e dei lanciafiamme per
distruggere i paesi.

Il campo di Gonars, allestito per gli arrestati sloveni, in poche
settimane è pieno. In estate viene approntato in fretta e furia il
campo di tende sull’isola di Rab: donne, vecchi e bambini sono ospitati
in condizioni disumane.

Il vescovo di Krk, monsignor Srebnic, il 5 agosto 1943 in una lettera
al Papa parlerà di più di “1.200 internati morti”. Alla fine del 1942
il sottosegretario all’Interno Buffarini dа notizia al Duce che “50.000
elementi sloveni” sono stati internati in Italia.

Nell’autunno 1942 la diocesi di Lubiana fa arrivare alla Santa Sede un
documento dal tono molto preoccupato, che chiedeva interventi per
evitare che i campi “diventino accampamenti di morte e di sterminio”.
Il Vaticano la inoltra al ministero dell’Interno fascista. Risponde
proprio il generale Roatta, minimizzando la situazione, contestando i
dati e rimproverando il Vaticano: “Molte delle lagnanze affacciate dal
Vaticano sono destituite di fondamento. I comandi militari non hanno
bisogno di suggerimenti per quanto riguarda i doveri di umanità”.

Più volte la Chiesa cattolica interviene a favore degli internati
sloveni nel campo di Gonars, che alla fine del 1942 sono oltre 6.000. I
vescovi di Lubiana, Rozman, di Gorizia, Margotti, e di Krk, Srebnic,
sollecitano un’iniziativa della Santa Sede. Il segretario di Stato
vaticano, cardinale Luigi Maglione, invia a Gonars il nunzio apostolico
in Italia Borgoncini-Duca, il quale però non riesce a capire le reali
condizioni di vita e scrive che “il vitto non manca e l’acqua è
abbondante”.

Altre testimonianze raccolte da Alessandra Kersevan sono assai
diverse. Il segretario dell’arcivescovo di Zagabria Stepinac, don
Lackovic, nel ’43 denuncia alla Croce Rossa italiana che a “Gonars si
trovano oltre 4.000 croati, in maggioranza donne e bambine che soffrono
molto e muoiono in gran numero”. Il salesiano padre Tomec descrive al
Comitato di assistenza di Gorizia la terribile situazione di Gonars in
una lunga relazione: “La gente muore di fame. La minestra è acqua nella
quale nuotano due chicchi di riso e due maccheroni”. E chiede la
possibilitа di inviare pacchi di viveri ai prigionieri.

Il 27 marzo 1943 il prefetto di Udine impone all’Autorità
ecclesiastica di bloccare i pacchi per evitare che “aiuti siano
prodigati a una razza siffatta che non ha mai nutrito, né nutre,
sentimenti favorevoli all’Italia”. E a Lubiana Grazioli ordina di “far
cessare ogni assistenza in favore degli internati”.

Punizioni, torture, orrore

Slavko Malnar, ex internato a Gonars, ha raccontato alla Kersevan:
“Avevo 6 anni e pesavo 13 chili. Con altri bambini cercavamo il cibo
nei bidoni della spazzatura. Se trovavamo qualche grosso osso lo
spaccavamo per succhiare il midollo. Mia madre era incinta. Mio
fratellino è nato il 3 febbraio 1943. E’ morto qualche mese dopo”. Poi
c’erano le punizioni, le torture, insomma, l’orrore di ogni campo di
concentramento.

Oggi non c’è più traccia del campo di Gonars. Nel cimitero del paese
sono sepolti 400 internati, ricordati da un grande sacrario costruito
nel 1973.

Spiega il sindaco Ivan Cignola: “Ricordare la tragedia e riconoscerne
le responsabilitа italiane non è solo un problema storico, ma anche di
sensibilità civile”. Tutti i protagonisti di questa vicenda non sono
mai stati incriminati: Emilio Grazioli venne arrestato dopo la guerra
per due eccidi commessi in provincia di Ravenna. Le accuse circa il suo
operato a Lubiana non vennero menzionate. Tornato subito in libertà,
sparì.

Dei vari comandanti del campo di Gonars solo l’ultimo, il capitano
Macchi, noto per la sua ferocia, venne ucciso dai partigiani nel 1944.
Il generale Robotti è morto ed è stato dimenticato.

Il generale Roatta riparò in Spagna. Poi usufruì di un’amnistia. Una
sua foto è tuttora appesa alle pareti dell’Archivio storico dello Stato
Maggiore dell’Esercito.

Alberto Bobbio – Famiglia Cristiana


Vedi anche:

Le “vacanze al confino” viste dalla Slovenia
http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.view1&NewsID=00

I lager in Italia
http://www.nonluoghi.info/article.php?sid=9


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

IL RATTO GLORIFICATO
(con sentite scuse ai ratti)

MONDOCANE fuorilinea

9/2/04

Fulvio Grimaldi


Di solito in tivù la messa cantata la fanno a dio, in San Pietro, con
tanto di papa, in poche grandi occasioni, Natale, Pasqua, un nuovo
pontefice. Ma c'è un personaggio in questo paese che l'ha avuta
celebrata pur non essendo né dio, né papa e non essendoci nei paraggi
né Natale, né Pasqua, ma solo l'imminenza di un voto in parlamento:
quello sulla legge Boato che rende al capo dello Stato in esclusiva la
facoltà di concedere la grazia a un condannato.
Chi sabato sera s'è trovato davanti al televisore sa di che parlo: la
"Serata Sofri" su "La 7", unica televisione di regime
italo-imperial-sionista che non appartenga materialmente a Silvio
Berlusconi, pur se, evocato dal conduttore e da quasi tutti i
partecipanti alla cerimonia, il cavaliere P2 aleggiava benevolo e
solidale nello studio durante tutte le tre ore tracimate dagli schermi
su una buona fetta di italiani in preda allo stupore. Stupore, a volte
sgomento, ingiustificati poiché forse nessuno in tempi moderni, neppure
Gorbaciov, neppure il più modestino Occhetto, o, più recenti, certi
epigoni rifondaroli, possono vantare, a livello patrio, i meriti e i
crediti accumulati dal protagonista della trasmissione nei confronti di
quella eletta schiera che la trasmissione l'ha voluta, fatta e amata:
la setta di cannibali regnante in Occidente.

Un grande filosofo, riferendosi a Budda, Maometto e Cristo (pur
distinguendo tra esistenza storica reale del secondo, virtuale degli
altri due) aveva parlato dei "Tre Grandi Impostori", adombrando un loro
ruolo nella costruzione dell'architettura planetaria del dominio di
classe e del massacro degli sfruttati. Si parva licet...anche Adriano
Sofri, assente fisicamente dagli schermi, causa condanna per mandato
d'omicidio, ma spurgato in ispirito da tutti i pori della conventicola
riunitasi a cantargli pater-ave-gloria, merita di essere posto sugli
altari - di questi continua a trattarsi nell'era delle "libertà
durature", delle "guerre preventive" e della "spirale
guerra-terrorismo" - dei grandi impostori garanti dell'ordinato
svolgersi delle cose. Questo era l'imperativo di quel circolo della
caccia che malelingue si ostinano a definire cosca, o loggia, o lobby,
o sezione Mossad (l'assenza di Giuliano Ferrara non consente di
inserire il segmento CIA) e che si è impegnata nell'allestimento della
prima beatificazione in assoluto, con messa cantata televisiva, di un
laico non ancora defunto, giudicato in tutti i gradi omicida, e però
grandissimo traghettatore di masse traviate da ambiti e impeti
rivoluzionari nel campo opposto dell'identificazione con - e
dell'assoggettamento al - potere costituito, per quanto guerrafondaio,
carnefice e, all'occorrenza nazista, possa faziosamente essere definito.

Il parterre era affollato, con tanto di giovanilistici culi per terra a
suggerire reminiscenze sessantottine, cosa che non poteva non
confortare, insieme a tanti nostalgici, anche una Rossanda da sempre
fuorviata dalla sua immensa generosità a difendere il "Sofri vittima
della vendetta contro il '68", come prima gli infiltrati nell'"album di
famiglia" travestiti da brigatisti rossi Lo schieramento voleva
apparire trasversale, ma ci voleva l'insistenza dell'anfitrione Gad
Lerner nel dichiararsi prodiano per riequilibrare una platea che
pencolava, giustamente secondo l'assunto, drasticamente a destra.
Certo, non mancava qualche reduce, sennò che senso avrebbe avuto
l'esaltazione del percorso del beatificato, e ai margini del convegno
un paio di strapuntini erano stati riservati ai soliti garanti
liberalsinistri del pluralismo. Che so, un conavigatore della coppia
DS-Dash Roversi-Blady di nome Davide Riondino, oppure un comico, tale
Paolo Haendel, che, stralunato, si trovava a dover recitare
l'impresentabile prosa logorroica e ambigua, seriosamente turgida e
totalmente priva di spirito, di un autore che non pare essere mai
riuscito a superare i conati stilistici del liceale.

