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Kosovo: "Non pensavamo che tornassero terroristi..."

1) Kosovo, Vicepresidente a parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"
Intervista a Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo, 23/02/2017
2) Le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia" (La Repubblica Bari, 7.1.2017)
3) Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti (Sergio Cararo, 9 agosto 2016)


À lire aussi: GUERRE EN SYRIE : QUI ÉTAIT RIDVAN HAQIFI, LE CHEF DES COMBATTANTS KOSOVARS DE L’ÉTAT ISLAMIQUE ?
(Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | lundi 20 février 2017)
Connu pour ses vidéos de propagande où il prédisait des « jours sombres » aux Balkans, le chef des combattants kosovars de l’État islamique, l’ancien imam de Gnjilan, Ridvan Haqifi, aurait été abattu en Syrie...


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23/02/2017

Kosovo, Vicepresidente a delegazione di parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"


Come AntiDiplomatico abbiamo intervistato Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo.


“Almeno cinque campi, di cui - se non tutto - l’impressione è che si sappia molto. Se la presenza di cellule fondamentaliste nell’area dei Balcani è cosa nota (due anni fa l’Espresso ne aveva censite una ventina in tutta la regione), adesso arriva la conferma dell’esistenza di un livello superiore. Prevedibile, per alcuni versi, ma finora mai resa nota più o meno ufficialmente: la presenza di campi di addestramento dell'Isis in Kosovo”. Iniziava così un articolo de l’Espresso che riportava la notizia dei cambi dell’Isis nello stato esperimento della NATO che come AntiDiplomatico avevamo anticipato di settimane.
 
Inquieta ancora di più pensare ai campi di addestramento in Kosovo alla luce di questa dichiarazione del vice Presidente del Parlamento kosovoro Xhavit Haliti rilasciata questa settimana: “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Inquietano, per il ruolo dell’Unione Europea e della Nato, queste "illuminanti" dichiarazioni di Haliti rilasciate ad una delegazione della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, nella quale era presente anche il deputato del Movimento Cinque Stelle Emanuele Scagliusi. Come AntiDiplomatico abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande.
 

ll Kosovar Center for Security Studies (Kcss) stima che il Kosovo sia oggi il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello Stato Islamico. La diffusione dell’Islam radicale si è spesso materializzata nella costruzione, attraverso grandi finanziamenti sauditi, di centinaia di moschee wahabite e nella distruzione di altrettante chiese cristiane e monasteri. Tutto il territorio kosovaro pullula da anni di imam radicali che predicano la guerra santa e operano come reclutatori nelle centinaia di moschee finanziate dalle monarchie arabe. Com’è possibile che tutto questo accada sotto gli occhi dell’apparato militare e di intelligence Nato e Ue che opera in Kosovo?
 
Nella mia recente visita in Kosovo abbiamo avuto una serie di incontri bilaterali con il Presidente dell’Assemblea della Repubblica del Kosovo, Kadri Veseli, con il Vice presidente dell’Assemblea, Xhavit Haliti e con la neoeletta Ministra per l’integrazione europea, Mimosa Ahmetaj.  Sono rimasto colpito dalla naturalezza con la quale il vicepresidente del Parlamento kossovaro ci ha raccontato il problema legato ai foreign fighters. “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Una frase inquietante che lascia ben intendere l'emergenza legata al terrorismo che sta vivendo il Kosovo. Un problema, quello dei foreign fighters, che rischia di diventare un'altra delle emergenze di questo Paese dove negli ultimi anni sono aumentate le moschee wahabite ed i centri in cui il fenomeno della radicalizzazione islamica aumenta, grazie ai finanziamenti che arrivano dai Paesi del Golfo e della Turchia.

Che ruolo giocano le Monarchie del Golfo in questo processo in corso nel Kosovo?
 
L’Arabia saudita, alleato Usa e Ue, è il più grande acquirente dell’equipaggiamento militare dei paesi balcanici. L’Arabia Saudita sostiene le forze jihadiste in Siria.
Credo che il cerchio si chiuda.
Un recente studio pubblicato dal BIRN (Balkan Investigative Reporting Network) sostiene che dal 2012, anno dell’inasprimento delle “primavere arabe”, ad oggi, ai paesi dei Balcani sono state comprate armi per un valore di 1.2 miliardi di euro da Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Turchia, molte delle quali smistate per poi essere usate nel conflitto siriano e in quello yemenita. I leader europei hanno fatto di tutto negli ultimi anni per tentare di bloccare la strada percorsa dai migranti che tentavano di raggiungere l’Europa passando per i paesi mentre non si sono preoccupati di mobilitarsi per fermare il commercio di armi che segue la medesima rotta balcanica che percorrono i migranti (con l’unica differenza che viene percorsa nella direzione opposta).
 
 
La crescente partecipazione di membri radicali tra le fila dello Stato Islamico e la posizione di hub strategico nel cuore dell’Europa sollevano seri elementi di criticità legati al ritorno dei combattenti in patria. “Questa situazione è potuta maturare nonostante le missioni internazionali presenti sul territorio, perché da tempo l’Europa e la Nato si disinteressano al Kosovo, e ai Balcani in generale, nonostante questa evoluzione fosse chiara da anni”. Sono parole del Generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo. Come procede il lavoro del contingente italiano in Kosovo?
 
