Bogdanović contro Bogdanović: i due migliori giocatori
nella sfida olimpica di basket –
quarti di finale tra Croazia e
Serbia a Rio 2016
SLIKA
KOJA POKAZUJE BESMISAO RATA I
MRŽNJE NA BALKANU
Piše: 24sata.rs / Objavljeno:
18.08.2016. u 13:04h Rano jutros na terenu u Riju
našla su se dva Bogdanovića, ali
na suprotnim stranama - i
obojica su bili najbolji u
svojim timovima. Slika ove
dvojice košarkaša odmah je
počela da se širi društvenim
mrežama kao najbolji podsetnik
na besmisao ratova i mržnje na
Balkanu.
Reprezentacije Srbije i Hrvatske
nadmetale su se za prolazak u
polufinale olimpijskog turnira i
Srbija je izašla kao pobednika sa
rezultatom 86:83. Lepa pobeda,
velika i jako značajna - ali ipak
obojena nacionalističkim
Ubrzo su krenuli da se vode pravi
mini-ratovi u sekcijama komentara
na portalima i društvenim mrežama.
Puni "municije" u vidu mržnje,
uvreda, psovki i ostalih
primitivizama, najgori
predstavnici obe stranem postarali
su se da se njihov glas čuje. I
delovalo je kao da je najglasniji.
komentarima sa obe strane. U očima
mnogih Srba ova pobeda je
dvostruko veća jer je baš protiv
naših suseda, dok se po hrvatskim
društvenim mrežama i medijima šire
komentari da poraz boli mnogo više
jer je baš od Srbije.
Kakva glupost!
Koliko su tačno ovakvi statovi
besmisleni možda je najbolje
objasnio australijski komentator
sinoć.
"Svi imaju ista imena... Ali
nemojte to ni slučajno da im
kažete", rekao je on kroz šalu,
misleći baš na Bogdanovića i
Bogdanovića. I nije bio jedini
koji je bio zbunjen.
Dva bratska naroda, sa istim
prezimenima, istim bojama, gotovo
identičnim jezikom, geografski
susedi - nikome ko nije upućen u
komlikovanu istoriju Jugoslavije
nije jasno zašto bi tu postojala
mržnja. Zapravo, ni onima koji ne
samo da su upućeni, nego su bili
svedoci ratova, nije jasno kakve
veze politika ima sa sportom i
zašto bismo mrzeli narod zbog
šačice političara. Bogdan Bogdanović je juče
bio najbolji u reprezentaciji
Srbije i doneo nam je 18 poena. Bojan
Bogdanović je bio najbolji u
reprezentaciji Hrvatske i doneo im
je 28 poena. A zajedno su ova dva
Bogdanovića donela najlepšu poruku
nakon utakmice.
Slika je već osvojila društvene
mreže, pa šalje jasnu poruku da
onaj glas mržnje o kom smo pričali
možda ipak nije najglasniji. Sve
dok mu mi to ne dozvolimo.
Con 28 voti a favore e 24 contrari,
la Federcalcio kosovara (FFK) entra
ufficialmente a far parte della
Confederazione calcistica europea. La
nazione balcanica spera ora nel sì
della Fifa, per poter partecipare alle
qualificazioni a Russia 2018
La Repubblica online, 3 maggio 2016
BUDAPEST - Anche il Kosovo entra
ufficialmente a far parte dell'Uefa: a
deciderlo è stato il 40/o Congresso
Ordinario, riunitosi a Budapest. Il
nuvoo ingresso è stato deciso con
maggioranza semplice, ricevendo 28
voti a favore e 24 contrari (due
i voti non validi), con la Serbia a
guidare il fronte del 'no' contro la
sua ex provincia. Tra le Nazioni
Unite, 111 su 193 paesi hanno già
[SIC, dopo 8 anni dalla
autoproclamazione, ndCNJ] riconosciuto
lo stato kosovaro, Italia compresa.
IL KOSOVO ORA ASPETTA LA FIFA - La
FFK, la Federcalcio kosovara, è il
55/o membro della Confederazione che
sovrintende al calcio europeo e segue
Gibiliterra, ultima accolta in seno
all'Uefa, nel 2013. Adesso il Kosovo
spera in un provvedimento analogo da
parte della Fifa, in modo da debuttare
ufficialmente in occasione delle
qualificazioni ai Mondiali di Russia,
già nel prossimo settembre.
Il congresso della Federazione
internazionale calcistica ha approvato
con 141 voti favorevoli e 23 contrari
l'ingresso tra gli stati membri del
Paese balcanico. Indignato il ministro
serbo Vanja Udovicic: "Decisione che
avrà conseguenza imprevedibili".
Riconosciuta anche Gibilterra
La Repubblica online, 14 maggio 2016
CITTA' DEL MESSICO - Dopo l'Uefa anche
la Fifa dà il proprio placet. Il
Kosovo è diventato il 210/o Paese
membro della Fifa, decisione accolta
con sdegno e rabbia in Serbia, che a
sua volta ha già annunciato di
ricorrere al Tribunale per l'arbitrato
dello sport, a Losanna. Belgrado,
appoggiata da Russia e Cina e in
compagnia anche di cinque Paesi Ue
(Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e
Cipro), non riconosce l'indipendenza
proclamata unilateralmente dalla sua
ex provincia il 17 febbraio 2008 e si
oppone all'adesione di Pristina a
organizzazioni internazionali, a
cominciare dalle Nazioni Unite. Ma con
141 voti a 23, il congresso della
Federazione internazionale calcistica
a Città del Messico ha detto sì
all'ingresso del Kosovo.
LO SDEGNO DELLA SERBIA - All'esultanza
della dirigenza kosovara, che ha
parlato di "giornata storica" per il
giovane Paese balcanico, ha fatto eco
la dura protesta della Serbia, che ha
denunciato una sfacciata ingerenza
della politica nello sport. Il
ministro serbo Vanja Udovicic ha detto
che questa decisione, di natura
"politica", rappresenta una "sconfitta
per il calcio" e potrà avere
"conseguenze imprevedibili". "Come
reagiranno i Paesi che non
riconoscono il Kosovo? Come si
organizzeranno gli incontri, con
quale protocollo e contrassegni
distintivi?", si è chiesto Udovicic.
Il Kosovo, intanto, potrà
partecipare alle qualificazioni per
i Mondiali del 2018 in Russia [SIC,
paese che non riconosce il Kosovo,
ndCNJ], così come Gibilterra
anch'essa ammessa dalla Fifa.
Se il calcio è lo specchio di un
popolo, quello jugoslavo ha regalato
immagini di grandezza, classe
finissima e miseria umana, sempre in
bilico tra il mito dolce-amaro di
trionfi sempre vicini e quasi mai
raggiunti
Quando gli fu chiesto di designare
un’avversaria per la sua partita
d’addio con la nazionale, lui non
ebbe alcuna esitazione. Nemmeno
davanti allo stupore dei dirigenti
della Federazione calcistica
brasiliana, che le provarono tutte
pur di convincerlo a procrastinare
l’evento, o almeno a selezionare uno
sparring partner più blasonato.
Niente da fare, la decisione era
presa. E la scelta era caduta sulla
compagine che per storia e natura
più si avvicinava alla sua idea di
calcio, al “suo” Brasile. L’incontro
amichevole si tenne, come previsto,
il 18 luglio 1971, di fronte a
duecentomila spettatori, in un
Maracanà che traboccava lacrime di
orgoglio e di rimpianto. Lui si
chiamava Edson Arantes do
Nascimento. Per i non intenditori:
Pelè. La squadra che scese in campo
quel giorno contro i verdeoro era la
Jugoslavia. Per i tassonomici: finì
2-2.
Tra gli amanti della disciplina si
è soliti dire, o dare per scontato,
che il calcio, inteso come
espressione estetica che diventa
fenomeno popolare, sia lo specchio
di un paese, che traduca in un
linguaggio universale attitudini e
stilemi di un’intera comunità
nazionale, mettendone a nudo le
componenti ataviche, vere o
presunte, sacre o pagane. Che nel
calcio si proiettino non soltanto
vocabolari emotivi e aspettative più
o meno legittime o razionali, ma
anche criteri di appartenenza,
istanze identitarie, archetipi
condivisi. E tuttavia, quando
simboli e destini di una nazione
paiono seguire le traiettorie di una
sfera di cuoio, finiscono talvolta
per evidenziare contenuti
paradossali, riservando esiti
inattesi. In questo senso la storia
calcistica della Jugoslavia non fa
eccezione, anzi, diventa vicenda
paradigmatica. Con un dettaglio
tutt’altro che trascurabile: già in
epoca non sospetta la macchina del
football preconizza l’epilogo
tragico di un’esperienza collettiva
a metà strada tra la realtà e
l’utopia, al culmine della quale,
però, quella stessa macchina si
rifiuta di assecondare il disegno
della Storia – o di chi ne fa
arbitrariamente le veci ‑, prova a
sottrarsi fino all’ultimo al suo
abbraccio mortale.
Per il suo essere stata una regione
tra due mondi, per la sua
composizione multiforme e
frammentaria, per il
particolarissimo mosaico sociale e
culturale che ha saputo configurare,
la Jugoslavia ha potuto annoverare,
tra le tante specificità, una scuola
calcistica autoctona rivelatasi un
serbatoio inesauribile di talenti.
Un modello distante anni luce
dall’organizzazione tattica
militaresca e dall’atletismo spinto
delle compagini del blocco
socialista, ma anche dalla
predominanza muscolare dei tedeschi,
dall’inveterato difensivismo
italico, dal classico giropalla
iberico (di cui il recente tiki-taka
è solo una più scientifica messa a
punto), e soprattutto alieno dalle
varie elaborazioni del modulo
Chapman, o dalla concezione “totale”
dell’Olanda anni settanta.
Un calcio unico
Il calcio jugoslavo ha
rappresentato un unicum,
un’inedita combinazione di geometria
e fantasia, un ordinato componimento
da spartito intervallato da
improvvise jam session. Un calcio
pulito ed elegante, sofisticato e
incostante, votato alle giocate di
pregio e alla tecnica individuale,
dalle trame ipnotiche e dalle
fulminee verticalizzazioni, che ha
dato spazio a straordinari quanto
fragili solisti inquadrati in
un’orchestra dai ritmi compassati e
dall’insana abitudine allo sperpero.
Un certo virtuosismo mitteleuropeo,
che tracima in un lezioso senso di
superiorità, si è fuso con l’estro
malinconico e l’anarchia
dissipatrice che caratterizzano il
verace spirito balcanico.
Da questo connubio ha preso forma
il futebol bailado
d’Europa, e non è un caso, né solo
il frutto di un’ironica e sfrontata
emulazione, che gli stadi di Rio de
Janeiro e Belgrado portino lo stesso
nome. A questo intreccio di affinità
elettive, due dettagli decisivi
hanno distinto i campioni slavi dai
loro cugini d’arte brasiliani. Il
primo è condensato nel verbo nadmudrivati,
di per sé intraducibile, che denota
un “giocare con astuzia”, un
prendere atto della supremazia
naturale dell’avversario superandolo
con furbizie e malizie degne
dell’eroe omerico, e in cui però la
pervicace volontà di rimirarsi può
diventare il preludio di
un’imminente quanto inevitabile
disfatta. Il secondo è molto più
semplice e attinge a un dizionario
comprensibile a tutti: arrestarsi
sempre a un passo dalla vittoria,
trasformare l’epos in melodramma e
inchinarsi così alla dura legge di
Eupalla. Come se prima del salto
finale verso l’Eden cedesse
puntualmente la pedana; come se la
genialità non potesse mai smarcarsi
da amnesie e ingenuità.