Mi rendo conto che corro dei rischi a contrappormi a tanto convito. Un
giornalista investigativo, Attilio Bolzoni, che aveva scritto un libro
sull'assassinio di Mauro Rostagno, dirigente di Lotta Continua e intimo
di Sofri, finito a Trapani in una cosca di trafficanti - Saman -
travestita da comunità terapeutica ("Assassinio tra amici"), mi aveva
detto anni prima:"Chi tocca quella lobby muore". Vedremo. Una messa
cantata, quella per Sofri, che più universale e onnicomprensiva non si
potrebbe neanche per Garibaldi. L'unità nazionale abbozzata dal
generale viene qui sublimata in una sintesi a 360 gradi di tutto il
mondo che, tra parlamento e il suo fedele riflesso mediatico, conta e
comanda. Quale commovente volemose bene, quali supremi tarallucci e
vino, quale massima espressione dell'eterno ecumenismo nazionalitario,
dell'intima intesa dell'italiano medio con i poteri che prevalgono.
Tifosi della Juventus o della Roma, certo, ma tutt'un embrassons nous
nell'adorazione del pallone e del suo impero, per marcio e mafioso che
possa essere. Restava fuori dalla lerneriana palude, al freddo,
sprezzato ed escluso, chiunque avesse qualche riserva sulla
glorificazione. Presenti nemmeno in sagoma, come quelle di Lucarelli in
"Blù Notte", le decine di ragazzi, bruciati sui vent'anni dallo Stato
e dai suoi fascisti, che avevano dato retta a Sofri, leader di Lotta
Continua, garante della rivoluzione necessaria e imminente, e che non
avevano fatto in tempo a schivare pallottole o botte mortali prima che
il leader e il suo sodale, Giorgio Pietrostefani, curatore a Parigi di
"Saman Francia" e della flotta contrabbandiera al servizio del
latitante Craxi, chiudessero bottega e mandassero a ramengo una
generazione che nella politica aveva impegnato tutto il suo futuro.

C'era Suor Cecilia, ispirata monaca del Carcere di Pisa che ripeteva,
come l'Al di "Odissea nello spazio", cadenzate, ma tenere giaculatorie
umanitarie su quello e su tutti i detenuti, suffragata con più sostanza
dal sanguigno cappellano dello stesso istituto.: "E' un padre, un
fratello maggiore per gli altri, si adopera per tutti". E buon per
Sofri che tutti, fuori, si adoperano per lui. Chiudendo con un ispirato
e benedicente sorriso, Suor Cecilia calava l'asso: "Io so che il
Presidente può dare la grazia, me l'ha detto mia nonna..."
Incontrovertibile. La chiosa di Gad Lerner, solenne, compunto: "Noi,
però, trasmettiamo sottovoce, con umiltà e cautela. Il destino di un
uomo non può essere trascurato da nessuno". Qualche migliaio di
condannati per reati politici, sprofondati nell'oblio perché incapaci
di farsi accogliere e celebrare sulle pagine di "Panorama", "Il
Foglio", "La Repubblica", annuivano in silenzio. Tombale. Umilmente e
con cautela hanno sollevato perorazioni e novene un'altra ventina di
astanti. Si susseguiva in formidabile sintonia il fior fiore
dell'intellettualità d'ordine italiana. Carlo Ginzburg, annoso
denunciatore delle malefatte giudiziarie nei confronti dell'agnello
sacrificale, ribadiva le vergogne dei giudici. Appariva da una
finestrella il capofila dei picchiatori di palestinesi, Mario Pirani, e
rivendicava di essere stato tra i primi firmatari dell'appello per la
grazia, in combutta nientemeno che con Bobbio e Foa. Lui, intrecciato a
Sofri nel comune auspicio dell' "israelizzazione" del Medio Oriente
(sic) e dell'americanizzazione del mondo. Gli altri due, cui l'eroica
solidarietà con la vittima delle vittime rasserenava una coscienza già
fugacemente increspata dal dolce ritorno senile nei dorati salotti
dell'establishment e della rispettabilità nazionale. Si accavallavano,
a rischio di decadere in tiritere tutte uguali, gli interventi, nomi,
volti e orazioni di illustri rappresentanti dell'etica e della
giustizia. L'ispido Socci, rancoroso conduttore di un talk-show di
estrema destra chiamato "Excalibur", sentenziava che "Sofri non è più
l'uomo che il tribunale ha giudicato" (difatti se allora stava con i
patrioti stragisti ceceni, oggi sta con gli eroici marines di Baghdad).
La quasi intera famiglia Feltri, Vittorio e Mattia, del quotidiano
chiamato con sfottò oscarwildiano "Libero", snocciolava commossa il
rosario delle imprese del "Sofri scrittore e viaggiatore". Luis
Stevenson, Celine, Chapham e perfino Rudyard Kipling impallidivano.
Veltroni, sindaco di Roma e specialista di testacoda ideologici, si
annoverava fiero tra i 371 parlamentari firmatari della richiesta di
grazia e, in stretto connubio super partes con Berlusconi, Cohn Bendit,
Casini, presidente democristo del Senato, Ciampi, capo dello stato e
antifascista di sicura fede, e un altro capriolista, l'enigma di genere
Bondi, portavoce di Forza Italia, giurava che si sarebbe battuto alla
morte per la proposta di legge Boato (un ex-lottacontinuista, costui,
bastonatore di magistrati quanto Sgarbi, ma da destra inavvertitamente
scivolato tra i Verdi).

Aggrappato come un polipo al collegamento esterno, in spregio al
solenne annuncio lerneriano dell'imminente epifania di Marco Panella,
Veltroni insisteva perorando che "la pena non deve essere vendetta,
specie laddove fioriscono segni e prove del ravvedimento, e, a
proposito, mi ricordo dei tanti segni dati da Sofri fin da quando,
inviato a Sarajevo per "L'Unità" che allora dirigevo, fu una delle
persone che spostò la sinistra sulla linea dell'intervento
umanitario....le sue straordinarie riflessioni... l'esemplare
dignità... l'alto senso delle istitutizoni... l'umana
solidarietà...bla-bla- bla... ". Non so se Veltroni e il coppiere
Lerner siano rabbrividiti, ma in quel momento chi non fosse corazzato
di sharonbushismo ebbe a percepire una ventata gelida fin nelle ossa e
sentire come il garrulo cinguettìo dell'accolita sofriana fosse
penetrato da flebili voci. Voci lontane, come soffocate sotto le
macerie di una verità sottoposta al più terribile dei bombardamenti
umanitari: 160.000 serbi della multietnica Sarajevo sterminati o
espulsi per sempre dalla loro città, cancellati da una "società civile
internazionale" dalle zanne come ghigliottine; decine e decine di donne
e bambini nel mercato di Sarajevo frantumati dagli ordigni del loro
presidente Izetbegovic, con lo stesso meccanismo degli attentati
dell'11 settembre, per addossarne la strage ai serbi innocenti e
fornire alibi e supporto morale agli stermini bombaroli della Nato; i
morti di Sebrenica che ancora rivendicano la verità sui massacri subiti
dai propri correligionari, mujahedin di Al Qaida-Cia. La Jugoslavia
sbranata da carnefici transnazionali coalizzati e un branco di
trombettieri ammantati di umanitarismo che spianano la strada ai
carnefici nella coscienza degli ignari, rovesciando in perfetta
malafede la verità del boia e della sua vittima nel proprio opposto:
Woytila, Panella, l'interetnico Langer, che sproloquiava di verginali
intese interetniche sorvolando con salto triplo su torti e ragioni, le
compagnie di giro di preti e Ong, la cosca giornalistica mondiale,
nessuno escluso, e, più bugiardo e cinico di tutti, indiscutibile
garante del consenso a sinistra e nell'intellettualità, Adriano Sofri.

E' un attimo. La storia quelle voci le ha bell'e seppellite. La
geografia le ha distanziate nello spazio, fuori dai diritti, dalla
vista e dalla comunicazione. Il frastuono celebrativo nello studio
tutto macina e tutto rigenera. Ruminano le stesse formule il dc
berlusconide Marco Fellini - "Sofri ha svolto ragionamenti di
eccezionale nobiltà e libertà: oggi la libertà di Sofri è un pezzo
della libertà di tutti gli italiani" - e il senatore forzista avv.
Contestabile che, convinto dell'innocenza di Previti, Dell'Utri e
Berlusconi, è, con ferrea logica, altrettanto convinto di quella di
Sofri. E con ciò non gli fa un gran favore. Un altro forzista a 18
carati, Biondi, quello del tentato "colpo di spugna" su tangentopoli da
ministro della giustizia (!) col Berlusconi I, vola altissimo:"ci sono
problemi che dire non può la filosofia dei giudici", Shakespeare
nientemeno, e pour cause, visto che Pisa rinchiude un emulo di Jago. E
poi chiude con "quel reo non è più lo stesso", rendendo doveroso
omaggio a chi da assalitore di tutti i palazzi d'inverno
dell'ingiustizia e dello sfruttamento ha saputo farsi mangiatore di
operai panelliano, esperto di mangiatoie craxiste, fido consulente del
Martelli candidato prediletto di Cosa Nostra, nobilitante frequentatore
e cantore di tagliagole ceceni, assoldati e addestrati in Afghanistan
dalla Cia perché, sequestrando e massacrando innocenti e ignari per
tutte le Russie, guadagnassero territori e oleodotti all'impero.

