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Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


Interpretazioni divergenti della questione catalana

0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone



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Links:

The Federal State - A Loss-Making Business (II – G.F.P. 17.10.2012)
... Cooperation with Catalonia as the \"Partner Nation\" in 2007, at the prestigious Frankfurt Book Fair, provided the separatists with an appreciable boost. German federal state Baden Wuerttemberg\'s special cooperation with Catalonia provides economic support for its secessionist efforts - and points to Europe\'s breakup into an economically successful core and poverty-stricken, hopeless marginalized zones, just as has crystallized under Euro zone pressure...

Farewell to Catalonia (JUGOINFO del 29 ago 2015)
An Unofficial Plebiscite (GFP 7.8.2015)
Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale (27/09/2014)
Auch zu lesen: Los von Madrid (Berliner Experten plädieren für Abspaltung Kataloniens – GFP 30.10.2014)

Peoples without Borders (G.F.P. 23.9.2015)
Just days before regional elections in Spain\'s Catalonia - elections declared a plebiscite on secession - a political partner of the German Green Party is calling for the rapid secession of that region from Spain. Ethnically defined \"peoples\" throughout Europe should have the \"right to self-determination,\" recognizing \"no borders,\" according to a declaration signed by the Spanish member organization of the \"European Free Alliance\" (EFA). The EFA unites separatist parties of various political orientations from numerous EU member countries... The EFA\'s map of Europe also depicts Germany merged with Austria and territories of neighboring countries to form a Greater Germany...

Il catalanismo e la Catalogna nella Spagna contemporanea. Un dialogo con Borja de Riquer (a cura di Andrea Geniola. In: Nazioni e Regioni. Studi e ricerche sulla comunità immaginata. 8/2016: 89-107)
... Attenendoci ai fatti, l’alta borghesia catalana è assolutamente contraria al processo di autodeterminazione e all’ipotesi indipendentista. Questa ha cercato di pianificare una cosiddetta terza via, soprattutto nella forma della richiesta di autonomia fiscale, ma senza essere ascoltata né dalle istituzioni dello Stato né dai partiti né dal grosso delle classi intellettuali spagnole. Ci troviamo dinnanzi a un fenomeno assolutamente nuovo, risultato dell’esaurimento del catalanismo di sinistra e di destra che avevano avuto un ruolo in questi decenni... non si tratta di un movimento anti-spagnolo bensì contro il regime attuale e quella che si considera essere una rottura del patto costituzionale delle autonomie con quote di autogoverno progressivamente maggiori. Si tratta inoltre di un movimento politicamente contro il PP e il PSOE, soprattutto questo per la sua involuzione nei confronti della realtà catalana. E per concludere si presenta come un movimento popolare civico e democratico. Non c’è un elemento essenzialista, sebbene ci possano essere settori o casi concreti in questo senso, che rivendica il fatto che in quanto nazione la Catalogna ha diritto all’autodeterminazione, bensì la richiesta di votare in quanto soggetti dotati di diritti civili e democratici universali...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... En realidad, Catalunya ha estado gobernada 30 de 37 años por las derechas, es decir, 9 de 11 legislaturas, mostrando la gran hegemonía de las derechas... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

Comunistes pel Sì: un appello per la Repubblica Catalana interroga le sinistre europee (Andrea Quaranta / Comunistes pel SÍ)
... Per Comunistes pel SÍ la Repubblica Catalana rappresenta un’opportunità sia per rompere i legami col vecchio regime che per avviare politiche di segno opposto al dogma liberista. In questo senso il manifesto chiama in causa implicitamente le sinistre europee e i comunisti in particolare, affermando che il miglior contributo internazionalista è il sostegno al referendum del 1 ottobre, all’autodeterminazione di Catalunya e alla nascita di una Repubblica al servizio delle classi popolari.
Il manifesto rappresenta inoltre un invito ad approfondire l’analisi dello scenario internazionale e svilupparne una visione non eclettica, così da definire da sinistra un altro modello di Europa. La riflessione su Catalunya implica cioè una riflessione sull’Unione europea, sulla natura antipopolare delle politiche della Troika e sul carattere imperialista del polo europeo...
Il testo originale del manifesto si trova alla pagina: https://comunistespelsi.com/manifest/

Catalogna e autodeterminazione (di Dante Barontini, 21 settembre 2017)
... Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti)...

Le radici economiche dell’indipendentismo catalano (di Alessandro Bartoloni  23/09/2017)
... il processo di autodeterminazione del popolo catalano, ha radici economiche che ne permettono l’effettiva realizzazione. Tuttavia non bisogna pensare che questo processo sia un fatto meramente interno alla borghesia, con quella catalana che non riuscendo a prendere il pieno controllo del paese sembra tuttavia matura per assumersi la responsabilità della spoliazione della propria classe lavoratrice senza più dover fare i conti con Madrid. Quanto sta avvenendo, infatti, è la manifestazione di un conflitto molto più profondo: quello tra l’enorme sviluppo delle forze produttive avvenuto in una trentina d’anni, a partire dalla fine della dittatura militare, e la cornice entro cui ancora oggi si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali, ingessati in quel compromesso tra forze democratiche e fascisti che ha guidato il passaggio alla monarchia costituzionale e garantito la pace sociale e l’ordine capitalistico.


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Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije

29/08/2017    SAŠA. F. 

Nakon terorističkog napada na La Rambli u Barceloni i atentata u Cambrilsu, portal Rambla Libre piše kako su oba čina pokazala neuspjeh integracije i nekonzistentnost identiteta koji se temelji na različitosti, što je samo po sebi proturječno.

Kako bi se izašlo iz ove teške situacije, koja ometa planove Carlesa Puigdemonta, lidera katalonskog pokreta za odcjepljenje, iz sjene je trebao izaći pokrovitelj kolektivnog samoubojstva Katalonije, George Soros, piše katalonski portal.

Prvo, svi mediji izravno ili neizravno povezani sa Sorosevim Otvorenim društvom su napisali niz članaka o tome ”kako je upravljanjem u kriznim situacijama i tijekom napada Katalonija pokazala da može biti neovisna”.

Prvi je bio The Wall Street Journal, a sada The Guardian, koji podržavaju Kataloniju i njezinu sposobnost da funkcionira kao samostalna država, posebno nakon onoga što je pokazala tijekom terorističkih napada.

To tvrdi Luka Stobart, profesor političke ekonomije, koji je napisao kolumnu naziva ”Odgovor Katalonije na terorizam pokazuje da je spremna za nezavisnost”.

Osim toga, mediji bliski Sorosu čak i na nacionalnoj razini u Španjolskoj, kao El Confidencial, umanjuju štetne ekonomske posljedice od hipotetskog razbijanja španjolskog jedinstva.

Novinar Juan Carlos Barba piše: ”Španjolska će gotovo sigurno pasti u kratku recesiju, ali će njen utjecaj biti ograničen. Katalonija će zbog sadašnjih političkih problema također pretrpjeti recesiju koja će, međutim, biti kratkog vijeka i nakon toga je čeka snažan ekonomski rast. Osim toga, ako se prijateljski raziđe sa Španjolskom, Kataloniju uopće ne bi trebala pogoditi recesija.”

Istovremeno, list La Vanguardia otkriva da su George Soros i njegovo  Otvoreno društvo za Europu službeno s 27 100 dolara financirali ”Diplomatsko vijeće Katalonije” (Diplocat), te s 24 973 dolara udrugu CIDOB (Catalunya i la cooperació da Desenvolupament). To su svote koje su službeno priznate.

Osim toga, regionalni direktor Otvorenog društva za Europu, Jordi Vaquer Fanés, koji ”radi na promicanju vrijednosti institucija otvorenog društva u zemljama Europske unije i Zapadnog Balkana”, bio je direktor CIDOB-a između 2008. i 2012. godine.

Sva ova tijela središnje vlasti nazivaju ”paradržavnim strukturama Katalonije”. Međutim, nije problem što su ona osnovana ili što Katalonija želi neovisnost, nego što se netko unaprijed pobrinuo da se puna neovisnost ove španjolske autonomne pokrajine nikada ne ostvari.

”Onaj koji izgleda kao dobročinitelj i učenik Karla Poppera, G. Soros, zapravo je jedan od najvećih zagovornika globalizacije, koji više i ne kriju da im je cilj uništiti nacije, granice i nametnuti svjetsku vladu. Čak su i Katalonci naivno upali u njegovu mrežu”, zaključuje Rambla Libre.



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Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi


di Marco Santopadre*

Nelle prossime settimane si terranno due appuntamenti elettorali su materie apparentemente simili ma in realtà di segno molto diverso. Il primo ottobre dovrebbe svolgersi in Catalogna (il condizionale è d’obbligo) un referendum per l’indipendenza dallo Stato Spagnolo, mentre il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si voterà per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale italiano.
Come detto, ad uno sguardo superficiale le due consultazioni potrebbero sembrare equivalenti, ma le differenze sono notevoli.

I referendum in Lombardia e Veneto sono promossi e sostenuti dalla maggioranza dei partiti, dalla Lega fino al Pd, e mirano a ottenere una maggiore autonomia, soprattutto in campo fiscale, per le due regioni del nord Italia. Si tratta quindi di un proseguimento e di un approfondimento delle politiche, portate avanti prima dai governi di centrosinistra e poi da quelli di centrodestra nel corso del decennio scorso, che introdussero il cosiddetto ‘federalismo’. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le imposte e i balzelli locali per i cittadini sono notevolmente aumentati, man mano che lo Stato cedeva competenze agli enti locali che a loro volta privati dei finanziamenti statali si vedevano obbligati ad aumentare la tassazione e a tagliare o esternalizzare importanti servizi. Col risultato che oggi i cittadini, i lavoratori, i pensionati pagano assai più cari servizi di qualità peggiore. Sul fronte dell’autogoverno, della possibilità cioè delle comunità locali di incidere maggiormente sulle decisioni di natura politica e territoriale, nulla è cambiato, anzi.