Il libro di Tanzilli è una puntuale
ricognizione storica sul movimento
calcistico jugoslavo con particolare
attenzione alle vicende della
Nazionale e alle due società che di
questo movimento hanno lasciato
traccia indelebile sulla scena
internazionale, il Partizan e la
Stella Rossa. Il saggio di Carelli,
invece, si sofferma maggiormente
sulle vicende interne, sullo stretto
legame tra i club più
rappresentativi e le città di
appartenenza (Spalato e l’Hajduk,
Sarajevo divisa tra la borghese FK e
il proletario Željezničar, e
Belgrado tra il Partizan dell’Armata
popolare e la Zvezda dei
quartieri popolari, quindi Mostar e
il Velež, Novi Sad e il Vojvodina ‑
Zagabria purtroppo non pervenuta),
sui talenti duraturi ma anche su
qualche bizzarra meteora, con
contrappunti extra-sportivi che
fanno da necessaria cornice storica
e sociale.
Tra Kant e il "Maradona dei
Balcani"
Ne emerge un quadro a tinte vivide,
un tableau vivant di assi del
pallone sacrificati non solo ai
bilanci societari, ma a una vera e
propria congiura degli eventi.
Calciatori "incoscienti e
pragmatici, lucidi avventurieri
costretti a cambiare continuamente
latitudine per rinnovare la propria
missione", ma anche uomini-simbolo
che hanno legato a doppio filo la
propria carriera a una maglia, come
le celebri Zvezdine zvezde (le
Stelle della Stella), portabandiera
della Stella Rossa, tra cui spiccano
gli immortali Dragoslav “Šeki”
Šekularac, Dragan Džajić e Dragan
“Piksi” Stojković, il “Maradona dei
Balcani”. Autentici artisti del
pallone, per i quali Tanzilli
scomoda addirittura Kant, chiamando
in causa quel "libero gioco di
intelletto e immaginazione
produttiva" da cui ha origine il
sentimento del bello. Interpreti
fuori dai canoni abituali che
duellano in punta di fioretto,
anteponendo il genio alla forza
bruta o all’esecuzione schematica,
condannati però al ruolo di
romantiche vittime di una Storia che
maledettamente si ripete, di una
perenne precarietà imposta da un
destino crudelmente beffardo.
Va detto che per il calcio
jugoslavo la Storia non ha inizio
nel 1945, con l’avvento ufficiale
del socialismo e del nuovo assetto
federale dello stato, e con la
nascita delle polisportive volute
dal regime. Come raccontato da un
recente film di successo, per la
regia di Dragan Bjelogrlić, Montevideo,
Bog te video (2010),
già ai primi Campionati mondiali del
1930 in Uruguay, quella che da
soltanto un anno può fregiarsi della
denominazione di Jugoslavia, con
appuntata sul petto l’ingombrante
aquila bicipite dei Karadjordjević,
dà del filo da torcere alle migliori
formazioni. Una squadra
sorprendente, un dream team
che gioca con disarmante naturalezza
e tra cui spicca Blagoje “Moša”
Marjanović, attaccante del BSK
Belgrado (antenata dell’odierna OFK)
e futuro allenatore in Italia negli
anni cinquanta. Un drappello di
audaci che nonostante il
boicottaggio dei croati (una storia
che si ripeterà sessantun anni più
tardi) riesce ad arrivare in
semifinale contro i padroni di casa,
sconfitto, più che dall’ambiente
ostile e da un avversario di
caratura non certo inferiore, da
discutibili scelte arbitrali. Il
terzo posto finale rimarrà il
miglior risultato mai raggiunto
dalla nazionale maggiore alle
competizioni mondiali.
Sfida al Destino
Da quel momento in poi prende vita
un sentimento tipico di chi sa di
poter vincere ‑ ma anche perdere ‑
contro chiunque, e si culla nel
narcisismo autoconsolatorio e
languidamente vittimista di colui
che si crede destinato a vestire i
panni di "coprotagonista di una
leggenda in corso d’opera", nonché
perseguitato da sfortuna e altri
fattori più genuinamente umani: il
vero contendente comincia a essere
il Destino, che riserva ogni volta
l’avversario sbagliato al momento
sbagliato nel posto sbagliato. La
Svezia del mitico tridente Gre-No-Li
alle Olimpiadi di Londra del 1948, i
brasiliani al Mondiale del 1950,
spensierati e ignari di ciò che li
attenderà di lì a poco nel celebre maracanaço.
O ancora la gloriosa Aranycsapat
guidata da Gustav Sebes ai Giochi
Olimpici di Helsinki del 1952: i plavi
resisteranno oltre settanta minuti,
prima che Ferenc Puskás e Zoltán
Czibor pongano fine al sogno. La
Jugoslavia arriva sempre e
immancabilmente seconda, dopo
cavalcate irresistibili e avversari
spazzati via con disinvoltura e
sfoggio di preziosismi. È il mito di
Davide contro Golia con il finale
rinviato a data da destinarsi. Un
mito che si nutre di un capitolo
speciale, quello delle sfide contro
l’Unione Sovietica, che si ammantano
di inevitabili significati
extra-calcistici e si portano dietro
la rottura tra Tito e Stalin,
l’uscita della Jugoslavia dal
Cominform e l’orgogliosa e
coraggiosa scelta dell’Autogestione
interna e del non allineamento in
politica estera. Partite
sentitissime e combattutissime
(indimenticabile il 5-5 di Tampere
nel 1952), con il consueto epilogo
su cui, da un certo momento in poi,
distende inevitabilmente la sua
ombra il Ragno Nero, al secolo Lev
Jašin.
Gli anni d’oro del calcio nazionale
jugoslavo sono senz’altro i
cinquanta e i sessanta. Sono gli
anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek,
di Miloš Milutinović e
dell’indimenticato “filosofo”
Vujadin Boškov, di Milan Galić e di
un Partizan che arriva a disputare
la finale della prima edizione della
Coppa dei Campioni contro il Real
Madrid (anno 1966, anche qui il
solito refrain). Il
sipario si chiude a Roma nel 1968,
quando il Destino prenderà le
sembianze di Riva e Anastasi nella
ripetizione della finale
dell’Europeo. Nel primo round,
finito in pareggio, la Jugoslavia
domina in lungo e in largo, va in
vantaggio con l’ala sinistra Džajić
e sfiorano più volte il colpo del
ko, raggelando il pubblico
dell’Olimpico nonostante la torrida
serata di giugno, prima di essere
raggiunti nel finale da una
punizione (assai dubbia) di
Domenghini: la solita esuberanza
priva di sostanza, la solita
recidiva irresolutezza, la solita
apoteosi soltanto accarezzata. I
settanta saranno anni di evanescenza
e scarsi risultati.
Calcio su, Jugoslavia giù
La analisi di Tanzilli e Carelli
sembrano confluire su una tesi
difficilmente confutabile, per
quanto in apparenza paradossale. Il
vero boom del calcio jugoslavo
coincide con il lento dissolversi
della Repubblica federale e del suo
tessuto istituzionale, minato
all’interno dalla crisi economica e
dal risorgere dei nazionalismi. Già
nel 1979, un anno prima della morte
di Tito, la Stella Rossa raggiunge
la finale di UEFA, sconfitta, manco
a dirlo, dal Borussia
Moenchengladbach. Da lì in poi sarà
un progressivo salire alla ribalta
nazionale e internazionale di
talentuosi virgulti del pallone, ma
anche dei primi rigurgiti
separatisti, che troveranno negli
spalti degli stadi una potente cassa
di risonanza e un corredo simbolico
in grado di modellare il nuovo
immaginario collettivo. Il
linguaggio delle cronache sportive,
circonfuso di retorica
neorevanscista e palesemente
ancillare a ben più strategici piani
di manipolazione delle masse, fa il
resto: le tifoserie organizzate
diventano l’avanguardia della
disgregazione politica, prima di
trasformarsi, all’apice del
tracollo, in luoghi di reclutamento
per milizie paramilitari e di
selezione di fresca carne da
cannone. Illuminante su questo tema
è la raccolta di saggi
dell’antropologo belgradese Ivan
Čolović dal titolo Campo
di calcio, campo di battaglia
(traduzione di Silvio Ferrari,
Mesogea 1999), cui fa da
aggiornamento il recente Dio,
Calcio e Milizia. Il Comandante
Arkan, le curve da stadio e la
guerra in Jugoslavia di
Diego Mariottini (Bradipo Libri,
2015, pp. 184).
Di questo fenomeno sempre meno
strisciante il pubblico italiano fa
conoscenza diretta il 31 marzo 1988.
Allo stadio Poljud di Spalato va in
scena l’amichevole
Jugoslavia-Italia, trasmessa in
diretta senza la consueta
telecronaca per uno sciopero dei
cronisti sportivi Rai (ce ne fossero
più spesso oggigiorno...). Ebbene, i
fischi assordanti dei tifosi di casa
non sono rivolti agli avversari, ma
ai giocatori serbi ogniqualvolta
entrano in possesso del pallone.
Preludio di un altro, chiarissimo
sintomo dell’incombente
dissoluzione, che si palesa agli
occhi degli italiani nell’esordio
della Jugoslavia ai Campionati
mondiali del 1990 contro la
corazzata Germania Ovest. Un mese
prima, il 13 maggio, il Maksimir di
Zagabria è stato teatro di cruenti
scontri tra tifosi serbi della
Stella Rossa e croati della Dinamo,
preambolo di altri scontri, stavolta
armati, che avranno luogo un anno
più tardi in Slavonia. San Siro è
gremito in ogni ordine di posto e
nonostante il dinaro ipersvalutato
nutritissima è la rappresentanza
jugoslava sugli spalti. Sono
presenti i maggiori gruppi
organizzati (la Torcida dell’Hajduk,
i Bad Blue Boys di Zagabria, l’Horde
Zla di Sarajevo, i Delije belgradesi
e altri), ciascuno con il proprio
striscione e ciascuno con i vessilli
jugoslavi (forse in un ultimo,
contraddittorio sussulto di
Fratellanza e Unità), ma separati
chirurgicamente e distribuiti a
chiazza di leopardo.
Ultimo capitolo
E qui si apre il capitolo
conclusivo di questa gloriosa e
mesta storia, fatalmente ostaggio
dell’inesorabile gioco delle
possibilità negate, così diffuso al
di là dell’Adriatico. L’ipotetica
dell’irrealtà si nutre al solito
della scontata domanda inevasa: che
cosa sarebbe potuto accadere se...?
Già, cosa sarebbe potuto accadere se
Faruk Hadžibegić, roccioso difensore
bosniaco, avesse insaccato l’ultimo
rigore contro l’Argentina, anziché
gettare il pallone tra le braccia di
Goycochea? [Sullo stesso tema si
veda anche: La
partita che poteva salvare la
Jugoslavia, di Gianni
Galleri; liberamente ispirato a L’ultimo
rigore di Faruk, Gigi
Riva, Sellerio] Cosa sarebbe
successo se quella compatta e
armonica Nazionale ("molto migliore
del paese che rappresentava" affermò
più tardi il tecnico Ivica Osim)
avesse proseguito il cammino nei
Mondiali italiani, raggiungendo
magari la finale? "Le cose nel
nostro paese sarebbero andate
diversamente" giurano alcuni;
"saremmo comunque arrivati secondi",
chiosano altri con un sorriso amaro.
