Informazione


Inizio messaggio inoltrato:

Da: Alessandro Di Meo <alessandro.di.meo  @  uniroma2.it>
Data: 07 settembre 2012 11.01.41 GMT+02.00
A: Recipient list suppressed:;
Oggetto: viaggio Serbia e Kosovo e Metohija


cari tutti, vi allego il report del secondo viaggio in Serbia e in Kosovo e Metohija, dello scorso agosto. Su:  http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.it/ lo stesso report, dal titolo: Oceani di speranza, è corredato di foto. ciao Alessandro  

----------------------- ooooooooOOOOOOOOoooooooo -----------------------

            visita: http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/

               "Deve esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
                      dove non soffriremo e tutto sarà giusto...
"
                             (francesco guccini - cyrano)

Un ponte per... associazione di volontariato per la solidarietà internazionale
                        Piazza Vittorio Emanuele II, 132 - 00185 - Roma
    tel 06-44702906  e-mail:
posta@... web: www.unponteper.it



 (26 agosto-1 settembre 2012)

Viaggio di rientro per i tre ragazzi ospitati a casa mia, Beba, Saša, Andjela. In meno di 15 ore, dall’Umbria a Kraljevo, per circa 1400 chilometri con la macchina. A fine agosto ne avrei percorsi più di 8 mila. Nel bagagliaio, oltre valigie e regali vari, 2 televisori vecchi ma funzionanti per la famiglia di Novka Milanović, a Kraljevo. Ci saranno problemi, risolvibili, di sintonizzazione dei canali.

Il 27 agosto mattina, dopo aver sentito per telefono padre Ilarion del monastero di Draganac, parto per il Kosovo e Metohija, con l’obiettivo di:

incontrare alcune della famiglie che manderanno i figli il 3 settembre in Italia, al mare ad Anzio, in una vacanza organizzata da Un Ponte per...; visitare il monastero di Draganac dove svolge la sua opera padre Ilarion, col quale è iniziata una valida collaborazione e che si sta occupando proprio dei ragazzi che verranno in Italia e di molte famiglie da noi sostenute o sostenibili in futuro...; verificare, con il monastero di Dečani, lo stato dei lavori per la costruzione di pozzi artesiani in alcune zone abitate dai serbi in Kosovo e Metohija...; visitare la zona di Velika Hoča.

Mi accompagna Vesna, amica serba già una volta con me in Metohija per i sostegni, disponibile ad aiutarmi anche in questo tour.

La prima volta che sono stato a Draganac pensavo sarebbe stato impossibile tornarci. Adesso ho imparato e, anche se le strade restano impervie, il luogo lontano e isolato, ce la posso fare da solo. Quando si viaggia soli e con i propri mezzi è più semplice, dopo, ricordare la strada.

Abbiamo appuntamento con Ilarion a Gračanica, splendido monastero, perla dell’architettura medievale e patrimonio dell’Unesco. Il monastero è davvero troppo vicino alla strada e il rumore del quotidiano andirivieni ne mina fortemente l’atmosfera. Nel pomeriggio avverrà una cerimonia che vedrà una novizia prendere i voti come suor Melania. A celebrarla il vescovo Teodosije, che resterà al monastero per la festa della Dormizione di Maria del giorno dopo, 28 agosto (corrisponde all’Assunzione cattolica del 15 agosto).

Ilarion si farà attendere, noi assisteremo a tutta la funzione, prima di incontrarlo. Ma un contrattempo ci costringerà a tornare a Mitrovica, per ritornare poi a Gračanica a notte inoltrata.

Il giorno dopo si va a Draganac dove pure si celebra la Dormizione di Maria. Molti serbi vengono in visita e assistono alla funzione del mattino. Finito tutto, con Ilarion visitiamo una famiglia, quella di Maja Stanojković che sostituirà un’altra ragazzina che non ha ottenuto il passaporto.

C’è da dire che le cose sono molto confuse riguardo i passaporti e, spesso, si creano situazioni in cui è davvero difficile per le famiglie di queste zone ottenerlo. Per le spese, per i viaggi e per le troppo complicate, a volte, pratiche burocratiche da espletare.

Siamo a Šilovo, piccolo villaggio della zona di Gnjilane. Aspettiamo Maja e sua mamma presso la casa di Ivan, detto “Talijan”, perché da piccolo acchiappava le rane (gli italiani erano considerati dei mangia rane!). Ha aperto questo locale dove si mangia e si beve. Prenderemo delle pizze che la moglie prepara nel suo forno, “vera pizza italiana” ci dice (smentita, ovviamente, dal risultato!). Ma la pizza si lascia mangiare, Ilarion la prende per gli altri 3 monaci del monastero e per gli amici Carabinieri che, nel pomeriggio, verranno a consegnargli banchi e sedie per la scuola. Ilarion inizierà presto lezioni di religione presso le scuole dei villaggi per due volte la settimana, per 10 ore al giorno. Ma, intanto, oltre a svolgere la sua funzione, cerca di attivarsi per dare una grossa mano alla comunità. Questo mi piace di questo giovane monaco e questo ci accomuna, perché credo sia anche nello spirito di Un Ponte per..., se qualcosa ho capito in questi anni, proprio l’abbinamento “bene immateriale (preghiera, funzioni, contro-informazione)-bene materiale (le attività concrete a sostegno degli esclusi)”.

Dopo aver inviato dal computer di Ilarion la lista aggiornata dei ragazzi (c’è stata una sostituzione), mentre eravamo nel magazzino a scegliere lenzuola che mi sarei portato dietro per i ragazzi da ospitare ad Anzio, Ilarion se ne esce con un improvviso: “Arrivano i Carabinieri!”, che mi fa sobbalzare, apprensione subito sedata dal suo più rassicurante: “Portano banchi e sedie per la scuola...”. L’episodio, raccontato agli stessi Carabinieri, avrebbe suscitato in loro un certo divertimento...

E così, eccomi a dare una mano, con Ilarion occupato in altro, scaricando banchi e sedie e facendo gli onori di casa fra i Carabinieri Kfor del gruppo MSU di Pristina (Multinational Specialized Unit, Unità Specializzata Multinazionale), che gradiranno cibo, vino e rakija, con Vesna che fungerà da graditissima cameriera.

Partiti i carabinieri, raggiungiamo Bostane, piccolo villaggio dove c’è la chiesa anch’essa medievale di Sveta Bogorodica. C’è la festa e fa effetto sentire musica serba ad alto volume, tanti ragazzini e ragazzi serbi dei villaggi restare a festeggiare in un posto così piccolo, circondato da albanesi. Ma qui il conflitto è arrivato poco o, comunque, se ne è andato presto. Troppi isolati questi villaggi per suscitare interessi nella malavita che detiene il potere reale di questo neoNato narcostato! Ma ci tengono, le istituzioni locali (e ce ne accorgeremo presto), a far sapere che ora è tutto diverso, che non c’è più Jugoslavia, che non c’è più Serbia, che esiste solo la “Kosova” (anche se ci sarebbe da discutere sulla semantica di tante parole che vanno a sostituire le originali serbe. Parole e nomi senza una reale e accertata derivazione storica che, in realtà, trovano la loro origine nella terminologia serbo-croata. Per fare un esempio, il villaggio Petrovka, da sveti Petar, san Pietro, viene mutato in Petrove, giustificandone la derivazione dalla parola: pietra!).

A Bostane incontriamo Ivana e due sue amiche che verranno in Italia. Ivana vive ancora nella vecchia casa fatiscente a Gornje Kušce. Molte delle case di questi ragazzi andrebbero risistemate per meglio affrontare l’inverno. Stufe con un minimo di radiatori nelle stanze, sistemazione dei tetti, eliminazione di infiltrazioni... ma un altro inverno li attende. Speriamo non sia terribile come quello dello scorso anno.

Prima di arrivare a Bostane, con Ilarion siamo andati a visitare la chiesa di Ranilug, a Kosovska Kamenica. Qui Ilarion sta sperimentando con dei ragazzi la posa in opera di un intonaco speciale che riproduce l’effetto del marmo, all’interno della chiesa. Tre prove sono state eseguite sul muro all’interno, ne scelgono una. La chiesa deve essere completamente intonacata all’interno, mentre fuori marmo tipo travertino ricorre con file di mattoncini rossi. Un vecchio, dal terreno vicino, ci chiede acqua perché non ne ha. Ne prendiamo una bottiglia da una vicina fontana privata. La beve, contento.

Torniamo a Gračanica, c’è tanta gente nella strada. Le persone passeggiano, mangiano, bevono nei bar aperti fino a tardi, la festa è molto sentita. Nel monastero incontro suor Irina. Ci mostra le stanze dove dormire. Ma le funzioni e le visite continuano fino a notte fonda, anche se disturbate dalla musica esterna che arriva ad alto volume. Sembra che le autorità albanesi finanzino giovani serbi per organizzare feste in determinate date, come ad esempio quella di oggi. C’è una sfilata da qualche parte, si eleggerà miss Gračanica e si canta, si beve, si balla. E allora, la ricorrenza religiosa viene in qualche modo profanata.

Il giorno dopo, alle 4 e 30, una monaca chiama alla funzione battendo ritmicamente il Klepalo (Toaca). Questa pratica viene dal periodo di dominazione turca quando le campane era vietato suonarle perché infastidivano gli invasori. Ma le campane risuoneranno più tardi, dalle 5 in poi. Ho appuntamento con un certo Siniša che cura le pratiche di richiesta visti per i ragazzi. Alle 10 arriva, ma dobbiamo aspettare comunicazioni per andare in ambasciata. Tardando ad arrivare, decido di andare comunque. Siniša torna e mi lascia tutte le pratiche compresi i passaporti del gruppo. Incontro padre Andrej, del monastero di Dečani, che è in giro a raccogliere anche lui banchi e sedie dai carabinieri di Priština. Mi fissa un appuntamento con padre Isaja per andare a vedere come procede il lavoro di scavo dei pozzi. Ma mi sarà impossibile andare. Perché una volta a Priština, chiedendo di essere ricevuti perché Francesco dell’ass. Amici di Decani ha fissato un appuntamento, ci dicono che non c’è nessun appuntamento e che, se vogliamo parlare con loro, dobbiamo aspettare le 15!

Alle 15 siamo ricevuti dal signor Petani, dell’ufficio visti che, nel vedere quel che è stato prodotto, dice che sarà impossibile ottenere i visti. Siamo al 29 agosto, mercoledì, i ragazzi hanno il biglietto per lunedì 3 settembre. Che fare? Cerco di scusarmi per il disguido, forse qualcuno non si è occupato della cosa nel modo migliore, dico, cercando di ammorbidire il responsabile dell’ufficio, molto freddo e distaccato. Dovremo compilare i formulari, produrre gli atti di assenso, i certificati di nascita, 2 foto per ciascuno dei richiedenti, l’assicurazione per tutto il gruppo. Ma il tutto per domani, giovedì 30 agosto, entro le 15! Altrimenti niente vacanza per i ragazzi e soldi dei biglietti aerei buttati! Non ci voglio neppure pensare...

Noi siamo a conoscenza delle procedure ma pensavamo che si fosse preparato tutto, al monastero, con l’aiuto di chi aveva garantito a Ilarion la collaborazione. Ma è tardi per fare elenco di responsabilità e fraintendimenti, dobbiamo accelerare i tempi, abbiamo solo una sera, una notte, una mattina. Per cui inizia la spola fra Gračanica, con l’incantevole lago Gračaničko jezero ad accompagnarci, Draganac e Bostane, fino nella casa di Emir Ferković, prete ortodosso Rom, parroco della chiesa di Sveta Bogorodica, dove iniziano ad arrivare le famiglie subito avvisate da Ilarion per compilare formulari, produrre le foto (Ilarion ha convocato un ragazzo fotografo che fa foto a chi ne è sprovvisto), portare certificati ( per fortuna tutti li hanno, avendo appena preso il passaporto), firmare atti. Entrando, nel vedere le palačinke preparate da Nada, la figlia del parroco, che verrà in Italia, Ilarion se ne mangia un paio, apprezzando molto e facendo contenta Nada!

La sera, andiamo a casa delle famiglie che non sono state raggiunte telefonicamente o che non sono potute arrivare a Bostane. E così, si piomba in case dove la gente dorme, la si sveglia suonando il clacson della vecchia jeep che Ilarion ha avuto in dono dal comandante Kfor (la mia auto, dopo varie peripezie, l’ho dovuta lasciare perché davvero avrei spaccato tutto proseguendo per quelle strade dissestate e sterrate di campagna), si ottengono firme e si riparte. Andiamo a Makreš, da Aleksandra Trajković, da Andjela Aleksić, da Dragana Antić. Poi, ci dividiamo. Ilarion e il fotografo vanno in altri villaggi, io e Vesna andiamo con un serbo del posto a casa di due famiglie più facilmente (eufemismo!) raggiungibili. Siamo a Koretište dalle famiglie Kovacević, un prete ortodosso e Stojković.

Torniamo e aspetto Ilarion davanti una casa buia e isolata dove, al piano superiore, c’è una specie di bar dove prendo un succo. Un ragazzo si presenta, gli hanno detto che sono italiano. Vive a Schio, è serbo e torna ad agosto nel villaggio di Straža, qui vicino, da parenti e amici. E’ fantastico sentirlo parlare in veneto e poi in serbo, con gli amici. Si chiama Nemanja e mi chiede cose. Al solito, che ci fai qui e perché e com’è... gli racconto e lui pure mi dice del suo lavoro in una falegnameria del Veneto e del padre, tornato perché al contrario, sempre in Veneto, la sua falegnameria ha chiuso. E della situazione dei villaggi.

Arriva Ilarion, ha completato il giro ma bisogna sviluppare le foto. E’ mezzanotte, raggiungiamo lo studio dove lavora il ragazzo, Marko. Il padrone dello studio raccoglie le foto e le manda in stampa. Nel frattempo saliamo nella bella casa di Marko, che ci vive col fratello, Miloš e con i genitori. Ilaron si addormenta. Al risveglio, sono arrivate le foto... mangia le cioccolate messe sul tavolo da Marko. E ne chiede altre da portarsi. “E’ finito il digiuno per la Dormizione di Maria!”, ci dice con aria allegra.

Arriviamo a Draganac a notte fonda. Ci si arrangia per dormire, la stanza migliore viene data a Vesna, la cavalleria non è solo roba per laici. Il giorno dopo, alle 7, ci si sveglia per ripartire. Ilarion mi invita nella chiesa per una breve visita e, dopo una breve colazione con Justine, monaco da poco tempo, dopo una vita molto movimentata..., Petar, un giovane monaco e Kiril, l’anziano predecessore di Ilarion, andiamo dal sindaco di Novo Brdo dove, ci dice Ilarion, ci firmeranno gli atti di assenso, scritti in italiano ma non timbrati e ritenuti inaccettabili dall’ufficio visti di Priština.