Di fatto i referendum indetti in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre su iniziativa dei governatori Maroni e Zaia si inseriscono nel solco di quel ridisegno regressivo dell’assetto costituzionale e istituzionale tendente a facilitare una maggiore integrazione del nord del paese all’interno della struttura produttiva, economica e politica dell’Unione Europea. Nelle due regioni, come ha ricordato Sergio Cararo qualche giorno fa su Contropiano, si concentra quel 22% d’imprese che realizzano l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni di tutto lo Stato. Sono questi i territori che a Bruxelles, Parigi e Berlino interessa integrare e cooptare nel nucleo duro dell’Unione Europea, mentre il resto del paese si fa sempre meno interessante perché poco appetibile.

Comunque si tratta di referendum di tipo consultivo per i quali non è previsto alcun quorum, e l’impatto del loro risultato potrebbe essere assai scarso. Di fatto una sorta di megaspot a favore dei due governatori e delle loro rispettive maggioranze, anche se poi le consultazioni sono sostenute dal Pd e dai suoi cespugli. Certo, in caso di vittoria del Sì e di forte partecipazione alle consultazioni, i promotori e i loro sponsor – il padronato medio-piccolo, le lobby finanziarie locali agganciate agli ambienti europei che contano – potrebbero rivendicare più voce in capitolo nei confronti del governo e rosicchiare qualche privilegio in più. Ad esempio, ottenendo di poter stringere accordi ‘autonomi’ con gli ambienti economici tedeschi, finanziamenti ad hoc per migliorare le infrastrutture, agevolazioni fiscali o incentivi alle imprese o agli enti locali.

I riscontri positivi per le popolazioni delle due regioni sarebbero insignificanti. Anzi, com’è successo dopo l’introduzione del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, i processi di concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di ambienti sempre più ridotti e di tipo oligarchico potrebbe subire una ulteriore accelerazione.

Mentre i due referendum in Lombardia e Veneto sono puramente funzionali agli interessi del padronato locale e del meccanismo di gerarchizzazione del territorio europeo gestito in maniera spesso spericolata da una borghesia continentale sempre più sovranazionale, il quesito catalano del Primo ottobre ha risvolti assai più interessanti e di rottura.

La rivendicazione indipendentista catalana ha una storia pluricentenaria, in opposizione ad una costruzione nazionale spagnola di tipo autoritario e sciovinista che è ricorso alla dittatura per ben due volte nel ventesimo secolo (quelle di Miguel Primo de Rivera dal 1923 al 1930 e poi quella di Francisco Franco dal 1936 fino alla fine degli anni ‘70). Fu non solo per reprimere i movimenti dei lavoratori e i moti rivoluzionari che le classi dirigenti spagnole scelsero il terrore, ma anche contro le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani e delle altre nazionalità inglobate a forza in uno stato autoritario e feudale.

Dopo la morte di Franco all’interno del regime si affermò l’ala più modernista e liberale in economia (ma non per questo meno fascista) che era interessata a integrare la Spagna nell’allora Comunità Economica Europea e nella Nato. Così il regime non venne travolto ma semplicemente si autoriformò, cambiando pelle pur di continuare a garantire, con forme nuove, il dominio dell’oligarchia economica e politica.
Se il Movimento di Liberazione Basco, da posizioni socialiste rivoluzionarie, rifiutò e contestò a lungo l’autoriforma del regime accettata supinamente dalle opposizioni di sinistra spagnole, il movimento nazionalista catalano si integrò senza particolari scossoni all’interno del cosiddetto ‘Stato delle autonomie’. La borghesia catalana, ampiamente integrata sia a livello statale che internazionale, ha gestito il potere politico ed economico a livello locale in maniera pressoché ininterrotta dall’inizio degli anni ’80 fino ai nostri giorni. I partiti regionalisti e autonomisti catalani – in primis Convergència Democràtica de Catalunya – hanno a lungo relegato le rivendicazioni indipendentiste al livello simbolico, mirando ad aumentare il proprio potere e il proprio radicamento a livello locale in cambio del sostegno ai governi statali formati alternativamente dai due partiti nazionalisti spagnoli, il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio (sic!) Spagnolo.

Ma questo equilibrio si è rotto all’inizio del decennio. La gestione autoritaria e liberista della crisi economica da parte dei governi spagnoli – sotto dettatura Ue – e di quelli regionali ha provocato la politicizzazione di decine, forse centinaia di migliaia di catalani da sempre lontani dalla contesa tra il campo autonomista e quello nazionalista (spagnolo). In reazione ai licenziamenti di massa, degli sfratti con l’uso della forza pubblica e dei tagli ai salari e al welfare le piazze si sono riempite: scioperi, manifestazioni, picchetti e assemblee hanno scosso la Catalogna.

Nel frattempo un blando tentativo di riforma dello Statuto di Autonomia varato dopo l’autoriforma del regime franchista, promosso dagli autonomisti e da alcune forze federaliste di centro-sinistra, ha visto una reazione sproporzionata e violenta da parte dello Stato e delle sue istituzioni. Un testo già ampiamente mutilato dagli stessi promotori catalani è stato ulteriormente sfregiato dalle istituzioni statali, manifestando così l’impossibilità di una riforma graduale e negoziale dell’autonomia di Barcellona.

La confluenza dei due processi – lotta contro l’austerity e lotta per una maggiore autonomia – unita ad una crescente mobilitazione sociale e politica contro lo stato e i suoi apparati repressivi, oltre che contro la corruzione e l’autoritarismo repressivo del governo regionale ha causato una frattura di tipo storico all’interno dello scenario catalano, con l’indebolimento dell’egemonia di Convergència – nel frattempo trasformatasi in Partit Demòcrata Europeu Català – e il rafforzamento di un variegato fronte indipendentista sorretto dalla mobilitazione permanente dell’associazionismo nazionalista trasversale e dall’affermazione elettorale di varie forze di sinistra, tra le quali le Candidature di Unità Popolare (Cup), anticapitaliste oltre che indipendentiste.

La mobilitazione a sinistra e indipendentista ha di fatto condizionato i regionalisti catalani obbligandoli ad abbracciare rivendicazioni di tipo nazionalista, che hanno portato alla formazione di un governo il cui obiettivo dichiarato è quello di traghettare la Catalogna verso l’autodeterminazione attraverso un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale con Madrid e i suoi apparati. Il momento di rottura formale dovrebbe essere rappresentato dal referendum che il parlamento catalano si appresta a convocare per il prossimo 1 ottobre. Che il referendum si tenga veramente ed in forme ufficiali – per intenderci sulla falsariga di quelli realizzati in Scozia ed in Quebec – è tutto da vedere: i partiti nazionalisti spagnoli e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani l’esercizio del diritto all’autodeterminazione e stanno intraprendendo un boicottaggio che potrebbe arrivare all’intervento delle forze di sicurezza contro i promotori del referendum, alla sospensione dello statuto di autonomia di Barcellona e all’esclusione degli indipendentisti dalle istituzioni e dagli uffici pubblici, per non parlare dei ricatti sul fronte economico.

Ma le contraddizioni esistono anche nel fronte catalano: il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha già perso pezzi consistenti del suo schieramento politico e il sostegno di alcuni importanti dirigenti del suo stesso partito politico. Di fronte all’acuirsi dello scontro e all’avvicinarsi del momento della verità molti di coloro che, da posizioni catalaniste, hanno a lungo agitato la parola d’ordine dell’indipendenza scelgono di fare un passo indietro. In fondo gli spezzoni dominanti della borghesia catalana non hanno mai abbracciato pienamente la parola d’ordine della separazione da Madrid e la sua scelta sarà improntata ad un pragmatico bilancio costi/benefici. Se lo scontro con Madrid si facesse troppo duro settori consistenti e maggioritari di PDeCat potrebbero tirare i remi in barca, sospendendo la procedura di ‘disconnessione’ in cambio magari di un aumento dell’autonomia fiscale e amministrativa che poi è il succo delle rivendicazioni autonomiste della borghesia catalana. Una scelta che però non sarebbe né facile né indolore per il partito liberal-conservatore catalano, che a quel punto dovrebbe subire l’offensiva delle forze autenticamente indipendentiste e in particolare dei partiti di sinistra catalani, Erc e Cup.

Come detto, a Barcellona in queste settimane si gioca una partita molto interessante, dagli esiti non scontati e che avrebbe forti ripercussioni non solo sugli equilibri dello Stato Spagnolo ma su tutta l’Unione Europea. In Catalogna, nel fronte indipendentista, si scontrano due diverse tendenze politiche: una europeista, liberista, conservatrice sul piano sociale e affatto interessata a mettere in dubbio le attuali collocazioni internazionali, ed un’altra che insieme all’indipendenza chiede l’uscita dalla Nato e dall’Unione Europea, la rottura con le politiche liberiste e una forte rottura con gli attuali equilibri politici ed economici.

La Monarchia autoritaria spagnola perderebbe un pezzo consistente, e nascerebbe una Repubblica Catalana all’interno della quale i movimenti sociali e politici progressisti o esplicitamente antagonisti avrebbero un peso consistente in grado di contendere alle forze moderate la guida del processo di costruzione del nuovo stato, di mutare i rapporti di forza, di introdurre nel dibattito politico e nel processo decisionale degli elementi di rottura con la brutta china imposta dal processo di costruzione del polo imperialista europeo.

L’esito di questa dialettica è ovviamente tutt’altro che scontato, ma che la rottura di Barcellona con Madrid apra spazi consistenti alle rivendicazioni di classe è innegabile.
Per questo equiparare i referendum di Lombardia e Veneto con quello catalano è un grave errore da parte di forze che si richiamano al progresso e al cambiamento.