E se a quella generazione
irripetibile di fuoriclasse ‑
laureatisi, giovanissimi, campioni
mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑
fosse stato concesso il futuro che
si meritava? Se il Destino non
avesse disperso in mille rivoli un
patrimonio di inventiva e di
intelligenza calcistica? Se,
insomma, ai Boban, Prosinečki,
Šuker, Boksić, che spinsero la
Croazia fino all’incredibile terzo
posto al torneo mondiale del 1998,
si fossero potuti affiancare gli
Stojković, Savicević, Mihajlović,
Mijatović? E se provassimo a stilare
una formazione jugoslava oggi, alla
vigilia degli Europei in Francia,
mescolando calciatori serbi, croati,
sloveni e bosniaci? "Saremmo
diventati – o diventeremmo ‑
finalmente, e a pieno titolo, il
Brasile d’Europa" scommettono
(quasi) tutti.
La realtà, si sa, è un cimitero di
sogni, una fabbrica di nostalgie;
pone un solido argine alle sterili
fantasie e alle iperboli
dell’immaginazione, le relega
nell’alveo dell’illusione. Ma la
realtà dice che il 29 maggio 1991
la mitobiografia di una nazione ebbe
il suo congruo epilogo, che Davide
riuscì finalmente a uccidere Golia.
Quel giorno, a Bari, la Stella Rossa
salì sul tetto d’Europa e vinse la
sua prima e sinora unica Coppa dei
Campioni. Un mese più tardi il
pallone venne schiacciato dai
cingolati e quelle emozioni uniche e
irripetibili che solo "il gioco
senza fine bello" sa regalare furono
barbaramente soffocate. Ma questa è
un’altra storia. Una brutta storia.
Il commento di Marko:
Bell'articolo. Va ricordato per
completezza la vicenda degli europei
92 in cui la Jugoslavija si
classificò prima nel suo girone, ma
in seguito delle sanzioni ONU fu
estromessa e fu richiamata la
seconda del girone, la Danimarca che
vinse gli europei; certo nel calcio
2+2 non fa sempre 4 (la nazionale che
vi avrebbe partecipato sarebbe stata
orfana dei croati e forse anche di
bosniaci) ma chissà ci piace pensare
che...
Giusto menzionare Stojkovic, giocatore
che ha seminato molto e raccolto poco
(basti pensare che nella finale di
Bari 91 lui giocava dall'altra
parte!). A Italia 90 ricordo bene,
almeno per la mia esperienza, noi
serbi tifavamo tutta la squadra e non
solo per in nostri, come si diceva
allora.
Il 7 aprile
1999, durante i bombardamenti
Nato, a Belgrado si giocò
un'amichevole contro la guerra tra
Partizan e Aek Atene
La
sveglia è all’alba. La squadra si
raduna e insieme si va all’aeroporto
di Atene-Eleftherios Venizelos.
I sorrisi a favore di telecamera e gli
sguardi solo all’apparenza distesi
nascondono un’ingente carica di
tensione. Alle porte per i giocatori
dell’Aek Atene non
c’è una partita di cartello, né
un’importante sfida europea che
deciderà la stagione dei gialloneri.
Anzi, il campionato in Grecia è fermo
per la Pasqua ortodossa, di solito
un’occasione che i giocatori sfruttano
per stare con le proprie famiglie, per
staccare la spina per qualche giorno.
Ma la posta in palio questa volta è
troppo alta per restare a casa, e
così, quando ai giocatori è stato
chiesto di partire, nessuno si è
tirato indietro. Insieme a loro si
metteranno in viaggio anche i
dirigenti del club e una folta
rappresentanza del tifo organizzato,
che ha deciso di seguire la squadra in
una partita dall’immenso valore
simbolico. Ci siamo. Belgrado,
stiamo arrivando.
Non sarà
un viaggio di piacere, e non sarà
facile arrivare in Jugoslavia. Il volo
da Atene atterrerà a Budapest, con il
viaggio che proseguirà riscendendo in
pullman verso sud, attraverso il
confine che divide l’Ungheria
dalla Vojvodina. È l’unico
modo, il più sicuro, per entrare in
Jugoslavia. Perchè oggi è il 7 aprile
1999, il quattordicesimo giorno da
quando, lo scorso 24 marzo, la
Nato ha iniziato i bombardamenti
sull’intero territorio della
Repubblica Federale di Jugoslavia.
Neanche Novi Sad, che della Vojvodina
è il centro principale, è stata
risparmiata dalle bombe. Ed è strano,
perchè la città, distante quasi 100
chilometri da Belgrado e circa 500 dal
Kosovo, ha sempre mantenuto intatto il
suo carattere multiculturale, terra di
frontiera e confronto tra la
comunità serba e quella ungherese. E
poi, se vogliamo dirla tutta, è
gestita da una delle amministrazioni
locali più ostili all’establishment
del presidente jugoslavo Slobodan
Milosevic.
Quattro
raid, ai quali presto ne seguiranno
altri, in pochi giorni hanno devastato
le principali infrastrutture della
città che ha dato i natali a Vujadin
Boskov, all’epoca
allenatore del Perugia. È stato lo
stesso Boskov, in un colloquio
telefonico con Miodrag Lekic,
l’ambasciatore jugolavo in Italia, a
comunicare l’intenzione di continuare
a giocare, manifestata dai giocatori
jugoslavi impegnati in Serie A. Alla
fine, l’idea di rifiutarsi di
scendere in campo nei Paesi membri
della Nato, avanzata tra
gli altri da Savicevic – che da
gennaio è tornato a giocare nella
Stella Rossa – e Mihajlovic, non è
stata ritenuta realistica. Sono
professionisti legati al proprio club
da regolare contratto. Giocheranno si,
ma non perderanno occasione di
manifestare il proprio dissenso verso
questa guerra assurda.
Un bersaglio disegnato, una scritta,
un’intervista che esplicitamente metta
l’opinione pubblica a conoscenza di
quanto siano illegali e
immorali quelle bombe che
dalla notte del 24 marzo
cadono incessantemente sulla
Jugoslavia. Affinché tutti possano
avere anche solo la minima percezione
di cosa significhi ritrovarsi a
convivere con il terrore. Di cosa
significhi avere la quotidianità
violentata dagli urli delle sirene,
dall’ansia, dalle corse nei rifugi o
negli scantinati dei palazzi. Una
volta, poi un’altra e un’altra ancora.
Giorno dopo giorno.
Per
questo l’Aek Atene ha deciso di
sfidare l’embargo e recarsi
a Belgrado per giocare un’amichevole
contro il Partizan, il cui
ricavato andrà per intero alle
associazioni umanitarie jugoslave. Il
tratto in pullman, l’ultima tappa
del viaggio, non è privo di tensione.
Il giorno prima la Nato ha scatenato
uno dei bombardamenti più duri
dall’inizio dell’aggressione militare,
colpendo, nella notte tra il 5 e il 6
aprile il quartiere operaio
della città di Aleksinac,
mentre da poche ore è arrivata la
notizia secondo cui l’Alleanza ha
rifiutato il “cessate il fuoco”
proposto da Belgrado.
Con uno
stato d’animo difficilmente
immaginabile, la carovana proveniente
da Atene entra finalmente in città,
accolta dagli edifici anneriti e dalle
macerie del palazzo che ospita il
Ministero degli Interni a Kneza
Milosa, colpito nella notte tra il 2 e
il 3 aprile, con le fiamme che si sono
estese danneggiando anche il vicino
ospedale psichiatrico “Laza Lazarevic”
e l’unità di ostetricia e psicologia.
Lo Stadion Partizan,
quel giorno, è probabilmente l’unico
luogo di Belgrado in cui regna una
seppur superficiale ed effimera
serenità. Le tribune sono piene,
bandiere greche e jugoslave si
mescolano con gli striscioni
del Partizan e dell’Aek,
unite da quei bersagli che ormai tutto
il mondo ha imparato a conoscere.
Sono i simboli di un’opposizione
internazionale alla guerra, gli stessi
che atleti sparsi in tutto il mondo
indossano ogni domenica sotto le
magliette, gli stessi che la gente
comune espone notte dopo notte, quando
sceglie di aspettare sui
ponti di Belgrado l’arrivo dei
caccia bombardieri della Nato.
Dai ponti allo stadio, la paura è
forte, ma la voglia di contrastare la
guerra lo è di più. Così il tabellone
luminoso, inquadrato dalla tv
jugoslava, ripete il messaggio a
chiare lettere prima della partita, «Stop
the war, stop the bombing»,
trovando l’eco da parte dello
striscione che i giocatori di entrambe
le squadre srotolano in campo.
La
partita finisce 1-1, ma il risultato è
di certo la parte meno interessante
della giornata. È più importante
sapere che la partita non
termina al 90′, perchè a
undici minuti dall’inizio della
ripresa l’arbitrio fischia tre volte,
permettendo ai tifosi di entrambe le
squadre di correre in campo.
Un’invasione, questa sì, pacifica, un
abbraccio collettivo in quel
valzer di bandiere che per un
pomeriggio ha colorato Belgrado.
Ma il momento scelto per interrompere
la partita non è casuale, lo sanno
tutti, in campo come sugli spalti.
Vorremmo
far dipendere la decisione da una
chiara scelta in favore della
solidarietà, ma non è
così. All’undicesimo della
ripresa la partita viene interrotta
per permettere agli ospiti di
rimettersi in viaggio e lasciare la
Jugoslavia con la luce del giorno.
Perchè poi, appena la notte tornerà ad
occupare il suo posto nel cielo,
torneranno loro. I boati
assordanti, le sirene e i loro canti
di morte. Stasera su
Belgrado tornerà la guerra.
Amburgo 30 aprile
1993. La campionessa del tennis
Monika Seleš è accoltellata da uno
spettatore tedesco, fanatizzato di
odio antijugoslavo dai media
Come
uccisero il Brasile d’Europa
Di Carlo Perigli - pubblicato
in tre parti su Popoff,
aprile-maggio 2015
[parte
1] Ascesa e scomparsa di
una delle Nazionali di calcio più
spettacolari di tutti i tempi. La
Jugoslavia era pronta a vincere tutto,
finchè la politica non entrò a gamba
tesa
Sguardi
persi nel vuoto, molti piangono,
qualcuno addirittura per il
nervosismo rigetta la cena. É la
sera del 1 giugno 1992, il Brasile
d’Europa è stato
appena ucciso da un fax proveniente
da Berna. Brasile d’Europa, così
veniva chiamata la Nazionale
di calcio jugoslava verso
la fine degli anni ’80, per via di
quello straordinario catalogo di
estro e fantasia con cui quella
generazione faceva sognare un Paese
intero, da Lubiana a Skopje.
Quel
fax parte dalla sede dell’Uefa e
arriva a Stoccolma, dove la Jugoslavia
è in ritiro a otto giorni
dall’inizio dei campionati europei
di Svezia. C’è scritto
che, in osservanza della Risoluzione
757 del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, la
Jugoslavia non potrà essere
accettata in alcuna competizione
sportiva. È solamente il colpo di
grazia al calcio jugoslavo, già
duramente segnato da guerre e
secessioni. In Svezia finisce una
storia iniziata in tutt’altro modo,
a cinque anni e migliaia di
chilometri di distanza. Termina in
lacrime ciò che nel 1987 era
iniziato con i caroselli a Santiago
de Chile, quando un gruppo di
ragazzini terribili aveva
inaspettatamente dominato
e vinto il Mondiale Under 20.