Entriamo in questo palazzetto di 3 piani, fra gente che guarda Ilarion di traverso e gente che lo saluta amichevolmente. Cerca di parlare albanese, Ilarion e la cosa, ovviamente, è apprezzata. Entriamo, dopo breve trafila, nella stanza del sindaco, un uomo ben vestito e apparentemente cortese, dove spicca un bandierone americano alle sue spalle, con stelle e strisce nei quadri alle pareti.

“Sembra de sta n’er Kansas city!” direbbe Alberto Sordi. Invece siamo solo nel Kosovo orientale, in uno sperduto villaggio. E questo sindaco, che crede di appartenere alla 51.a stella degli USA non crede, però, alla parola di Ilarion, perché questo timbro non arriva. Ilarion compila una richiesta che poi non potrà stampare. Ne compilano una loro, con l’elenco dei ragazzini, la timbrano, la firmano, ci allegano le fotocopie degli assensi, salvo perderne tre originali che mai più saranno ritrovati! La solerte segretaria del sindaco li ha fotocopiati tutti ma ne ha perso tre originali. Così, usciamo da questo posto assurdo senza tre originali degli assensi, senza i timbri, con tre ore in meno da poter utilizzare! Abbiamo perso tempo, nonostante l’ottimismo, forse ingenuo o forse rassegnato, di Ilarion.

Ma qualcosa di positivo ci sta guidando. Ci sono gli assensi in serbo, forse andranno bene. Sono tutti, gli ultimi li prendiamo a Gračanica dove ripassiamo. Sono firmati, sono timbrati, sono ufficiali. E abbiamo tutto il resto. Andiamo in fretta a Priština, sono le 13. Ma i funzionari sono appena andati in pausa pranzo... Aspettiamo davanti l’ambasciata lo scorrere lento del tempo, non curandoci delle occhiatacce che ci mandano gli albanesi che passano per la stretta via davanti l’ambasciata. Io a volte rispondo con sguardo altrettanto torvo, mi viene spontaneo, a difesa della tonaca di Ilarion, ovviamente malvista. Ma nessuno farà commenti o altro e così, verso le 14,30, finita questa lunga pausa pranzo, ecco che arriva il signor Petani che accoglie tutta la documentazione. Sembra tutto a posto, stavolta e ci dice che per domani alle 16 ci saranno i visti. Non per tutti, perché 3 passaporti sono serbi e non hanno bisogno di visto. Ma ci dice pure che l’ambasciatore non è stato contento di tutta questa approssimazione. Umilmente mi scuso, do ragione all’ambasciatore e assicuro che le prossime volte saremo più corretti. Ma i ragazzi partiranno...

Sulla strada del ritorno non posso non fermarmi, dopo un semaforo, a riprendere con la videocamera la statua bronzea di Bill Clinton, il “padre della Patria kosovara-albanese”, all’ingresso della Bill Clinton boulevard! Davanti a spettacoli così, come davanti alla statua della libertà su un lussuoso hotel di Priština, non sai mai se ridere o piangere. Forse tutte e due, come sempre si fa in Serbia. Sorrisi e lacrime, matrimoni e funerali. Questo sa più di funerale... e non sembra esserci più molta Serbia, qui.

Dormiamo ancora a Gračanica, dopo aver mangiato e bevuto qualcosa, rilassandoci dopo lo stress, presso una famiglia di amici di Ilarion. Il giorno dopo lo lasciamo e rientriamo a Kraljevo. Ilarion mi avrebbe chiamato alle 17 per dirmi che tutti i visti li aveva con se. Io ero stato poco prima a Gazimestan e, dall’alto della torre che ricorda la battaglia del 26 giugno del 1389, dove l’esercito del principe Lazar fu sconfitto dai turchi, un silenzio glaciale rotto dal vento e una vista magnifica mi riportavano a emozioni lontane. Davvero quell’esercito difendeva il suolo sacro dei monasteri, ma anche la nostra “beneamata, civile, democratica Europa”. Che oggi, sembra aver dimenticato che anche questi serbi umiliati e disprezzati, sono figli suoi.

Il primo settembre, un nuovo ritorno in Italia. Alle 5,30 di mattina si parte. Arriveremo per le 20. Con me, altri tre ragazzi serbi, anche loro nati in Kosovo e Metohija. Ceca e Sonja ospitate per anni presso le nostre case, d’estate e Miloš, in vacanza in Italia solo lo scorso anno, con il primo gruppo dai villaggi della Metohija. Vengono in Italia per studiare. Altre piccole gocce, nell’oceano della speranza.





(italiano / english)

Ancora ricatti in stile mafioso sul Kosovo / More mafia-style blackmails on Kosovo

La crisi economica è stata usata da qualche paese per cercare di imporre alla Grecia il riconoscimento dello "Stato" kosovaro, ma il governo greco non ha ceduto al ricatto mafioso. Contro la Serbia, la questione kosovara è utilizzata come discriminante per lo stesso accesso nella Unione... Ma come pretendono, questi mafiosi, di rappresentare la UE nelle loro richieste alla Serbia, quando viceversa nemmeno all'interno della stessa Unione c'è unanimità sullo status del Kosovo?? Dopo la Grecia, useranno forse il ricatto economico anche contro la Spagna, che è un altro dei cinque paesi UE che non hanno riconosciuto il Kosovo "indipendente"? (a cura di IS)

1) "Crisis used to pressure Greece to recognize Kosovo"
2) ''La Serbia nell’UE se riconosce il Kosovo''


=== 1 ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2012&mm=09&dd=06&nav_id=82117

Beta News Agency - September 6, 2012


"Crisis used to pressure Greece to recognize Kosovo"


BELGRADE: Greece will not recognize Kosovo, Greek Ambassador to Belgrade Dimosthenis Stoidis told Serbian Parliament Speaker Nebojša Stefanović on Thursday in Belgrade.
This, the Greek diplomat explained, is true despite the fact that the economic crisis affecting Greece "was used in order to pressure Athens to recognize the authorities in Priština", Beta news agency is reporting.
Serbia rejected as illegal the unilateral declaration of independence of its southern province, made in early 2008 by Kosovo's ethnic Albanians. Five out of EU's 27 member-states, Greece included, have also not recognized it. 
During the meeting in Belgrade today, Stoidis told Stefanović that his country "would do everything in order for Serbia's remaining path toward full EU integration to be as successful as possible". 
A statement issued by the Serbian parliament also said that the ambassador noted that Greece "still supports Serbia's road toward the EU", and that this country's stance not to recognize Kosovo will not change "although the economic crisis was used to pressure Athens" to do otherwise. 
Stoidis further stated that Greece "encouraged Serbia to continue its dialogue with Priština" - although, as he noted, the term "normalization of relations" was being interpreted differently within the EU itself. 
Stefanović told the ambassador that Serbia will also not change its policy toward Kosovo and Metohija - and "will never recognize it", although it remains "open to negotiations wishing to secure the lives and existence of Serbs in Kosovo". 
The speaker added that Serbia recognized agreements reached thus far in the EU-sponsored Kosovo dialogue, and expressed his expectation that Greece "will continue to have a firm position, and offer assistance in the fight to respect international law". 
Stefanović accepted an invitation relayed by Stoidis to visit the Greek parliament in Athens, it was announced on Thursday.


=== 2 ===

''La Serbia nell’UE se riconosce il Kosovo''

di Stefano Giantin
su Il Piccolo del 5 settembre 2012

Una dichiarazione di facciata, che ribadisce concetti risaputi. Un’altra, assai meno diplomatica, che ha almeno il pregio di essere onesta e diretta. È iniziata ieri la storica visita a Bruxelles del premier serbo, Ivica Dacic. Una visita storica perché suggella il coronamento di una lunga e travagliata carriera, quella del leader socialista, che l’ha portato a trasformarsi da portavoce di Miloševic in premier pro-Europa. Ma storica anche perché, per la prima volta così apertamente, l’Ue ha messo Belgrado davanti a un “aut aut” pubblico, non più sussurrato nel chiuso delle stanze del potere. Un “aut aut” pronunciato dal presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, dopo una «molto franca» conversazione con Dacic. 
Schulz che ha spiegato di aver illustrato alla controparte serba che «le relazioni tra Serbia e Kosovo», nel cammino verso «uno sviluppo pacifico, devono concludersi col mutuo riconoscimento». È questa la principale «pre-condizione», ha detto Schulz, che si para tra Belgrado e l’entrata nell’Ue. Un’entrata che avverrà solo «soddisfacendo tutti i criteri» definiti da Bruxelles e «stabilendo relazioni pacifiche tra i due Paesi», ha specificato il politico tedesco. Ma come aspettarsi che la Serbia riconosca il Kosovo? Si tratta di un obiettivo «fra i più delicati, ma non impossibile», richiesto dall’Ue «nella sua interezza», malgrado le diverse posizioni di alcuni Stati membri, ha suggerito Schulz. La dichiarazione più di facciata, con il ricorso al tradizionale “bastone e carota”, era arrivata invece, in mattinata, dal presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Il «futuro» di Belgrado «è in Europa». Ma, alla fine, «la velocità dell’avanzamento» di Belgrado verso la piena integrazione europea è tutta «nelle mani della Serbia». 
Poi, il consueto ammonimento. Bruxelles si attende di «vedere la Serbia fare progressi nel suo percorso verso l’Ue diventando un suo membro». Non prima, naturalmente, che «le ben conosciute e necessarie condizioni siano soddisfatte». Quali? Belgrado dovrà continuare a impegnarsi nel campo delle «riforme politiche, del sistema giudiziario», nella «lotta contro corruzione e crimine organizzato», nel rispetto «dei media e delle minoranze». Non solo. Tenuto conto della grave situazione economica, va migliorato «il business environment», un altro fattore su cui lavorare «per attirare investimenti, migliorare le esportazioni e alleviare la disoccupazione». Senza dimenticare il nodo Kosovo. Ma sul tema valgono le successive e più dirette affermazioni di Schulz. Da parte sua, un accigliato Dacic ha ribadito che i criteri Ue saranno soddisfatti e che il suo governo «vuole fortemente rimanere sulla strada verso l’Ue». Una strada che includerà, ha promesso Dacic, un più intenso dialogo con Pristina, «anche su temi politici e non solo tecnici». Ma del riconoscimento del Kosovo non se ne parla.




Ancora su Il Piccolo e il razzismo geografico

1) L’essenza “balcanica” e lo “strano ordine” (cronachediordinariorazzismo.org)

2) La risposta del Direttore del Piccolo alla lettera di Giorgio Ellero, e la replica

Si vedano le lettere inviate a Il Piccolo da G. Ellero e C. Cernigoi per l'articolo di cronaca nera che alludeva a una presunta innata "ferocia balcanica":


=== 1 ===


6/9/2012

L’essenza “balcanica” e lo “strano ordine”

Nella notte del 19 agosto, a Lignano Sabbiadoro, due coniugi, Rosetta Sostero, 65 anni e Paolo Burgato, 69, sono stati uccisi nella loro villa. Che si sia trattato di un delitto orribile, le cronache locali e nazionali non lasciano alcun dubbio. Quello che però non convince è l’accanimento che emerge in alcuni articoli nel voler rintracciare a tutti i costi una “pista etnica”, prima ancora che vi sia una qualche indicazione sicura da parte degli inquirenti. Così in diversi casi, ci si concentra sulle cosiddette “bande di stranieri”. Dopo aver consultato diverse testate on line, ci siamo resi conto che la “vulgata” della pista straniera e per giunta, diremmo, anche sessista (poi vedremo perché) è presente in diversi articoli. Vediamo come.

Un “illuminante” articolo de Il Piccolo (Lignano, un supertestimone ha visto gli assassini, del 22/8/20012), comincia, dopo alcuni giorni confusionari di ipotesi e smentite, ad elaborare una propria tesi: “Da un lato, infatti, ci sono quei tagli alla gola (chiamati sorriso di Allah), tipiche delle esecuzioni che avvengono nel mondo islamico. Dall’altro un modus operandi in generale che fa pensare a formazioni criminali di estrazione balcanica o dell’Est Europa” (stesse parole riprese anche da “Il Messaggero Veneto”, nello stesso giorno). Il Piccolo ritorna sull’argomento il 25/8/2012 (Lignano, anche una donna nella banda omicida. Secondo gli inquirenti l’ordine lasciato nella villetta dei Burgato farebbe pensare a una presenza femminile all’interno del commando), dove all’ipotesi “etnica” si aggiunge quella “sessista” (vedi il titolo!): “Le persone che stanno dando a quest’indagine un respiro molto ampio che, naturalmente, guarda anche Oltreconfine visto che al momento una delle ipotesi più accreditate è che il massacro porti la firma di una certa criminalità balcanica”. E ancora (Lignano, prelievi di saliva per arrivare ai killer, del 26/8/2012): “Si sonda nel giro delle bande di ladri e di rapinatori che, provenienti da Paesi dell’Europa dell’Est, fanno base nella regione veneta, da dove poi si spostano per compiere reati in zone limitrofe e tornare in regione. Una delle ipotesi, la matrice balcanica, tenuta già in considerazione, valutando le modalità e l’estrema violenza del duplice fatto di sangue, facendo pensare alla totale mancanza di scrupoli e del benché minimo rispetto per la vita umana”.

La stessa tesi è ripresa dal quotidiano.net in due articoli: uno pubblicato il 26/8/2012 (Coniugi uccisi a Lignano, tracce di due estranei nel garage della villetta), dove si precisa che “due testimoni avrebbero visto un furgone con targa di un paese dell’Est parcheggiato davanti alla villetta con accanto un uomo alto, tatuato, a torso nudo, con indosso pantaloni militari e con accento dell’Est”; e l’altro pubblicato il 27/8/2012 (Delitto di Lignano, coniugi torturati: ad agire furono un uomo e una donna): “Sono stati infatti isolati due diversi tipi di dna: uno maschile e uno femminile. Si rafforza, intanto, l’ipotesi che i materiali esecutori possano essere di origine balcanica. Con i risultati del Dna, prende dunque forza l’ipotesi della presenza anche di una donna nella villetta. Elemento che gli investigatori ricavano dall’aver trovato uno ‘strano’ ordine nelle stanze”.