* Rete dei Comunisti

31 agosto 2017



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Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE sobre la situación en Catalunya de cara al referéndum del 1 de octubre


1.     El ejercicio del derecho a la libre autodeterminación de los pueblos es un requisito imprescindible para superar el fracaso histórico de la burguesía española en su objetivo de construir España como nación que reconozca la realidad de su carácter plurinacional, y que desarrolle el marco de convivencia necesario para sentar las bases materiales de una nación española que sea reconocida como patria por quienes vivimos en este Estado. La nación española que ha impuesto la burguesía, especialmente después del fin de su fase colonial en 1898, es incapaz de adquirir esta condición y se desarrolla como cárcel de pueblos oprimidos en la dictadura del capital. Este derecho a la libre autodeterminación no es tal si no incluye el derecho a la independencia.

2.     Mariano Rajoy representa, hoy, la continuidad del proyecto político de la vieja España, fracasada en su intento de unificar a los distintos pueblos y naciones. Intento de unificación que, siempre ignorando sus derechos, se ha realizado desde la imposición y la violencia. Esa es la misma incapacidad política que hoy pone en evidencia el Gobierno del PP, que no tiene ninguna vía política de superación del actual conflicto con el Govern de Generalitat, y que recurre a la utilización instrumental de los aparatos del Estado y a la intervención represiva de los cuerpos de policía. 

3.     El proceso que se desarrolla en Catalunya, a iniciativa de un amplio sector de su burguesía, tiene el objetivo de una mejor recolocación de esa clase social en la cadena imperialista. La burguesía catalana entra así, una vez más, en contradicción con la oligarquía española. Contradicción que tiene su base material en la existencia de un marco específico de acumulación capitalista en Catalunya, que el capitalismo español (pese a haberlo intentado) no ha conseguido nunca integrar en el marco general de la acumulación capitalista en España de forma unificada. No es, por tanto, un proceso de liberación nacional de base popular, si bien se apoya y utiliza los sentimientos nacionales históricamente arraigados en el pueblo, para obtener una amplia legitimación de masas a su particular estrategia. Estamos frente a un intento de proceso de recomposición capitalista, sobre la base de la continuidad de la propiedad privada y de la explotación de la clase obrera y los sectores populares por una clase social parasitaria.

4.     El SP del CC del PCPE entiende que, en una situación así, la posición del Partido de la clase obrera es la de clarificar los intereses en juego ante el pueblo trabajador y, también, la de aprovechar las contradicciones que se dan en el marco del bloque de fuerzas dominantes para incidir sobre ellas favoreciendo los intereses de la clase obrera y los sectores populares. Por ello, aun respondiendo esta situación que se da en Catalunya a un conflicto dentro del bloque de poder dominante, es necesario que la clase obrera intervenga en el mismo para debilitar a la clase dominante y favorecer el desarrollo de los intereses proletarios.

5.     Ante la convocatoria del referéndum del 1 de octubre, el PCPE, coincidiendo con las posiciones expresadas por el PC del Poble de Catalunya, hace un llamamiento a la clase obrera y a los sectores populares a participar en ese proceso, manifestando su voto nulo, como expresión contra un proyecto de la burguesía catalana que se inserta en la alianza imperialista de la UE y en la OTAN, y que quiere dar continuidad a la actual explotación de la clase obrera catalana bajo nuevas formas.

6.     El SP del CC del PCPE llama a combatir todas las formas de utilización violenta de los aparatos del Estado para reprimir los derechos de la clase obrera catalana por parte del Gobierno de Mariano Rajoy, a hacer una firme defensa del legítimo derecho de autodeterminación de los pueblos, y a fortalecer el bloque obrero y popular en torno a sus propios intereses de clase, que es un requisito imprescindible para impulsar el proceso que lleve al reconocimiento de Catalunya como nación. 

7.     El SP del CC del PCPE, como expresión de los acuerdos del X Congreso del Partido, reitera su propuesta de superación de la actual situación en base a su propuesta de República Socialista de carácter Confederal, como salida política de futuro a esta situación. Un proceso hegemonizado por la clase obrera, que liquidará no solo a la decrépita monarquía española sino, también, a las estructuras de dominación capitalista que someten a los pueblos y naciones del Estado a la opresión nacional, y a su clase obrera a unas miserables condiciones de vida bajo la dictadura del capital.


Secretariado Político del Comité Central del PCPE a 10 de Septiembre de 2017



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Septembre 19, 2017

A propos du référendum en Catalogne ibérique

Une réflexion de Georges Gastaud, secrétaire national du PRCF, d’Antoine Manessis, responsable PRCF aux relations internationales, et Annette Mateu-Casado, membre du secrétariat politique, défenseur de la culture catalane


Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes n’étant pas négociable aux yeux des communistes, le PRCF condamne l’attitude grossièrement répressive du pouvoir de Madrid à l’encontre des éventuels participants au référendum catalan. D’autant que l’attachement de Mariano Rajoy et du roi Felipe à la « démocratie » est aussi suspect qu’est évidente leur commune filiation avec l’Espagne franquiste dont le centralisme, non pas démocratique, mais fasciste, est largement responsable historiquement des divisions de l’Espagne actuelle.

Il n’en faut pas moins s’interroger sur l’ « indépendantisme » de la grande bourgeoisie catalane. Il s’inscrit totalement dans la « construction » euro-atlantique qui est la négation même de l’indépendance des peuples et plus encore, de leur droit inaliénable à construire le socialisme. Comment des actuelles composantes régionales des Etats existants (Espagne, France, Italie, Belgique, ex-Yougoslavie, ex-Tchécoslovaquie…) seraient-elles plus fortes face à l’Axe Bruxelles-Berlin-Washington (donc face à l’oligarchie euro-atlantique qui met les peuples en coupe réglée) en s’isolant les unes des autres, plutôt qu’en s’unissant aux autres composantes dans le respect des diversités culturelles ? Comment les prolétaires de chacune de ces « grandes régions » cultivant l’euro-séparatisme seraient-ils plus forts pour lutter contre le capital si, à l’intérieur de chaque « nouveau pays » séparé des Etats existants et transformé en nouvelle micro-étoile du drapeau européen, les travailleurs sont divisés encore davantage selon la langue et selon la nationalité ?

D’autant qu’en France même, des forces réactionnaires travaillent, dans plusieurs régions limitrophes du pays, à démanteler la République une et indivisible issue de la Révolution, à prendre la langue française – élément unificateur majeur du pays – en étau entre le tout-anglais transatlantique et la langue régionale érigée en arme de division. A l’arrière-plan de ce séparatisme régionaliste soi-disant opposé à « Paris » et à l’ « Etat », le pouvoir « parisien » lui-même se déchaîne contre le « jacobinisme » (phase éminemment progressiste de notre histoire où, sous l’autorité de Robespierre, l’unité territoriale du pays s’est conjuguée avec la généralisation de l’autonomie communale) défend ce qu’il appelle un « pacte girondin » : Macron entend ainsi saper l’unité de la République, exploser les acquis nationaux du peuple (conventions collectives de branche, statuts, diplômes nationaux, Sécu, services publics d’Etat, retraites…), favoriser les grandes régions, les « régions transfrontalières » et les euro-métropoles destructrices des communes et des départements.

En ce qui concerne la France, et tout en défendant très clairement les langues et les cultures régionales en tant que patrimoine indivisible de la nation, le PRCF appelle les travailleurs, de Lille à Perpignan et de Brest à Sartène, à faire échec à Macron-MEDEF, à l’UE supranationale, au Pacte transatlantique en gestation, à l’OTAN, à tous ceux qui veulent à la fois araser les conquêtes sociales du CNR, l’autonomie des communes de France, la souveraineté de notre pays et le droit de ses travailleurs à construire tous ensemble, le socialisme dans la perspective du communisme.

Sans cautionner en quoi que ce soit la moindre violence du pouvoir de Madrid à l’encontre de la population vivant dans la Généralité catalane, le PRCF appuie la revendication des communistes et des progressistes d’Espagne qui proposent la mise en place d’une Espagne républicaine et socialiste, confédérale, indépendante de l’UE et de l’OTAN, pleinement respectueuse de ses nationalités et en marche vers le socialisme*. 


*nous signalons que nos camarades du Parti communiste des peuples d’Espagne appellent au vote blanc à ce référendum.



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Comunicato  solidarietà con il popolo catalano

Con l\'avvicinarsi del 1 ottobre, giorno scelto per la consultazione referendaria sull\'indipendenza della Catalogna, si vanno concretizzando violentemente le minacce del governo Rajoy nei confronti del composito movimento indipendentista.

In nome del \"diritto\" - evidentemente quello di neutralizzare la democrazia nel caso si manifesti in maniera contraria agli interessi del \"mondo di sopra\" -  sono scattate le manette per diversi membri e funzionari della Generalitat. E\' solo l\'ultimo episodio dopo il sequestro di materiale pro-referendum, l\'invio di un\'ordine di comparizione in tribunale per 712 sindaci accusati di favorire una consultazione illegale, l\'ordine di bloccare in ogni formato, cartaceo o digitale, la propaganda referendaria, il commissariamento dei conti del governo regionale catalano e l’invio a Barcellona di 10mila tra agenti di polizia e militari.

La “democrazia spagnola” di mostra per quello che è sempre stata: diretta erede dello stato franchista, dal quale non si è mai smarcata realmente, mantenendo il suo impianto nazionalista e autoritario e i suoi apparati repressivi e ideologici. Il passaggio dalla dittatura alla monarchia parlamentare fu gestito dal regime fascista per garantire il dominio dell\'oligarchia sotto altre forme dettate dalla necessità di integrare il paese nella Nato e nella Comunità Economica Europea.

Quella stessa Unione Europea che oggi volta le spalle alle richieste di libertà e di democrazia del popolo catalano, concedendo mano libera alla repressione di Madrid. Quel diritto all’autodeterminazione che l’Ue ha strumentalmente sponsorizzato quando si trattava di togliere di mezzo paesi non conformi da sfasciare e assorbire - il caso dell’ex Jugoslavia è eclatante - non sembra valere per Bruxelles all’interno dei propri confini. Al polo imperialista europeo non interessano né la democrazia né la libertà, soprattutto quando non sono in linea con i propri interessi strategici e se mettono a rischio la stabilità interna come nel caso della Catalogna. Una contraddizione non indifferente per quegli spezzoni liberali del movimento indipendentista catalano che si appellano proprio a Bruxelles ritenendo Ue una alternativa democratica all’autoritarismo spagnolo.