Un
vero e proprio fulmine a ciel
sereno, tanto che nessuno credeva
veramente in quella competizione.
Sicuramente non
la Federazione, che aveva
deciso di risparmiare elementi di
spicco come Boksic,
Mihajlovic, Jugovic e Djordjevic,
capitano della selezione. Tantomeno
la stampa jugoslava, considerato che
l’unico giornalista inviato in
Cile, Torna
Mihajlovic, lavorava per
una rivista non sportiva, il
settimanale “Arena”, ed era lì più
che altro per preparare un reportage
sulla comunità serba. Ciò che
l’omonimo di Sinisa, come molti
altri, non sapeva, è che la fascia
da capitano Djordjevic l’aveva
lasciata al diciottenne Robert
Prosinecki, piede
vellutato e temperamento da pub, che
dì lì a poco sarebbe stato premiato
come miglior giocatore della
competizione, mentre Davor Suker
arrivava secondo nella classifica
marcatori.
La
Jugoslavia si riscopre terreno
fertile di campioni, si punta ad
Italia ’90, questa selezione può
eguagliare le gesta – per quanto in
ultimo sfortunate – della Nazionale
guidata da Dragan Dzajic negli
anni ’60. A differenza di
quegli anni però, sul Paese iniziano
a spirare venti di guerra. Partono
da lontano, la crisi economica
pervade i Balcani, i diktat del
Fondo Monetario internazionale
preparano il terreno per una sorta
di nazionalismo economico, che
presto invaderà anche la scena
politica. Il
resto verrà da se.
[parte
2] Mentre la
Nazionale si prepara ai Mondiali,
dal 1989 la Jugoslavia inizia ad
essere scossa da liberismo e
nazionalismo. Ad Italia ’90 andrà in
scena l’ultimo atto del Brasile
d’Europa
Il
calcio, almeno da parte di chi lo
gioca, per il momento prova a
rimanerne fuori. Se dal 1989 le sei
Repubbliche accelerano il processo
di allontanamento dalla Federazione,
la Nazionale rimane coesa. Così,
mentre sulla scena politica ed
economica iniziano ad affacciarsi i partiti
nazionalisti e l’economia
liberista, la selezione
che si appresta a viaggiare
verso l’Italia rimane fedele
alla sua identità jugoslava. I
giovani sono cresciuti e ora
affiancano senatori del calibro
di Stojkovic,
Savicevic e Katanec. La
squadra è rodata, domina le
qualificazioni senza perdere nemmeno
una partita ed elimina la più
blasonata Francia. Ma all’alba delle
notti magiche una
serie di episodi iniziano a
scuotere il calcio jugoslavo,
lastricandone la strada verso la
distruzione.
Il
primo, probabilmente anche il più
famoso, racconta gli eventi che si
svolsero al Maksimir
di Zagabria il 13 maggio 1990,
nella cornice dell’ormai noto, per
quanto mai giocato, incontro
tra Dinamo
e Stella Rossa. A
differenza del passato, questa volta
gli scontri avvengono in una cornice
politica totalmente inedita. L’8
aprile l’Hdz, il partito
nazionalista guidato da Franjo
Tudjman, ha vinto le prime
elezioni multipartitiche in
Croazia, della quale il
30 maggio diventerà poi Presidente.
Sugli spalti compaiono le bandiere a
scacchi, mentre i
vessilli jugoslavi appaiono con un
ampio buco al posto della stella
rossa. L’ormai noto
calcio volante, rifilato da Boban ad
un poliziotto, divenne presto il
simbolo del progressivo ma
inevitabile allontanamento di
Zagabria dal resto della
Federazione. I nazionalisti si erano
ormai affermati, e per nulla al
mondo avrebbero rinunciato a sfruttare
il calcio come infallibile
strumento di propaganda.
Tuttavia,
la prima vera scollatura tra la
Nazionale jugoslava e il suo
pubblico avviene circa venti giorni
dopo. Il teatro è sempre il
Maksimir, che stavolta ospital’amichevole
tra Jugoslavia e Olanda,
ultimo test prima della partenza per
l’Italia. Lasciamo il racconto degli
eventi alle parole di Dragan
Stojkovic, capitano e leader di
quella selezione:
«Facemmo
la preparazione a Zagabria e
giocammo un amichevole contro
l’Olanda. I
tifosi di casa iniziarono ad
intonare cori contro di noi e a
favore degli olandesi.
Era molto strano da vedere e da
sentire, e il ct dell’Olanda Leo
Beenhakker in conferenza stampa
dichiarò di non sapere che la sua
nazionale avesse così tanti fan
là. Più tardi qualcuno gli spiegò
che [la situazione] era contro di
noi. A
quel punto capimmo che qualcosa
sarebbe successo, ma in squadra
non c’erano problemi.
Avevamo Prosinecki dalla Croazia,
Pancev dalla Macedonia, Susic
dalla Bosnia, Katanec dalla
Slovenia, io dalla Serbia e
Savicevic dal Montenegro. Non
abbiamo mai avuto questo genere di
problemi e mai discutemmo o
scherzammo su questo».
Nonostante
le premesse però, in Italia la
Jugoslavia conferma il suo talento,
passa agevolmente il girone
(sconfitta solo dalla Germania) e
delizia il mondo contro la Spagna,
grazie alle prodezze di un
meraviglioso Dragan Stojkovic,
autore di una straordinaria
doppietta. Sugli
spalti sventolano le bandiere con
la stella rossa, il
pubblico sostiene la sua Nazionale,
ma un ulteriore episodio contribuirà
nuovamente a destabilizzare
l’ambiente sportivo. Poco prima
della partita con l’Argentina,
valida per i quarti di finale, Srecko
Katanec, mediano e punto di
riferimento della selezione,
chiede al c.t. Ivica Osim di
essere escluso dalla formazione
titolare: «Per
favore non mi faccia
giocare, ho ricevuto delle minacce
nella mia città, sono preoccupato
di giocare per la Nazionale».
Osim capisce, la situazione sta
diventando instabile e nemmeno la
Nazionale ne è più immune.
Non
è più una questione di bilanciamento
tra le varie Repubbliche per le
convocazioni, gli avversari di
quella Nazionale ora si chiamano
politica e criminalità, che incitano
quelli che una volta erano i suoi
tifosi. La
Jugoslavia in campo resiste,
perdendo solamente ai rigori
nonostante l’inferiorità numerica
per circa novanta minuti.
L’errore decisivo, ironia della
sorte, è proprio di capitan
Stojkovic. I mondiali italiani
confermano però la maturità del
calcio jugoslavo, pronto a puntare i
Campionati Europei del 1992. Nessuno
poteva immaginare che
quell’esplosione di talento
avrebbe rappresentato il canto del
cigno del promettente Brasile
d’Europa.
[parte
3] Dal 1990 al
1992 la Nazionale jugoslava viene
coinvolta negli eventi storici e
uccisa dal fax dell’Uefa, che la
esilierà dal calcio fino al 1998
Il 12 settembre 1990 la Jugoslavia
inizia le qualificazioni agli Europei
del 1992battendo
l’Irlanda del Nord per 2-0. Quello
degli slavi del sud è un cammino
implacabile, che porterà la
Nazionale a passare agevolmente
il girone, vincendo 7 delle 8
partite, con 24 gol realizzati e
solamente 4 subiti. Oltre a Davor
Suker, la Jugoslavia
inizierà ad amare anche Darko
Pancev, implacabile
attaccante che vincerà la classifica
marcatori con 10 gol. Numeri
impressionanti, stracciati da una
storia fatta di nazionalismi, guerre
e interventismo occidentale, che
spazzeranno via ogni aspetto
della società jugoslava, calcio
compreso.
Per
quanto riguarda il nostro racconto
invece, la parola “fine” potrebbe
riportare già una prima data il
16 maggio 1991, giorno in
cui la Jugoslavia batte le Isole Far
Oer per 7-0. Vittoria a parte, si
tratta dell’ultima volta in cui la
rappresentativa dei 6 Stati, 5
nazioni, 4 culture, 3 religioni e 2
alfabeti scende in campo. Dal
giorno dopo i croati lasceranno lo
spogliatoio, tra giugno e
dicembre diventeranno stranieri. Per
il calcio jugoslavo, inteso come la
rappresentazione sportiva della
patria di tutti gli slavi del sud,
inizia un rapido declino. Un primo
segnale si ha nella finale
di Coppa di Jugoslavia,
giocata l’8 maggio a Belgrado tra
Stella Rossa e Hajduk di Spalato, a
pochi giorni da uno dei violenti
scontri a fuoco che imperversano a
Borovo Selo, a pochi chilometri da
Vukovar. Pensando alle due sfidanti,
torna in mente la stessa partita
giocata nel 1980, quando
uno stadio intero piangeva la
morte del Maresciallo Tito.
No, questa volta l’atmosfera è
decisamente diversa, e a spiegare
come in 11 anni tutto fosse cambiato
c’è il tristemente famoso “spero
che i nostri ragazzi uccidano la
tua famiglia a Borovo”
sussurrato da Stimac a Mihajlovic,
serbo – all’epoca jugoslavo – nato a
Vukovar, parte di quel complesso
rompicapo di etnie chiamato
Jugoslavia, che solo uno squilibrato
cercherebbe di risolvere tracciando
linee nette.
Per
assurdo, alla fine del mese il
calcio jugoslavo conosce il momento
più alto della sua storia. A Bari
la Stella Rossa batte l’Olympique
Marsiglia e alza per la prima
volta la Coppa Campioni.
In piccolo, quella
squadra è una riproduzione
della Nazionale jugoslava, dove il
macedone Pancev segna a ripetizione,
imbeccato dal montenegrino
Savicevic, mentre il croato
Prosinecki disegna geometrie
impensabili aiutato dai serbi
Mihajlovic e Jugovic. In difesa, il
bosniaco Šabanadžović
formava la cerniera di una squadra
formidabile e multietnica. La
notte del 29 maggio 1991 anche
Bari divenne una piccola
Jugoslavia. Tra
musiche balcaniche e fiumi di
rakija, va di scena una festa
che non guarda differenze
etniche di sorta, in un ballo
che idealmente abbraccia ancora
tutte e sei le Repubbliche.