Anche il quotidiano “La Repubblica”, nell’articolo del 28/8/2012, non è da meno (Lignano, una donna tra gli aguzzini della coppia): “La borsa della signora Rosetta era chiusa ma forse, anche in questo caso, qualcuno ci ha rovistato dentro e poi si è preoccupato di richiuderla o l’ha richiusa nel gesto automatico che spesso capita alle donne (…) Qualcuno ha visto un uomo robusto, coi capelli rasati, che si lavava le mani in strada, mentre vengono smentiti altri elementi come i tatuaggi, la tuta mimetica, gli anfibi, la parlata slava (…)” E tuttavia l’articolo prosegue “Una tortura imposta dai malviventi – forse già in fuga verso i vicini Balcani – per scoprire il nascondiglio del tesoro di famiglia”.

Anche “Il Secolo XIX”, il 2/9/2012 commenta la notizia (Giallo di Lignano, indagini su un circo), raccontando di una nuova “pista”, ovvero quella dei circensi passati in città per uno spettacolo in programma nella data del delitto: “Secondo gli investigatori gli assassini potrebbero essere di origine balcanica, e tra i lavoratori del circo non mancano quelli di origine slava. «Un semplice controllo, e tutti i prelievi sono stati spontanei», sottolineano gli investigatori. «I carabinieri in borghese – riprende il suo racconto Attilio Bellucci – si sono messi tutti attorno alle roulotte, mentre quelli in divisa ci hanno chiesto di uscire e di riunirci. Hanno prelevato a tutti, tranne i bambini, le impronte e il Dna: sono stati gentili e abbiamo collaborato. Poi hanno controllato ogni roulotte, senza portare via nulla. Non avevano sospetti su qualcuno in particolare, ci hanno solo chiesto se avevamo un furgone di un certo modello e colore, e noi non l’abbiamo».

Potremmo proseguire riportando altri esempi, ma ci sembra che questi possano bastare per invitare, ancora una volta, la stampa a prestare una maggiore attenzione. Ci sembra infatti che gli articoli sopra citati sconfinino pericolosamente nella stigmatizzazione delle persone che appartengono o provengono a/da una intera area geografica, alle quali viene attribuita una propensione alla devianza, a prescindere. Come d’altronde, sembra assurda l’associazione tra il coinvolgimento di una donna nell’omicidio e “l’ordine” che avrebbe contraddistinto il luogo del delitto.


=== 2 ===

Inizio messaggio inoltrato:

Dice il Direttore - Re: Il Piccolo e il razzismo geografico
 Inviato da: Giorgio Ellero
 Mar 4 Set 2012 7:01 pm
 
 
 La risposta del direttore de Il Piccolo e la mia replica. 
 La sua disponibilità a pubblicare la mia prima lettera, cui non si dà seguito per mere cause tecniche, mi autorizza implicitamente a pubblicare la sua risposta. 
 
 G.E.
 
 ------- 
 
Se queste sono le Vostre motivazioni, che mi sforzo di reputare veritiere e sincere, avete usato degli INDIZI trapelati dagli inquirenti per criminalizzare un'intera regione europea, e  questo va ben oltre il limitatarsi "a raccontare ai nostri lettori tale percorso di indagine". 
Ritengo questa Sua quindi, una ammissione di colpa o dolo, e come tale la accetto e archivio. 
Stento a crederci, però, visto che gli scritti razzisti da me segnalati compaiono nel giornale domenica 26 agosto, dove si annuncia l'AVVIO della raccolta su vasta scala di campioni di DNA presso i giostrai del circo, gli operai della ditta di famiglia in fallimento e nella cerchia di amici-conoscenti delle vittime, per poi confrontarli con ciò che avevate in mano Voi e gli inquirenti domenica scorsa: un capello, una cicca e poco altro, come pure riportato nel giornale di oggi, a 10 gg di distanza. Il che, a meno di essere preveggenti, è molto poco per imputare il tutto ad una fantomatica banda migrante dal Veneto di gentaglia balcanica dalla ferocia inumana, per poi usarlo per criminalizzare una complessa Regione europea vasta, Romania esclusa, due volte l'Italia (A proposito di crudeltà etno-geografica, di cinismo, di scrupoli e di rispetto per la vita umana: si tratta della stessa Italia che bombarda OGGI gli Afghani con gli AMX come ieri i Balcani con i Tornado, ma questo è un altro discorso, scomodo e che non fa vendere e quindi non va scritto su Il Piccolo, vero?). 
Noto inoltre che sul giornale di ieri 3 settembre la "pista balcanica" scompare, e il tenore del pezzo è asciutto e corretto, come pure nell'articolo odierno firmato di nuovo da Laura Borsani: avete cambiato idea Voi oppure gli inquirenti? 
 
 Dist. saluti
 Giorgio Ellero 
 
 -------- 
 
 On 4 Sep 2012 at 12:37, Segreteria wrote:
 
Buon giorno signor Ellero. Non avrei alcuna obiezione concettuale a pubblicare la sua lettera, che per tanti versi contiene critiche molto stimolanti. Ma la lunghezza del testo rappresenta un ostacolo oggettivo, poichérichiederebbe all'incirca una intera pagina. 
Detta la premessa, non desidero però sfuggire al nocciolo della sua contestazione e dunque le propongo una succinta replica. I giornali di frequente - in rapporto a vicende di cronaca nera di particolare delicatezza - possonomettere solo in parte per iscritto il complesso dei materiali di cui dispongono. Se altrimenti agissero, va da sè che potrebbero nuocere al processo delle indagini. In questo senso, quando negli articoli da lei stigmatizzati indichiamo che la pista principale degli investigatori ha a che fare con una banda di criminali di origini balcaniche, non formuliamo alcun astratto giudizio o pre-giudizio di carattere razzistico geografico. In buona sostanza, in base ai risultati delle analisi sul Dna dei reperti rinvenuti sul luogo del delitto a Lignano, gli inquirenti ritengono vi sia un ambito da privilegiare. E noi ci siamo limitati a raccontare ai nostri lettori tale percorso di indagine.
 
 Un saluto cordiale
 
 Paolo Possamai
 
 
 Paolo Possamai 
 Direttore

 Il Piccolo
 Quotidiano fondato in Trieste nel 1881
 Gruppo Editoriale l'Espresso
 Telefono: 040.3733298 (segreteria)
 Via Guido Reni, 1
 34123 TRIESTE 
 segreteria.redazione@...
 



Sette anni fa moriva Sergio Endrigo

Nell'anniversario della morte del grande Sergio Endrigo, il cantautore nato a Pola nel 1933, vogliamo ricordarlo con le sue canzoni più "jugoslave".


La famiglia di Endrigo aveva optato per l'emigrazione in Italia nel 1947, in base a quanto previsto dal Trattato di Pace (1). Da poeta quale poi divenne, Endrigo seppe tramutare le memorie lontane della sua infanzia nella nostalgia struggente della canzone "1947", dedicata alla sua città natale; ma da amico della pace e della fratellanza fra i popoli (2), e particolarmente amico dei popoli della Jugoslavia, egli continuò a frequentare quelle terre, anche quando era all'apice della sua carriera, partecipando tra l'altro al festival della Canzone di Spalato, e con innumerevoli apparizioni televisive e radiofoniche sui canali jugoslavi. 

Fu amico personale di Arsen Dedić, grande cantante dell'altra sponda adriatica, e con Ivan Pavičevac (3) imparò a pronunciare correttamente i testi in lingua serbocroata delle canzoni che presentava al pubblico jugoslavo.

Da vivo, Endrigo non si definiva "esule". E non si sarebbe mai prestato a quelle strumentalizzazioni di grande squallore sulla sua vicenda personale, iniziate solo di recente da settori revanscisti-irredentisti istriano-dalmati. Le speculazioni su "Endrigo esule" sono possibili solo post-mortem poiché in vita Endrigo fu piuttosto un internazionalista, un antifascista, tra l'altro militante del Partito Comunista Italiano (4), e di sicuro non le avrebbe mai gradite, tantomeno alimentate! Esse sono solamente il segno del cinismo dei tempi in cui viviamo: per un ventennio prima della sua morte, Endrigo era stato quasi dimenticato e pressoché espulso dai palcoscenici "che contano"; dopo la sua morte, qualcuno se ne approfitta perché lui, Endrigo, non può più parlare.

Ma al suo posto parlano le sue canzoni, che vi proponiamo di seguito.

(a cura di I. Slavo per JUGOINFO)

(1) TRATTATO DI PACE CON L’ITALIA (10 FEBBRAIO 1947):
Il testo originale in inglese completo anche degli allegati dal VI al XVII si può scaricare qui:
(2) Fu legato a Cuba - tanto da creare una canzone sui versi della "Rosa bianca" di José Martì - e più in generale all'America Latina.
(3) Pavičevac è attualmente presidente del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus.
(4) Sul tema si veda ad esempio:
Il ricordo di Aldo Garzia su Liberazione del 9 settembre 2005
Il ricordo di Leoncarlo Settimelli su l'Unità dell'8 settembre 2005

---

Arsen Dedić i Sergio Endrigo - Spletka pjesama

Sergio Endrigo - Više te volim (1970)

Sergio Endrigo - Kud plovi ovaj brod (1970)

Kemal Monteno i Arsen Dedić - Kud Plovi Ovaj Brod
(il ricordo commosso di Sergio Endrigo da parte dei grandi cantanti jugoslavi Kemal Monteno e Arsen Dedić)


... e ancora:

Sergio Endrigo - La ballata dell'ex
[sul tradimento della Resistenza antifascista]

Sergio Endrigo e Max Manfredi - Il tango rosso

Il sito ufficiale del cantante, creato poco prima della sua morte:

---


Da quella volta 
non l'ho rivista più, 
cosa sarà 
della mia città. 

Ho visto il mondo 
e mi domando se 
sarei lo stesso 
se fossi ancora là. 

Non so perché 
stasera penso a te, 
strada fiorita 
della gioventù. 

Come vorrei 
essere un albero, che sa 
dove nasce 
e dove morirà. 

È troppo tardi 
per ritornare ormai, 
nessuno più 
mi riconoscerà. 

La sera è un sogno 
che non si avvera mai, 
essere un altro 
e, invece, sono io. 

Da quella volta 
non ti ho trovato più, 
strada fiorita 
della gioventù. 

Come vorrei 
essere un albero, che sa 
dove nasce 
e dove morirà. 

Come vorrei 
essere un albero, che sa 
dove nasce 
e dove morirà!

---

Sergio Endrigo - Ljubica (1971)

Je m' promenais par les Balkans,
De Sarajevo a' Dieu sais ou',
Au milieu d' brumeux palais
Pleins de memoires.
Les boulevards deja' jaunis,
L'hiver se glisse dans mon coeur
Et soudain, sans y songer,
J'ai rencontre' la joie.

Oh, ljepa Ljubica, Ljubica,
Avec tes dix-sept ans
Sur la bouche et tes cheveux,
Odeur de mer et du printemps.
Ljubica, Ljubica,
Ton beau rire dans ta gorge
Est comme un fleuve qui vient a' moi.

Tu dessines mon visage,
Me touchant du bout du doigt,
Tu dis q' ton coeur 
E trop petit pour moi,
Dans la chambre liberty, 
Les rideaux deja' tires,
Ton parfum sur l'oreiller,
Tu peux me croire, j'etais content.

Oh, moja Ljubica, Ljubica,
J'oublie tout mon passe',
Le present, ca m' fait du mal,
Si je pense au lendemain.
Ljubica, Ljubica,
Tu me donnes a' pleines mains
L'illusion d'avoir vingt ans...

C'etait pareil a' la chanson
Que tue les reves au petit jour,
Le soleil fait un p'tit tour
Et fit le soir,
Le train noir qui te prendra
Dernier sourire dans la fumee,
Nous crions: ''on se verra'',
Mais nul n'y croit, ni toi, ni moi.

Souviens toi, Ljubica, Ljubica
Et moi j'essais de rire,
Puis je perds au premier bar
L'illusion d'avoir vingt ans...

Oh, moja Ljubica, Ljubica,
Sur ta bouche et dans ton corps 
Odeur de mer et du printemps.

---


In tutti i miei pensieri
di sempre o nati ieri,
insiste.
Uno che ha voglia di cantare,
come un valzer che ti fa girare
la testa.
Come una musica ostinata,
sentita e mai scordata,
Trieste.
Un vento all'improvviso,
che ti bacia forte il viso,
Trieste.
Mare e cielo senza fondo,
ombelico del mio mondo,
Trieste.
Una nave impavesata
di bianco col celeste,
Trieste.
Una rosa in un bicchiere,
due gerani al davanzale,
Trieste floreale.
Canzoni antiche da osteria,
di vino, donne e nostalgia,
Trieste mia .
Foto di gruppo a Miramare
in divisa da marina,
Trieste in cartolina
e i tuoi vecchi in riva al mare,
una sirena per sognare, 
Trieste.
Trieste valzerina,
allegra e boreale,
Trieste imperiale,
favorita del sultano
e dell'imperatore,
Trieste, l'amore.

Come una donna non trovata,
perduta e poi cercata,
Trieste ritrovata,
tricolore a primavera,
bandiera di frontiera,
Trieste bersagliera.
Speranza rifiorita
e subito tradita,
Trieste ferita.
Romana e repubblicana,
vendi cara la sottana,
se devi essere italiana.

Allegra e valzerina,
Trieste imperiale,
favorita del sultano
e dell'imperatore,
Trieste, l'amore.

Speranza rifiorita
e subito tradita,
Trieste ferita.



(slovenščina / italiano)

Basovizza 9/9, Gorizia 12/9: celebrazioni antifasciste

1) Basovizza/Bazovica 9/9: cerimonia in ricordo dei quattro fucilati
2) Gorizia/Gorica 12/9: a ricordo dei Caduti partigiani


=== 1 ===

http://bora.la/2012/09/06/basovizza-domenica-9-settembre-manifestazione-in-ricordo-dei-quattro-fucilati-il-6-settembre-1930/

Basovizza: domenica 9 settembre cerimonia in ricordo dei quattro fucilati il 6 settembre 1930

Il 6 settembre cade l’anniversario della fucilazione dei quattro antifascisti sloveni (Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Alojz Valenčič e Zvonimir Miloš) condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato nel 1930 nel corso di quello che è passato alla storia come il “primo processo di Trieste”.  Essi furono condannati dal Tribunale Speciale perché avevano fatto parte di un’organizzazione antifascista.  Appuntamento domenica 9 settembre, alle 15 davanti al monumento di Basovizza.