Recita la sua particina di sodale in tante imprese "umanitarie"
balcaniche il vecchio compagno Daniel Cohn Bendit e per lo studio passa
un tremito di compatibile eversione. Che però è subito riassorbito
dall'assicurazione che "Dany il rosso" collima su Sofri, tema
dirimente, sia con Berlusconi, che con Fini, glie l'hanno assicurato
entrambi. "Ci vuole per Sofri una grande maggioranza trasversale, che
già esiste nel mondo intellettuale e culturale italiano". Vero, Dany,
maggioranze trasversali al potere ci vogliono, altro che la vecchia
"fantasia" di maggio! Solo che il tuo monito che la riabilitazione di
Sofri sia "un grande segnale per l'Europa" rischia di spaventare un bel
po'. Un Giuda al posto di Gesù nelle aule scolastiche?

E poi Enzo Bianco, vetta intellettuale del parlamento e primo
firmatario insieme a Biondi, che, da ex-ministro degli interni, non si
risparmia una doverosa lancia spezzata per il commissario Calabresi e
la sua famiglia (al defenestrato Pinelli discretamente neanche un
accenno). E Stefano Folli in registrazione, opportuno quanto altri mai
poiché direttore del "Corriere della Sera" per suoi meriti di fedeltà
berlusconide e per demeriti in campo iracheno e di interessi
configgenti del predecessore Ferruccio de Bortoli: "Siamo tutti
convinti che meriti la grazia. E' molto diverso da trent'anni fa, è un
protagonista del dibattito culturale del paese". Concetto, questo,
della diversità tra il reprobo di trent'anni prima e il maestro
dell'etica e dell'estetica contemporanee, involontariamente
contraddetto da un volto liscio e roseo evocato a tutto schermo dal
kibbutziano Lerner, con sottopancia "Gennaro Sasso, filosofo". Sasso,
infatti, proclama Sofri "un raro caso di straordinaria ed estrema
coerenza a proprio rischio e pericolo". Ma anche lui torna ai più
suggestivi toni del dramma esistenziale, profusi a piene mani da tutta
la congrega, quando dall'estrema coerenza, passa al suo contrario,
alla catarsi figliolprodighista che, in questo paese, intenerisce assai
più della coerenza: "Tra quelli che ho conosciuto è colui che ha saputo
realizzare la critica più serena e radicale del proprio passato. Dopo
LC, un impegno sempre totale che comportava grandi sacrifici..."

E il pensiero, lacerato tra coerenze muzioscevoliane e inversioni a U
damascene, tutte comunque epiche, non sa se soffermarsi sul Sofri
fregoliano che arronzava disoccupati napoletani, insorgenti reggini,
gasparazzi torinesi (da "Gasparazzo", l'operaio Fiat immigrato eternato
da un grande disegnatore, morto per portare il giornale di Sofri in
giro per l'Italia) e rilanciava la rivoluzione socialista in coro con i
Vietcong, per poi invertire la rotta e stendere vele all'uragano del
recupero capitalista e del marcio istituzionalizzato, del nazismo
sharoniano e del planeticidio sionista-statunitense. Oppure su un altro
Sofri, davvero straordinariamente coerente, che, complice l'ottusità
senile di un vertice PCI revisionista, statizzato e autoreferenziale,
rintronato dall'ossimoro supremo "partito di lotta e di governo" che
poi ha generato i noti mostri, sabota il più grande antagonismo
dell'Italia nel dopoguerra, lavorando gomito a gomito con la CIA nella
persona del socio editoriale Robert Cunningham, longa manus della
sovversione USA in Italia, padrone della tipografia di "Lotta
Continua", quando ne ero il direttore responsabile, e compare di Sofri
in numerose altre imprese "commerciali", fino a quando l'intera baracca
viene rilevata dai socialisti e da Claudio Martelli, in società con il
confesso provocatore CIA Giuliano Ferrara (un simpatico ricordino che
illustra il rigore della coerenza sofrista è quello che vedeva il
sottoscritto bersagliato da oltre 150° processi per reati di stampa,
tutti attribuibili alle intemperanze redazionali dell'"irresponsabile"
Sofri, mentre lo stesso, all'insegna del "cazzi tuoi", brigava impune
con il "compagno americano"). Coerenza estrema per davvero, e
ininterrotta fino alle operazioni "umanitarie" dell'intellettuale
organico dell'imperialismo nei Balcani e in Caucaso e fino al suo
supporto etico-lettario a tutte le soluzioni finali che il likudnismo
israelo-anglosassone, con i suoi ascari massonico-mafiosi tra Volga e
Po, va eseguendo dall' Afghanistan all'Iraq, dalla Palestina
all'America Latina.

"Sarà dunque Sofri - come si esalta Gennaro Sasso - una grande risorsa
per la vita intellettuale e politica di questo paese, un paese che di
personaggi come lui ha oggi grande bisogno". Un bisogno, per Sasso,
evidentemente non ancora soddisfatto da Lunardi e Bossi, Bondi e
Schifani, la camarilla di Arcore e i fascisti postmoderni di Fini, i
flagellanti alla Fassino e Bertinotti, il bombarolo all'uranio,
opusdeista e loggiarolo, di Gallipoli, o i corifei del sofrismo assurti
a sovrani dei media e a campioni d'inquinamento da ridicolizzare
Starace buonanima

La catena di Sant'Antonio lerneriana non finisce di snocciolarsi e a
uno Stenio Solinas del "Giornale" segue il capodigiunatore panelliano
Franco Corleone e Chiara, l'orfana del Moroni socialista suicida di
tangentopoli, oggi demichelisiana di quel Nuovo PSI che si percepisce
con forchetta in mano sullo strapuntino arcoriano, esasperato dai
lunghi digiuni e vorace più che mai. Ma il momento clou,
l'ospite-bomba, il climax non può non materializzarsi nelle spoglie
stazzonate, sempre più devastate da chissà quali nefandezze, del
guru-arlecchino. Marco Panella non perde l'occasione per trarre dal
cilindro lo stupefacente sposalizio dei contrari ontologici:
appassionata navigazione negli oceani di sangue delle aggressioni
imperialiste e, insieme, nobili tenerezze, delicate sensibilità quali,
tra le altre, l'amicizia, la riconoscenza, l'amore, oh sì l'amore, per
un Sofri visitato due volte al giorno e che in questi anni "è venuto
secernendo una non violenza ghandiana nuova, anzi socratico-ghandiana".
Tanto ghandiana quella non violenza, paiono ancora sussurrare i
fantasmi di prima che ora paiono sprigionarsi dalla ragnatela di quel
volto d'avvoltoio inflaccidito, da averci fatto ghandianamente uccidere
ovunque chiedessimo verità e giustizia. Ma Pannella sa anche come
volgere una celebrazione in una mobilitazione: "Con Sofri stiamo
lavorando a un'enorme manifestazione..." Inavveduto, dimentico
dell'aria che, spettri o non spettri, tira là dove si officiano
liturgie imperiali, lo spettatore per un attimo pensa al 20 marzo,
giorno della manifestazione mondiale contro la guerra all'Iraq, il
razzismo sionista, le occupazioni, il colonialismo, lo sfoltimento
demografico, la fascistizzazione, la tortura, le punizioni collettive,
gli autoattentati terroristici. Errore! Non sono ambiti familiari a un
Panella, o un Lerner, o un Ezio Mauro, direttore del tabloid Repubblica
(guai se fosse mancato!), o un Feltri (dioceneguardi!), o un Pirani, o
un Giulio Salierno ex-picchiatore fascista assassino, radioso in studio
nella grazia su di lui discesa fin dagli anni '50, o un Carlo Rossella,
o un Luigi Manconi, o un'ormai matroneggiante Kanita Focak,
precipitatasi da Sarajevo per informare il mondo che, all'epoca dei
suoi anni belli, Sofri sosteneva Sarajevo, oltrechè ripetendo inganni
Nato e vaticani, recando a lei balocchi e profumi.