Dall’altra
parte dell’Adriatico invece, gli
eventi ormai sono precipitati. Le
squadre croate e slovene hanno
lasciato la Prva Liga jugoslava, che
nel 1992 smetterà di esistere per
lasciare il passo al campionato
della Repubblica Federale di
Jugoslavia, alla quale partecipano
le squadre serbe e montenegrine. La
nazionale Jugoslavia esiste
ancora, e a dispetto della
politica vola in Danimarca per
rappresentare tutte le
nazionalità, croati esclusi. Ci
sono sette giocatori serbi, sei
montenegrini, due da Slovenia e
Macedonia, uno dalla Bosnia. Vivono
il ritiro tutti insieme, senza
parlare di politica, nonostante la
stampa non chieda altro, nonostante
vengano ospitati in bungalow isolati
e controllati da forze di polizia
con unità cinofila al seguito,
nonostante perfino i Primi Ministri
delle selezioni avversarie non
perdano occasione per delegittimare
la loro presenza agli
Europei. Finchè non arriva quel
fax, con il quale il nostro racconto
trova la sua conclusione definitiva,
quando la politica riesce ad entrare
a piedi pari sul calcio con la
complicità di tutta la terna
arbitrale. La Uefa
esegue le disposizioni contenute
nella Risoluzione 757 del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
che decreta l’embargo per la
Repubblica Federale di Jugoslavia
prevedendo inoltre l’immediata
sospensione degli scambi
scientifici, tecnici e culturali,
nonché l’esclusione da tutte le
manifestazioni sportive. Innegabile,
quello calcistico è decisamente il
lato più trascurabile, ma allo
stesso tempo è il dito nella piaga,
lo schiaffo che umilia, il colpo di
grazia che esilia la Jugoslavia fino
ai Mondiali del 1998. Ecco
come hanno ucciso il Brasile
d’Europa.
Chiudiamo
la terza ed ultima parte del
racconto ricorrendo nuovamente alle
parole di Dragan
Stojkovic, che
sintetizzano al meglio quanto il
calcio fosse distante dalla
politica, ma anche quanto
quest’ultima si interessò anche ad
un semplice pallone.
«È
stato il giorno più brutto della
mia vita, e la cosa peggiore è che
non potevo spiegare ai giocatori
il perché. Questo è sport, non
politica, e le due cose non
dovrebbero mai andare di pari
passo. Stavano accadendo cose
terribili nel mio Paese, delle
quali mi vergogno profondamente.
Ma quando vidi quei giocatori,
vidi le loro espressioni distrutte
quando gli diedi la notizia,
volevo sapere perché la Uefa era
arrivata a tal punto. Se avevano
deciso di escluderci dalla
competizione, perché non dircelo
prima? Ci stavamo allenando,
eravamo già in hotel in Svezia, e
ora dovevamo andare a casa.
Dovevamo tornare alla realtà. E
ancora, nessuno mi spiegava il
perchè».
Le
repubbliche jugoslave nel
medagliere olimpico
Il numero
riportato tra parentesi indica
la posizione del paese nella
graduatoria dei corrispondenti
giochi olimpici
oro
argento bronzo totale
Regno di
Jugoslavia
Repubblica Popolare Federativa
di Jugoslavia
Repubblica Federativa
Socialista di Jugoslavia
Ljubodrag
Duci Simonović
(*) GIOCHI OLIMPICI DI
LONDRA. GIOCHI DI MORTE
I Giochi Olimpici.
Il più grande festival del
mondo capitalistico.
"Il palco blu" è pieno.
I carnefici dell'umanità si
sono radunati.
La Regina è anche presente.
La Casa Reale Britannica...
L'organizzazione criminale più
sanguinaria che la storia ha
conosciuto.
Londra festeggia!
Le navi da querra, gli aerei,
i missili, le forze di
polizia, i commandos...
Una vera atmosfera olimpica.
Le fanfare, le marce...
I robots sfilano in parata.
Ave caesar! Morituri te
salutant!
La Regina saluta con la mano.
La Regina ride.
La Regina sbadiglia.
"Le colombe di pace" si
perdono nelle tenebre del
cielo avvelenato.
Questi sono i Giochi Olimpici,
scemo!
Ridi!
Tutti devono essere felici!
"Lo sport è il cibo spirituale
più economico per le masse
lavoratrici -
che li tiene sotto controllo".
Il vecchio, bravo Coubertin
sapeva come lo sport può
domare il popolo.
I Giochi Olimpici.
Erano "Il Festival della
Gioventù"
Oggi sono il Festival della
Morte.
La Regina si è addormentata.
Lasciamola dormire
Che dorma eternamente.
Così come Blair, Bush,
Clinton, Sarkozy, Obama...
Con tutti i carnefici del
capitalismo.
Dormite! - voi angeli
olimpici!
Dormite! - voi canaglie
olimpiche!
E non svegliatevi mai.
trad.
Mirjana Jovanović
Ljubodrag
Duci Simonović
The London Olympics. The
Death Games
The Olympic Games.
The most important festival
of the capitalist world.
“The blue lodge” is full.
The executioners of
humankind are getting
together.
The Queen is also present.
The British Royal Family...
The bloodiest criminal
organization in history.
London is celebrating!
The battle ships, military
planes, missiles, police
forces, commandos…
The true Olympic
surroundings.
Fanfares, marches…
The robots are paraded.
Ave cæsar! Morituri te
salutant!
The Queen is waving.
The Queen is laughing.
The Queen is yawning.
“The doves of peace” are
disappearing in the darkness
of a poisoned sky.
Those are The Olympic Games,
dummy!
Laugh!
All must be happy!
“Sport is the cheapest
spiritual food for the
working masses –
keeping them under control.”
Good old Coubertin.
He knew how sport could rule
the people.
The Olympic Games.
They were “The Festival of
Youth”.
Today, they are The Festival
of Death.
The Queen fell asleep.
Let her.
Let her fall into the
endless dream.
Along with Blair, Bush,
Clinton, Sarkozy, Obama…
Along with all capitalist
criminals. Sleep! – you Olympic
Angels.
Sleep! – you Olympic
Bastards.
And never wake up.
(*) Ljubodrag Duci Simonović è
stato membro della nazionale
jugoslava di basket che vinse la
Medaglia d'Oro ai Mondiali del
1970.
Filosofo e saggista, si occupa di
analisi politica da un punto di
vista marxiano, fortemente critico
del capitalismo.
Per contatti: comrade @
orion.rs
L'articolo seguente apparirà
nella sua versione originale, in
lingua serbocroata, nel prossimo
numero della rivista Novi Plamen
Sport
- ideologija u svom čistom obliku
(Traduzione a cura di CNJ-onlus)
Lo Sport –
Ideologia nella sua forma pura
Ivan
Ergić è un calciatore, un
editorialista, un marxista. Ha giocato
a calcio per squadre come la Juventus,
il Basilea e il Bursaspor. Negli
articoli per il giornale “Politika” ha
contemplato la società da un angolo di
vista particolare ed ha criticato
apertamente l’industria dello sport.
Più in generale, Ivan è un “insider”
che ci presenta lo sport in un modo
inusuale.
Le circostanze hanno fatto sì che io
scriva già da parecchio tempo questi
articoli sullo sport. Dico "le
circostanze" perchè questa non sarebbe
la mia prima tematica di interesse. A
parte il tifo per le mie squadre del
cuore nella pallacanestro e nel
calcio, si potrebbe dire che sulle
questioni sportive io dispongo d’un
medio grado d’informazione. Sarebbe
anche questa la causa per la quale i
miei scritti parlano dello sport in
quanto tale soltanto in misura minore.
Sono più interessato allo sport come
fenomeno sociale, alla maniera in cui
la società si riflette nello sport,
alla funzione dello sport nella
riproduzione socio-economica. Mi
interessano particolarmente queste
tematiche dopo aver letto alcuni anni
fa un pezzo di Ivan Ergić nel
quotidiano “Politika”.
Ergić è nato a Sebenico. Durante la
guerra nell'area ex jugoslava si
trasferì a Šabac, dopodiché visse per
tre anni a Pert, in Australia. Durante
la sua carriera ha giocato il calcio
per club come la Juventus e il
Basilea. Scrive articoli nei quali ha
un’atteggiamento critico verso
l’industria dello sport. E' stato fra
i primi a parlare della depressione
cui sono soggetti gli sportivi
professionisti d’oggi a causa del loro
genere di vita.
Spesso trovo stereotipi che
rappresentano Ivan come “il calciatore
che pensa”. L'idea, molto in voga
oggi, secondo cui i calciatori
sarebbero soggetti non pensanti è
causa di molte frustrazioni. Quando si
tratta di Ivan Ergić sarebbe opportuno
dire che lui è un calciatore che la
pensa diversamente. E' molto cordiale
ed è molto gradevole parlare con lui.
Quando l’ho conosciuto di persona ho
avuto l'impressione di conoscere un
mio insider. Gli ho chiesto molte cose
e a modo mio gli ho fatto una lunga
intervista, che adesso abbiamo
pubblicato, come potete vedere.
E'
raro che gli sportivi s’interessino
alle teorie sociali. Quello che nel
tuo caso è ancora più interessante è
che ti interessi al marxismo. Quando
ti sei imbattuto nel marxismo per la
prima volta?
Sono cresciuto in una famiglia
partigiana. Il mio bisnonno era stato
fucilato dai fascisti italiani, perchè
era un partigiano che faceva delle
azioni. Porto il nome Ivan a causa di
Ivan Ribar [1], visto che sono nato
nel centenario della sua nascita. Era
dunque naturale ch’io crescessi nello
spirito del socialismo e del
sentimento positivo per la Jugoslavia,
una idea che oggi, dalle nostre parti,
i revisionisti della storia stanno
sistematicamente distruggendo.
Da piccolo mi rimasero scolpite in
mente le parole di mio babbo, che
diceva che Marx era stato il più
grande dei profeti, perchè aveva
predetto che i soldi avrebbero
distrutto l’umanità. Anche se non lo
capivo allora, questo suo dire non era
in alcun modo un dogmatismo imparato
nelle riunioni del partito, ma
un’opinione sagace e ragionevole. La
mia esperienza di vita mi dice che si
tratta di una grande verità. Ma vorrei
sottolineare, visto che il marxismo ha
diversi spessori, che mi riconosco più
spesso nel "giovane Marx", con la sua
teoria dell’alienazione, con la sua
axiologia [2] umanistica; e negli
ultimi tempi, leggendo Il Capitale,
devo dire che mi trovo d’accordo con
la maggior parte delle sue diagnosi.
Meno d’accordo mi trovo con lo
storicismo volgare, con il rapporto di
struttura e sovrastruttura e la loro
trasformazione nell’ideologia
politica, anche se in tutto questo ci
sono alcuni elementi di verità.
Nell’ultima
partita della squadra nazionale in
cui si cantava “Hej Sloveni” [3] tu
eri l’unico giocatore a cantare
quell’inno. Che cosa significa la
Jugoslavia per te?
Per me la Jugoslavia è un ideale
incompiuto. Essa era fraternità e
unità, multiculturalità,
multiconfessionalità, il senso
dell’uguaglianza, e non soltanto dal
punto di vista delle classi sociali,
ma anche fra le nazioni e le etnie.
Questo per l’Europa di oggi non è
altro che una chimera, che non si
realizzerà mai proprio a causa delle
disuguaglianze, che si vedono meglio
nei tempi di crisi (ad esempio il
rapporto tra Grecia e Germania).
Naturalmente, non sono un utopista e
conosco tutte le insufficienze ed
errori di quel sistema, economici come
pure politici. E nello stesso tempo
non riduco la Jugoslavia, come fa la
maggior parte degli jugonostgici, al
mare, ai viaggi e al senso di
sicurezza, tutte cose che potrebbero
essere lo specchio di uno stato
clientelare. Come uno che proviene da
una famiglia operaia, che nella
generazione precedente era stata una
famiglia dei contadini, so benissimo
che non esiste nessun sistema al mondo
dove l’operaio e l’uomo comune siano
stati più rispettati. Basti pensare
alla tragedia dei minatori di
Aleksinac: ai loro funerali il paese
intero partecipò con una commozione
profonda. Oggi una cosa del genere è
impensabile.