(inserito giovedì 6 settembre 2012)

--

Sulla fucilazione dei quattro antifascisti sloveni (Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Alojz Valenčič e Zvonimir Miloš) condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato nel 1930 nel corso di quello che è passato alla storia come il “primo processo di Trieste” si vedano i documenti seguenti:

MARTIRI DI BASOVIZZA, 6 SETTEMBRE 1930
di Claudia Cernigoi - settembre 2012

BIDOVEC - MARUŠIČ - MILOŠ - VALENČIČ
Riproduzione dell'opuscolo della sezione ANPI-VZPI del Coro Partigiano Triestino (1988)


=== 2 ===

Gorizia / Gorica
Mercoledì 12 settembre 2012 ore 18.00

Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Sezione di Gorizia
Vsedržavno Združenje Partizanov Italije - Sekcija Gorica

Nel 69° anniversario della Battaglia partigiana di Gorizia invito la S.V. alla deposizione della corona d’alloro a ricordo dei Caduti che avrà luogo mercoledì 12 settembre 2012 alle ore 18.00 nel Piazzale Martiri per la Libertà d’Italia presso la stazione ferroviaria.

Ob 69. letnici Goriške fronte Vas vljudno vabim na položitev venca v spomin na Padle, v sredo 12.septembra 2012, ob 18.00 uri, na Trgu pred južno železniško postajo.

(fonte: http://www.facebook.com/events/112215952262400/ )




(Gli intellettuali europei nell'ultimo ventennio sono stati troppo spesso "mosche cocchiere" dell'interventismo imperialista e della guerra... Se i casi francesi sono clamorosi - Cohen-Bendit, Henry-Levy, Glucksmann - quelli italiani purtroppo non sono meno significativi - si pensi ai toni patetici, eppur guerrafondai, di un Sofri, o alla retorica lombrosiana di un Rumiz, sempre rivolta contro "il barbaro cattivo" di turno... Di tutto sono capaci questi affabulatori, tranne che di una sana e onesta autocritica, che sarebbe tanto più urgente quanto più si approssima il rischio di nuove guerre ben più devastanti, forse anche nucleari. A cura di I.S. per Jugoinfo)


European intellectuals’ fears of a new war: dangerous lack of self-critique

Tags: Europe , Dmitry Babich, Society, mass media, World, Opinion & Analysis

Dmitry Babich
Sep 6, 2012 02:05 Moscow Time

There is something substantial that changed in Europe’s intellectual landscape during the last 1-2 months: talk of a new “big war” (some intellectuals even say “world war”) is no longer taboo.

“The Drums of War in the Middle East” – that is the title that the former German foreign minister Joschka Fischer has chosen for his opinion piece for Project Syndicate. “This World War that Ambushes Us” – the prolific French writer Max Gallo, former secretary of state in the French government under president Francois Mitterand in the 1980s, echoes Fischer’s fears in the French daily Le Figaro. “The Virus of a Total War” – that is the title of an article by Gueorgy Mirsky, a veteran pro-Western Russian Arabist and a brilliant intellectual, in the Moscow-based Nezavisimaya Gazeta.

What happened? When reading these articles, one gets an impression that the dangerous war nearing us is not a man-made affair, but some natural disaster that comes from nowhere. There is no sign of repentance or self-critique, despite the fact that this time the destabilization again came from Western Europe – just like during the previous two world wars, both started by West European powers.

“No one can predict in which direction the Islamist Sunni president of Egypt and his Islamist parliamentary majority will take the country,” writes Fischer, adding a bleak prediction of “a combination of grave economic and political crises, that may produce a cumulative effect at some mega-decisive moment.” At the end of the paragraph he adds: ‘The Sunni Islamists are drastically changing the regional politics [of the Middle East]. This new regional realignment of forces does not have to be anti-Western, but it will certainly become anti-Western if Israel or the United States attack Iran militarily.”

How very interesting. Can Mr. Fischer, one of the architects of modern Western foreign policy, name just one of the aforementioned crises that would not be Western-made? Who hastily supported the so called “Arab spring” in Egypt and Libya despite Russia’s warnings and doubts? Wasn’t it this support, as well as the Western engagement on the rebel Sunni side in the mutiny in Syria that brought about a dramatic growth of Islamist Sunni influence in regional politics? Which “economic and political” crises does Fischer mean? If he means the debt crisis in the Eurozone and the rising unemployment in Greece and Spain, it is a direct consequence of HIS policies, as well as the policies of his colleagues from the European Union (it was under Mr. Fischer as the foreign minister that euro was introduced and whole branches of traditional European industries were made redundant by the EU integration). And if Mr. Fischer means the crisis of international law, it was HIS support for the illegitimate war against Yugoslavia in 1999 that brought to fruition the crisis that we saw in Libya and continue to see in Syria.

Mr. Fischer’s negative attitude to Russia and especially to its president, Vladimir Putin, is well known. But, strangely, in his article Fischer in fact voices the same concerns which Putin voiced in his electoral campaign in winter this year – with a six months long delay. The arbitrary nature of the joint handling of the Iranian nuclear issue by Israel and Iran, the lack of regard for international law and long-established rules of foreign policy – Putin spoke about those things months earlier, but at the time these concerns were dismissed by European politicians, including Mr. Fischer, as “anti-Western propaganda.”

“If Iran is determined to prevent the regime change in Syria by all means at its disposal, does it mean that the militias of Hezbollah in neighboring Lebanon will get involved in the civil war in Syria? Will such an intervention revive the memories of the civil war in Iran, that took place in 1970s and 1980s?” Fischer asks rhetorically. There is no doubt that both of his fears have a very high chance of materializing, but whose fault will it be? Who destabilizes Syria and continuously harasses Iran by economic sanctions and aggressive political pressure? The EU and the US. Who brought about the creation of Hezbollah? The Israeli attack against Lebanon in 1982. But there is no word about it in Fischer’s text. And, of course, no shadow of remorse.

Max Gallo, also a former government member, but now more known as a historian and a political thinker, talks about a new global conflict – a disaster of the same proportions as the World War II, which, as he concedes, shaped his writer’s personality. “The UN and the WTO are powerless,” he complains in his article for Le Figaro, painting a picture of global disorder not only in the Middle East, but also in his native Europe. The question looms however: who conducted the wars in Yugoslavia and Iraq without UN’s approval and who barred Russia from entering the WTO for 13 years under artificial pretexts?

Max Gallo writes that he is afraid of a chain reaction of conflicts, which, starting in Syria, may get other countries involved – with the Middle East playing the same role of a fuse that the Balkans played in 1914. A wise comparison, but why is Mr. Gallo so pessimistic about Europe’s ability to stop this chain reaction? After all, one of the saddest details about the World War I was that there were so few European intellectuals who raised their voice against the war in 1914, dismissing lots of mutual (and largely imaginary) fears that led to this fratricidal conflict.

Unfortunately, some modern European intellectuals play an incendiary role, raising the flames of unfounded fears instead of extinguishing them.

Here is one example. Andre Glucksmann, France’s most anti-Russian “philosopher,” when answering questions from Der Spiegel magazine this week, says: “In this anarchist context, Europe must reaffirm its power and take a position of attack, not defense, against the threats facing it. Putin’s Russia, with its desire to reconquer a part of its former power, is one such threat.”

Here we are again in 1914, with somber predictions and invented enemies.



Il prigioniero di guerra della NATO Dragoljub Milanovic è finalmente libero!

Dragoljub Milanovic, già direttore della Radiotelevisione della Serbia -RTS- era stato incarcerato poco dopo il golpe avvenuto in Serbia a fine 2000, e condannato nel 2002 a 10 anni di prigione con l'accusa infamante di essere il responsabile indiretto (!) della morte di 16 suoi colleghi della RTS, vittime delle bombe della NATO.
Un destino kafkiano ha voluto che Milanovic fosse così usato come capro espiatorio e per "coprire" mediaticamente la vera responsabilità della strage, che era e rimane tutta intera a carico degli avieri della NATO e dei loro mandanti politici e militari. Infatti gli assassini stragisti responsabili della morte di quelle 16 persone - è bene ricordarlo - non sono stati ancora sottoposti ad alcun processo e sono sempre rimasti a piede libero.

Sul caso Milanovic si veda la petizione pubblica lanciata nel 2010:

Sulla strage alla RTS di Belgrado, nella notte tra il 22 ed il 23 aprile 1999, si vedano invece :
il Rapporto di Amnesty International 
https://www.cnj.it/24MARZO99/amnesty2000.htm
la pubblicazione "SEDÌCI PERSONE. Le parole negate del bombardamento della TV di Belgrado" di Corrado Veneziano - in DVD con il libro: “Se dici guerra umanitaria"
https://www.cnj.it/24MARZO99/criminale.htm#sedici
il libro di Peter Handke: Die Geschichte des Dragoljub Milanovic, Jung und Jung, Salzburg und Wien 2011

(a cura di I. Slavo per CNJ-onlus)

---

Da: "Y.&K.Truempy" <trumparzu @ bluewin . ch>
Data: 05 settembre 2012 20.29.05 GMT+02.00
Oggetto: NATO-Kriegsgefangener Dragoljub Milanovic frei!

NATO-Kriegsgefangener Dragoljub Milanovic aus dem Gefängnis entlassen!
Im März 2009 demonstrierte eine internationale Delegation mit Peter Handke und der Anwältin Tiphaine Dickson zusammen mit dem ICDSM im serbischen Posarevac gegen die skandalöse Inhaftierung des ehemaligen Direktors des Staatssenders RTS Dragoljub Milanovic. Unter fadenscheinigen Begründungen wurde er nach dem Sturz von Slobodan Milosevic für die 16 Toten verantwortlich gemacht, welche 1999 bei der kriegsverbrecherischen NATO-Bombardierung des RTS-Gebäudes ums Leben kamen.
Einer jW-Meldung (siehe unten) ist nun zu entnehmen, dass Dragoljub Milanovic am 1.September aus dem Gefängnis entlassen wurde! Der neue serbische Präsident Tomislav Nikolic dürfte auf eine Beendigung dieses unsäglichen Zustandes gedrängt haben, für den sein - dem Westen verpflichteter - Vorgänger Boris Tadic mitverantwortlich zeichnet.
K.Trümpy, ICDSM Schweiz

 

 

 

NATO-Kriegsopfer

Früherer RTS-Direktor wieder frei

Von Rüdiger Göbel
Friedensbewegung und Gewerkschaften erinnern an diesem 1. September wieder an den deutschen Überfall auf Polen und den Beginn des Zweiten Weltkriegs vor 73 Jahren. In mehr als 150 Orten der BRD gehen die Menschen auf die Straße. Rüstungsexporte, der Krieg gegen Syrien und ein drohender Angriff auf Iran sowie der Widerstand gegen Neonaziaufmärsche sind die Schwerpunkte der Aktionen zum Antikriegstag.

An dieser Stelle soll an einen Mann erinnert werden, der an diesem 1. September wieder die Freiheit erlangt. Zehn lange Jahre war Dragoljub Milanovic im serbischen Pozarevac eingesperrt. Haftverschonung oder vorzeitige Entlassung waren abgelehnt worden. Dragoljub Milanovic war während des NATO-Krieges gegen Jugoslawien 1999 Direktor von Radio-Televisija Srbija, dem Staatssender RTS. In der Nacht vom 22. auf den 23. April, kurz nach zwei Uhr, feuerten Bomber des Nordatlantikpakts eine Präzisionsrakete auf das in der Aberdareva-Straße in der Belgrader Innenstadt gelegene Gebäude von RTS ab. 16 Mitarbeiter wurden getötet, das Haus einfach aufgeschlitzt. NATO-Sprecher Jamie Shea sprach von einem »Kollateralschaden«, und proklamierte, die Medien Jugoslawiens – weil Propagandasprachrohr des Feindes – seien im übrigen ein »legitimes Ziel«.

Obwohl der Angriff eindeutig ein Kriegsverbrechen gegen Zivilisten darstellte und obwohl klar ist, wer die politischen Befehlshaber und militärischen Vollstrecker sind, wurde nicht ein einziger von ihnen zur Verantwortung gezogen. Strafverfahren gegen die NATO-Führung, die in Belgrad eingeleitet wurden, sind nach dem vom Westen unterstützten »Regime change« 2000 eingestellt worden. Der Internationale Gerichtshof für das ehemalige Jugoslawien in Den Haag sah keinen Grund, gegen die Verantwortlichen innerhalb der NATO vorzugehen, und der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte erklärte sich für nicht zuständig, juristische Schritte gegen diesen Verstoß gegen das Recht der RTS-Mitarbeiter auf Leben einzuleiten.

Der einzige, der jemals für diesen Luftangriff in einem absurden Prozeß mit fragwürdigen »Beweisen« verurteilt wurde, ist der damalige Chef der bombardierten Institution, Dragoljub Milanovic, weil er es angeblich versäumt hat, seine Mitarbeiter zu evakuieren. Der österreichische Schriftsteller Peter Handke urteilte hierzu richtig: »Damit wurde diesem verabscheuungswürdigen Verbrechen ein weiteres hinzugefügt und der Gipfel der Schamlosigkeit erreicht.«

Der heute 64jährige Dragoljub Milanovic wurde am Freitag aus der Haft entlassen. Um einen großen Medienwirbel zu vermeiden, wenige Stunden vorfristig in der Nacht – wie seinerzeit, als die NATO-Bomben fielen. Noch in diesem Monat soll ihm womöglich ein weiterer Prozeß gemacht werden. Die Mörder seiner Kollegen bleiben ungeschoren. Daran muß immer wieder erinnert werden.
 
junge Welt, 01.09.2012

 

 

Weiteres Details zum Thema im Anhang:

 


»Die Mörder sind ungeschoren davongekommen«

Eines der NATO-Opfer wurde verurteilt: Exchef des Belgrader Senders RTS seit acht Jahren im Knast. Gespräch mit Ljiljana Milanovic

Interview: Cathrin Schütz


Ljiljana Milanovic war Redakteurin des Belgrader Senders Radio Television Serbien (RTS), den ihr Mann Dragoljub Milanovic als Direktor leitete. Vor genau elf Jahren, am 23. April 1999 wurde das RTS-Gebäude von der NATO bombardiert, wobei 16 Menschen ums Leben kamen.
Seit fast acht Jahren sitzt Ihr Ehemann im Gefängnis. Er wurde verurteilt, weil er es angeblich versäumt habe, vor dem Bombenangriff der NATO die Mitarbeiter zu evakuieren. Warum wird ihm angelastet, den Tod von 16 Menschen verschuldet zu haben?

Dragoljub ist die einzige Person, die jemals wegen des Aggressionskrieges der NATO gegen Jugoslawien vor Gericht gestellt und verurteilt worden ist. Die wirklichen Täter wollen sich so ihrer Verantwortung entziehen –schließlich hat die NATO mit diesem Angriff ein Kriegsverbrechen begangen. Das Opfer wurde verurteilt, die Mörder kommen ungeschoren davon.

Ihr Mann wurde beschuldigt, er habe eine amtliche Anweisung mißachtet, die Mitarbeiter zu evakuieren ...