No, ad altro evento Panella andava accingendosi insieme al fratello dei
tagliagole wahabiti al soldo della Cia: "un'enorme manifestazione
contro il genocidio in Cecenia". A Mosca, nello stesso momento,
andavano raccattando dai binari del metrò ancora una volta i lembi
umani di una carneficina perpetrata dal patriottismo democratico degli
amici in Cecenia di Sofri, Panella e Osama Bin Bush. Ma su questo né
Panella, né Lerner, né un tardivo, ma parimenti solidale Furio Colombo,
frequentatore dello stesso insediamento di Sofri, nulla avevano da
dire. Altro da dire invece, e non poteva che essere così, aveva la
signora Nelli Norton, polacca, che completava la beatificazione di
Sofri con il racconto di un altro miracolo: la liberazione della
Polonia. "Al tempo della rivolta anticomunista, dei primi scioperi di
Solidarnosc, non solo portava soldi, ma anche messaggi, bigliettini
clandestini, faceva da portavoce dei prigionieri, era il nostro
corriere...Ha contribuito alla libertà e alla democrazia che oggi
abbiamo in Polonia". Ovviamente in quello studio nessuno ha tirato
fuori un libro paga dei viaggiatori in Polonia per controllare se Sofri
fosse stato, per quei servigi preziosi, adeguatamente ricompensato.

Chiude Gad Lerner, che ricordo giovane, talentuoso e prediletto
discepolo di tanto maestro negli anni '70 (me lo rivedo in testa a
cortei filopalestinesi, pensate l'astutissima lungimiranza!) e poi,
come altri di quella che indulgentemente vollero chiamare "la lobby",
avviato ai fasti, se non del potere, quanto meno dei cantori del
potere: Enrico Deaglio, Carlo Pannella, Paolo Liguori, Andrea
Marcenaro, Franca Fossati, Toni Capuozzo, Gianni Riotta, Paolo Mieli...
ragazzi che squadra! Chiude Lerner, rimuovendo un tarlo
democraticistico che gli deve aver infastidito la pur coriacea
coscienza: il coro ha cantato, ma il controcanto? "Nessun
contradditorio", taglia corto, "superfluo e fuoriluogo".

Sofri sugli altari, laici, ma non dissimili da quelli su cui sono stati
posti i missionari apripista dei massacratori spagnoli in Messico, di
Padre Pio, trafficante e mago in Puglia, del cardinale Stepinac,
protettore di nazifascisti in Croazia, di madre Teresa di Calcutta,
istigatrice del culto della povertà, foraggiata da tiranni sanguinari
centroamericani per fingere assistenze mediche e praticare sevizie
antiaboriste alle donne, promuovendo al contempo stragi etniche in
Kosovo. Se ci stanno loro perché non Sofri? Ed è in questo fulgore di
autentica santità che, in apoteotico coronamento, scende dagli schermi
il volto del ragazzo invecchiato senza maturare, accartocciato nel
groviglio delle sue disonestà , quello di sempre, dall'occhio freddo
di caimano. Scende e ancora una volta intossica il mondo da Sarajevo,
sua prova suprema di coerenza: " I serbi, armati fino ai denti,
vogliono un mondo da cui siano cancellati tutti quelli che non sono
serbi".

S'è visto come è andata a finire.

Sottotitoli, sigla e il povero Paolo Haendel che riesce ancora a
infilare un "A presto, Adriano!". Che dio lo perdoni.

Noi invece ad Adriano Sofri, le cui gesta hanno sporcato la vicenda di
una generazione di coraggiosi e generosi, ricordiamo un'ovvietà: tu
potrai chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con te.
Per quanto sta in noi, te lo garantiamo. Nel nome di tutti quelli su
cui è passata la tua ombra di menzogna e di morte.

-----Ursprüngliche Nachricht-----
Von: HKampffmeyer
Gesendet: Donnerstag, 12. Februar 2004 22:43
Betreff: Projekt "NATO-Kriegsopfer klagen auf Schadenersatz" -
Veranstaltungshinweis


Liebe Freunde und Unterstützer,

wir möchten Euch / Sie auf eine besondere Veranstaltung aufmerksam
machen. Zur Unterstützung des "Varvarin"-Projektes werden Jürgen
Elsässer und Rolf Becker (beide Erstunterzeichner des Spendenaufrufs)
in Hamburg mit dem Sprechstück "Sanjas letzter Tag" auftreten.

Hier alle Daten (im Anhang als RTF-Datei):

Sanjas letzter Tag

Premiere am 22. März im Hamburger "Polittbüro", Steindamm 22, 20.00
Uhr. Eine wahre Geschichte aus dem Jugoslawienkrieg, aufgeschrieben von
Jürgen Elsässer, rezitiert von Rolf Becker

Am 24. März 2004 jährt sich der NATO-Angriff auf Jugoslawien zum
fünften Mal. Oh wie schön befreit ist Kosovo, wird man dann wieder aus
dem Volksempfänger hören. Die verantwortlichen Politiker wünschen keine
Nestbeschmutzung.

Das Polittbüro präsentiert eine Bilanz der sogenannten humanitären
Intervention aus der Sicht eines Kollateralschadens, eines
fünfzehnjährigen Mädchens: Sanja Milenkovic starb am 30. Mai 1999 bei
der Bombardierung des mittelserbischen Städtchens Varvarin, eines
Fleckens ohne jede militärische Bedeutung.

"Meine Liebe, paß gut auf Dich auf, und komm' nicht so spät nach
Hause!", gab die Mutter Sanja an diesem Morgen mit auf den Weg. Die
beiden anderen Mädchen kicherten, winkten, ihre Mütter hatten dasselbe
gesagt, so etwas sagen Mütter immer. "Sei nicht albern, Mami, wer soll
ein kleines Dorf angreifen? Noch dazu am Sonntag?" Sanja zog einen
Flunsch. Die drei hatten sich hübsch zurechtgemacht, mit etwas Gel und
Haarlack die Haare hochtoupiert, Sanja hatte am Morgen noch Lippenstift
und Lidschatten von der Mama stibitzt. Das blaue T-Shirt, die weiße
Cordhose und die weißen Turnschuhe standen ihr gut. Vielleicht traf sie
ja die Jungs aus der alten Klasse wieder? Auf so einem Kirchenfest war
immer etwas los, selbst jetzt, im Krieg, denn der Krieg war weit weg,
und außerdem war es Sommer.

"Pilot: Ich verlasse jetzt die Wolken. Ich sehe immer noch nichts.
Basis: Setzen Sie ihren Flug fort. Richtung Nord 4280. Pilot: Ich bin
unter 3.000 Fuß. Unter mir eine Kolonne von Fahrzeugen. Eine Art von
Traktoren. Was soll das? Ich verlange Instruktionen. Basis: Wo sind die
Panzer? Pilot: Ich sehe Traktoren. Ich nehme nicht an, daß die Roten
die Panzer als Traktoren getarnt haben. Basis: Was sind das für
komische Geschichten? So ein Ärger! Da stecken sicher die Serben
dahinter. Zerstören Sie das Ziel! Pilot: Was soll ich zerstören?
Traktoren? Gewöhnliche Fahrzeuge? Ich wiederhole: Ich sehe keine
Panzer. Ich verlange weitere Informationen. Basis: Es ist ein
militärisches Ziel. Zerstören Sie das Ziel! Ich wiederhole: Zerstören
Sie das Ziel!"

Jürgen Elsässer hat diese wahre Geschichte für sein neues Buch
"Kriegslügen" (Kai Homilius Verlag) aufgeschrieben, Rolf Becker wird
sie vorlesen. Autor und Schauspieler werden nach der Rezitation mit dem
Publikum diskutieren.

Auszüge aus: Jürgen Elsässer, "Kriegslügen" (das Buch erscheint am 22.
März 2004)


MfG
Cornelia Kampffmeyer
- Projektrat -

BEOGRADSKI FORUM: Okrugli sto o nacionalnim i drzavnim prioritetima - u
Beogradu, 28. februara


http://www.artel.co.yu/sr/reakcije_citalaca/2004-02-04.html

BEOGRADSKI FORUM ZA SVET RAVNOPRAVNIH
Beograd, 22.01.2004.

Poštovani,

Beogradski Forum je na svojoj nedavnoj godišnjoj Skupštini pokrenuo
pitanje potrebe utvrdivanja kljucnih nacionalnih i državnih interesa u
Srbiji, odnosno u Srbiji i Crnoj Gori. Povoljan prijem ovog predloga,
obrazloženog u nekoliko referata, podstakao je Forum da pojaca rad na
ovoj temi uz saradnju šireg kruga kompetentnih licnosti.

U tom cilju Vas pozivamo na okrugli sto koji ce raditi u subotu,

28. februara pre i popodne, sa pocetkom u 10 sati

u Etnografskom muzeju u Beogradu, Uzun Mirkova 1
(sala u prizemlju).