Nel momento in cui gli viene impedito di esprimersi democraticamente sul proprio futuro non possiamo che schierarci a fianco del popolo catalano. All\'interno del fronte indipendentista esistono componenti molto diverse per orientamento politico e ideologico; non potrebbe essere altrimenti visto che siamo di fronte a un vasto movimento popolare e non dell’espressione delle rivendicazioni di un solo partito o di una sola classe sociale. Ma è impossibile negare l\'importanza che la lotta per l\'emancipazione e la liberazione sociale, condotta da consistenti e radicati settori politici e sociali di sinistra e di classe, sta avendo nella concretizzazione del Referendum del 1 ottobre e in generale nel processo indipendentista.

Nell\'attuale contesto continentale, la rivendicazione d\'indipendenza del popolo catalano si pone in oggettiva rottura non solo con le classi dirigenti e l\'oligarchia spagnola ma anche con la stessa Unione Europea. Un processo di rottura politica e sociale in Catalogna rafforza oggi le ipotesi di opposizione e rottura dei popoli europei nei confronti dei propri governi e della gabbia dell\'Unione Europea, il che non può lasciarci indifferenti.

Nei prossimi giorni parteciperemo a diversi momenti di dibattito e di mobilitazione in solidarietà con la lotta del popolo catalano e il 1 ottobre saremo a Barcellona a fianco dei compagni e delle organizzazioni di classe che animano il movimento per l’emancipazione sociale e nazionale della Catalogna.


Rete dei Comunisti, 21/09/2017


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Sullo stesso tema si veda anche: Il giornalismo non è più un lavoro (di Alberto Negri, Il Sole24Ore, 8/8/2017)
... La professione giornalistica, ma ovviamente non solo quella, è diventata sempre più “volontariato”. Possono fare questo lavoro coloro che non campano di giornalismo, come professori, esperti vari, già pagati dalle istituzioni, da società pubbliche o private, dal mondo del business, oppure figli di papà mantenuti dalla famiglia. Ma non è gente che va sul terreno e afferra la vita vera. Parlano a vanvera di popoli che non conoscono e posti che non hanno mai visto...




L’informazione è povera, i giornalisti anche. I risultati si vedono


di Federico Rucco, 15 settembre 2017

“La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10 mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. A sottolinearlo è stato il presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Nicola Marini, nel corso del suo intervento alla 10/a edizione di ‘Media Memoriae’. Disaggregando ulteriormente il dato, emerge che il 40% degli oltre 35mila giornalisti attivi in Italia, per lo più sotto i 35 anni, produce annualmente un reddito inferiore ai 5.000 euro.

Secondo i dati elaborati dal Rapporto dell’Agcom presentato lo scorso marzo, negli ultimi quindici anni sono andate crescendo soprattutto le fasce di reddito piu’ basse della professione, a testimonianza del fatto che sempre piu’ giornalisti esercitano la professione in modo parziale e precario.

sancire questo pessimo stato delle cose, è stato l’accordo siglato nel 2014 tra il sindacato dei giornalisti (Fnsi) con l’associazione degli editori (Fieg) e l’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi). Con il meccanismo dell’equo compenso si è prodotta una situazione vergognosa. Ltariffe minime stabilite sono 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per le agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e le testate web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è superiore, si procede per scaglioni e, paradossalmente, i pezzi successivi vengono retribuiti in misura ancora inferiore.

I dati ci dicono che in Italia quattro giornalisti freelance su dieci nel 2014 hanno praticamente lavorato gratis . In questa condizione si trovano 16.830 giornalisti «autonomi» sui 40.534 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi, vale a dire il 41,5% degli iscritti.

Il rapporto del Lsdi presentato tre anni fa alla federazione della stampa, parlava di «zero redditi». In una situazione ancora più rognosa si trovano anche i 23.704 freelance che nel 2014 avevano dichiarato redditi inferiori o pari ai 10 mila euro lordi all’anno. Nel 2014 è stato inoltre registrato un ulteriore calo della retribuzione media: da 10.941 a 10.935 euro lordi annui. Chi lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto in Italia guadagna mediamente il 17,9% di chi invece ha un contratto di lavoro dipendente, 5,6 volte di meno.

Da tempo la logica della “liberalizzazione” ha prodotto devastazioni in ogni settore. Se sul lavoro salariato si è abbattuto lo tsunami della ristrutturazione, delle delocalizzazioni e del blocco dei salari, in settori come l’informazione ha agito il medesimo meccanismo espellendone i settori stabilizzati (sia tra i giornalisti che tra i poligrafici) e ricorrendo sistematicamente al precariato, al lavoro a prestazione e deresponsabilizzando le aziende editoriali da ogni dovere contributivo e fiscale. 

La Fnsi, il sindacato di categoria, da anni viene sollecitato a vedere come sia profondamente mutato anche socialmente il mondo dell’informazione, ma chi ha posto il problema si è trovato di fronte un muro (e neanche troppo di gomma) di chi continua a pensare che le figure da tutelare siano ancora e solo quelle che operano in Rai o nella grandi testate. Nel caso della crisi aziendale al Sole 24 Ore si è scelto di sacrificare i precari e salvaguardare gli stabilizzati.

E’ evidente come la povertà diffusa tra gli operatori della comunicazione riproduca un abbassamento della qualità nel mondo dei media. Ormai lo spettacolo quotidiano su lanci di agenzia, cronache, gestione di servizi televisivi è disperante. Altro che stimoli alla concorrenza, giornalismo di inchiesta, verifica delle fonti, deontologia professionale. E’ una lotta per la sopravvivenza che mette quotidianamente in contraddizione le aspettative sul “lavoro più bello del mondo” e la giungla di miserie messa a disposizione dai grandi e piccoli monopoli sull’informazione. Le cose migliori (ma anche le peggiori) ormai si trovano sulla rete. I monopoli se ne sono accorti e ne temono le conseguenze (vedi il crollo di vendite dei giornali o la diminuzione di telespettatori sui canali in chiaro). Ma la qualità si scontra sempre più spesso con la povertà delle risorse e delle retribuzioni ed anche progetti innovativi sul piano informativo decollano e atterrano bruscamente e pesantemente in pochissimo tempo. Insomma chi ha il pane non ha i denti. Chi ha i denti deve stringerli, per trovare il varco su cui convergere per rovesciare il tavolo.



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L\'Africa all\'epoca della ricolonizzazione

1) A. Soumahoro: La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron
2) D. Wedikorbaria: Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa
3) M. Dinucci: Macron-Libia: la Rothschild Connection 
4) G. Masala: Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


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La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron

di Aboubakar Soumahoro
15 luglio 2017

Il presidente francese Emmanuel Macron sostenendo che \"l\'Africa ha avuto problemi di civilizzazione\" conferma ciò che fu la colonizzazione dal punto di vista del degrado culturale dei suoi protagonisti e promotori. 
Perché la presunta civilizzazione \"superiore\" portata dalla Francia sul continente africano, dal punto di vista storico, si legge attraverso la colonizzazione con i vari crimine che essa ha portato con se. Basta ricordare le rivolte finite nel sangue in Camerun con oltre 120 000 morti. Parliamo dei \"tiratori\" africani spinti in prima fila sotto le bombe dei nazisti mentre gli altri militari, di pelle bianca, risultavano in seconda e terza fila. 
Noi siamo quella civiltà che venne repressa, sempre dalla Francia a Setif in Algeria con oltre 45 000 morti nel 1945. Siamo quell\'Africa che l\'esercito francese colonialista massacrava con oltre 100 000 morti in Madagascar nel 1947. Vogliamo anche parlare dell\'uccisione di contadini, donne e giovani durante l\'opera detta civilizzatrice francese in giro per l\'Africa (Senegal, Costa D\'Avorio, Mali, Ghana, Guinea, ecc ecc)? 
Ecco oggi la stessa politica francese, da non confondere con il popolo francese nel suo insieme, ha venduto armi per 6,6 miliardi di euro nel solo 2016, e l\'Africa risulta una delle principali piazze di questa economica bellica.
Questa è anche la civiltà portata dalla Francia di sua maestà tra noi africani della presunta civiltà inferiore. Una presunta civiltà inferiore che per la sua dimensione di umanità e di rifiuto di ogni forma di subalternità, si è ribellata con dignità contro i vari saccheggi delle sue risorse umane e naturali. 
La decolonizzazione per noi, con la costruzione di mentalità nuova, continua ne sia sicuro Signor Presidente. La storia non può essere scritta e manipolata da chi ha costruito quella mostruosità che è la colonizzazione.


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Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa

Padre Alex Zanotelli elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

By daniel wedikorbaria - 27 luglio 2017

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.” Inizia così la lettera del profondo conoscitore dell’Africa padre Alex Zanotelli, nella quale, senza ritegno alcuno, chiede di “rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne.” Ma i mainstream media parlano fin troppo dell’Africa anche a sproposito. Come hanno sempre fatto continuano a diffamare ancor di più l’Africa e gli africani. Tutte le narrazioni che una grossa fetta del giornalismo ha prodotto negli ultimi decenni sull’Africa e sugli africani straripano di stereotipi al limite della xenofobia e del ridicolo.

L’attempato canuto elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

La sua elencazione inizia con: “È inaccettabile il silenzio sul Sudan retto da un regime dittatoriale…” dando l’idea di non essere ancora soddisfatto della sua suddivisione in due Stati. Forse vorrebbe farlo ancora a pezzi, oltre al Sud Sudan facciamo anche quello Est e quello Ovest? In fondo, Dividi et impera è sempre stata una strategia usata dai colonialisti che hanno stravolto i confini nazionali africani per innescare guerre interetniche.