Er wurde aufgrund eines Entwurfs verurteilt, den irgend jemand irgendwo ausgedruckt hat – vor Gericht wurde das Papier als »Order 37« präsentiert. Dieser Entwurf trägt weder Stempel noch Siegel, der Verfasser wurde nie identifiziert. Ein Zeuge behauptete in dem Verfahren, das Original sei am 5. Oktober 2000 verbrannt worden, als der vom Westen gesteuerte Mob das RTS-Gebäude in Brand setzte und meinen Mann dabei halbtot schlug.

Nicht einmal in der Sicherungsdatei, in der alle »geheim« eingestuften Dokumente als Kopien gespeichert wurden, ist eine Version des Originals zu finden. Angeblich ist es bei der erwähnten Brandstiftung mit der Tasche des damaligen Sicherheitsbeauftragten von RTS, Slobodan Perisic, in Flammen aufgegangen. Mein Mann hatte ihm schon 1998 die Verantwortung für die Sicherheit übertragen.

Auf Basis eines solchen Nicht-Dokuments wurde Ihr Mann also für zehn Jahre eingesperrt?

So ist es – aber das Papier verlangte ja nicht einmal die Evakuierung! Im Text heißt es, es liege im Ermessen des Direktors, ob und wann er die Arbeit in ein anderes Gebäude verlegt.

Hintergrund für diese Absurditäten ist der »demokratische Wandel« in Serbien, also der am 5. Oktober 2000 vom Westen inszenierte Staatsstreich. Danach wurde die Anklage Serbiens gegen verantwortliche NATO-Politiker zurückgezogen – statt dessen kam der RTS-Chef vor Gericht. Der Prozeß war eine Propaganda-Show: Der Anklageteil war öffentlich, der Verteidigungsteil wurde geheimgehalten. Als der Oberste Gerichtshof das Urteil bestätigte, behauptete er wahrheitswidrig, die Öffentlichkeit sei von der Verteidigung gar nicht ausgeschlossen gewesen.

Richtig ist allerdings, daß ich mich damals gezwungen sah, die Geheimhaltung zu durchbrechen, indem ich Journalisten Kopien von Dragoljubs Verteidigungsrede aushändigte. Daraufhin wurde ich selbst verurteilt –wegen Verrats von Staatsgeheimnissen. Ein kafkaesker Prozeß!

Wurde Ihr Mann stellvertretend für die Milosevic-Regierung verurteilt, die sich von den NATO-Staaten nichts vorschreiben lassen wollte?

Natürlich, er war immerhin Direktor einer staatlichen Rundfunk- und Fernsehanstalt in der Zeit von Milosevic, als sich das Land gegen den NATO-Angriff verteidigte. Wir haben damals Bilder der durch Bomben getöteten und verwundeten Zivilisten in alle Welt gesendet. Die NATO hat diese Opfer damals zynisch als »Kollateralschaden« abgetan – wozu dann nur nicht die 16 getöteten RTS-Kollegen gerechnet wurden.

Aus Anlaß des zehnten Jahrestages des NATO-Angriffs hat 2009 erstmals eine internationale Delegation Ihren Mann im Gefängnis besucht – dabei waren der Schriftsteller Peter Handke und die Anwältin Tiphaine Dickson. Hatte die Visite Folgen?

Der Besuch hat Dragoljub sehr viel bedeutet. Wir beide hatten das Gefühl, nicht allein zu stehen. Seine Haftbedingungen wurden indes nicht besser. Er kann zweimal im Monat für ein, zwei Stunden Besuch von Familienangehörigen erhalten. Ausgang wird ihm im Gegensatz zu mehrfachen Mördern seit Jahren verweigert. Es gibt aber auch einen Hoffnungsschimmer: Die irische Aktivistin June Kelly hat es vermocht, die irische Sektion von Amnesty International (AI) nach dem Solidaritätsbesuch für diesen Fall zu interessieren. Nun wurde die AI-Zentrale in London beauftragt, den Fall zu untersuchen.


junge Welt, 23.04.2010





(sul razzismo dilagante nella carta stampata italiana si veda anche:
Cresce l’incitamento all’odio razziale in Italia / Racist hate speech in Italian politics and press

===

Da: Claudia Cernigoi <nuovaalabarda  @  yahoo.it>

Oggetto: matrice balcanica

Data: 1 settembre 2012 


Non avendo alcuna speranza di essere pubblicata dal più Piccolo dei quotidiani locali, rendo nota questa mia nota.
Claudia

---
Al Direttore de Il Piccolo
Trieste
 
Leggendo gli articoli di cronaca relativamente al brutale duplice omicidio di Lignano sono rimasta esterrefatta di fronte alla definizione di “matrice balcanica” per gli autori del delitto in quanto esso è stato commesso in “totale mancanza di scrupoli e del benché minimo rispetto per la vita umana”.
Cosa significa “matrice balcanica”? I Balcani sono un territorio molto vasto, da una cartina in Wikipedia si vedono compresi gli Stati della ex Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, la Bulgaria, parte della Romania e la Turchia europea; ma anche la provincia di Trieste, a guardare bene.
E perché attribuire ai popoli, genericamente, dei “Balcani” l’abitudine di commettere delitti tanto efferati? Forse che in Italia non abbiamo mai assistito a delitti efferati condotti senza rispetto per la vita umana, dalle esecuzioni della criminalità organizzata ai serial killer come il “mostro di Firenze” e via dicendo?
Mi permetto di osservare che non mi sembra corretto né opportuno, in una società che diventa sempre più etnicamente mista, porre accenni razzisti di questo tipo negli articoli di cronaca.
 
Distinti saluti
Claudia Cernigoi

===

Da:  Giorgio Ellero <glry  @  ngi.it>
Oggetto:  Il Piccolo e il razzismo geografico
Data:  3 settembre 2012 

Trieste, 3 settembre 2012

All'attenzione de
Il Direttore de Il Piccolo Paolo Possamai
La giornalista Laura Borsani

Mi presento. Sono Giorgio Ellero, cittadino triestino sloveno, famiglie di origine da secoli in provincia, con ramificazioni in Etruria (Pesaro), Slovenia ( Ajdovscina), Gorskj Kotor (Monti di Fiume) e Crna Gora (Montenegro), e altri innesti dalla Pannonia (Kiss). Solo la venuta in armi dell'Italia a inventare la Venezia Giulia, e poi il fascismo, hanno potuto storpiare il mio cognome originale nell'attuale: l'Austro-Ungheria era stata più rispettosa delle culture locali.
Sono quindi un uomo sanguemisto, un allogeno bastardo, con sicure radici balcaniche. Altrettanto certo è che non ho mai sgozzato nessuno, né con poca nè con estema violenza, né sono privo di scrupoli morali o di "benchè minimo rispetto per la vita umana". Trovo invece scritto sul giornale di Trieste che tali comportamenti - assenza di scrupoli morali, ferocia, nessun rispetto per la vita umana - siano insiti nell'animo, forse nel DNA, dei "popoli balcanici", indistintamente dall'etnia vista la composizione multietnica ancora presente nei Balcani: siamo al razzismo non etnico, ma geografico. E se la tara è geografica è quindi anche mia: devo preoccuparmi e affidarmi ad un analista che limiti la mia aggressività, come un rottwailer?

Tali accuse geografico-razziste sono contenute in vari articoli de Il Piccolo di questa settimana, cito ad esempio:

Il giornale di domenica 26 agosto 2012 ha dedicato 2 pagine intere (pagg. 22 e 23) al "Caso Lignano", con un richiamo in prima: "Il massacro della villetta - Svolta a Lignano: prelievo del Dna su decine di persone". Le indagini sono a tutto campo quindi, e gli inquirenti brancolano nel buio, ma "Il Piccolo" risolve per conto proprio che i colpevoli siano stranieri, meglio ancora balcanici. Infatti, in apertura d'articolo a pag. 23 (firmato C.S.) si scrive:
"Dalla rapina sfociata in tragedia al raptus d'ira, fino alla vendetta orchestrata scientificamente. Con il passare dei giorni, gli inquirenti hanno preso e abbandonato diverse piste investigative, precisando sempre di non voler tralasciare alcuna ipotesi."
L'articolo prosegue elencando tutte le incertezze dell'inchiesta, a cominciare dal movente. Buio completo. Nonostante questo, l'articolista nelle ultime righe riesce a
scrivere gratuitamente:
"L'autopsia ha confermato che (le due vittime) prima di essere sgozzate sono state picchiate. Più che un omicidio causato da uno scatto d'ira, insomma, la loro è sembrata un'esecuzione. Con modalità che hanno ricordato [? sic] quelle di alcune bande dell'Est." Chissà quale memoria cela C. S. .
In apertura di pag. 22 si va molto oltre la gratuità dell'accusa razzista. L'articolo è firmato da Laura Borsani. Dopo una cinquantina di righe l'autrice si sbizzarrisce in ipotesi senza alcun fondamento:
"Gli inquirenti lavorano alacremente, ampliando il raggio d'azione anche nel vicino Veneto, per individuare gli autori del duplice omicidio. Si sonda nel giro delle bande di ladri e di rapinatori che, provenienti dall'Est, fanno base nella regione veneta, da dove poi si spostano per compiere reati in zone limitrofe e tornare in regione. Una delle ipotesi, la matrice balcanica, tenuta già in considerazione, valutando le modalità e l'estrema violenza del duplice fatto di sangue, facendo pensare alla totale mancanza di scrupoli e del benché minimo rispetto per la vita umana." 

Razzismo geografico, appunto.

E vediamo ancora "Il Piccolo" di mercoledì 29:
Gli inquirenti non hanno dato alcuna indicazione sulla pista da seguire, ma i giornalisti rincarano la dose usando una pseudoantropologia razzista. Il pezzo, alla pag. 17 della edizione di Trieste, si intitola "Dai soldi all'arma, tutte le tessere del puzzle".  Al capitolo "Pista balcanica", senza che alcuna motivazione o indicazione sia giunta dagli inquirenti in questo senso, l'articolista (articolo non firmato) scrive: 
"I cognugi Burgato sono stati massacrati dai fendenti, entrambi sgozzati. Una violenza e una modalità che hanno fatto pensare a una 'matrice balcanica' per il duplice delitto, opera di chi non ha scrupoli".

Ad aggravare gli scritti georazzisti de Il Piccolo sta l'inserimento di essi in articoli di cronaca criminale in cui non trovano alcuna giustificazione, come anche indicato dagli inquirenti sul "Caso Lignano" che hanno smentito ripetutamente false notizie e piste inventate di sana pianta per riempire le pagine altrimenti vuote del giornale.

Io non so se ci siano gli estremi per una denuncia penale o almeno di un richiamo alla deontologia professionale per divulgazione di notizie infondate atte a turbare e disorientare l'opinione pubblica, reato penale. Ritengo improbabile che la corrispondenza di indicazioni razziste in tre diversi articoli diversamente firmati, e ricorrenti in più giorni, possano essere imputati al caso o a sviste della direzione: l'intenzione di criminalizzare una specifica area geografica appare palese. Interessante sarebbe da verificare se trattasi di iniziativa indipendente locale, o suggerita e magari sovvenzionata da un qualche "altrove".

Non pretendo che Il Piccolo pubblichi questa mia lettera integrale o in forma ridotta sulle sue pagine: mi limito ad inviarla in rete, cosicchè in due ore farà il giro del nostro piccolo mondo, Balcani compresi.

Cari saluti, Piccolo.

Giorgio Jure Ellero





MARTIRI DI BASOVIZZA, 6 SETTEMBRE 1930

Il 6 settembre cade l’anniversario della fucilazione dei quattro antifascisti sloveni (Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Alojz Valenčič e Zvonimir Miloš) condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato nel 1930 nel corso di quello che è passato alla storia come il “primo processo di Trieste”.

Una delle affermazioni che spesso si sentono fare a proposito di questi martiri, attivisti del TIGR (acronimo di Trst, Istra, Gorica, Rijeka) è che in fin dei conti erano “terroristi” riconosciuti colpevoli e condannati a morte da un tribunale e quindi non avrebbero diritto ad onoranze ufficiali.
Il ragionamento potrebbe non essere del tutto peregrino, se non fosse per un paio di particolari di non poco conto. Innanzitutto che dare per oro colato una sentenza di un Tribunale che non era espressione di uno Stato democratico, ma che era stato creato a scopo repressivo per gli oppositori alla dittatura instaurata da Mussolini, non ci sembra un segnale di avere compreso cosa sia la democrazia.
Infatti il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato non era un tribunale imparziale ed al di sopra delle parti, ma uno dei tanti tentacoli di oppressione del regime fascista. Prova ne sia che tutte le sentenze da esso emanate sono state dichiarate illegittime dal decreto legislativo luogotenenziale n. 159, emesso il 27/7/44 ed operativo dal 29/7/44 (data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale). Recita infatti l’art. 1: “sono abrogate tutte le disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo; le sentenze già pronunciate in base a tali disposizioni sono annullate”.
Per processare gli antifascisti del TIGR nel settembre del 1930 il Tribunale si spostò in trasferta a Trieste; il presidente del Tribunale era il console generale della milizia fascista Cristini, mentre il pubblico ministero era il magistrato, già avvocato, Massimo Dessy, la cui carriera nel Tribunale speciale era iniziato un paio d’anni prima, quando era stato nominato pubblico ministero nel corso di un processo, svoltosi nell’ottobre del 1928, a carico dell’operaio comunista Michele Della Maggiora di Ponte Buggianese (PT). Questi era rientrato al proprio paese dopo anni passati all’estero come emigrato, ed era stato sottoposto a pesanti vessazioni da parte dei fascisti locali, gli era persino stato impedito di trovare un lavoro. All’ennesima aggressione aveva reagito sparando contro tre fascisti, uccidendone due. Nel corso del processo il pubblico ministero in carica, Carlo Baratelli, si era rifiutato di chiedere la condanna a morte per il delitto di strage, ed ebbe perciò un duro scontro con il presidente Cristini, che decise di sostituirlo con l’avvocato Dessy. Il nuovo PM chiese la condanna a morte per l’imputato, che fu comminata: questa è la prima sentenza capitale eseguita in seguito ad una decisione del Tribunale speciale.
Per conoscere la storia del Tribunale speciale vi consigliamo la lettura del testo “Aula IV” (edito da La Pietra nel 1976 e curato da Adriano Da Pont, Alfonso Leonetti, Pasquale Maiello e Lino Zocchi), nel quale si trovano i dispositivi di tutte le sentenze da esso emanate e gli elenchi degli imputati e le condanne ad essi comminate ed anche una tabella riassuntiva dell’attività di questo tribunale, che dal 1927 al 1943 giudicò 5.619 persone, condannandone 4.596, comminando un totale di 27.752 anni di prigione, 3 ergastoli e 42 condanne a morte, di cui 31 eseguite (10 nella nostra sola regione: prima dei quattro martiri di Basovizza fu condannato a morte a Pola Vladimir Gortan il 16/10/29 e fucilato il giorno dopo, mentre il 14/12/41 fu emessa la sentenza del “secondo processo di Trieste”, quando furono condannati a morte Pinko Tomažič, Ivan Ivančič, Simon Kos, Ivan Vadnal e Viktor Bobek): le altre furono commutate in ergastoli che vanno aggiunti ai 3 prima citati.