Tema kljucnih nacionalnih i državnih interesa je od ogromnog znacaja,
ali je do sada bila zanemarena. Ona zahvata širok krug pitanja cija
razrada i ostvarenje zahtevaju i odredenu strategiju razvoja. Još se,
nažalost, nalazimo u položaju kada je potrebno pokušati da se postigne
saglasnost o manjem broju, ali kljucnih, nacionalnih i državnih
interesa. Prihvatanje jednog koherentnog jezgra kljucnih interesa,
postizanje konsensusa kljucnih društvenih cinilaca o tome - moglo bi da
pokrene proces postepenog izlaska iz sveobuhvatne krize. Beogradski
forum ovom raspravom želi da skrene pažnju relevantnih cinilaca i
javnosti na tu preku potrebu i da pruži svoj doprinos njenom
ostvarivanju.

Za raspravu kandidujemo kao moguca sledeca pitanja :

" povratak i ocuvanje nacionalnog i državnog suvereniteta, slobode,
nezavisnosti i teritorijalnog integriteta,
" zajednicka država Srbije i Crne Gore na osnovu ustavno uredene
ravnopravnosti,
" nepovredivost granica Srbije i Crne Gore, kao i svih medunarodno
priznatih granica na Balkanu,
" teritorijalni integritet Srbije i poštovanje položaja Kosova i
Metohije kao autonomne pokrajine sa širokom autonomijom unutar Srbije,
" jedinstveno državno uredenje Srbije bez stvaranja novih jedinica sa
potencijalom secesije,
" osposobljavanje države za odbranu naroda i teritorije od spoljne
agresije,
" ulazak u izvorno evropske aranžmane kolektivne bezbednosti,
" suzbijanje terorizma na jugu Srbije kao dela medunarodnog terorizma,
" zaustavljanje demografske erozije u Srbiji, utvrdivawe odgovarajuce
populacione politike,
" ucvršcenje parlamentarne demokratije i državnih institucija
predstavnickog i participativnog sistema,
" medunarodni položaj i spoljna politika zasnovani na dobrosusedstvu,
otvorenosti, suverenosti i ravnopravnosti,
" regionalna ekonomska integracija, clanstvo u EU na ravnopravnoj
osnovi, uz poštovanje teritorijalne celovitosti Srbije i Crne Gore,
" slobodan i bezbedan povratak izbeglica i raseljenih lica u bivše
jugoslovenske republike,
" povratak Srba i drugog nealbanskog stanovništva na Kosovo i u
Metohiju pre pocetka dijaloga o politickom rešenju, prema rez. SB UN
1244 (1999.),
" uvažavanje interesa dijaspore kao dela srpskog naroda,
" izgradnja savremenog privrednog uredenja u vidu socijalne tržišne
privrede sa mešovitom svojinom, uravnoteženim i održivim ekonomskim i
socijalnim razvojem, uz punu zaposlenost,
" donošenje strategije razvoja, valorizacija komparativnih prednosti
(saobracaj, energetika, proizvodnja hrane i dr.), ocuvanje jezgra
privrede i prirodnih bogatstava,
" primena medunarodnih konvencija o ekonomskim i socijalnim pravima,
socijalna sigurnost i zaštita gradana i zaštita nezaposlenih,
" ocuvanje kulturnog, nacionalnog i duhovnog identiteta i njegova
odbrana od kvazikulture,
" zaustavljanje sistematskog nacionalnog odrodavanja u obrazovanju
školskoj literaturi, nauci i kulturi.
" besplatno osnovno i srednje obrazovanje, besplatno studiranje za one
koji uredno izvršavaju svoje obaveze,

Nadamo se da Vam ovaj okvir pruža mogucnost da po nekim pitanjima date
doprinos radu okruglog stola. Beogradski Forum ima obicaj da objavljuje
zbornike radova sa ovakvih skupova. Bilo bi korisno da Vaše izlaganje
bude napisano kako bi se publikacija brže pripremila.
Radi planiranja rada, molimo da najavite ucešce i temu o kojoj želite
da govorite (Sekretarijat Foruma, tel./faks: 3245 - 601).
Molimo da pojedinacna izlaganja (citanja) ne traju duže od 10 minuta.

U ocekivanju Vašeg ucešca, ostajemo

Sa poštovanjem,

Predsednik Foruma

Živadin Jovanovic.


Okrugli sto je otvoren za javnost.

---
BEOGRADSKI FORUM ZA SVET RAVNOPRAVNIH
11000 Beograd, Mišarska 6/II, Jugoslavija
Tel/Faks: (++381 11) 3245601
E-Mail: beoforum@...
www.belgrade-forum.org

Da: ICDSM Italia
Data: Ven 13 Feb 2004 10:10:04 Europe/Rome
A: Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.
Oggetto: [icdsm-italia] ICDSM Press Conference at The Hague on Tuesday,
17 February 2004


[Il prossimo 17 febbraio, all'Aia, il Comitato Internazionale per la
Difesa di Slobodan Milosevic terra' una conferenza stampa per
illustrare la situazione al termine della fase dibattimentale
d'"accusa" del "processo". I giornalisti sono calorosamente invitati ad
intervenire...]


PLEASE FORWARD THIS TO ALL MEDIA REPRESENTATIVES YOU KNOW AND ENCOURAGE
THEM TO ATTEND:

www.icdsm.org
THE INTERNATIONAL COMMITTEE TO DEFEND SLOBODAN MILOSEVIC

The ICTY Prosecution will end its case in disgrace on 19 February 2004,
more than two years after it started. Nothing has been proved against
Yugoslav President Milosevic. On the contrary, dishonesty and crimes of
the destroyers of Yugoslavia and of their quasi-court puppets and
racist persecution of the Serbian people have been in large extent
exposed by the heroic defense of the truth, performed by Slobodan
Milosevic. Their panic is expressed in the attempt to silence the truth
by putting President Milosevic's life at stake, by putting him in total
isolation and by making the preparations for his case almost impossible.

ICDSM ANNOUNCES ITS PRESS CONFERENCE

Tuesday, 17 February 2004, 13:00 at The Hague

Press will be addressed by the ICDSM lawyers:

Professor Velko Valkanov (Bulgaria),
Founder and Co-chairman of ICDSM, Chairman of the Bulgarian Committee
for Human Rights, Honorary Chairman of the Bulgarian Antifascist
Alliance,

Mr. Jacques Vergès (France),
attorney, counsel of President Milosevic out of ICTY and

Ms. Tiphaine Dickson (Québec/Canada),
attorney,

who will give their assessment of the Hague process, announce further
actions of ICDSM and answer journalists' questions.

The press conference will be attended also by Mr. Vladimir Krsljanin
(Serbia/Yugoslavia) of Sloboda/Freedom Association, foreign relations
assistant to President Milosevic and Coordinator of ICDSM.

VENUE The hall: De Statenzaal
in the Crowne Plaza Den Haag
Promenade Hotel
Van Stolkweg 1, 2585 JL Den Haag, tel.: 0031 (0)70 3525161
(five minutes of walk from the ICTY building)

ALL MEDIA REPRESENTATIVES ARE WELCOME!

---

SLOBODA urgently needs your donation.
Please find the detailed instructions at:
http://www.sloboda.org.yu/pomoc.htm

To join or help this struggle, visit:
http://www.sloboda.org.yu/ (Sloboda/Freedom association)
http://www.icdsm.org/ (the international committee to defend Slobodan
Milosevic)
http://www.free-slobo.de/ (German section of ICDSM)
http://www.icdsm-us.org/ (US section of ICDSM)
http://www.icdsmireland.org/ (ICDSM Ireland)
http://www.wpc-in.org/ (world peace council)
http://www.geocities.com/b_antinato/ (Balkan antiNATO center)



==========================
ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27
00043 Ciampino (Roma)
email: icdsm-italia@...

Conto Corrente Postale numero 86557006
intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC

http://www.slobodan-milosevic.org/news/milosevic-1987-3-eng.htm


Speech of Slobodan Milosevic at Kosovo Polje
April 24-25, 1987


There is no need for us trade places with each other in order for us
to seek accountability for you, as our colleague suggested a short
time ago in the discussion. That is our duty. When the issue is about
this unpleasant event today and the police intervention,
responsibility will take shape regarding this intervention for which
there was no reason. When our friend Mitar filled us in on what
happened in front of the building, you know well that in a single
minute we agreed that order isn't maintained by the police, but you
take this upon yourselves in the interest of the safety of the
citizens and children who are there. Proof that we correctly agreed is
that order was thoroughly maintained and that the issue is about the
people who behaved in such a lordly way.