Non risparmia nemmeno il paese che crede nell’autosostentamento o self reliance, il paese che rifiuta di offrire un solo ettaro della sua terra al fenomeno del Land grabbing praticato in Africa dalle multinazionali, il paese che ha rispedito a casa tutte le ONG e rifiuta gli aiuti umanitari considerati l’oppio della popolazione africana. “È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo…”  Questa dichiarazione è la menzogna più evidente di tutta la sua lettera, una frottola che poteva anche risparmiarsi. Ai giornalisti italiani si può dir di tutto tranne che siano mai rimasti in silenzio sull’Eritrea. Lui mente sapendo di mentire perché da tanti anni esiste una sistematica demonizzazione mediatica dell’occidente nei confronti del Paese descritto come “l’inferno sulla terra”, “la Corea del Nord africana”, “una prigione a cielo aperto”, ecc. L’unica cosa che gli rimane da dire ancora sarebbe che gli eritrei mangiano i bambini!

Padre Alex è convinto che i leader africani che osano negare l’accesso al loro paese ai neocolonialisti, evitando così di farsi derubare, siano da annoverare come i peggiori dittatori di questo mondo.

Quello eritreo è un regime oppressivo forse perché l’unico in Africa a non volere più gli aiuti umanitari occidentali? In effetti questa cosa rende automaticamente tutti quelli come Alex delle persone inutili. Lo so che è difficile digerirlo per quelli come lui che vanno in giro con l’aureola in testa ma, volenti o nolenti, l’Eritrea diventerà un esempio per l’Africa perché insegnerà agli altri Stati africani che si può vivere senza mendicare aiuti umanitari. Solo quando questa filosofia, germogliata in Eritrea, attecchirà e radicherà in tutto il continente africano tutta l’Africa si salverà e allora lui e tutti i suoi compari dovranno tornarsene a casa loro.

Trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad”. Guarda caso l’Eritrea è assente dalla sua lista. Si è chiesto il perché? Eppure è la stessa area geografica del Corno d’Africa colpita dal fenomeno climatico El Nino. Se si fosse documentato con più serietà saprebbe che l’Eritrea sta lottando da sola contro il cambiamento climatico piantumando alberi e costruendo dighe per fermare l’acqua piovana con l’idea di raggiungere l’obbiettivo del Millennio sulla sicurezza alimentare. Obiettivo quasi raggiunto, in Eritrea più nessun bambino muore di fame. Se anche gli altri paesi africani adottassero questo progetto politico smentirebbero quella stima ONU da lui citata che dice che a fine secolo l’Africa avrà tre quarti del suo territorio non abitabile e circa cinquanta milioni di profughi climatici entro il 2050. La mia speranza è che questa rivoluzione alla maniera eritrea si compia molto presto in tutto il continente africano alla faccia di tutti gli uccelli del malaugurio!

Ma forse il buon padre Alex intendeva dire che in Eritrea c’è un regime oppressivo perché si nega l’accesso all’AFRICOM, l’invasione militare statunitense in atto in tutta l’Africa? Allora, piuttosto che puntare il suo dito contro gli africani e colpevolizzare le vittime, perché non trova il coraggio di raccontare la presenza di AFRICOM in 52 paesi africani tranne che in Eritrea e nello Zimbabwe? Perché non spende due parole o anche un solo “è inaccettabile” sulla presenza massiccia di basi militari, armamenti ed aeroporti di droni motivati sempre dall’assurda idea di proteggere la sicurezza nazionale o gli interessi nazionali statunitensi? Perché Alex non accusa mai gli Stati Uniti della devastazione e della destabilizzazione africana? È forse per il suo passato a Cincinnati dove era stato mandato dai Padri Comboniani a completare gli studi di Teologia? Perché, colto da amnesia, si rifiuta di raccontare che dietro al caos e al disastro del continente africano c’è sempre la loro longa mano?

Per esempio nella Repubblica Centrafricana, per poter fermare l’avanzata dei cinesi, gli Stati Uniti hanno scatenato un’improvvisa guerra di religione così drammatica da dividere la pacifica popolazione in due distinti gruppi, per non parlare della zona saheliana del Ciad e del Mali dove sono stati finanziati alcuni gruppi jihadisti creati ed armati assieme ai francesi. Perché Alex non ha il coraggio di puntare il dito contro chi sta creando i terroristi in Africa, a cominciare dai BokoHaram in Nigeria e Al Shabaab in Somalia? Crede davvero che in Somalia si divertano a fare una guerra civile da trent’anni? A chi giovano questi terroristi se non al neocolonialismo? La War on terrornon è forse la nuova evangelizzazione del continente africano? Se vogliamo rompere il silenzio sull’Africa diciamo di chi è veramente la colpa. Quale altra potenza conosciamo impegnata a destabilizzare l’Africa ed il mondo intero con il terrorismo? Padre abbia il coraggio di puntare quel suo santo dito sull’America! Pure se per questo dovesse sacrificare la sua vita non tema, mi batterò anch’io perché la facciano santo subito!

Ma torniamo all’Eritrea dove lei non è mai stato e che conosce solo per sentito dire. L’Eritrea è spesso stata la fonte di tante bufale per quegli stessi giornali che oggi lei rimprovera di non scrivere abbastanza menzogne. Trovo che non sia affatto onesto da parte sua, eppure il suo abito talare le imporrebbe di perseguire la verità cristiana, blaterare dei giovani eritrei in fuga verso l’Europa senza approfondirne il vero motivo, la sua vera causa, la sua radice. Non diventerà certo un santo per aver volutamente ignorato, o peggio omesso, che i ragazzi eritrei vengono in Europa perché gli viene promesso il paradiso con il welfare nord europeo, del resto il loro Paese sotto sanzioni USA non offre occupazione a volontà e la sua economia è ancora da post guerra quarantennale. Il loro è un paese che non gli offre sicurezza in quanto la minaccia di invasione etiopica è annuale come la stagione delle piogge, i raid militari etiopici sono frequenti, ancora ci sono territori eritrei sotto occupazione nonostante il verdetto dell’EEBC. Perché la fuga dei giovani eritrei è un progetto USA come ammesso anche dallo stesso presidente Obama per facilitare il suo alleato numero uno in Africa, l’Etiopia, che mira allo sbocco sul Mar Rosso. E per convincere i ragazzi eritrei a lasciare il loro paese li hanno attirati con le allettanti promesse di distribuzione di visti per l’America, promesse fatte nei campi rifugiati etiopici, campi dell’UNHCR gestiti da ARRA, un’agenzia di intelligence del regime etiopico. Come sappiamo l’UNHCR è finanziato dallo State Department americano per costruire in Etiopia vicino al confine con l’Eritrea altri campi rifugiati con l’intenzione di svuotare il Paese dei suoi giovani.

Perciò Santissimo Alex, se lei vuole davvero fermare questa “invasione degli eritrei” sulle sue coste provi a convincere l’Europa, paese garante degli accordi di Algeri, ad intimare all’Etiopia il rispetto del diritto internazionale ed abbandonare i territori sovrani eritrei. Questi problemi sono alla radice della sua imbarazzante e superficiale analisi: “con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”. Stia pur certo che il fenomeno migratorio eritreo diminuirà drasticamente una volta risolte le sue cause e vedrà anche il ritorno a casa di una miriade di persone perché in tanti si sono già stufati dell’accoglienza italiana stile mafia capitale che ha arricchito persino le strutture religiose.

Ma è sintomatico il suo punto di vista sull’Africa perché esaminando il resto della sua lettera ho notato un uso eccessivo di termini negativi per descrivere il continente africano, sentenze definitive e previsioni quasi apocalittiche senza speranza alcuna: “la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati”, “ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga”, “un regime dittatoriale in guerra contro il popolo”, “il popolo martire dell’Africa”, “in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni”, “uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”, “dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai, potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera”, “situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti”.

Eppure, io sono convinto che l’Africa sia diversa da come la racconta il bianco Alex. L’Africa è un continente di gente ospitale che si indebita per offrirti cibo, di persone umili che vivono alla giornata, di bambini che sorridono con sguardi innocenti, di popoli con valori autentici e bellissime tradizioni millenarie.  L’Africa è ricca, così ricca che potrebbe sfamare tutti gli africani anche se il numero dei suoi abitanti dovesse quintuplicare. L’Africa non è stupida e ha imparato che non può continuare a mendicare un chilo di farina in cambio di un chilo d’oro.

Ma forse lo scopo di questa sua lettera è quello di tornare protagonista della scena mediatica per sentirsi ancora il salvatore di un intero continente e per avere più visibilità agli occhi dei suoi ignari concittadini e raccogliere da loro l’ennesima beneficenza e, siccome viviamo in un’epoca in cui per mettersi la coscienza a posto basta donare 2 euro con un sms, il santissimo Alex si incaricherà lui stesso di distribuire i soldi degli italiani agli africani più bisognosi e quindi restare sul trono africano vita natural durante. In passato si è visto come venivano distribuiti quegli aiuti umanitari in terra africana, creavano un bacino clientelare, un piccolo gruppo di fedeli all’interno del quale si praticavano il ricatto ed il baratto, in cambio di un chilo di latte in polvere si pretendeva l’anima o la verginità. Quando nell’Eritrea liberata il governo laico eritreo ha deciso di controllare gli “aiuti umanitari” gestiti dai soliti missionari è stato subito chiaro che questi si sarebbero quantomeno irritati. A quanto sembra, anche padre Alex non ha mai digerito questa fastidiosa ingerenza governativa perciò quando egli scrive di Africa la bile gli si contrae e lo stomaco gli provoca degli spasmi che gli offuscano la mente e gli impediscono di esprimere giudizi sereni ed obiettivi.

Per me, la sua lettera non è altro che il delirio di onnipotenza di un missionario colonialista convinto di essere l’unico africanista con l’aureola in testa rimasto in vita su questo pianeta. Uno che ha vissuto l’intera sua vita nel continente africano con il pretesto di fare del bene. E mi chiedo, cosa ha prodotto la sua presenza cinquantennale in Africa? A cosa è servito il suo lavoro, cosa ha migliorato? Che cosa ha risolto? Nulla ha risolto, anzi ha creato dipendenza! Può forse uno spacciatore aiutare le sue vittime ad uscire dalla droga? No, credo proprio di no.