Del resto, anche sul piano simbolico
eravamo all’apice della lotta
antimperialista, rappresentavamo il
paese-guida per i popoli decolonizzati
dell’Asia e dell’Africa e per le
popolazioni arabe. Le nostre vie
portavano i nomi di Patrice Lulumba,
di Togliatti, di Che Guevara, di Lola
Ribar. E oggi nelle nostre capitali
vediamo i monumenti eretti ai
monarchici e agli autocrati, come ad
esempio il monumento ad Alijev nel
centro di Belgrado. Si tratta oggi di
uno pseudo-internazionalismo, un
cosmopolitismo sostenuto dalle
correnti culturali liberiste, dietro
alle quali si nasconde il capitale con
ambizioni imperialiste.
Il
capitale sta anche dietro al calcio.
Ed è interessante che ai tempi della
crisi, quando soltanto il calcio
europeo professionale contrae un
debito annuale di 1,5 miliardi di
Euro, gli investimenti in questo
sport non vengono a mancare. Si
tratta di un mercato enorme e degli
interessi delle grandi corporazioni.
In tutto questo, dov'è quello che
era il punto di partenza – il gioco?
Chiunque ami il calcio ed abbia
sviluppato un gusto calcistico si può
accorgere che il calcio già da un
pezzo non è più quello che era stato
una volta. La mercificazione di tutto,
si guardi anche soltanto nell’area
della cultura, sta rovinando
l’autenticità di ogni cosa. Il gioco
in quanto tale è spostato su di un
binario secondario, mentre predomina
già da parecchio tempo la forza
fisica, la resistenza, la tattica.
Anziché al gioco, molta più attenzione
è rivolta all’economia di un club
calcistico, ai trasferimenti dei
giocatori, alle speculazioni, al
guadagno, agli scandali dei calciatori
nella vita privata, alle baruffe, agli
episodi di vandalismo delle gang
giovanili, eccetera. Il calcio quindi
fa parte dell’industria del
divertimento.
Del resto, la valanga di soldi e il
sollevamento di tutte le barriere ha
condotto all’usanza che la selezione
dei calciatori è fatta dal padrone
della squadra, pieno di capricci, e
non da un allenatore, che avrebbe il
compito di comporre la squadra con
razionalità e giudizio. Perciò il
Barcellona è oggi una spina
nell’occhio per l’industria del
calcio. Quelli hanno dimostrato che
senza molti soldi, con calciatori
usciti dalla loro scuola e con una
certa filosofia calcistica, si può
fare la migliore squadra mai esistita
– il Barca gioca vincendo e gioca un
bel calcio, un calcio migliore di
chiunque altro. Per questo lo
disprezzano, visto che questo club sta
diventando un simbolo, come lo sono
stati gli anarchici di Catalogna, che
furono per tutti una spina nell’occhio
in quanto ipotesi alternativa in senso
simbolico.
E
come vedi in generale il ruolo dello
sport nella società contemporanea?
Lo sport è l’ideologia allo stato puro
e dicendo questo penso allo sport
professionale di qualsiasi specie. Lo
sport è quella pedagogia sociale che
induce alla competizione, alla
determinazione, alla vittoria, alla
sconfitta, al sacrificio, alla
perseveranza, alla lotta, quindi a
tutto ciò che rappresenta il mercato,
che è la più grande ideologia mai
esistita. Lo sport è l’agitprop del
mercato.
I bambini fin da piccoli vengono
condizionati perché si sentano
contenti quando vincono e umiliati
quando perdono, e non soltanto nel
senso della gara, ma anche in senso
umano. Uno sguardo non-fenomenologico
rivolto allo sport ci dice che esso
avrebbe la funzione di incanalare le
frustrazioni. Questa tesi di Freud non
è diventata obsoleta per niente, come
vorrebbe suggerire qualcheduno. Per me
oggi è una cosa terribile che un club
sportivo ha più membri e può
mobilitare molta più gente dei
sindacati.
Un
grande ruolo in campo sportivo hanno
i tifosi.
I tifosi purtroppo sono mutati in
consumatori, il che è una conseguenza
naturale della mercificazione. Quando
soggiornavo a Basilea ho fatto
amicizia con i tifosi e con gruppi di
tifosi, andavo nelle tournée. A dire
il vero, facevo un tentativo di
avvicinare i tifosi, i giocatori ed il
club, per quanto potevo fare nella mia
posizione.
C’è una grande alienazione in questo
campo: i tifosi generalmente guardano
ai calciatori come a star viziate,
mentre i calciatori pensano ai tifosi
come a un male necessario - gran parte
hanno un atteggiamento negativo e
chiedono sacrifici ai giocatori. E'
vero: noi giocatori siamo di
passaggio, ma il club resta, però il
club non è un’astrazione, il club è
composto di gente reale, con valori
reali con i quali i tifosi si
identificano oppure no. Dunque, non
deve esistere un rapporto di tifosi
verso il club, ma un rapporto di
uomini verso altri uomini, e questo
non è un’utopia.
Parli
di ideologia. Il calciatore da
piccolo viene allenato, come gli
altri sportivi, a funzionare secondo
un dato schema. Non sarebbe questo
il primo grado di un’
interpretazione ideologica?
Ogni industria cosciente di se produce
un certo tipo d’uomo al quale
trasferisce certi valori. La stessa
vita dei calciatori ha una dimensione
pedagogica, che ho menzionato. Così
come è estetizzata la vita privata dei
divi di Hollywood, le stesse regole
valgono per un giocatore di calcio
professionista. A lui sono permessi i
capricci e le scenate. Tutti devono
cercare di essere come lui. In un mio
articolo ho scritto che il “sogno
americano” oggi è stato sostituito dal
“sogno sportivo”, un sogno che è molto
più largo e più ampio. Naturalmente,
si tralascia il fatto che soltanto una
millesima parte dei giovanissimi può
realizzarlo, mentre tutti gli altri
sono condannati a rimanere nella
miseria e nella povertà.
E' molto difficile resistere oggi agli
schemi ideologici e pedagogici dello
sport, che influiscono molto di più
sui ragazzi che vanno a scuola, anche
se la scuola pure punta ai parametri
di efficacia e non all’autosufficienza
dello studio e della creatività. Ma la
stragrande parte dei giocatori di
calcio è stata formata dall’ambiente
in cui sono cresciuti, in condizioni
di vita certe volte impietose che
portano alla perdita della
sensibilità. Lo sportivo ha il corpo
modificato secondo le leggi sportive,
il che è evidente, visto che succede
con ogni tipo di attività che viene
praticata dall’uomo: il posto di
lavoro ed i suoi imperativi plasmano
la sua fisionomia.
In
tutta questa formazione ha un grande
ruolo l’autorità dell’allenatore,
che spesso è indiscussa. Come vedi
tu la relazione fra il calciatore e
l’allenatore e come commenti gli
eventi legati ad Adem Ljaljić, che
da una parte si trova contrapposto
all’autorità degli allenatori e
dall’altra parte non è nelle loro
grazie?
Come in ogni posto di lavoro,
l’autorità non si discute. Ma il fatto
è che nella struttura gerarchica anche
l’allenatore è sottomesso a qualcun
altro. Cosi funziona il sistema.
L'episodio di Adem Ljaljić nella
Fiorentina esemplifica in modo
eccellente il caso d’un allenatore che
è stato formato secondo le leggi della
vanagloria, nonché la vanagloria d’un
giocatore, di cui i mass-media e
l’ambiente hanno già in giovanissima
età fatto un piccolo dio. E' una cosa
che ho visto ovunque io abbia giocato.
Lo stesso episodio dell'inno nazionale
mostra un atteggiamento
dell’allenatore molto maldestro verso
una cosa che già da principio si
presta bene alla politicizzazione.
L’inno in se è abbastanza escludente,
non parla della Serbia, ma dei Serbi e
di dio. Queste parole in se e per se
escludono le minoranze e gli atei, i
quali, sono sicuro, tutti amano la
Serbia forse più del resto dei
cittadini serbi. Lo stesso Ljaljić
giocando per la squadra nazionale dal
suo decimo anno d’età, ha mostrato un
patriottismo assai grande. Simili
tendenze e politicizzazioni del genere
le vedo dappertutto nel nostro
ambiente.
E'
noto che non hai un manager, che
controlli da solo tutta la tua
carriera: fatto che nel campo dal
quale provieni rappresenta una vera
rarità. Come ti sei deciso ad un
passo simile? Questo atteggiamento
ti ha complicato la vita o ti ha
offerto delle possibilità migliori?
Non avere un manager di certo chiude
molte porte, soprattutto se durante la
carriera vai dicendo ad alta voce che
la maggior parte di loro non sono
altro che pescecani e parassiti. Se
per questo sono stato punito e non ho
potuto entrare in un club migliore,
non lo so e non ha una grande
importanza. Ho fatto tutto da solo e
ho mantenuto un atteggiamento corretto
verso i club che erano interessati a
me come giocatore, ma non verso quelli
che volevano entrare in giochi sporchi
di spartizione dietro le quinte con
agenti e manager. Purtroppo il sistema
è stato costruito in modo che tutte le
strade che portano verso i club devi
percorrerle con i mediatori. Visto che
conosco gente del cinema e della
musica, posso affermare liberamente
che così funziona l’industria del
divertimento. Se si fa commercio con
gente giovane ed i loro genitori
disperati e inesperti, questo
rappresenta un’ulteriore combinazione
vincente per le agenzie.
E'
chiaro che esistono moltissimi
problemi e che sarebbe necessario un
collegamento tra i diversi livelli.
Che prospettiva c’è per
un’organizzazione sindacale dei
calciatori?
A livello globale esiste un sindacato
che si chiama FIFAPro. Esso ha una sua
agenzia in ogni Lega nazionale. Ma
come ogni burocrazia, anche questo
sindacato è alienato rispetto ai
giocatori e gli stessi giocatori non
hanno una coscienza precisa dei propri
diritti. Il calciatore non può
scegliere il periodo in cui giocare,
ne' sul quale terreno giocare, non ha
influenza sul calendario, cioè su
quando e quanto a lungo possa stare in
vacanza, e durante le vacanze
generalmente ha l'obbligo di
allenarsi. Tutto ciò porta
all’esaurimento nervoso.
Però nel pubblico si è creata
l’impressione che ogni esigenza
ulteriore del calciatore è percepita
come arroganza di qualcuno che
guadagna tanto. Ma ai calciatori danno
tanti soldi proprio affinché i
miliardari e i milionari nelle cui
mani è concentrata l'industria
calcistica, queste divinità che hanno
trasformato i tifosi in consumatori,
siano esentati da ogni critica e da
ogni responsabilità.
Nella
campagna elettorale per le elezioni
presidenziali in Francia una delle
obiezioni fatte alla sinistra, che
vorrebbe tassare drasticamente i
ricchi, è stata che una politica
fiscale simile avrebbe danneggato
molto il calcio francese, visto che
i calciatori, alla ricerca d’un
guadagno migliore, sarebbero fuggiti
dai club francesi. Quanto conosci
degli eventi sulla scena politica
mondiale e quanto è collegato il
calcio, se lo è, alla politica?
Sto seguendo tutto ciò che capita nel
mondo, soprattutto nella sinistra. Ma
penso che globalmente le politiche
economiche integrate dei governi,
anche quelli di sinistra, si riducono
a questioni di tecnica finanziaria.