At the conclusion of this discussion I wish to say a word or two about
how they assess, how they qualify our gatherings such as these. To be
brief, gatherings such as these aren't nationalist gatherings.
Gatherings such as these aren't gatherings of enemies. But that is
exactly why I know that the majority of the nation thinks that way in
this hall and elsewhere, we can't allow this for the very reason that
this is not a gathering of enemies, but of citizens. We can't allow
ill-wishing people to misuse nationalists which every upstanding person
must oppose. We must protect brotherhood and unity like the pupil of
our eyes. But because of exactly that, today when brotherhood and
unity are jeopardized, we must and can win. Neither do we wish, nor
are we able, to divide people into Serbs and Albanians, but rather we
must create delimiters both for the upstanding and progressive ones
that fight for brotherhood and unity and national equal rights and for
the counter-revolutionaries and nationalists on the other side.

Further, I want to tell you, have faith that not one of the problems
about which you spoke, literally not one word about them, will be left
out before the members of the Central Committee SK Serbia. And that's
not to say we're just informing them, but rather we'll solve them in
the environment of our institutional system. I feel compelled to say
this at the outset, because it isn't even physically possible to speak
of all the questions that have been raised here.

To everyone today, throughout all of Yugoslavia, it is clear that
Kosovo is a huge problem for our people that will be very slowly
solved. I must, meanwhile, tell you that Kosovo has been the only
problem, or at least the only larger problem for the Yugoslav people,
that could surely be solved
faster and better.

But Kosovo has struck us as the weightiest problem during a difficult
economic crisis, when standards have fallen drastically, when prices
have climbed, when there are more unemployed.

And that's how it is a political crisis: Yugoslavia is a nation
unsettled by separatists and nationalists as you well know in many of
your areas, even those not far from here on Kosovo, and at last, when
anti-Yugoslav and anti-communist forces are all the more present and
all the more aggressive. As you see, all at once and all at the same
time there were many serious problems and that's why our people and
the communist party have a huge load and show slowness in their
solutions.

And in the solving of all these problems the communist party hasn't
always been unified, and because of that it couldn't be adequately
effective. I'm not saying this to chastise them, because I wouldn't
have the right to do that, but rather I'm merely making a
determination.

So that we could solve the problems on Kosovo, like all the other
problems that we have, it falls upon us to have a unified communist
party, and that unity is the most critical task facing the party
today. That wish for unity has been rightfully expressed by almost
every speaker at the two-day meeting held by SK Serbia. I am faithful
we have taken a sizable step toward the unity of SK Serbia and SKJ.
And really, with unity we can solve many problems, if not all. Without
unity we can't solve even one.

In spite of many changes, some of you have brought up here, at least
those that have till now attempted, and especially in the last year,
that the state of things on Kosovo in economic and political and other
terms are dissatisfying.

Kosovo is also underdeveloped, unemployment is high, it is in deep
foreign debt. What is hardest of all, there is an ill-intended element
present and at work in many functions, and in the political realm. We
spoke about that yesterday at the meeting of the Presidency PK Kosovo.

We spoke about the fact that the process of education and training,
such as the personnel in political taxation, and others has the spirit
of separatism and often counter-revolution.

The process of settling Serbia and Montenegro under economic,
political, or ordinary physical pressure created what was likely the
last tragic exodus of an entire European population. The last time
such a procession of despairing people set off was in the middle of
the century.

I know that you don't need to listen to more of what was, and some
guy's analysis of the present situation doesn't interest you either.
That's fine. You and all of us can be interested in and need to be
interested in only those agreements that can change things for the
better, that solve this position which reasonable people, above all,
you, and then us also, aren't satisfied with.

But I want, at first anyway, to assure you that enough measures in the
spheres of material life, political relationships, political
processes, are taken every day and that the tempo of these changes in
the next months will be faster.

In material growth Kosovo is constantly investing, separatism and
nationalism have received an infusion of counter-revolutionism and
have achieved larger and larger procedural changes, but are being
rooting out via legal, administrative and politico-ideological
measures. Nobody is satisfied with the speed of this process, not in
PK, not in SK SKS, not in SK SKJ. Yesterday we determined this in the
meeting of the Presidency of PK. But the process has gained some speed
and I am confident that this speed will increase. And you need to know
that.

But, it's understood, from that I don't think to suggest that the
matter is settled and that we have reason to be satisfied. On the
contrary, Kosovo is still poor today; the poorest portion of our
country. Albanian separatists and nationalists have calmed down
somewhat. They're banking on time, and it's understood that conditions
are working for them. But they need to know, on this plain tyranny
will be no more. Progressive people won't give up Kosovo, neither will
Serbia nor will Yugoslavia.

And in a political light the perception is very present that the
desire for an ethnically pure Kosovo is well-founded and possible.
That foundation is here [in Kosovo].

Since, from the premise that SAP Kosovo political party of the nation
of Kosovo, who propounds counter-revolution, is proposing the natural
consequence that in that sense the province should be effectively
transformed into a republic, through which in reality are taken the
first, but not ignorant, steps toward shattering the territorial
integrity of SR Serbia and SFRJ. We have, with our colleagues,
understood the cost, progressive people in Kosovo have understood it
also, and in Serbia, and in Yugoslavia.

When one has in sight all that we've accomplished, and all that is
left that must be done, and what is remaining is inappropriately more
than that which is accomplished, what is before us aren't tasks and
responsibilities, but rather a great patriotic offensive whose goal
needs to be material and cultural growth of Kosovo and free and
fulfilling life for its citizens.

But first some misunderstandings must be cleared up. Among citizens
there is an understanding that all the peoples living in this province
that aren't calling out their nationalism every day, just like they
don't do a daily roll call of their sex, age, social ancestry,
education or profession.

In that sense we can't speak of minorities nor of majorities on
Kosovo. Serbs, Montenegrins, aren't minorities in relation to
Albanians on Kosovo, just like Albanians aren't a minority in
Yugoslavia, but rather they are nationalities that live together under
equal rights with other nations and nationalities in three of our
socialist republics.

The premise of an ethnically pure, economically and politically
autonomous, untethered Kosovo isn't possible by political ideals or
ethically, but at the end of the line, that premise isn't in the
interest of the Albanian nation. This kind of nationalism would
exclude it from all circles, and it wouldn't just slow down, but stop
its growth in both economic and a completely spiritual sense. Just
like Enver Hoxha with his politics, so is the tiny Albanian nation
still one very underdeveloped people, isolated from Europe, shut off
from any possibility of taking part in the dynamic life of today's
world.

And this part of the Albanian nation is striving toward Europe, toward
being a modern nation, there is no need to stop them on that path.

Nationalism always means isolation from others, being locked in a
closed circle, and that also means stopping growth, because without
cooperation and connection with Yugoslavia, and then widening vistas,
there is no progress. Every nation and nationality which shuts itself
off and isolates itself behaves irresponsibly toward their
constituents' growth. That is why before anything else, we communists
must do all that is required to eliminate the consequences of
nationalist and separatist behavior, and counter-revolutionaries
forces, as on Kosovo, so in other parts of our land.

But our goal is to emerge from a state of hatred, intolerance and
mistrust. That all people on Kosovo live well. And that is why, in
relation to that goal, I want to tell you colleagues, yes, you need to
stay here. This is your land. Your homes are here, your memories.

You won't very well give up your land just because life in it is
difficult, just because you've been pressured by crime and
humiliation. It was never in the spirit of the Serbian and Montenegrin
nation to bow before adversity, to demobilize when they need to fight,
to demoralize when times are tough.

You need to stay here because of your forefathers and because of your
descendants. You would shame your forefathers and disappoint your
descendants.

But I'm not proposing that you should stay tolerant, hold on, and bear
this situation with which you aren't satisfied. Quite the contrary.
You need to change it, together with all the progressive people here,
in Serbia and in Yugoslavia.

Don't tell me that you can't do it alone. It's understood that you
can't alone! We'll change it together, we, Serbia and all of
Yugoslavia! We can't in our time return the national fiber to the
Kosovo population in the past tense. But we can at least stop the
exodus, we can assure the condition that all people that live on
Kosovo be in their homes, live under equal rights and equal allotment
of Kosovo economic opportunity before anything else, and then all
other opportunities.

In the ears of some of the European population this desire sounds
absurd, humorous in the present era. They would with good reason ask:
aren't the lives and jobs of citizens, their safety and equality,
their rights and duty regulated by charter and law?

They regulate when they enforce, and when they don't enforce then
there is no regulation, then you must with every key political office
warn the organs of the state, an organ must rightly do its job.

That job, the job that must enforce the charter and law on Kosovo, is
in the interest of all its residents. Serbs and Montenegrins, but also
Albanians, colleagues. Because, if we legalize a state which has no
law, then all those that are outlaws are exposed and at the end of the
line are in danger. Today from unenforced law Serbs and Montenegrins
are suffering the most, but tomorrow that could be Albanians as well.
That is why instituting respect for the law, order and equality really
is in a deep historical sense in the interests of all citizens of
Kosovo. This is the first and most urgent thing that we can accomplish
together on Kosovo.

And the second is next: it has to do with the return, especially of
talented people, to Kosovo. I firmly believe that we cannot stop the
process of moving away while there is no incentive for the process to
return to Kosovo.