Presso l’Archivio di Stato di Trieste (fondo Prefettura, busta 270/Gab) si trova il seguente carteggio a proposito del magistrato Massimo Dessy. La lettura di questi documenti (dei quali riportiamo la trascrizione) è significativa per la comprensione della qualità della “giustizia” amministrata dal Tribunale speciale. Ringraziamo Primož Sancin che li ha rintracciati e ce ne ha cortesemente dato copia.

Telegramma di Mussolini al prefetto di Trieste Fornaciari (12/4/28).
N.R. 11231 Personale decifri da se stop mi dia precisa notizia sul magistrato Dessy sostituto procuratore et precisamente sulla sua fede fascista et dedizione al regime perché suo nome stato avanzato per tribunale speciale.
Firmato: Mussolini.

Risposta del prefetto Fornaciari (17/4/28).
Radio tel. 123 al N.R. 11231 pers. Dessi (sic) com. uff. Massimo sostituto procuratore applicato Procura generale questa Corte appello risulta ottimo magistrato sotto ogni punto di vista di sicura fede fascista in piena sintonia regime (illeggibile) completo affidamento per funzioni presso Tribunale speciale.
Firmato: Prefetto Fornaciari

Tornando alla querelle sulle cerimonie riteniamo che tale presa di posizione sia del tutto strumentale, infatti in tutti questi anni nessuno di coloro che si sono recati a rendere omaggio alla cosiddetta “foiba” di Basovizza si sono posti il problema di chi sia stato effettivamente ucciso lì dentro. Infatti l’unica persona che risulta (da atti ufficiali) “infoibata” nel Pozzo della Miniera, è un certo Mario Fabian che aveva lasciato il suo posto di tranviere per arruolarsi nell’Ispettorato Speciale di Collotti, ed era stato riconosciuto come uno dei protagonisti del rastrellamento di Boršt del 10.1.45, che causò la morte immediata di tre partigiani, più uno ucciso nella Risiera, senza contare le ruberie e le violenze inflitte alla popolazione del paese. Fabian fu indicato come uno dei torturatori con “l’apparecchio elettrico” e si era pure accanito contro il parroco che aveva cercato di intercedere per gli arrestati. In seguito a ciò Fabian era stato inserito in un elenco di “collaboratori” di Collotti che erano stati condannati a morte dai tribunali partigiani ed era stato quindi emanata una sentenza contro di lui, che alcuni partigiani eseguirono (tutto questo, almeno, è quanto risulta dal processo che fu celebrato a carico di coloro che ammisero di avere ucciso Fabian). Però, come si diceva, nessuno si pone il problema di chi va ad onorare quando si reca alla foiba di Basovizza, “stranamente” certi scrupoli escono fuori solo quando si parla di antifascisti, soprattutto se non erano d’etnia italiana.
Ma torniamo ai quattro martiri di Basovizza. Essi furono condannati dal Tribunale Speciale perché avevano fatto parte di un’organizzazione antifascista. Che questa organizzazione fosse considerata eversiva dallo stato fascista non dovrebbe fare specie a chi si identifica nell’attuale stato democratico antifascista. Che questa organizzazione abbia anche compiuto attentati, non dovrebbe altrettanto fare specie a chi riconosce il diritto alla lotta di liberazione da una dittatura. Tra l’altro bisogna anche ricordare che degli attentati attribuiti ai quattro, solo in uno morì una persona. Ed a questo punto bisogna aprire una parentesi sulla questione dell’attentato al “Popolo di Trieste”, organo del partito fascista, in seguito al quale morì Guido Neri, perché le cose non sono tanto chiare quanto vorrebbero fare credere i nostri nostalgici.
Nella documentazione processuale conservata presso l’Archivio di Stato di Roma, ed a noi trasmessa ancora da Sancin, leggiamo che a Fran Marušič furono sequestrati alcuni articoli di giornale, tra i quali vengono riportati i seguenti:
“La Libertà”, del 15/3/30, titolo “Dopo l’attentato al giornale”. Leggiamo: “Le indagini sull’attentato al Popolo di Trieste non hanno approdato a nulla. La polizia sta perdendo la testa ed arresta a casaccio, poi rilascia gli arrestati per tornare ad arrestarli il giorno dopo. Il noto squadrista Mario Forti, oggi dissidente, era stato arrestato come sospetto dell’attentato e come schiaffeggiatore del console argentino. Ora egli è di nuovo in libertà. È stato invece fermato il Direttore del popolo di Trieste, conte Cardini Saladini, sembra in seguito a verifiche amministrative. Il giornale infatti ha un passivo enorme. Da due anni l’amministrazione non è in grado di pagare l’affitto. Il fascista Guido Neri, rimasto ucciso in seguito all’attentato, era stato in quei giorni licenziato dal giornale, in seguito a dissidio con il direttore.
A proposito degli arresti eseguiti a Trieste per la bomba al Popolo di Trieste, riceviamo conferma che l’attentato è dovuto ad elementi fascisti. Sul luogo dello scoppio sono stati trovati manifestini che si sono dimostrati stampati nella tipografia del giornale. Sono state fatte perquisizioni in case di tutti i tipografi. Pare che il giornale dovesse licenziare una parte dei 25 impiegati e redattori. Certo ora è in stato fallimentare, ridotto com’è a meno di ventimila copie giornaliere.
La conferma di quanto sopra è data dalla scarcerazione di tutti i comunisti e slavi. Rimangono in prigione solo i fascisti. Tra di essi vi è uno dei tipografi. Si tratta di un ex repubblicano passato al fascismo. Fu arrestato, rilasciato e riarrestato… ”
Ed ancora dal numero del 22/3/30. Titolo: “L’attentato di Trieste. Gerarchi fascisti arrestati e accusati di aver collocata la bomba”. Testo. “Perché mai i giornali fascisti non parlano più dell’attentato di Trieste? La ragione è semplice: perché ormai è provato che l’attentato parte dagli stessi fascisti dissidenti. A complemento delle notizie già pubblicate siamo oggi in grado di assicurarvi che a seguito dell’attentato sono stati arrestati l’ex segretario federale fascista Cobolli-Gigli e l’ing. Menesini ex redattore al Popolo di Trieste. È risultato che lo scoppio è dovuto non ad una granata ma a un tubo di gelatina. Pare che la vittima, il giornalista Neri, sia rimasto mortalmente ferito mentre metteva il tubo”.
Siamo d’accordo che questo è quanto scriveva la stampa “di parte”, cioè antifascista (la “Libertà” era l’organo degli antifascisti socialisti esuli in Francia e vi collaboravano anche i fratelli Rosselli), però non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta che i fascisti facevano un attentato e poi ne attribuivano la colpa ad altri. Tenendo inoltre conto della situazione finanziaria disastrosa del giornale, quale modo migliore per sistemare il tutto che farsi un auto-attentato per poi non dover pagare i debiti e licenziare in pace la gente? Capita ancora oggi che qualcuno truffi le assicurazioni con questo sistema.
In sintesi riteniamo che, oltre a chiedere l’annullamento della sentenza in quanto emessa da un Tribunale dichiarato illegittimo, sarebbe anche opportuno riaprire le indagini su questo attentato (intendiamo dal punto di vista storico, ovviamente), per ristabilire la verità storica oltre che giuridica.
Concludiamo riportando quanto Vincenzo Cerceo ha trascritto dai “Diari” del professor Diego de Henriquez, che fornisce una testimonianza diretta ed inequivocabile anche della fucilazione dei quattro antifascisti di Basovizza nel 1930. Ne parla esattamente nel Diario n. 254, pagine 36.720 e seguenti. All’epoca egli era ufficiale della riserva della Milizia fascista in Trieste e per l’occasione fu incaricato di assistere all’esecuzione. Di quell’evento dunque, dà una descrizione dettagliata, integrata anche da uno schizzo topografico del poligono, indicante la dislocazione del plotone di esecuzione e quella dei condannati. Egli era ad una certa distanza dal luogo esatto dell’esecuzione, ma era perfettamente in grado di vedere e sentire tutto. Al momento in cui l’ufficiale della Milizia comandante del plotone d’esecuzione ordinò di caricare e presentare i moschetti, si udirono delle grida non forti ma chiaramente distinguibili, provenienti dal gruppo dei condannati. De Henriquez udì chiaramente queste parole: “Živjo”, oppure “Živeli”, “Viva” e “Jugoslavia”. Si ha, dunque, conferma del fatto che i condannati morirono inneggiando alla Jugoslavia. Di tutto questo de Henriquez afferma di avere riferito al Comando della Milizia con dettagliata relazione.

Claudia Cernigoi

Settembre 2012





Table ronde du Groupe des 77 et la Chine : « Quel avenir et quels défis pour l’Unesco ? »

Jean Bricmont
18 juin 2012

L'acte constitutif de l'Unesco parle de deux concepts, « le maintien de la paix et de la sécurité... en resserrant la collaboration entre nations » et le « respect universel des droits de l'homme », concepts que certains opposent depuis quelque dizaines d'années en Occident en invoquant le « droit d'ingérence humanitaire », unilatéral et militaire, ou la « responsabilité de protéger ». Ils s'opposent, au nom des droits de l'homme, au maintien de la paix et à la collaboration entre nations.



Leur cible principale est la notion d’égale souveraineté entre les États, sur laquelle est fondé le droit international contemporain. Les partisans de l'ingérence humanitaire, dont l'un des plus célèbres prétend être à la fois cinéaste, guerrier en chambre et philosophe, stigmatisent ce droit en l'accusant d'autoriser les dictateurs « à tuer leur propre peuple » comme bon leur semble.

Une des principales justifications du principe d’égale souveraineté est qu'il fournit une certaine protection aux faibles contre les forts. On ne peut pas contraindre les États-Unis à modifier leur politique énergétique ou leur politique monétaire quelles qu'en soient les conséquences sur des pays tiers. Dans la notion d'égale souveraineté, le mot « égale » est aussi important que « souveraineté ». Un monde où la souveraineté est bafouée est nécessairement un monde dont l'inégalité est à la mesure des rapports de forces entre les États.

Or, le but fondateur des Nations unies était de préserver l'humanité du « fléau de la guerre ». Cela passait par un strict respect de la souveraineté nationale, de façon à éviter que des grandes puissances n'interviennent militairement dans les affaires intérieures des pays plus faibles, sous un prétexte ou un autre, comme l'avait fait l'Allemagne, en invoquant la défense des « minorités opprimées » en Tchécoslovaquie et en Pologne, entraînant le reste du monde dans la guerre.

La décolonisation vint renforcer l'importance de ce concept d'égale souveraineté. La dernière chose que souhaitaient les pays qui s’étaient affranchis du joug colonial après la Deuxième Guerre mondiale était de subir à nouveau l’ingérence des anciens maîtres dans leurs affaires intérieures. Cette crainte explique le rejet universel du « droit » d'intervention humanitaire par les pays du Sud.

Réuni à Kuala Lumpur, en Malaisie, en février 2003, le mouvement des non-alignés déclarait, peu de temps avant l'attaque américaine contre l'Irak : « Les chefs d’États ou de gouvernements réaffirment l’engagement du mouvement des non-alignés pour renforcer la coopération internationale afin de résoudre les problèmes internationaux ayant un caractère humanitaire en respectant pleinement la Charte des Nations Unies, et, à cet égard, ils réitèrent le rejet par le mouvement des non alignés du soi-disant droit d’intervention humanitaire qui n’a aucune base dans la Charte des Nations unies ou dans le droit international »[1].

Le principal échec des Nations unies n'est pas de ne pas avoir pu empêcher « les dictateurs de tuer leur propre peuple », mais bien de n’avoir pas pu préserver l'humanité du « fléau de la guerre », en empêchant la violation répétée par des États puissants du droit international : les États-Unis en Indochine et en Irak, l'Afrique du Sud en Angola et au Mozambique, Israël chez ses voisins du Proche-Orient et dans les territoires occupés, sans parler de tous les coups d'État organisés par l'étranger, des menaces, des embargos, des sanctions unilatérales, des élections achetées, etc. Des millions de gens sont morts, victimes de ces violations répétées du droit international et du principe de la souveraineté nationale.

Nous ne devrions jamais oublier ces morts, mais les partisans de l'ingérence les oublient toujours.

Les ingérences états-uniennes dans les affaires intérieures d’autres États prennent des formes multiples, mais elle sont constantes et ont souvent des conséquences désastreuses : pensons simplement à l’espoir tué dans l’œuf pour les peuples qui auraient pu bénéficier des politiques sociales progressistes initiées par des dirigeants tels que Jacobo Arbenz Guzmán au Guatemala, João Goulart au Brésil, Salvador Allende au Chili, Patrice Lumumba au Congo, Mohammad Mossadegh en Iran, les Sandinistes au Nicaragua, etc., qui, tous ont été victimes de coups d’État ou d’assassinats soutenus par les États-Unis[2].

Mais les effets désastreux de la politique d'ingérence ne se limitent pas à cela : chaque action agressive des États-Unis provoque une réaction. Le déploiement d'un bouclier antimissile produit plus de missiles, pas moins. Le bombardement de civils, délibéré ou dû à des « dommages collatéraux » produit plus de résistance armée, pas moins. Les tentatives de renversement ou de subversion de gouvernements étrangers produisent plus de répression, pas moins. Encercler un pays par des bases militaires entraîne plus de dépenses militaires de la part de ce pays, pas moins. Et la possession d'un armement nucléaire par Israël encourage les autres pays du Moyen-Orient à se doter de telles armes.

Les partisans de l'ingérence humanitaire n'expliquent d’ailleurs jamais par quoi ils souhaitent remplacer le droit international classique : on peut ériger l'égale souveraineté en principe, mais comment formuler un principe d'ingérence humanitaire ?

Quand l'OTAN a exercé son droit d'ingérence autoproclamé pour intervenir au Kosovo, les médias occidentaux ont applaudi. Mais quand la Russie a exercé ce qu'elle considérait être son droit de protéger les populations en Ossétie du Sud, les mêmes médias occidentaux l'ont universellement condamnée.