Sono assolutamente per la ripartizione
e per l’autonomia delle istituzioni
finanziarie, ma le economie devono
ristrutturarsi in modo da produrre
abbastanza per potersi mantenere, e
non per finanziare le spese sociali e
i servizi sociali con il debito, che
poi dovranno pagare le generazioni
future. Nel momento in cui sia lo
Stato che la sua economia diventano
più finanziarizzati, essi dovrebbero
seguire politiche keynesiane per
incitare la crescita, senza i tagli e
le politiche di austerità richieste
dai “tre grandi”.
Trovo molto positivo che la Francia,
da grande potenza, vuole mettere in
discussione le politiche economiche
dell’UE, ma il cambiamento dovrebbe
prodursi su di un livello più largo.
Se soltanto un paese o due praticano
una diversa allocazione delle tasse,
questo porterebbe unicamente a indurre
alla fuga i capitali. A livello
globale il capitale sempre trova delle
oasi. Questo non significa che bisogna
rigettare una simile politica, ma che
bisogna insistere sul suo allargamento
in modo che siano indotti a politiche
simili i paesi più sviluppati, cioè
che essi siano costretti a fare ciò
che finora non hanno fatto, per quanto
riguarda le cause che ci hanno portato
alla crisi.
Accennare alle conseguenze sul calcio
può sembrare banale, ma proprio questo
dimostra quanta importanza sociale ha
acquisito il calcio e come è
strumentalizzato dalla politica, la
quale si serve anche del calcio per
incutere timore.
Vladimir
Simović
(ex giocatore di pallacanestro)
[1] Ivan Lola Ribar, grande
personalità del movimento partigiano
jugoslavo.
[2] Sistema di valori.
[3] Inno nazionale jugoslavo.
(Note a cura di CNJ-onlus)
Il
nazismo nel calcio croato non è
solamente sugli spalti
Tripudio
nazista ai Mondiali di Calcio
2018 (JUGOINFO
10.7.2018) Lovren e Modrić si esibiscono
in canti e saluti nazisti /
Vukojević e Vida si esibiscono
nel saluto banderista "Gloria
all'Ucraina" per festeggiare la
vittoria sulla nazionale russa
Follia a Spalato. Sul campo di
gioco dello stadio Poljud, a
interrompere le linee regolari
dell’erba, c’è una svastica.
Nella metà campo nella quale gli
azzurri hanno attaccato nel primo
tempo, è comparso sull'erba un
inequivocabile simbolo nazista,
alla vista non chiaro se con un
taglio d'erba in controverso o con
una pittura che ha seccato l'erba.
Fatto sta che nell'intervallo
alcuni inservienti sono entrati in
campo gettando zolle d'erba sulla
traccia, perchè dall'alto il segno
non fosse riconoscibile. Da capire
come sia stato possibile visto che
la gara Croazia-Italia si gioca a
porte chiuse. Forse è stata
disegnata nella notte e con una
vernice a comparsa ritardata.
«È un nostro problema, e stiamo
lavorando per risolverlo.
Purtroppo anche stasera è successo
qualcosa, ma preferirei non
parlarne ora: ne parleremo da
domani». Così Davor Suker, ex
attaccante e ora presidente della
federacalcio croata, ha commentato
a RaiSport la comparsa di una
svastica disegnata, con un taglio
d'erba o con un acido, sul terreno
di gioco di Spalato, per
Croazia-Italia giocata a porte
chiuse.
Un sopralluogo dalla tribuna a
partita finita, per vedere dalla
posizione migliore la svastica
disegnata sul campo di gioco di
Spalato per Croazia Italia, ma
«nessun commento». Così la Uefa,
attraverso il suo delegato Jan
Damgaard, ha preso atto del segno
di contestazione probabilmente
compiuto nella notte da ignoti
tifosi...
Sport News | 21 novembre 2013 -
Si è rivolto ai suoi tifosi gridando
"Per la patria" e loro gli hanno
risposto "Pronti". Uno slogan che ha
fatto infuriare non solo il mondo
sportivo, quello scandito dal croato
Josip Simunic al termine della partita
contro l'Islanda che ha consegnato
alla sua nazionale la qualificazione
ai mondiali in Brasile. Quello slogan
infatti appartiene al movimento
filonazista degli ustascia, guidati
dal 1941 da Ante Pavelic, che
applicarono nell'autoproclamato stato
indipendente croato le leggi razziali
sulla scia di quelle di Hitler,
portando a termine operazioni di
pulizia etnica nei confronti di ebrei,
zingari, ortodossi ma anche [sic]
serbi. L'associazione dei combattenti
antifascisti, i Saba, ha chiesto una
reazione immediata alla Uefa e alla
Federcalcio croata che sta pensando di
multare il giocatore. (RCD - Corriere
Tv) - VIDEO
Da:
Stefano Valsecchi
Oggetto:
IMMAGINI IN
MOVIMENTO NELLA MAGICA CELLULOIDE.
DALLA BREBEMI A ROSIA MONTANA (II
parte)
Data:
29 ottobre 2013
20.03.26 GMT+01.00
Molte fonti attribuiscono alla partita
di calcio fra "Dinamo Zagabria" contro
"Stella Rossa" di Belgrado, per la
precisione il 13 maggio 1990 allo
stadio di Zagabria, l'inizio simbolico
della guerra in Jugoslavia
(1991-1995). Come immagine in
movimento da quella partita, mi è
ancora ben viva durante gli scontri
che avvennero fra le due tifoserie, il
"calcio volante" che sferrò a un
poliziotto jugoslavo il calciatore
della "Dinamo Zagabria" Zvonimir
Boban, soprannome "Zorro" (sic).
Ricordo che Boban è attualmente
commentatore di Sky Sport (no
comment...), venne squalificato per
sei mesi per quell'aggressione e non
venne convocato dalla Federazione
Jugoslava, per "le notti italiane" di
Italia 90.
Per rimanere sul "Dio Pallone"...
Brandovan, "enciclopedia storica del
calcio jugoslavo" mi ha
ricordato anche l'episodio, di cui ero
all'oscuro, che avvenne nel
settembre 1990 a Spalato fra la
locale "Hajduk Spalato" contro il
"Partizan Belgrado". Il Partizan
stava conducendo la partita con un bel
sonoro due a zero, quando i
"tifosi"... dell' Hajduk invasero il
campo, cercando di linciare i
giocatori della squadra serba.
Approfitto della "enciclopedia
storica" per chiedere lumi sulla
squadra di calcio "FK Obilic",
dove fu Presidente "il comandante
Arkan" che portò la squadra a
vincere nel 1998 il campionato
nazionale. Brandovan mi racconta
che l'uscita dalla scena di
Arkan, ha segnato anche l'inizio del
declino calcistico del "FK Obilic",
attualmente in un campionato delle
serie inferiori (equivalente alla
nostra vecchia C2)...
Da:
Ivan Pavicevac
Oggetto:
Re: [CNJ] Fwd: ...
DALLA BREBEMI A ROSIA MONTANA (II
parte)
Data:
30 ottobre 2013
11.17.11 GMT+01.00
Grazie a Stefano di aver ricordato
quella mascalzonata di Boban, divenuto
poi nello Stato di Tudjman eroe
nazionale. A suo tempo, vedendo Boban
dialogare col guerrafondaio Pannella
su Teleroma 56 - mi pare allora
in mani del Partito Radicale - (avete
notato che parlava sempre con la testa
chinata?), scrissi una lettera a Boban
(giocava nel "Bari"). Mi rispose
telefonicamente l' allora sua
fidanzata ora moglie...
Da
"Hrvatska ljevica", rivista croata,
n.ro 1-2, 2001, Zagabria
http://www.srp.hr
LA
"BOBANIADE" E LO "YUGO"-CAMPIONATO
Nel tempo in cui i nostri politici
[croati] prendono il morbillo non
appena sentono parlare dei Balcani,
gli sportivi croati sempre più
caldeggiano la partecipazione ad uno
"yugo"-campionato, perché
altrimenti non possono sopravvivere.
Certamente si fa attenzione alla
denominazione della futura
organizzazione di competizioni
sportive: lega
centroeuropea, adriatica, interlega...
Tutto nello spirito della
politica di Racan [primo ministro
croato] - lega regionale si ,
"yugo"-lega no.
I giocatori di hockey sono legati al
ghiaccio, e perciò sono stati loro
i primi a "romperlo". Una squadra di
serie B, la Crvena Zvezda [Stella
Rossa] di Belgrado, ha attirato al
Palasport di Zagabria 7000 persone! I
giocatori di pallacanestro dicono che
tutto è pronto per l'inizio della
cosiddetta Lega adriatica che dovrebbe
includere le migliori squadre
montenegrine, croate, slovene,
eventualmente italiane e poi ungheresi
e
austriache. Che importa se l'Ungheria
e l'Austria non hanno sbocco al
mare, quando possono "sboccare" nella
"Lega adriatica"... Alle porte
invece bussano il Partizan e la Stella
Rossa belgradesi, poi il
Rabotnicki di Skoplje e la Bosnia di
Sarajevo, che si inseriscono nelle
fauci della politica.
I giornali di Sarajevo rivelano che ad
Amburgo si sono incontrati gli ex
"quattro grandi" del calcio jugoslavo,
l'Hajduk, la Dinamo, la Zvezda ed
il Partizan, per parlare della
formazione di una Lega balcanica.
Invece
i giornali croati scrivono
rammaricandosi che stadi e palazzetti
vengono
riempiti soltanto dai club serbi, e
che per lo spettatore croato sono
più interessanti la Zvezda o il
Partizan che non il Rijeka o l'Osijek,
e
che non è arrivato ancora il momento
per leghe tipo "dal Vardar al
Triglav" [dalla Slovenia alla
Macedonia, N.d.t.], e che a tutti è
chiaro
che non sono in questione soltanto
antagonismi sportivi, bensi' festival
di sciovinisti e di odio, sia che si
giochi a Lubiana, a Sarajevo, a
Zagabria o a Belgrado. Il "boss" della
Dinamo, Velimir Zajec, dice che
il suo club sarebbe interessato ad una
eventuale Lega centroeuropea con
l'Austria, la Slovenia e la Bosnia, ma
non più ad Est! Il presidente
della Dinamo, Mirko Barisic, lamenta
che gli "azzurri" [i giocatori
della Dinamo] non li va a vedere più
nessuno. Stanno organizzando
partite con insistenza, sapendo di
lavorare in perdita, e perciò stanno
pensando seriamente di passare ad uno
stadio più piccolo, anche se
questo rappresenta "una terribile
degradazione". All'epoca si chiedeva
sempre un biglietto "in più" per la
partita Croazia [Dinamo]-Partizan e
anche lo stadio di Maksimir faceva il
pieno quando giocavano la
nazionale croata contro quella
jugoslava. La tifoseria del calcio si
è
ridotta in Croazia ad alcune centinaia
di spettatori. Anche gli
Irriducibili si vedono sempre meno [in
Italia pero' quando si vedono
c'e' da preoccuparsi, come dimostrano
i fatti di Milano dello scorso
anno, quando decine di ultras nazisti
croati hanno messo a ferro e fuoco
il centro cittadino, ndT].