The return of Serbs and Montenegrins to Kosovo is a process. We can't
issue a decree and by force return people to where they don't want to
be. But we can launch a political campaign to create material,
economic, employment and cultural conditions such that they who
because of dissatisfaction and abuse of rights left, would return,
guaranteed that in their homes and workplaces this would really
happen. In creating those conditions all progressive forces can
and must get involved, communist and youth, all that is respectful and
progressive in all of Serbia. And there cannot be even one cost too
great to accomplish this.

Ordinarily in our political language we speak like we aren't in favor
of campaigning, but rather prefer drawn-out processes. In this
situation the state of affairs is so alarming that we must bring a
campaign, and the right campaign, for returning 50, then 100, then 200
professors, doctors and other crucial talented people, qualified
workers, and the rest. This campaign needs to bring a process. Only
then will things look like the exodus of Serbs and Montenegrins from
Kosovo can stop.

And seriously, friends, in Yugoslavia salaries are low and prices are
high, the prices of shoes and books are high, it's hard to take a
vacation. But we won't because of that very well give up Yugoslavia
and settle in a happier and richer land. Those are rather more
worthwhile reasons to stay in our country and make it richer and
happier. It's possible to make this happen, but through one mandatory
condition: to accomplish the separating of the forces of socialism,
brotherhood and unity, and progress from the forces of separatism,
nationalism and conservatism. In that separation of progressives from
reactionaries Serbs and Montenegrins on Kosovo surely will receive the
support of many Albanians, communists and Albanian people among whom
they have
relatives and friends, and their children's friends. Because here
everyone's common goal is the cultural and economic growth of the
province, so that people, all people, live better and happier. Around
that goal all respectful working people should gather, that is the
principle of brotherhood and unity on Kosovo.

That is why I believe that those who carry the spirit of brotherhood
and unity, equal rights and progressiveness can be and must be the
only working class of Kosovo, because those that are unified have
identical interests, and the least reason to divide into nationalism.

She strove to fight against greater abuses, only she can win in this.

Surely, SK and others must assess why their nation is coming back,
because its proof, as someone said here, that the nation believes in
the party. That is exactly why I want to say, friends and colleagues,
that in all of SK, in the leadership SK we'll do all that we have, as
SK, given ourselves to do.

Everything in question is on our schedule: rights, freedom, culture,
language and letters. Everything in question from beginning to final
changes, from kindergartens to courtrooms. In that forest of difficult
problems that anger and worry and exacerbate the upstanding people of
Kosovo, Serbia and Yugoslavia, only worrying and exacerbation aren't
enough. But the preparedness of the nation and Kosovo and Serbia and
Yugoslavia to solve these problems and for everyone to give their due,
and for everyone to roll up their sleeves and solve things is the only
guarantee that we will solve the systemic, economic and political
problems on Kosovo.

In that sense we don't have anyone else in whom we should trust,
friends and colleagues, but in ourselves.

I want to also assure you that every member of the leadership of the
Socialist Republic of Serbia and Yugoslavia will always be ready for
conversations like these and for constant presence on this job
together.

Rest assured, this is a feeling that is uplifting all of Yugoslavia.
All of Yugoslavia is with you. The issue isn't that it's a problem for
Yugoslavia, but Yugoslavia and Kosovo. Yugoslavia doesn't exist
without Kosovo! Yugoslavia would disintegrate without Kosovo!

Yugoslavia and Serbia will never give up Kosovo!


TRANSLATED BY: TIM SKORICK

Original Serbian Text (PDF File)
http://www.slobodan-milosevic.org/news/milosevic-1987-3.pdf

LETTERA APERTA AI COMPAGNI IN ITALIA

(inviata a "Liberazione" ed "Il Manifesto")

Con il dolore nell'anima ho visto ieri quello che ha trasmesso Rai Uno
a proposito della "Giornata della memoria delle foibe". Dunque una
giornata della memoria dei massacri commessi dai partigiani titini e
dell'esodo degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia... Mi hanno
colpito termini come "violenza cieca", che si sarebbe abbattuta sui
cittadini innocenti.
Prima di proseguire, per sgombrare ogni equivoco, ci tengo a
sottolineare che tutta la mia vita l'ho passata ad occuparmi della
cultura italiana e che l'unico figlio che ho avuto ora vive a Roma ed
ha finito gli studi in Italia. Quindi per libera scelta l'Italia era ed
è tuttora il paese di tutte le mie anzi nostre aspirazioni. Per questo
è ancor più insopportabile sentire che si è presa la giornata della
firma del trattato di Pace (10 febbraio) nella Conferenza di Parigi del
1947, come giornata della memoria di un ingiustizia e di un lutto
subiti, invece di onorarla come la giornata della sepoltura definitiva
del fascismo.

I fatti storici però restano quelli che sono anche se gli uomini li
interpretano come vogliono. Sarebbe assurdo contestare che l'esodo
massiccio degli italiani dall'Istria e da Zara non fu una tragedia; ma
tragedia immane fu senz'altro il fascismo ed il nazismo ed i popoli
dell'Europa intera hanno per questo errore storico pagato un altissimo
prezzo.

Ora, dinanzi ad una Europa unita che nasce nei dolori e nelle
difficoltà, ma nasce come ogni vita nuova, ogni vita giovane, con le
migliori aspettative e con i migliori auspici di una futura esistenza
felice, invece di ricordare gli errori e gli orrori del passato
ribaltando i fatti storici, non sarebbe forse più intelligente e più
onesto pensare che nella futura Europa non dovrebbero esistere tali
differenze e tali trattamenti disumani, responsabili della fuga di
popolazioni intere - centinaia e migliaia di uomini, donne, bambini,
vecchi, colpevoli di nulla, da un luogo ad un altro, da un paese ad
altro, facendoli in definitiva profughi ed esuli anche di se stessi?

Ora per conseguire un tale scopo non credo che la miglior via sia
quella di onorare errori storici quali il fascismo ed il nazismo,
infangando la lotta per la liberazione e la nozione stessa di
antifascismo. Quanto riguarda le politiche titine e titoiste niente le
riscatta e niente le umilia di più dello spettacolo orripilante del
sanguinoso squartamento del paese a cui si e' assistito lo scorso
decennio. E non è certo senza importanza che si trattò dell'unico paese
in Europa in cui la guerra partigiana contro il nazifascismo aveva
assunto, in tempi debiti, dimensioni colossali, avendo visto vincitori
coloro che da sempre furono umiliati ed oppressi. Questo fatto storico
nulla lo potrà mai cambiare.

La terra è degli uomini, di tutti gli uomini senza eccezione, e non di
una o dell'altra nazione o etnia o appartenenza politica, o religiosa,
o di questa o quella altra scuola del pensiero. Speriamo dunque che
cosi sarà per l'Europa che si sta creando e nella quale vivranno i
nostri figli e i nostri nipoti. E se non sarà cosi le colpe saranno
nostre e qualcuno le pagherà. Visto che le colpe storiche si pagano
sempre e non di rado le pagano coloro che colpe non ne hanno... E nel
desiderio che il triste esodo degli italiani da Istria e Dalmazia non
si ripeta più in nessun altro modo si dovrebbe dire "tutta la verità e
niente altro che la verità" a quel proposito.

Durante la guerra partigiana un giovane scrisse: "Chi sa se la libertà
sarà capace di cantare come gli incatenati l'avevano cantata?"
Ora, l'esodo di trecentocinquantamila italiani dall'Istria e dalla
Dalmazia non fu certo un momento di libertà. Però, non è certo più
rispettoso della libertà omettere che un numero pari - e documentabile
dagli archivi della guerra partigiana jugoslava - di italiani era stato
aiutato e salvato dai partigiani titini dopo il disastro dell' 8
settembre. Costoro furono aiutati ed ebbero salva la vita grazie ai
selvaggi, e malvagi, partigiani titini, dopo che il comando delle forze
armate italiane aveva lasciato i suoi ragazzi esposti alla mercè e –
questa volta si – spesso anche alla cieca violenza delle truppe naziste.

I massacri nelle isole greche, e dappertutto ove i partigiani locali
non erano riusciti ad aiutare i soldati italiani, sono fatti noti e non
ha senso ripeterli.