On se trouve face à un dilemme : soit tout pays qui en a les moyens se voit reconnaître le droit d'intervenir partout où un argument humanitaire peut être invoqué pour justifier cette intervention, et c’est la guerre de tous contre tous ; soit une telle action est réservée à certains États qui en ont la capacité et s'en arrogent le droit, et on en arrive à une dictature de fait dans les affaires internationales.

A cela, les partisans de l'ingérence répondent en général que de telles interventions militaires ne doivent pas être le fait d’un seul État, mais de la « communauté internationale ». Malheureusement, il n'existe pas véritablement de « communauté internationale ». Ce concept sert aux États-Unis pour désigner toute coalition momentanée dont ils prennent la tête. L'abus unilatéral par l'OTAN des résolutions de l'ONU concernant la Libye a rendu impossible la construction d'une véritable communauté internationale qui pourrait, en principe, mettre enœuvre une responsabilité de protéger impartiale et valable pour tous, y compris, par exemple, pour les Palestiniens.

L'aventure libyenne récente a également illustré une réalité que les défenseurs de l'ingérence passent sous silence : vu que des guerres coûteuses en vie humaines sont politiquement difficiles à faire accepter par les populations occidentales, toute intervention « à zéro mort » (de leur côté) ne peut se réaliser que grâce à des bombardements massifs qui nécessitent un appareil militaire sophistiqué. Ceux qui défendent de telles interventions soutiennent aussi nécessairement, même si c'est souvent inconsciemment, les colossaux budgets militaires américains.

Il est donc paradoxal que ce soient souvent les sociaux-démocrates et les Verts européens qui réclament le plus des « interventions humanitaires », alors qu'ils seraient les premiers à protester si l’on imposait en Europe les réductions drastiques des dépenses sociales qui seraient nécessaires pour mettre en place un appareil militaire comparable à celui des États-Unis.

Il est vrai que le XXIe siècle a besoin d'une nouvelle forme d’Organisation des nations Unies. Mais non pas d'une ONU qui légitimerait l'interventionnisme par des arguments nouveaux, comme la « responsabilité de protéger », mais d'une Organisation qui apporterait un soutien au moins moral à ceux qui cherchent à bâtir un monde non dominé par une unique puissance militaire.

Une alternative aux politiques d'ingérence devrait mobiliser l'opinion publique pour imposer un strict respect du droit international de la part des puissances occidentales, la mise en œuvre des résolutions de l'ONU concernant Israël, le démantèlement de l'empire des bases états-uniennes, la fin de l'OTAN et la fin de toutes les usages ou menaces d’usages unilatéraux de la force, ainsi que des opérations de promotion de la démocratie, des révolutions colorées et de l'exploitation politique du problème des minorités.

Puisque les guerres « naissent dans l'esprit des hommes », l'UNESCO devrait considérer comme une de ses tâches prioritaires « d'éducation populaire » l'éducation à la paix. Celle-ci requiert avant tout le développement d'un esprit critique face à la propagande de guerre : Timisoara, les couveuses au Koweit lors de la première guerre du Golfe, les armes de destructions massives lors de la seconde, le massacre de Racak et les « négociations » de Rambouillet menant à la guerre du Kosovo[3], et quantités d'autres événements sont présentés par les médias occidentaux de façon unilatérale, afin de conditionner la population à accepter la guerre comme inévitable contre le « mal absolu » ou le « nouvel Hitler ». Il est sans doute trop tôt pour se prononcer avec certitude sur les événements récents et tragiques en Syrie, mais on peut remarquer que, pour la presse occidentale, il n'est jamais trop tôt pour condamner un camp et un seul. Tout ceux qui, en Occident, tentent d'apporter des nuances ou d'émettre des doutes sur la version officielle sont immédiatement taxés de négationnistes, de conspirationnistes ou d'antisémites. Un monde de paix a besoin de sources d'informations moins biaisées que celles fournies par les médias occidentaux, d'un nouvel ordre mondial de l'information à la création duquel l'UNESCO devrait travailler, en s'appuyant sur le Groupe des 77 et la Chine.

On objectera qu'une politique de respect de la souveraineté nationale permettrait à des dictateurs de « tuer leur propre peuple », ce qui est vrai. Mais une politique réellement alternative à la politique d'ingérence, une politique de paix, aurait aussi d’autres effets. Si on arrêtait la politique d'ingérence, les diverses oppositions dans les pays visés par cette politique cesseraient d'être perçues et réprimées comme autant de cinquièmes colonnes de l'étranger. Un climat de confiance et de coopération internationale pourrait s'instaurer, climat indispensable à la gestion des problèmes globaux, écologiques entre autres. Et un désarmement progressif permettrait de libérer d'immenses ressources financières, mais aussi scientifiques, pour le développement.

L'idéologie de l’ingérence humanitaire fait partie de la longue histoire des prédations occidentales à l’égard du reste du monde. Lorsque les colonialistes sont arrivés sur les rives des Amériques, de l'Afrique et de l'Asie, ils furent choqués par ce que nous appellerions aujourd'hui des « violations des droits de l'homme » et qu'ils nommaient à l’époque des « mœurs barbares » : les sacrifices humains, le cannibalisme, les pieds bandés des femmes… De façon répétée, l'indignation face a ces pratiques, sincère ou feinte, a été utilisée pour justifier les crimes occidentaux : le commerce des esclaves, l'extermination des peuples indigènes et le vol systématique des terres et des ressources. Cette indignation vertueuse se perpétue jusqu’à ce jour. Elle est à la racine du droit d'intervention humanitaire et de la responsabilité de protéger, eux-mêmes accompagnés d’une grande complaisance envers les régimes oppressifs considérés comme amis, de la militarisation indéfinie et de l'exploitation massive du travail et des ressources du reste du monde. Après plusieurs siècles d'hypocrisie, il faudrait peut-être que les Occidentaux pensent à remplacer l'ingérence par la coopération.

Loin d'être utopique, une politique de non-ingérence s'inscrit en fait dans le sens de l'histoire : au début du siècle passé, la majeure partie du monde était sous contrôle européen. La plus grande transformation sociale et politique du XXe siècle fut la décolonisation et cette transformation se poursuit aujourd'hui à travers la montée en puissance des pays émergents. Le problème qui se pose à l'Occident n'est pas d'essayer de contrôler à nouveau le monde à travers l'ingérence humanitaire, mais de s'adapter à son propre déclin inévitable, adaptation qui risque fort de n'être ni facile ni agréable.

Ceux qui promeuvent le droit d'ingérence le présentent comme le début d'une nouvelle ère, alors qu'il s’agit en réalité de la fin d'une histoire ancienne. D'un point de vue interventionniste, cette doctrine opère un retrait par rapport aux droits invoqués par le colonialisme classique. De plus, des millions de gens, y compris aux États-Unis, rejettent de plus en plus la guerre comme moyen de résoudre les problèmes internationaux et adhèrent, de fait, à la position des pays non alignés, visant à « renforcer la coopération internationale afin de résoudre les problèmes internationaux ayant un caractère humanitaire, en respectant pleinement la Charte des Nations unies ». Ils sont souvent dénoncés dans leurs propres médias comme « anti-occidentaux ». Mais ce sont eux qui, en s'ouvrant aux aspirations de la majeure partie du genre humain, perpétuent ce qu'il y a de valable dans la tradition humaniste occidentale. Ils visent à créer un monde réellement démocratique, un monde où le soleil se sera définitivement couché sur l'empire américain, comme il l'a fait sur les vieux empires européens.


Jean Bricmont (juin 2012)




[1] Final document of the Thirteenth Conference of Heads of State and of Governments of the Movement of Non-aligned Countries, Kuala Lumpur, February 24-25, 2003, Article 354. (disponible sur http://www.bernama.com/events/newna...).
[2] Voir William Blum, Les guerres scélérates, Parangon, Lyon, 2004, pour une histoire détaillée des ingérences états-uniennes.
[3] L'annexe B des accords proposés aux Serbes comme à prendre ou à laisser prévoyait entre autres : article 8. Les personnels de l'OTAN bénéficieront, tout comme leurs véhicules, navires, avions et équipement d'un passage libre et sans restriction et d'un accès sans ambages dans toute la RFY (=République fédérale Yougoslave, c'est-à-dire la Serbie et le Monténégro à l'époque), y compris l'espace aérien et les eaux territoriales associées. Ceci comprendra, sans y être limité, le droit de bivouaquer, manœuvrer, de cantonner et d'utiliser toute zone ou installation, telles que l'exigent le soutien, l'entraînement et les opérations. Article 9. L'OTAN sera exemptée des droits, taxes et autres frais et inspections et règlements douaniers, y compris la fourniture d'inventaires ou de documents douaniers routiniers, pour les personnels, véhicules, navires, avions, équipements, fournitures et livraisons qui entrent, sortent ou transitent par le territoire de la RFY en soutien à l'Opération. Voir http://www.csotan.org/textes/doc.php?type=documents&amp ;art_id=61 pour le texte complet.


(english / italiano)

"Racist hate speech", Joint submission by network of Italian associations
Observations submitted to the CERD for the thematic discussion - 28 August 2012, Palais des Nations - Genève

1 PRESENTATION OF THE WORK .......................................................................................... 3 
2 RACIST HATE SPEECH AND FREEDOM OF OPINION AND EXPRESSION ................4
2.1 
RACIST HATE SPEECH IN POLITICAL LIFE: STATEMENTS AND BEST PRACTICES ................................ 4
2.2 RACIST HATE SPEECH IN THE MEDIA: STATEMENTS AND BEST PRACTICES .....................................10
2.3 RACIST HATE SPEECH IN INTERNET AND SOCIAL NETWORKS.......................................15
3 RACIST HATE SPEECH TOWARD ROMA AND SINTI ..................................................... 19
4 CONCLUSIONS AND RECOMMENDATIONS ................................................................... 23 
5 ANNEX...................................................................................................................................... 26 
5.1 THE AUTHORS...............................................................................................................................................26
6 APPENDIX................................................................................................... 28



Razzismo. "In Italia politica, media e web incitano all’odio"

giovedì 30 agosto 2012

Il rapporto di otto associazioni al Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite. Dalle "zingaropoli islamiche" della campagne elettorali ai gruppi anti immigrati su facebook


Roma – 30 agosto 2012 - Preoccupa la diffusione in Italia dell’incitamento all’odio razziale nel discorso pubblico politico e mediatico, specialmente nei confronti di rom e sinti, così come l’incremento del razzismo diffuso attraverso internet e i social network.
È l’allarme lanciato da un network di otto associazioni italiane in un rapportopresentato martedì a Ginevra davanti al Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite (CERD). Si tratta di un contributo alla discussione tematica sull’incitamento all’odio razziale , il cosiddetto “racist hate speech”.
L’Italia, spiegano le associazioni, “può essere considerato un caso esemplare dell’uso strumentale di migranti, rom e rifugiati da parte di movimenti e partiti nazionalisti e xenofobi per guadagnare il favore dell’opinione pubblica”. E anche se con l’attuale governo “sembra iniziata una nuova fase”, la prossima campagna elettorale “potrebbe esacerbare nuovamente il dibattito su immigrazione e rom con il ritorno di una retorica xenofoba, antirom e anti immigrati”.
Il rapporto cita ad esempio la campagna per le amministrative del 2011 a Milano, quando Lega Nord e Popolo delle Libertà parlarono del rischio della trasformazione di Milano in un  “zingaropoli islamica” se avesse vinto il centrosinistra. Così come il movimento di estrema destra Forza Nuova, che nel suo programma presenta l’immigrazione come una “dolorosa ferita nella armoniosa convivenza dei popoli” e ha diffuso manifesti con un appello ad espellere i rom stampato sull’ immagine di uno stupro.
Le associazioni puntano il dito contro “le pene minime”,  i “dubbi interpretativi” e soprattutto “la scarsa applicazione” della norme penali italiane contro l’incitamento all’odio razziale, sebbene più organismi internazionali, a partire dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, hanno ribadito che questo non può essere giustificato con la libertà di espressione. Rari i casi di condanna (il rapporto cita i leghisti Gentilini e Tosi), mentre ci sono “diversi esempi di discorsi contro i quali non è iniziato alcun procedimento penale”.
I media hanno colpe gravi e non solo perchè raramente danno voce alle minoranza. Se i bersagli principali della rappresentazione razzista degli “altri” sembrano essere i Rom e i Sinti, l’insistente specificazione dei paesi d’origine di chi commette reati, la cosiddetta ”etnicizzazione del crimine”, crea nel lettore “la convinzione che un certo tipo di crimine è sistematicamente imputabile a una certa minoranza, creando una sorta di responsabilità criminale collettiva”.
Altro capitolo preoccupante è quello dell’incitamento all’odio razziale su internet e sui social network. “Se la penna è più potente della spada, le tastiere dei computer oggi possono essere più potenti di carri armati e mitragliatrici e ugualmente distruttivi”. Il web “offre una cappa di anonimato che spinge spesso le persone a digitare cose che non direbbero mai in faccia a qualcuno” e così diventa un “potente veicolo di odio”.
L’Italia ha firmato ma non ancora ratificato il protocollo addizionale alla convenzione europea sul cyber crime, che prevede un giro di vite contro atti di razzismo e xenofobia compiuti sulla rete. Intanto, crescono su Facebook gruppi come “Rispediamo indietro gli immigrati”,  “3 ragioni per cui E.T. è meglio degli immigrati” o “Se loro protestano con i bastoni, noi replicheremo con i cannoni”.
Le associazioni, spiega una nota, “hanno richiesto ai membri del Comitato dell’ ONU di formulare una general recommendation per rafforzare gli strumenti internazionali esistenti in tema di lotta contro le discriminazioni razziali”. Il rapporto è frutto della collaborazione: Archivio delle Memorie Migranti, Articolo 3 – Osservatorio sulle discriminazioni, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, Associazione 21 Luglio, Associazione Carta di Roma, Borderline Sicilia Onlus, Lunaria, Unione forense per la tutela dei diritti umani. 

EP


Scarica il rapporto:

Observations submitted to the CERD for the thematic discussion "Racist hate speech", Joint submission by network of Italian associations
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/osservazioni_cerd_28082012.pdf


Vedi anche:

Cresce l’incitamento all’odio razziale in Italia
Paola Totaro, 31/8/2012


*** SEGNALAZIONE DA TRIESTE: Razzismo su "Il Piccolo"***

Il giornale di domenica 26 agosto 2012 ha dedicato 2 pagine intere (pagg. 22 e 23) al 'caso Lignano', con un richiamo in prima: 'Il massacro della villetta - Svolta a Lignano: prelievo del Dna su decine di persone'. Le indagini sono a tutto campo, brancolano nel buio, ma "Il Piccolo" presume che i colpevoli siano stranieri, anzi balcanici... In apertura d'articolo a pag. 23 (firmato C.S.):

'Dalla rapina sfociata in tragedia al raptus d'ira, fino alla vendetta orchestrata scientificamente. Con il passare dei giorni, gli inquirenti hanno preso e abbandonato diverse piste investigative, precisando sempre di non voler tralasciare alcuna ipotesi.' 