A quanto pare il destino dell’Africa continua con lo stesso trend anche ai nostri tempi, il colonialismo del passato si è trasformato in neo colonialismo. Nulla è cambiato, i predatori del passato sono ritornati indossando altre vesti e i missionari come Alex Zanotelli forniscono informazioni, dati, statistiche, numeri, coordinate geografiche e quant’altro alle potenze colonizzatrici. In breve sono finiti per diventare gli informatori del neo colonialismo. In passato erano proprio i missionari, con fucile a tracolla ed una bibbia in mano, a guidare le carovane dei predatori e mentre questi compivano le razzie loro evangelizzavano i “barbari” distraendoli con qualche nuova preghiera da recitare a memoria. In Eritrea, per esempio, fu il lazzarista Giuseppe Sapeto a favorire la penetrazione italiana nel Mar Rosso dando così il via alla sua colonizzazione.

Facciamo qualcosa per l’Africa” scrive padre Alex e come africano vorrei replicargli e suggerirgli che la scelta migliore per il continente africano sarebbe quella di essere lasciato in pace e da solo, ossia di essere completamente abbandonato al suo destino. Lo so che sembra un azzardo ma l’Africa deve farcela da sola. Deve poter iniziare a camminare con le proprie gambe. E se lui avesse veramente a cuore le sorti di quel continente che l’ha nutrito di fama e di gloria per un intero mezzo secolo, non fosse altro che per una sorta di gratitudine, se ne dovrebbe tornare nella sua terra natia a chiudersi in un convento a coltivare l’orto e al tramonto praticare l’autoflagellazione col cilicio come penitenza per i suoi peccati di tipo narcisistico.

Per citare la sua conclusione in “Rompiamo il silenzio sull’Africa” da africano le vorrei svelare caro Alex che domani saranno i nostri nipoti a dirvi quello che voi oggi dite dei nazisti! Personalmente, lei per me resterà sempre uno di quelli che Jomo Kenyatta ai suoi tempi aveva ben inquadrato:

QUANDO I MISSIONARI VENNERO IN AFRICA LORO AVEVANO LA BIBBIA E NOI AVEVAMO LA TERRA. DISSERO: PREGHIAMO E NOI CHIUDEMMO GLI OCCHI. QUANDO LI RIAPRIMMO, NOI AVEVAMO LA BIBBIA E LORO AVEVANO LA TERRA.


FONTE: L\'appello. Rompiamo il silenzio sull\'Africa (Alex Zanotelli giovedì 20 luglio 2017)


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L’arte della guerra 

Macron-Libia: la Rothschild Connection 

Manlio Dinucci
  

«Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi.

Macron capovolge, in tal modo, i fatti. Artefice della destabilizzazione della Libia è stata proprio la Francia, unitamente agli Stati uniti, alla Nato e alle monarchie del Golfo. 

Nel 2010, documentava la Banca mondiale, la Libia registrava in Africa i più alti indicatori di sviluppo umano, con un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro circa 2 milioni di immigrati africani. La Libia favoriva con i suoi investimenti la formazione di organismi economici indipendenti dell’Unione africana. 

Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – si accordarono per bloccare il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta che la Francia impone a 14 sue ex colonie africane). Fu la Clinton – documenta il New York Times – a far firmare al presidente  Obama «un documento che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino ad allora classificati come terroristi. 

Poco dopo, nel 2011, la Nato sotto comando Usa demolisce con la guerra (aperta dalla Francia) lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali. Da qui il disastro sociale, che farà più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti. 

Una storia che Macron ben conosce: dal 2008 al 2012 fa una folgorante (quanto sospetta) carriera alla Banca Rothschild, l’impero finanziario che controlla le banche centrali di quasi tutti i paesi del mondo. In Libia la Rothschild sbarca nel 2011, mentre la guerra è ancora in corso. Le grandi banche statunitensi ed europee effettuano allo stesso tempo la più grande rapina del secolo, confiscando 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici. 

Nei quattro anni di formazione alla Rothschild, Macron viene introdotto nel gotha della finanza mondiale, dove si decidono le grandi operazioni come quella della demolizione dello Stato libico. Passa quindi alla politica, facendo una folgorante (quanto sospetta) carriera, prima quale vice-segretario generale dell’Eliseo, poi quale ministro dell’economia. 

Nel 2016 crea in pochi mesi un suo partito, 
En Marche!, un «instant party» sostenuto e finanziato da potenti gruppi multinazionali, finanziari e mediatici, che gli spianano la strada alla presidenza. 

Dietro il protagonismo di Macron non ci sono quindi solo gli interessi nazionali francesi. Il bottino da spartire in Libia è enorme: le maggiori riserve petrolifere africane e grosse riserve di gas naturale; 
l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente. 

C’è «il rischio che la Francia eserciti una forte egemonia sulla nostra ex colonia», avverte Analisi Difesa, sottolineando l’importanza dell’imminente spedizione navale italiana in Libia. Un richiamo all’«orgoglio nazionale» di un’Italia che reclama la sua fetta nella spartizione neocoloniale della sua ex colonia.

(il manifesto, 1 agosto 2017) 



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Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


di Giuseppe Masala, 31 agosto 2017

L’arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona. 

Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa. 

Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilitá del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria. 

Dietro queste due tecnicalità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi). 

Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro. 

Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilitá della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera. 

Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro. 

Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari. 

Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge. 

Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.




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I materiali che seguono furono segnalati da Dragomir Kovačević e commentati da Jasna Tkalec una decina di anni fa. Sono rimasti nel nostro archivio da allora, in attesa di una occasione propizia per adattarli e farli circolare: ci riusciamo solo adesso, grazie alla cura di Andrea Degobbis. Diventano così, tra l\'altro, un omaggio alla stessa Jasna, recentemente scomparsa, grande conoscitrice e appassionata della storia dell\'antifascismo internazionale.

L\'articolo di Milo Petrović appariva sulla rivista Vreme nel 70° anniversario dell\'inizio della Guerra Civile spagnola, contestualmente alla inaugurazione a Belgrado della mostra \"Omaggio ai brigatisti jugoslavi\", il cui catalogo fu poi pubblicato:

Homenaje a los brigadistas yugoslavos
Museo de historia de Yugoslavia, Belgrado 2006 (ISBN 86-84811-07-0)
https://www.cnj.it/documentazione/bibliosfrj.htm#brigadistas

Sullo stesso tema si vedano anche:

Marijan Kubik: La guerra di Spagna e gli Jugoslavi
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/yugo_french.htm#spagna

Iniziativa a Belgrado il 14/9/2006 di reduci e discendenti dei combattenti jugoslavi della guerra civile spagnola  

Segnaliamo infine:

El defensa yugoslavo que dio su vida por la República (MIGUEL ÁNGEL LARA, 31/03/2017)
... En el cielo de Madrid acabó la vida de un joven de poco más de 26 años que llegó a España para defender a la República y en cuyo pasado el fútbol había tenido tanto peso como su militancia en el Partido Comunista. El nombre de Bosko Petrovic forma parte de la historia de la selección yugoslava de fútbol...


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ORIG.: Španija u srcu (VREME 819, 14. septembar 2006.)
Sve te strašne senke imaju svoja imena u sećanju, imena sazdana od vatre i lojalnosti, imena čista, obična, stara i uzvišena, poput imena soli i vode... Da, kako izabrati samo jedno ime, među tolikim ućutkanim...
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=464964


LA SPAGNA NEL CUORE


Milo Petrović

vicepresidente dell\'Associazione dei combattenti di Spagna 1936-39 e amici.

Vreme, 14 settembre 2006


Tutte queste ombre terrificanti hanno i propri nomi nella memoria

nomi costruiti con fuoco e lealtà, nomi puliti, semplici, vecchi e sublimi, come le parole sole e acqua...

Sì, come sceglierne uno soltanto tra così tanti silenziosi


Sono trascorsi settant\'anni dall\'inizio della guerra civile spagnola, evento che più che simbolicamente annunciò la Seconda guerra mondiale. Infatti solo sei mesi dopo il crollo della Repubblica spagnola, il secondo grande conflitto del XX secolo diventava una spaventosa realtà.

La Seconda repubblica, costituita il 14 aprile 1931, rappresentava un notevole tentativo modernizzatore. Allo stesso tempo faceva acuire il conflitto tra le forze modernizzatrici e quelle che vedevano la grandezza della Spagna nel passato. La nuova costituzione, chiave di base per cambiare le arcaiche strutture sociali, provocò la resistenza delle forze che si sentivano minacciate, sia che si trattasse dei grandi proprietari, che delle gerarchie ecclesiastiche e militari. Dall\'altra parte, il proletariato urbano e contadino impoverito voleva molto di più e più in fretta, cosa che lo portò, assieme alle sue organizzazioni politiche e sindacali, in confronto diretto sia con gli avversari di classe che le autorità. Nel paese cresceva la tensione, e sempre più era difficile controllare le parti in conflitto.

C\'era la speranza che le elezioni del 18 febbraio 1936, vinte dal Fronte Popolare – composto da partiti repubblicani, socialisti, regionalisti e comunisti e sostenuta da partiti anarchici – avrebbe stabilizzato la situazione politica nel paese. Invece fu l\'inizio di un nuovo acuirsi dei contrasti e di nuovi scontri. Una parte del comando militare voleva intervenire immediatamente, ma Francisco Franco credeva bisognasse aspettare un\'opportunità più favorevole. Il governo reagiva lentamente e non riusciva ad imporre l\'autorità necessaria nemmeno al proprio eterogeneo corpo elettorale. Partirono le aggressioni e provocazioni capeggiate dalle forze fasciste e dall\'ultra destra, ma militanti della sinistra radicale non rimasero a guardare. Gli scontri culminarono con gli assassini del tenente lealista Del Castillo il 12 luglio, e come risposta, il giorno dopo, del dirigente della destra monarchista Calvo Sotelo.