L' anno 2001 sarà l'anno di una nuova
vera e propria morte per gli
Irriducibili. La prima è stata a
Maksimir con la partita contro la
Jugoslavia, mentre adesso stiamo
proprio assistendo alla seconda -
commenta l'inserto del settimanale
"Jutarnji list". Zvonimir Boban si è
messo sotto i riflettori della
politica. A suo tempo stava al
tavolo di
insediamento dell'organizzazione
Tudjman - Hebrang. Al quotidiano
Slobodna Dalmacija ha rilasciato una
intervista che ha raggelato tutti
quelli che lo conoscevano e lo
stimavano. Con un discorso vergognoso,
Boban ha accusato tutti quelli che
considerano gli ultimi dieci anni
come un periodo buio perché non si
sono rassegnati allo Stato croato,
perciò li ha invitati semplicemente ad
andarsene dalla Croazia.
Dimenticando che proprio lui se ne
andò dalla Croazia 10 anni fa e 9 di
questi anni li ha passati a Bari e a
Milano, lasciando a noi di
consumare il "cosiddetto buio".
Il fatto è che una buona parte del
pubblico croato, inclusi i tifosi
piu' accesi, non ha simpatizzato molto
per quella specie di nazionale
calcistica... La colpa di cio' e' in
gran parte delle figure più in
vista: Ciro Blazevic, con la sua
adulazione di cattivo gusto verso il
governo [spec. verso Tudjman] ed a
causa di atti poco chiari; Stimac,
per i giochi d'azzardo; poi l'egoismo
di Suker e di Boban, il quale,
proprio come emerge nell'intervista,
rifiutava di vedere la realtà
sociale nella quale vivevano i suoi
tifosi.
Il problema è che i tifosi più accesi
sono diventati metafora politica.
Ad un certo momento l'HDZ [il partito
di Tudjman] stava scomparendo. Gli
Irriducibili sono diventati
interessati nostalgici di quella
situazione
anormale, un residuo galleggiante del
passato sistema, simile a qualcuno
di quei servizi segreti croati in
stato di abbandono. Infine è arrivata
la petizione per i generali. Boban e
compagnia ci hanno spinto in un
deplorevole imbarazzo: il tifo per la
nazionale è diventato scelta
ideologica e non un riflesso
patriottico. Perciò la seconda morte
degli
Irriducibili è una cosa positiva.
Questa morte non rimuovera' soltanto
dagli schermi alcuni personaggi che
non possono proprio essere portati
ad esempio dal punto di vista sociale,
ma libererà anche la nazionale da
problematiche prepolitiche e, cio' che
è più importante, dai fischi.
Alcuni degli eroi di questa storia
andranno in pensione se non proprio
in galera. Alcuni cambieranno il
cosiddetto status della verticale
politica, in apparenza neutrale, con
un "giusto" schierarsi politico, il
che è più onesto anche quando è
brutale e sfacciato, come nel caso
dell'intervista di Boban.
Nel frattempo, mentre il nuovo
selezionatore sta formando la nuova
nazionale ed i club sono pressati
dalla povertà, si cercano nuove
ricette per far ritornare gli
spettatori nei palazzetti e negli
stadi, i
battibecchi sui nuovi sistemi
interregionali (leggi:yugo-lega)
continuano in attesa della
"benedizione" della politica croata. I
croati
si identificano come nazione sportiva,
ma il fatto è che lo sportivo
dell'anno, un atleta di sollevamento
di pesi, è un croato naturalizzato
(comprato) che ha portato
l'unico oro dai Giochi olimpici. Gli
sport di
squadra hanno incominciato a perdere
nel confronto con quelli
individuali. I nuovi assi sportivi
sono gli sciatori, i nuotatori, i
lancia-martello, gli alzatori di
pesi... Essi non hanno bisogno della
lega regionale. Mentre i "premiati"
calciatori, cestisti, giocatori di
pallanuoto, dovranno chiedersi come e
cosa fare di qui a poco.
"Hrvatska
ljevica",
br. 1-2, 2001,
Zagreb
http://www.srp.hr
"BOBANIJADA"
i "YU" LIGA
U vrijeme kada nasi politicari
dobijaju ospice pri spomenu Balkana,
hrvatski sportasi sve glasnije
zagovaraju sudjelovanje u YU ligi, jer
drugacije ne mogu prezivjeti.Dakako,
oprezno se barata nazivima buduceg
sustava natjecanja : srednjeevropska,
jadranska, interliga...Sve u duhu
Racanove postapalice - regionalna liga
da, YU liga ne.
Hokejasi su vezani za led, pa su ga i
prvi "probili". Drugorazredna
ekipa beogradske Crvene zvezde
privukla je u zagrebacki Dom sportova
7000 ljudi ! Kosarkasi kazu sve je
spremno za start tzv. jadranske lige,
koja bi ukljucivala najbolje
crnogorske, hrvatske, slovenske,
eventualno
talijanske, te madjarske i austrijske
klubove. Nema veze sto Madjarska i
Austrija ne izlaze na more, zato mogu
"izaci" u "jadransku ligu", a na
vrata kucaju Partizan i Crvena Zvezda,
pa i skopski Rabotnicki i
sarajevska Bosna, sto ce se umotati u
raljama politike.
Sarajevske novine objelodanjuju da su
se u Hamburgu sastali
predstavnici bivse nogometne ,,velike
cetvorke", Hajduka, Dinama,
Zvezde i Partizana i dogovarali
osnivanje Balkanske lige. Hrvatske
novine, pak, pisu kako je zalosno sto
stadion ili dvoranu mogu napuniti
samo srpski klubovi, sto je nasem
gledaocu jos privlacnija Zvezda ili
Partizan od Rijeke ili Osijeka, te da
jos nije vrijeme za nekakve lige
"od Vardara pa do Triglava" i da je
svima jasno kako nisu u pitanju
sportska nadmetanja, vec festivali
sovinizma i mrznje, igralo se u
Ljubljani, Sarajevu, Zagrebu ili
Beogradu. Dinamov "boss" Velimir Zajec
kaze da bi njegov klub zanimala
eventualno srednjoevropska liga, s
Austrijom, Slovenijom i Bosnom, ali
dalje na istok ne zele. Predsjednik
Dinama Mirko Bansic kuka sto ,,plave"
nitko ne gleda, uporno
organiziraju utakmice znajuci da ce
poslovati s gubitkom i stoga
ozbiljno
razmis1ja o preseljenju na pomocni
stadion, iako je to ,,uzasna
degradacija"... Onomad se trazila
karta vise za utakmicu Croatije i
Partizana,
takoder stadion u Maksimiru bio je pun
kad su igrale reprezentacije
Hrvatske i Jugoslavije. Klupski je
nogomet u Hrvatskoj spao na nekoliko
stotina gledatelja, a i " vatrene" se
sve manje gleda.
Godina 2001. bit ce godina druge,
prave smrti ,,vatrenih": prva se
smrt dogodila u Maksimiru na utakmici
protiv Jugoslavije, a druga
upravo gledamo - komentira tjedni
prilog Magazin jutarnjeg Lista.
Zvonimir Boban, bacio se pod
reflektore politike. Osim sto je
sjedio na
utemeljiteljskom stolu
Tudman-Hebrangove udruge, u Slobodnoj
Dalmaciji dao je intervju koji je
zaprepastio one koji su ga poznavali
i postovaIi. Neopisivo nesnosljivim
diskursom Boban je za one koje je
proteklih deset godina bilo
razdoblje mraka optuzio da se ne mogu
pomiriti s hrvatskom drzavom i pozvao
ih da iz Hrvatske jednostavno
odu. Potom je zaboravio da je upravo
on taj koji je iz Hrvatske otisao,
da je od tih deset godina u Bariju i
Milanu proveo devet, a nama ostavio
da ovdje konzumiramo ,,takozvani
mrak".
Cinjenica je da dobar dio hrvatske
javnosti, ukljuctjuci i gorljive
navijace, nacionalnu nogometnu vrstu
nije simpatizirao. Krivnju za to
umnogome snose najistaknutije figure:
Ciro neukusnim udvornistvom
vlasti i sumnjama u necasne radnje,
Stimac kladionicarsko-reketaskim
repovima, Suker egoizmom, a Boban time
sto je - bas kao u spomenutom
intervjuu - ustrajno odbijao vidjeti
drustvenu realnost, u kojoj su
vegetirali njihovi navijaci. Problem
je u tome sto su ,,vatreni" postali
politicka metafora. Onog casa kada je
HDZ nestao, ,,vatreni" su postali
interesni nostalgicari tog nenormalnog
stanja, plutajuci odvjetak
proslog
sustava, nalik na neku od odmetnutih
hrvatskih tajnih sluzbi. Na kraju
je stigao i potpis na peticiju
generala. Boban i druzina doveli su
sve
nas u zalosni skripac: navijanje za
reprezentaciju postalo je ideoloski
izbor, a ne patriotski refleks. Zato
je druga smrt ,,vatrenih" dobra
stvar.
Osim sto ce s ekrana maknuti neka lica
koja nikomu ni po cemu ne
mogu biti drustveni uzor, ta ce druga
smrt osloboditi reprezentaciju
pretpolitickih konfrontacija i sto je
vaznije, zvizduka. Neki ce od
junaka
ove price u mirovinu, ako bas ne u
zatvor, neki ce zamijeniti navodni
status politicke vertikale i toboznju
neutralnost ,,pravom", svrstanom
politikom, koja je postenija cak i
onda kad je surova i bezobrazna
poputone iz Bobanova intervjua.
U meduvremenu, novi selektor stvara
novu reprezentaciju, klubovi
su stisnuti neimastinom, traze model
kako vratiti gledaoce u dvorane
na stadione, a prepucavanja oko novih
regionalnih sustava natjecanja
(citaj YU-lige) se nastavljaju,
cekajuci na ,,blagi blagoslov"
hrvatske
politike, cinjenica je da Hrvati sebe
dozivljavaju kao sportsku naciju,
ali je i cinjenica da je sportas
godine naturalizirani dizac utega
(kupljeni
sportas), koji nam je donio jedino
zlato 5 olimpijskih igara. Kolektivni
sportovi poceli su gubiti bitku s
individualnima. Novi sportski asovi su
skijasi, plivaci, bacaci kladiva,
dizaci utega... Njima nije potrebna
regionalna liga. A ,,trofejni"
nogometati, kosarkasi i vaterpolisti
neka
razmisljaju kako ce i sto ce u
narednom razdoblju.
Livorno, agosto 2006, amichevole
Italia-Croazia: tifosi croati si dispongono a
svastica
Lituania, luglio 2006: il
vicepresidente della squadra di calcio
"Dinamo" di Zagabria, Zdravko Mamić,
risponde con il saluto fascista all’inizio
della partita di calcio
Hrvatska atletičarka Sandra Perković: Žao
mi je što se Juga raspala, bili bismo
najveća sila (15/08/2016 – i na
JUGOINFO-u) [La campionessa croata di lancio
del disco Sandra Perković a Rio 2016: "Peccato
la Jugo si sia disfatta, saremmo stati i
più forti"] Navijaću
za Ivanu Španović kao i uvek, ne vidim
nikakav razlog zašto ne bih. Moje je
srce veliko kad ona pobeđuje kao što je
i njeno kada to činim ja, poručila je
Perkovićeva
Ottobre 2015, il drone della
Grande Albania volteggia sull'Europa
complice Interrotta la partita di calcio
Serbia-Albania, 3 a 0 a tavolino per la
prima ma la seconda viene premiata dalla
"giustizia europea"