Oggi ben pochi sono ancora in vita tra coloro che furono aiutati e
salvati dai partigiani jugoslavi o che hanno combattuto accanto a loro.
Pretendere da questi che alzino la voce nel baccano scatenato intorno
alle "foibe" e ai "delitti dei titini" forse sarebbe pretendere troppo.
Non ne avrebbero la forza. Sono ormai troppo anziani e troppo
amareggiati, e i loro figli e nipoti hanno ben altre preoccupazioni.
Però, parlando di chi fu salvato si dovrebbero menzionare anche i
condannati – poche decine di gerarchi fascisti - che furono trascinati
dinanzi ai tribunali e per i quali si considerò che erano stati trovati
con le mani sporche di sangue. Questi ultimi furono condannati dai
tribunali regolari nel territorio liberato e furono giustiziati alla
luce del sole, non buttati nelle foibe con crudeltà immane e vendetta
cieca, senza ragione, senza causa e senza colpa! Le foibe sono il
frutto della violenza della gente del luogo, slava e non, che si era
scatenata contro gli oppressori locali, che in quei posti per venti
anni ne avevano fatte passare di tutti i colori alle genti che vivevano
li. Con storie come queste sulle "foibe" i comandi partigiani e la
giustizia dei vincitori hanno poco o nulla a che spartire.

E' tragico che in guerra e dopo la guerra capitino vendette trasversali
e del tutto illegittime ed ingiustificabili, ma purtroppo accade. Era
accaduto anche in Italia ed a tempo debito tutti abbiamo letto e visto
film come "La ragazza di Bube" e simili. Questo non ha però niente a
che vedere e a che spartire con la legalità e le leggi. Servirebbe
ricordare piuttosto che fu in base alle leggi marziali che fu istruito
il famoso processo agli antifascisti, a Zara nel 1942: processo in cui
furono giustiziati decine di compagni ed anche il segretario del
Partito comunista croato, Rade Koncar. Condannati alla pena capitale
furono diverse decine di antifascisti, fra cui anche una ragazzina di
quattordici anni (poi graziata, vive ancora a Spalato). Ma furono
uccisi in venti, tutti ragazzi giovani. In quel processo furono
coinvolti anche molti minorenni, i quali furono graziati e si videro
commutata la pena all'ergastolo, poiche' avevano buttato una bomba
contro la banda militare italiana, che marciava a suon di musica...
Furono fatti atroci, eccidi dall'una e dall'altra parte.

Ma le guerre per fortuna passano. Quel che rimane è la storia e non
serve farle violenza. Non ci sono fasi giuste e fasi sbagliate della
storia. Ci sono atti e fatti sbagliati, brutti ed indecenti, commessi
dagli uomini. I misfatti sono frutto delle azioni umane, mica cadono
dal cielo. Ora, rappresentare i combattenti per la giustizia e per la
libertà come malfattori e assassini vili mi sembra un fatto di per se
indecente e scabroso, un fatto che non promette bene per il futuro. La
posizione dei diessini in questi revisionismi fuori tempo massimo, che
riguardano l'eredità della storia dei titini, ritengo sia altrettanto
sbagliata, come fu sbagliata la posizione del PCI nel 1948 e anche
dopo, quando successero i fatti d'Ungheria. Ma nel 1948 furono dei
compagni in Italia ad alzare la voce in difesa dei titini: e la
pagarono cara.

Oggi pare che neanche la corrente girotondista di DS osi replicare e
difendere i partigiani slavi. E ai vecchi titini, ormai imbiancati
dagli anni e dai colpi subiti, non resta che dire: "Et tu mi fili,
Brute!" come esclamò Cesare quando fu pugnalato dal nipote Bruto. Dopo
tante ingiustizie e violenze che sono state fatte e dette contro un
paese, che non esiste più, forse sarebbe opportuno ricordare che gli
italiani dall'Istria se ne sono andati di propria spontanea volontà.
Hanno "optato" per l'Italia, cioè hanno preferito andarsene in Italia,
visto che non avevano la minima intenzione di rimanere a vivere in un
paese balcanico e comunista - e non perche' li avrebbero buttati nelle
foibe, torturati o squartati.

Essere nati nei primi decenni del secolo scorso in Istria e Dalmazia ed
essere italiani non fu certo una fortuna, certe volte fu una tragedia,
ma è altrettanto tragico oggi essere nati in Jugoslavia e non aver un
paese dove morire.

Per chiudere voglio citare Giorgio Bocca che scrive:
"Cadute le coperture ideologiche è venuto fuori in alcuni giovani
tribuni del popolo... un carrierismo pronto a calpestare i rapporti
civili, a colpire con ogni mezzo i compagni di ieri, con il rancore dei
preti spretati. Nei peggiori è tornato elogio alla ribalderia, intrisa
di disperazione, la voglia di infierire per mettere a tacere il
rimorso."

Ora, credo che in questa campagna si sia andato oltre, che si sia
giunti allo scontro all'arma bianca. Le vittime sono state trasformate
in carnefici e i veri carnefici in vittime ed eroi, il cui eroismo
dimenticato bisognerebbe riscattare... Non capita per la prima volta
nella storia. Gorki scrisse a proposito del movimento dei "populisti"
russi dell'ottocento: "E gli eroi furono trasformati in colpevoli,
visto che dopo aver suscitato enormi speranze non furono in grado di
esaudirle."

Però, che i carnefici diventino eroi mi pare davvero esagerato ed
oltraggioso. A questa bufala, tanto grossa quanto vergognosa, rispondo
di nuovo con le parole di Bocca:

"La storiografia moderna si è cosi riempita di pidocchi revisionisti
che pretendono di cambiare gli accaduti, le memoria, la toponomastica,
i libri di testo... Un momento... stiamo ai fatti... Quella non fu una
divisione da poco... Quelli... che combattevano [dopo l'8 settembre] al
fianco dei nazisti, volevano che i nazisti vincessero la guerra...
Volevano la fine delle libertà. Furono invece i partiti della
Resistenza a recuperare le libertà, anche i comunisti che le sancirono
con la Costituzione.
"I morti" diceva Pavese "sono tutti eguali, partigiani e
repubblichini"... tutti travolti dal fatto. Ma non erano uguali le loro
storie, le loro idee. La pietà è una cosa che fa parte del sentimento
umano solidale, ma la pietà per le idee non ha senso, non si può avere
pietà per le idee barbare, assassine, non si può revisionare l'orrore,
si può al massimo dimenticarlo."

E visto che non si vuole dimenticarlo, ma se ne vuole tener alta la
memoria, sarebbe doveroso ricordare che a scatenare l'orrore e la
guerra non furono antifascisti, comunisti, partigiani titini ne' slavi
(gente indecente e notoriamente assetata di sangue per la loro indole
selvaggia e balcanica), ma piuttosto coloro che si misero al fianco dei
nazisti in un progetto demenziale che fu sconfitto a prezzo di immani
sacrifici ed anche di vite umane. E questa sconfitta fu sigillata con
il Trattato di pace firmato a Parigi.
Da non dimenticare.

Jasna Tkalec, 10 febbraio 2004, Zagabria

BUTROSA GALIJA U HAG

[ Incredibile, ma vero! Da "Oslobodjenje", quotidiano indipendente
bosniaco erzegovese (leggi "bosgnacco"), di Sarajevo, accuse a Boutros
Ghali di aver nascosto "la verità" sulla guerra in Bosnia ed Erzegovina
e di "aver mentito" al Consiglio di Sicurezza durante il suo mandato.
Titolo dell' articolo: "Boutros Ghali al Tribunale dell'Aia"... ]

Butrosa Galija u Hag

Bivsi generalni sekretar Ujedinjenih nacija Butros Gali je krio istinu
o ratu u Bosni i Hercegovini tokom svog mandata ili je cak lagao
Savjetu bezbjednosti. To su gradjani BiH mogli pretpostaviti jos dok su
se borili za opstanak pod granatama i snajperima, a sada je to potvrdio
bivsi ambasador Venecuele u UN Diego Arija, svjedoceci u Hagu protiv
Slobodana Milosevica. “Gali je zadrzavao informacije o stvarnom stanju
na terenu ili je dezinformisao Savjet bezbjednosti dajucu mu netacne
informacije”, izjavio je Arija. Optuzba je direktna, zasnovana na
cinjenicama kojima raspolaze, i jos jednom svjedoci o pogresnoj,
prevarantskoj, bijednoj i u konacnici - katastrofalnoj ulozi UN od
1992. do 1995. godine u BiH. Tada su tzv. plavi sljemovi, predvodjeni
Galijem, u silnoj zelji da ostanu neutralni, ustvari, bili na strani
napadaca jer nisu dali da istina izbije na vidjelo. Jednom prilikom
Diego Arija je bio u misiji koja je krenula obici Srebrenicu, koju je u
svom izvjestaju opisao koncentracionim logorom gdje se vrsi - usporeni
genocid, te je, zalud, upozorio na moguci masakr. Sto je jos gore,
prisjeca se da su tada podjednako i srpski vojnici i komandant
UNPROFOR-a pokusavali sakriti istinu. Razlog? Sprijeciti vojnu
intervenciju i stvoriti krivu sliku o ratu u BiH u “kojoj su sve strane
iste”. Zasto je to Butros Gali radio? Kako bi bilo dobro da odgovori u
Hagu. Ali, ne kao svjedok.

Edin KREHIC

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