Il 18 luglio i generali Mola, Sanjurjo e Franco si sollevarono contro il governo legittimo. Malgrado i successi iniziali nelle province settentrionali, in Galizia, in zone della Navarra e Castiglia, e la conquista di centri importanti come Saragozza e Siviglia, i golpisti non riuscirono nel loro intento fondamentale: la conquista a sorpresa di Madrid e Barcellona. Nelle città più grandi si formarono milizie popolari che, con armi prelevate dai depositi militari, attaccarono e occuparono fortificazioni militari e caserme, schiacciando i focolai dei ribelli. I queli però ebbero dalla loro parte unità legionarie e marocchine leali a Franco, trasportate dal Marocco su aerei tedeschi e italiani. L\'Italia fascista e la Germania nazista mandarono ai golpisti armamento pesante, carri armati e aviazione. In questa maniera la guerra civile spagnola acquistò un carattere internazionale.


La Comunità delle Nazioni

Purtroppo, prima la Gran Bretagna, poi la Francia, imposero, attraverso la Comunità delle Nazioni, una politica di non ingerenza nel conflitto “interno” della Spagna, conflitto nel quale le autorità legittime vennero equiparate ai golpisti, e pertanto impossibilitate ad aquisire armamenti per la propria legittima difesa. Solo l\'Unione Sovietica e il Messico sarebbero stati dalla parte della Repubblica, e le armi sovietiche avrebbero contribuito al temporaneo equilibrio militare.

Dalla parte di Franco combatterono anche le forze di Hitler e quelle, molto numerose, di Mussolini, nel quadro del cosiddetto corpo volontario. Vi parteciparono anche i “volontari” portoghesi, reclutati dal regime di Salazar, e un numero trascurabile di volontari internazionali. Dalla parte della Repubblica combatterono 35-40 mila volontari da più di cinquanta paesi di tutti i continenti, dei quali 1700 della ex-Jugoslavia (1). I volontari jugoslavi erano composti da combattenti di varie convinzioni politiche e ideologiche, dal centro borghese alla sinistra radicale – lo stesso pluralismo del contesto repubblicano spagnolo – ma una cosa avevano in comune: la volontà di difendere con prontezza, convinzione, e con le proprie vite, la repubblica spagnola dal pericolo fascista che si sporgeva sull\'Europa.

Non ci fu altro avvenimento che abbia scosso e mobilizzato il pubblico mondiale come lo fece la guerra civile spagnola. A ciò ha contribuito il sostegno alla Repubblica da parte di grandi nomi della cultura spagnola e mondiale: Garcia Lorca, Neruda, Ernandes, Macado, Alberti, Picasso, Buñuel, Sernuda, Felipe, Vallejo, Malro, Hemingway, Eluard, Aragon, e molti altri che misero il loro talento al servizio della difesa dei valori repubblicani. Ciò non fu però abbastanza per sconfiggere la rivolta della quale Franco, dopo la morte di Sanjurjo e Mola, divenne il capo indiscusso. Non fu abbastanza perché i paesi occidentali, temendo il rafforzamento delle forze di sinistra – alcune delle quali sostenevano apertamente la rivoluzione sociale – si sforzavano di evitare lo scontro con le forze dell\'Asse, le quali, già nel novembre del 1936, riconobbero il governo di Franco con sede a Burgos, e continuarono a sostenere i ribelli in uomini ed armi. Con ciò la situazione sul campo iniziò a muoversi a loro favore.


Concessione invano

Dopo il fallimento dell\'ultimo tentativo della Repubblica di sfondare sull\'Ebro e capovolgere le sorti della guerra, il governo di Juan Negrino, il 21 settembre 1938, decise, in conformità con la richiesta della Comunità delle Nazioni, di ritirare le brigate internazionali dalla guerra. Fu ciò un disperato tentativo di eliminare l\'ultimo pretesto che la Germania e l\'Italia avevano per appoggiare i ribelli. Naturalmente le potenze fasciste non rispettarono questa richiesta, mentre l\'Unione Sovietica, messa di fronte alla questione della sicurezza propria, abbandonò la repubblica al proprio destino. La Repubblica fu sconfitta militarmente; mezzo milione di persone cercarono salvezza in esilio; la repressione franchista piombò imperterrita su tutti i sopravvissuti, nemici veri o immaginari, senza che i paesi occidentali e l\'URSS evitassero il confronto armato con il nazifascismo. Inoltre, dopo la vittoria su Hitler e Mussolini, gli Alleati “dimenticarono” la Spagna e i combattenti della Repubblica e il loro contributo ai movimenti di resistenza europei, permettendo così a Franco di governare la Spagna con pugno di ferro fino alla morte, ovvero per quasi 40 anni.

Il grande maestro della lingua spagnola, Pablo Neruda, spinto appunto da questo sentimento di solidarietà, pubblicò nel 1937 “La Spagna nel cuore”. Identificandosi con la sofferenza e dolore del popolo spagnolo, Neruda, ad un incontro di solidarietà a Parigi, menzionò il suo amico Garcia Lorca, una delle prime vittime dell\'imminente terrore:


Come osare evidenziare un solo nome in questa enorme giungla riempita dalle nostre vittime. Come i poveri contadini andalusi uccisi dai loro vecchi nemici, così i minatori delle Asturie, i falegnami, muratori, braccianti cittadini e contadini, come qualsiasi delle migliaia di donne uccise e bambini smembrati, ognuna di queste ombre ardenti ha diritto ad apparire dinanzi a voi come un testimone di questa grande terra dannata, e di loro c\'è posto, credo, nei vostri cuori, se sono puri da inguistizia e male. Tutte queste ombre terrificanti hanno i propri nomi nella memoria, nomi costruiti con fuoco e lealtà, nomi puliti, semplici, vecchi e sublimi, come le parole sole e acqua... Sì, come sceglierne uno soltanto tra così tanti silenziosi? Ma il nome che pronuncerò dinanzi a voi ha dietro ai suoi contorni oscuri una tale ricchezza mortale, tanto è pesante e fradicio di significato che, quando lo si pronuncia, si pronunciano i nomi di tutti i caduti, difendendo la stessa materia delle sue poesie, perché lui fu un sonoro difensore del cuore della Spagna. Federico Garcia Lorca! Fu prediletto come la chitarra, gioioso, melancolico, profondo e chiaro come un bambino, come il popolo


Solidarietà

La solidarietà che la Spagna ed il mondo conobbero, vista dalla prospettiva odierna, sembra quasi impensabile. Ciò che attirò verso la Spgna nel 1936 la risvegliata gioventù mondiale furono conoscenza, coscienza, sentimento, illusione che in Spagna si difendeva non solo la volontà democratica del popolo spagnolo, bensì che si testava la possibilità d\'instaurare un mondo nuovo, migliore e più giusto, fondato sui princìpi della libertà, uguaglianza e fratellanza. Arrivando in Spagna, nei loro cuori bruciava una potente speranza che la vittoria sul fascismo avrebbe consolidato e sviluppato quel mondo, in Spagna come nei propri paesi d\'origine.

Se non abbiamo questo in mente, non saremo in grado di pensare e spiegare l\'impiegabile determinazione e volontà di decine di migliaia di persone, dalle più diverse e più distanti aree del pianeta, della più diversa estrazione sociale, interessi, professione e livello di educazione, di arrivare in Spagna andando intorno a numerosi ostacoli nei propri paesi d\'origine e in tutti i paesi di transito.

L\'esempio jugoslavo in questo senso è molto eloquente. I lavoratori di vari settori, in particolare i minatori, e poi studenti (addirittura alunni) contadini, funzionari di vario rango, farmacisti, ingegneri, marinai, soldati (incluso aviatori), letteralmente da tutte le parti della ex-Jugoslavia – dalla Slovenia alla Macedonia – partivano per difendere la libertà aggredita. Ma gli jugoslavi non solo partivano dalla Jugoslavia stessa. Molti furono quelli che arrivavano in Spagna da paesi terzi, in cui lavoravano, studiavano, vivevano: dall\'Italia, Austria, Belgio, Francia, Svizzera, Polonia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica, Canada, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Uruguay, Messico, Panama, Grecia, Bulgaria, Albania, Turchia, Algeria ed Iran. Le autorità dell\'allora Jugoslavia facevano di tutto per impedire la partenza dei volontari in Spagna.

Chi invitò, mobilizzò e organizzò questi volontari? Le forze politiche che fecero di più per spingere l\'arruolamento dei volontari e il loro trasporto in Spagna furono indubbiamente il Comintern, il quale già nell\'autunno del 1936 trasmise un invito ai volontari di partire per la Spagna; e i vari partiti comunisti, a quel tempo le forze più organizzate della sinistra mondiale. Il trasferimento ebbe luogo principalmente attraverso Parigi, dove esisteva un punto di accoglienza e trasferimento organizzato. I volontari transitavano ad ogni modo anche per altri canali, ed è indubbio che ci fu chi arrivò in Spagna in precedenza all\'appello del Comintern, e che si unì alle unità dell\'armata repubblicana e delle milizie popolari. Il governo della Repubblica decise di formare le brigate internazionali il 22 ottobre 1936.


Diversità

Sia tra gli jugoslavi, come tra i volontari di altri paesi, ci furono, accanto ai comunisti, persone di altro orientamento ideologico. Tra gli jugoslavi era caratteristica la presenza di sostenitori dell\'HSS di Stjepan Radić, nome portato da un\'unità jugoslava (2). Il punto di riferimento comune dei volontari era l\'antifascismo, non il comunismo. La metà vi rimase in Spagna. Perivano sui campi di battaglia attorno Madrid, difesa letteralmente con i propri corpi, sulla Jarama, a Guadalajara, a Brunete, Teruel, Belchite, Ebro. Con la morte divennero cittadini spagnoli e in Spagna trovarono la destinazione finale. I loro pochi compagni sopravvissuti avrebbero ricevuto questo diritto, promesso loro dalla Repubblica, solo 60 anni più tardi, con la decisione unanime del parlamento spagnolo di insignire della cittadinanza tutti i combattenti delle brigate internazionali.