L'articolo prosegue elencando tutte le incertezze dell'inchiesta, a cominciare dal movente. Buio completo. Nonostante questo, l'articolista nelle ultime righe riesce a scrivere gratuitamente:

'L'autopsia ha confermato che (le due vittime) prima di essere sgozzate sono state picchiate. Più che un omicidio causato da uno scatto d'ira, insomma, la loro è sembrata un'esecuzione. Con modalità che hanno ricordato [? sic] quelle di alcune bande dell'Est.'

In apertura di pag. 22 si va molto oltre la gratuità dell'accusa razzista. L'articolo è firmato da Laura Borsani. Dopo una cinquantina di righe l'autrice si sbizzarrisce in ipotesi senza alcun fondamento:

'Gli inquirenti lavorano alacremente, ampliando il raggio d'azione anche nel vicino Veneto, per individuare gli autori del duplice omicidio. Si sonda nel giro delle bande di ladri e di rapinatori che, provenienti dall'Est, fanno base nella regione veneta, da dove poi si spostano per compiere reati in zone limitrofe e tornare in regione. Una delle ipotesi, la matrice balcanica, tenuta già in considerazione, valutando le modalità e l'estrema violenza del duplice fatto di sangue, facendo pensare alla totale mancanza di scrupoli e del benché minimo rispetto per la vita umana.

Mercoledì 29 "Il Piccolo" ritorna sulla vicenda: gli inquirenti non hanno dato alcuna indicazione sulla pista da seguire, ma i giornalisti rincarano la dose usando una pseudoantropologia razzista. Il pezzo, alla pag. 17 della edizione di Trieste, si intitola 'Dai soldi all'arma, tutte le tessere del puzzle'. Al capitolo 'Pista balcanica', senza che alcuna motivazione o indicazione sia giunta dagli inquirenti in questo senso, l'articolista scrive: 

'I cognugi Burgato sono stati massacrati dai fendenti, entrambi sgozzati. Una violenza e una modalità che hanno fatto pensare a una 'matrice balcanica' per il duplice delitto, opera di chi non ha scrupoli'.

(segnalato da J.E., che ringraziamo)




Fonte: quotidiano "Il Manifesto" - http://www.ilmanifesto.it/

Sull'esproprio della Zastava Auto da parte della FIAT, a seguito ed in virtù dei bombardamenti dei paesi NATO sulla fabbrica, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina: https://www.cnj.it/amicizia/sindacale.htm

---

28/08/2012 - Autore: R. Eco.

Melfi, Termini e la Serbia ossessionano la Fiat

Il rinvio della Punto e dei fondi per Kragujevac. E a Palermo solo incognite. Intanto a Modena brucia il container della Fiom. La Cgil: «Attacco alla democrazia»

Non c’è pace per il rientro degli operai Fiat (quando non hanno la cassa integrazione) dalle vacanze estive. Se venerdì notte era stato incendiato un container della Fiom davanti allo stabilimento Maserati di Modena, se nei giorni precedenti si è riacceso l’allarme Termini Imerese e un nuovo «giallo» sul futuro della Punto a Melfi, ieri si è saputo che anche i colleghi serbi non navigano in buone acque. Il vicepresidente della Fiat, Alfredo Altavilla, sarà infatti domani a Belgrado, dove incontrerà gli esponenti del nuovo governo serbo, che però gli parleranno di un rallentamento del programma di finanziamento alla fabbrica di Kragujevac. 
Venerdì scorso il ministro dell’economia Mladjan Dinkic aveva anticipato che a causa della precarie condizioni del bilancio statale, una parte degli obblighi contrattuali previsti per quest’anno dovranno essere rinviati al 2013.
Secondo le prime indiscrezioni di stampa, l’esecutivo belgradese non sarà in grado di garantire quest’anno 60 milioni di euro al sito di Kragujevac, dove da luglio è partita la produzione in serie della nuova 500L. Il ministro ha chiesto comprensione alla Fiat, scaricando le colpe sul governo precedente. 
Tornando in Italia, ieri i segretari della Cgil e della Fiom di Modena, Donato Pivanti e Cesare Pizzolla, hanno lamentato il «silenzio preoccupante della Fiat» sull’incendio del container. Il fatto è «grave», per i due dirigenti sindacali, in quanto la Fiat «ha escluso la Fiom dalla rappresentanza in fabbrica, creando un vulnus pericoloso per la democrazia». Per l’incendio si è parlato di «matrice fascista e di criminalità organizzata», ma finora si sa ben poco. 
Intanto a Melfi non si è spento l’allarme per il rischio del rinvio al 2015 della nuova Punto. «I dati allarmanti relativi al calo di vendite rischiano di produrre il secondo rinvio dell’atteso nuovo modello di Fiat – hanno avvertito i segretari lucani di Uil e Uilm, Carmine Vaccaro e Vincenzo Tortorelli. Secondo i due sindacalisti, «è indispensabile correre ai ripari nonostante il no comment della Fiat che intende rinviare qualsiasi decisione alla presentazione dei risultati del prossimo trimestre, in agenda per la fine di ottobre». 
A fine ottobre, il Lingotto dovrebbe presentare il nuovo piano industriale sul futuro di stabilimenti e prodotti in Italia. Il progetto della nuova Punto previsto a Melfi dal 2013, aveva già indicato l’ad di Fiat Sergio Marchionne lo scorso giugno, è tra quelli che la Fiat sta «riconsiderando». È un obiettivo vitale per la Sata di Melfi, sottolineano i vertici regionali di Uil e Uilm: l’arrivo della nuova Punto «è fondamentale a garantire la produzione dopo il 2013». 
Infine, per il futuro di Termini Imerese, l’attenzione è puntata al 15 settembre, quando ci sarà un nuovo round di incontri al ministero dello Sviluppo. Nell’ultimo incontro, a luglio, sul tavolo c’era l’ipotesi del colosso cinese Chery, che consentirebbe all’imprenditore molisano Massimo Di Risio, patron della Dr Motor, di rientrare in gioco. «Se i cinesi hanno le risorse – dice Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo – ben vengano. Il nostro auspicio è che abbiano modelli concorrenziali sul mercato europeo, per non doverci trovare tra qualche anno di nuovo nelle stesse condizioni». Anzi dai sindacati arriva una proposta: «Un vincolo per le aziende che ottengono risorse pubbliche e acquisiscono professionalità già formate a restare in loco per almeno 10-15 anni», spiega Mastrosimone. Dall’ultimo incontro al ministero, un primo risultato era comunque già arrivato: la tutela per tutti i 640 esodati. Ora i lavoratori attendono le garanzie sugli ammortizzatori sociali e il secondo anno di cig anche per l’indotto.

---

17/07/2012 - Autore: Astrit Dakli

Una scia di sangue agli albori della Fiat

Non meraviglia più di tanto che un appassionato di cavalli, trincerato nella sua tenuta della Maremma etrusca, scriva un libro per sparare sull'industria dell'auto italiana, demolitrice di quel mondo, forse più civile del nostro, che all'automobile preesisteva. Una sorta di «operazione nostalgia» in nome del cavallo: impensabile ancora pochi anni fa ma che acquista oggi un valore nuovo di fronte al collasso ambientale e all'insostenibilità del modello centrato sull'auto - che ormai, nell'era Marchionne, ha perduto anche qualsiasi residuo appeal come portatore di progresso e benessere attraverso il lavoro. 
Ci voleva però un gentleman torinese, con tutta la tigna che i torinesi sanno riservare ai loro concittadini quando li detestano, per dare pepe a questa operazione e mettere nero su bianco senza complimenti quel che tanti hanno sempre pensato: che l'industria dell'auto italiana per eccellenza, la Fiat di Giovanni Agnelli primo, agli albori del Novecento, forse non è nata da un ardito sogno imprenditoriale ma da un oscuro brodo di coltura fatto di intrighi, truffe, intrecci con lo Stato e persino un paio di omicidi eccellenti - in perfetta sintonia con il clima di sangue e violenza instaurato nel Paese dai Savoia per tenerne lontano il contagio socialista. 
Giorgio Caponetti, classe 1945, è un distinto professionista torinese appassionato di cavalli, trasferitosi tanti anni fa a vivere in una fattoria nella valle del fiume Marta, con armi, bagagli, famiglia, un po' di soldi e alcuni sogni da realizzare - in primis, un modello di vita migliore da costruire per sé e da offrire agli altri con generosità non sempre apprezzata o ricambiata. Tra i sogni, però, ce n'era anche uno molto particolare: scrivere la storia che fin da ragazzo lo intrigava, quella - svoltasi nel ventennio intorno al 1900 - del celebre cavallerizzo Federigo Caprilli, del suo amico nobile, il conte Emanuele Cacherano da Bricherasio, e della morte violenta che li colse a poca distanza di tempo, neanche quarantenni: per entrambi una morte inspiegabile, avvolta di silenzi e misteri e oscuramente legata alla folgorante ascesa nel mondo dell'industria, della finanza e della politica del cavalier, poi senatore, Giovanni Agnelli. 
Non era una storia semplice, sono passati cent'anni e passa, molti documenti sono scomparsi (forse non casualmente), non c'è più modo di trovare testimoni che possano presentarsi in un tribunale. No, un giudice che alla fine chiarisca le cose, stabilisca la verità e faccia giustizia non c'è e non ci sarà, e per questo Caponetti insiste a dire che il suo Quando l'automobile uccise la cavalleria (Marcos y Marcos, pp. 489, euro 18) è «un romanzo storico, opera di pura fantasia» e non un libro di storia. Eppure...
Eppure i fatti sono più o meno quelli e un testimone esiste, sia pur solo nella memoria dell'autore: il nonno Benedetto, ex ufficiale dei carabinieri, negli anni cruciali in cui si svolgono le vicende narrate era in «servizio speciale» fra Roma e Torino e, da vecchio, al giovane nipote ha raccontato molte cose circa il proprio ruolo diretto nelle fasi più drammatiche di quei lontani intrighi. È mettendo insieme quei racconti con il poco che si sa delle vicende di quell'epoca che prende vita questo strano romanzo, dove i fatti sembrano assai meno fantasiosi di quanto dichiarato.
Alla fine sono quattro i protagonisti, raccontati attraverso vite parallele ma fin troppo intersecate: al brillante e geniale capitano Caprilli, eroe dei concorsi ippici di tutta Europa e delle alcove di nobildonne troppo altolocate, si affianca l'amico Emanuele da Bricherasio, come Caprilli ufficiale di cavalleria, ingenuo ed entusiasta fondatore dell'Automobile Club d'Italia nonché, nel 1899, della prima «Fabbrica Italiana Automobili di Torino», di cui è vicepresidente; e a loro si uniscono Giovanni Agnelli, a sua volta ufficiale di cavalleria ma di tutt'altra pasta e con tutt'altri progetti in testa, e infine nonno Benedetto, ufficiale anche lui ma dei carabinieri: «uso a ubbidir tacendo» ma che in vecchiaia, fuggiti nell'infamia i Savoia e dunque senza più un re cui ubbidire fino all'estremo, di «tacendo morir» non ha più tanta voglia. 
La vita di Caprilli e Bricherasio raccontata da Caponetti si snoda con varie vicende interessanti ma in fondo ordinarie e tranquille: la loro storia inizia ad accelerare in parallelo col crescere delle tensioni sociali in Italia e col traballare della dinastia Savoia, umiliata dal disastro di Adua e capace di tenersi in sella solo facendo sparare sugli operai e sui contadini. Arriva Bava Beccaris, ci sono le stragi di lavoratori, a Milano e un po' dappertutto, e arrivano anche le prime morti avvolte nel mistero, come quella del figlio di Edmondo De Amicis, che si «suicida» proprio alla vigilia del previsto (e temutissimo dai Savoia) outing pro-socialista del padre, allora al culmine della sua popolarità e che da quel momento non si interesserà più di politica. È l'autunno 1898. Pochi mesi dopo, a casa del conte di Bricherasio, nasce la F.I.A.T., con Agnelli che è solo un socio tra gli altri ma grazie ad amicizie e alleanze riesce a prendere in mano la gestione commerciale dell'impresa, quella da cui passano i soldi. 
La scalata di Agnelli è rapida e senza scrupoli, passando anche - forse soprattutto - attraverso disinvolti rapporti di do ut des con i Savoia. Sotto gli occhi di Bricherasio gli affari sporchi - traffici azionari, intrighi bancari ecc. - si moltiplicano e cresce il potere di Agnelli e dei suoi amici: finché nell'ottobre 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione in cui Bricherasio aveva annunciato di voler «vedere tutte le carte» e denunciare i pasticci che erano stati compiuti, il conte viene misteriosamente convocato a casa del duca Tommaso di Savoia-Genova (cugino del re) dove, secondo la versione ufficiale, si uccide con un colpo di pistola in testa. 
Nessuna autopsia, nessuna inchiesta, nessuna spiegazione. Caprilli, l'unico tra amici e familiari che ne può vedere il corpo prima del funerale, riferisce che il viso e le tempie del conte sono intatti. La sorella del conte, inquisita da misteriosi «alti funzionari», affida a Caprilli le carte del fratello morto, perché le custodisca: un cattivo viatico, perché tre anni dopo anche il celebre cavaliere muore senza testimoni, il cranio sfondato da una assai improbabile caduta da cavallo, di notte, in una strada innevata di Torino. E proprio alla vigilia, guarda caso, delle sue annunciate dimissioni dall'esercito che lo avrebbero liberato dai vincoli di fedeltà e gli avrebbero permesso di rivelare quel che aveva appreso sulla morte dell'amico, sugli imbrogli della Fiat (nel frattempo passata interamente nelle mani di Agnelli), sul ruolo dei Savoia in tutto ciò. Anche per Caprilli niente autopsie, niente inchieste, nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura. 
La verità? Non si saprà mai: i sanguinosi misteri d'Italia non sono iniziati con Piazza Fontana ma molto prima. Per Giovanni Agnelli, i cui maneggi erano intanto diventati troppo palesi, si aprirà poi anche un processo: tirato per le lunghe, si concluderà con l'assoluzione dopo che la guerra di Libia (1911-12) sarà stata portata a termine vittoriosamente, «vendicando» Adua. Senza cavalleria ma con un largo uso dei nuovi camion prodotti dalla Fiat.