A seguito della sconfitta della Repubblica e la ritirata oltre i Pirenei, gli jugoslavi superstiti, assieme ai compagni di altri paesi, passarono per i campi di concentramento e carceri francesi, parteciparono alla resistenza in Francia e altrove, mentre una parte riuscì a ritornare in Jugoslavia, le cui autorità facevano di tutto per impedirne il ritorno, rendendosi direttamente responsabili del prolugamento della prigionia nei campi. In tutto ne ritornarono 350, di cui 250 parteciparono alla Guerra di liberazione popolare. Arricchiti dell\'esperienza spagnola, diedero un grande contributo alla liberazione del proprio paese. Metà perse la vita sui campi di battaglia jugoslavi, molti ricevettero il titolo di eroi popolari, e tutti e quattro i comandanti delle quattro armate dell\'Esercito Popolare di Liberazione – durante le ultime fasi della liberazione della Jugoslavia – erano reduci di Spagna: Koča Popović, Peko Dapčević, Kosta Nađ e Petar Drapšin.

Quando si fa un bilancio del contributo dei volontari internazionali alla difesa della Spagna, bisogna considerare due aspetti: la prima è che essi non poterono essere il fattore decisivo, per il fatto che il loro numero non ammontò mai a più di circa quindicimila, anche se in alcuni momenti e in alcune battaglie, come la difesa di Madrid, giocarono un ruolo notevole; la seconda è che il loro contributo fu molto più importante sul piano morale e politico, perché con il loro esempio dimostrarono al popolo spagnolo e a tutto il mondo come e perché era necessario lottare contro il fascismo.

Delle genti di quell\'epoca scriveva anche Octavio Paz: “Mi ricordo che in Spagna, durante la guerra, scoprì un \'uomo diverso\' e un altro tipo di solitudine... Non c\'è dubbio che la vicinanza della morte e la fratellanza delle armi producono, in tutte le epoche e in tutti i popoli, un\'atmosfera nella quale l\'eccezionalità è propria, tutto ciò che supera il destino umano e interrompe il circolo della solitudine che circonda ogni essere umano. Ma su questi visi – visi ottusi e testardi, crudi e ruvidi, simili a quelli che, senza ritocchi e praticamente senza crudele realismo, ci ha lasciato la pittura spagnola – fu qualcosa come una disperata speranza, qualcosa di assai concreto e allo stesso tempo assai universale. Non ho mai più rivisto simili visi.


(APPENDICE I)
Note e commenti di Jasna Tkalec

(1) Dei circa 40 mila, la metà furono i caduti, dispersi o feriti. Gli italiani furono 4 mila. Altri 5 mila combatterono nell\'esercito repubblicano regolare, mentre 20 mila fecero parte dei servizi sanitari e ausiliari.
(2) Secondo Zorica Stipetić, nota professoressa universitaria della storia contemporanea, non ci fu un\'unità dal nome di Stjepan Radić, anche se non è da escludere del tutto. Fra i rimpatriati, affermò la dottoressa, solo tre furono di provenienza non comunista, del partito HSS appunto. Ma qui tre venivano sempre invitati dappertutto soprattutto in Croazia – dove si voleva essere magnanimi con quel partito, specie dopo l\'assassinio di Radić. L\'HSS fu successivamente guidato da Maček, una figura politica odiosa che firmò l\'altrettanto odioso patto di non-belligerenanza con i nazisti – il patto Cvetković-Maček, che provocò le dimostrazioni popolari dell\'8 marzo a Belgrado e il bombardamento del 6 aprile 1941.

Maček affermava sempre di non volere che il suo paese indossi \"la sanguinosa camicia spagnola\", facendo arrestare chi era coinvolto nel supporto logistico alla partenza dei volontari. Radić non apparteneva alla sinistra – nonostante la politica del Partito Comunista Jugoslavo durante la Guerra popolare di liberazione di attirare a sé l\'ala sinistra dell\'HSS – mentre una brigata dell\'Esercito Popolare di Liberazione prendeva, qui sì, il nome di Stjepan Radić.

Insomma, sostenere che in Spagna combatterono i nazionalisti croati è errato e offensivo. In Spagna erano andati i comunisti, organizzati dai comunisti. Molti finirono in carcere per aver organizzato queste spedizioni clandestine. I comunisti jugoslavi e croati non avevano come ideale alcun nazionalismo, né croato, né spagnolo, né russo – ma una lotta nobile quanto giusta, per la giustizia e la libertà. Il libro jugoslavo più bello e struggente dell\'esperienza spagnola è \"Memorie\" di Gojko Nikoliš, medico nonché ambasciatore jugoslavo in India e uomo di lettere.

Un mio zio, Rocco, è stato combattente in Spagna, e mia madre faceva parte delle operazioni di trasporto. Ho ereditato le lettere e gli oggetti fatti nel campo di concentramento di Gyrs, dove lo zio fu rinchiuso dal governo di Blum e Daladier. I reduci di Spagna furono rinchiusi nei campi per mesi, trattati in modo disumano e incivile. Dovevano scontare la colpa di aver combattuto per la libertà.

Sia la Repubblica spagnola che le Brigate internazionali non erano composte soltanto da comunisti, ma appunto da internazionalisti, e con i nazionalisti croati, serbi o montenegrini non avevano niente in comune. Inoltre, il fulcro e il cuore dell\'azione nonché della lotta armata era sostenuta in primo luogo dai comunisti e dagli antifascisti. I nazionalisti croati né di allora né di oggi con la guerra di Spagna, insomma, non avevano nulla a che vedere; semmai avevano legami stretti con Franco – dove si erano rifugiati gli scannatori ustascia al termine della Seconda guerra mondiale.

(A cura di Andrea Degobbis)


(APPENDICE II)

Dall\'ENCIKLOPEDIJA JUGOSLAVIJE 

(Jugoslavenska enciklopedija Leksikografskog Zavoda) del 1971, volume 8, p. 261


Da volontari jugoslavi e di altri paesi balcanici si era formata già nell\'ottobre del 1936 una “Unità balcanica\". Questa prese parte alla difesa di Madrid. I volontari provenienti da Trieste, dal Litorale sloveno e dall\'Istria entravano nella composizione della XII brigata italiana Garibaldi. \"Unità balcanica\" divenne Battaglione Đuro Đaković (dal nome del segretario del Partito Comunista Jugoslavo ucciso dai gendarmi dalla polizia jugo-monarchica qualche anno prima).

Questa unità entrò a far parte del Battaglione Capajev nella XIII brigata polacca Dombrovski.

Molti jugoslavi si trovarono a combattere nella brigata anglo-americana Lincoln, dove con volontari cecoslovacchi, bulgari e altri componevano il battaglione Dimitrov. Di quest\'ultimo fece parte anche l\'Unità Matija Gubec dello Zagorje.

La XV brigata fu comandata da uno dei dirigenti del Comitato centrale del Partito Comunista Jugoslavo, Vladimir Ćopić. Questa brigata prese parte alla grande battaglia sulla Jarma nel febbraio del 1937, a sud di Madrid. Prese parte nell\'autunno del 1937 alle operazioni presso Quinto e Belchite.

Le brigate XIII e XV presero parte all\'operazione del luglio 1937 a Brunete (a ovest di Madrid). In questa operazione cadde il commissario politico della brigata, Blagoje Paravić, uno dei membri del politburo del CC del PC jugoslavo

Nel corso delle battaglie sul fiume Ebro, all\'inizio del 1938, i superstiti dei battaglioni Dimitrov e Đuro Đaković formarono la CXXIX Brigata Internazionale, il cui comandante fu lo jugoslavo Aleksej Demetrijevski-Bauman. Questa brigata prese parte anche alle battaglie difensive nel settore Levante (sud-est dell\'Ebro).

Come la guerra volgeva verso la fine, venne costituito, da combattenti già smobilitati, il Battaglione Balcanico, sotto il comando di Kosta Nađ. Quel battaglione aveva sostenuto gli ultimi scontri armati coprendo la ritirata dell\'esercito repubblicano oltre i Pirenei.

(traduzione Jasna Tkalec)


(APPENDICE III)

L\'ADDIO di Dolores Ibarruri (La Pasionaria) a Barcellona il 28 ottobre 1938


[L\'originale a latere di: Španija u srcu, VREME 819, 14. septembar 2006.,
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=464964 ]


“La sensazione di tristezza e dolore
infinito ci stringono la gola...

Tristezza per quelli che se ne vanno, per i soldati del maggiore ideale della salvezza umana, per gli espulsi dalla propria patria, per i perseguitati dai tiranni.

Il dolore è enorme per quelli che rimangono per sempre nella nostra terra...

I Jarama, i Guadalajara, i Brunete, i Belchite, i Levante, gli Ebro cantano con versi immortali il coraggio, l\'abnegazione, l\'eroismo e la disciplina di tutti i combattenti delle brigate internazionali.

Per la prima volta nella storia dei popoli si registra l\'opera grandiosa di creare le brigate internazionali per salvare la libertà e l\'indipendenza di un paese minacciato, la nostra Spagna.

Comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani, uomini di colore e ideologie diverse, di religioni diverse, persone che sinceramente amano la libertà e giustizia, sono venuti con disinteresse ad aiutarci.

Ci hanno dato tutto: la propria giovinezza e la propria maturità, il proprio sapere e la propria esperienza, il proprio sangue e la propria vita, le proprie speranze e i propri desideri... E non ci hanno chiesto niente. O meglio, hanno chiesto, hanno chiesto un posto nella lotta, volevano avere l\'onore di morire per la nostra causa...

E quando i rametti sbocciati della pace s\'intrecceranno nella corona di vittoria della Repubblica spagnola, ritornate a noi! Ritornate tra noi. Qui troverete la patria tutti voi che non ce l\'avete, troverete amici tutti voi privati dell\'amicizia, tutti voi troverete l\'amore e la gratitudine dell\'intero popolo spagnolo che oggi e domani entusiasticamente esulterà: Evviva gli eroi delle brigate internazionali!

(Traduzione Jasna Tkalec)




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