Nella nostra missione, abbiamo visitato il contingente italiano presso la KFOR e la base dei Carabinieri della Multinational Special Unit (MSU). 
Con loro, abbiamo potuto visitare il Ponte di Mitrovica, uno dei luoghi simbolo del conflitto del ‘99 e teatro dei più recenti scontri connessi dalle perduranti tensioni interetniche tra minoranza serba e maggioranza di albanese. Attraversandolo, ho subito percepito, nonostante siano passati 18 anni, quali siano gli sconvolgimenti che le missioni "umanitarie" portano in paesi che con difficoltà nel corso della loro storia avevano raggiunto il loro precario equilibrio tra le diverse etnie, religioni e ideologie politiche.
Ricordo ancora le bombe del Governo D'Alema, spacciate per intervento militare in difesa dei diritti umani, che in verità hanno contribuito a rimescolare le tessere del puzzle balcanico. Tessere che faticosamente si cerca di rimettere in ordine.

Il Kosovo vuole entrare nell’Unione Europea. Secondo lei sono pronti?
 
Adesso il Kosovo, come un po' tutti i Paesi balcanici, ambisce ad entrare nell'Unione Europea e, dai discorsi che ho sentito dai loro parlamentari e rappresentanti di Governo, mi sembrava di essere tornato indietro di qualche decina di anni quando l'allora presidente del consiglio Prodi annunciava: "con l'euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più". Previsione rivelatasi drammaticamente sbagliata. 
Il Kosovo rischia di cadere in una simile illusione. Per questo, in tutti gli incontri bilaterali avuti, ho illustrato loro la posizione del M5S su tutto quello che a nostro avviso va rivisto immediatamente in Europa: dalla moneta unica alla gestione dei profughi, dal mercato del lavoro a quello delle merci. Una serie di temi che prevedono nella nostra agenda politica una rivisitazione del principale trattati della UE. "O l'Europa cambia o muore".


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Terrorismo, le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia"

I fenomeni di radicalizzazione oltre l'Adriatico preoccupano l'intelligence italiana: sul territorio pugliese ci sono comunità originarie dei villaggi su cui sventolano le bandiere del Califfato

di GIULIANO FOSCHINI

7 gennaio 2017

È dal mare Adriatico che arriva oggi uno dei principali allarmi per il terrorismo in Italia. E la Puglia è frontiera di questo rischio. Nulla c'entrano i flussi migratori. L'allerta non riguarda né i barconi di disperati che attraccano per lo più sulle coste del Salento né le migliaia di richiedenti asilo che, in attesa del permesso di soggiorno, vengono portati nei Cara di Bari e Foggia o nell'hotspot di Taranto.

L'allarme arriva dall'Albania. Dove i nostri servizi di intelligence, così come quelli della maggior parte dei Paesi occidentali, hanno lanciato l'allerta radicalizzazione: in alcuni villaggi, e in particolare quelli ai confini del Kosovo, da tempo sventola la bandiera nera dell'Isis. E sono sempre più i casi di radicalizzazione. "Sta diventando una polveriera" ragiona una qualificata fonte investigativa italiana. "E in questo senso l'Italia diventa un paese esposto. E la Puglia in particolare". Questo per via della vicinanza geografica, della presenza di comunità fortemente radicate e per quegli stretti collegamenti tra criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti.

Il caso Albania. Sin dalla nascita dello Stato islamico un numero importante di foreign fighter è partito dai Balcani occidentali, e dall'Albania soprattutto. Se ne stimano mille almeno. Negli ultimi 12 mesi, però, il flusso si è notevolmente ridotto. Non è un caso: la perdita di terreno in Siria ha spinto l'Isis a bloccare i viaggi di chi si vuole arruolare per spostare, appunto, il conflitto in Occidente. Non a caso le intelligence europee segnalano una radicalizzazione sempre più profonda proprio in questi mesi. Un allarme che in un certo modo le autorità albanesi stanno cercando di fronteggiare.

Nove persone sono state condannate per reclutamento, si sta cercando di fare un lavoro sulle moschee seppur 89 sembrano essere completamente fuori controllo. I servizi albanesi hanno segnalato come "fortemente pericolosi" una decina di imam, due dei quali sono però in carcere. Il più pericoloso di loro, Almir Daci, dovrebbe essere morto ad aprile scorso in Siria: è lui che da Leshnica, la città nel sud-est dell'Albania dove reggeva la moschea che ha radicalizzato centinaia di uomini. I ragazzi di Leshnica, Zagorcan e Rremeni sono quelli che ora fanno tremare l'Europa.

La rete pugliese. Non sono città qualsiasi. In Italia vivono da tempo comunità originarie di quelle zone. In particolare in Puglia, con concentrazioni in Salento e in un comune della provincia barese. Un ragazzo di quelle zone, Ervis Alinj, si era trasferito in Puglia piccolo per poi ritornare a casa con i genitori in Albania. Qui si è radicalizzato e poco meno di due anni fa è morto mentre combatteva in Siria. Vengono dal sud-est albanese esponenti di spicco anche della malavita organizzata pugliese, che vivono da anni nel barese e sono attivi in particolare nel traffico di stupefacenti e in quello di armi.

Un fattore questo che rende ancora potenzialmente più pericolosa la situazione, in quanto legherebbe la criminalità organizzata con le organizzazioni terroristiche. Non a caso, sulla cellula albanese da tempo lavora la Dda di Bari. Un fascicolo è stato aperto dopo la strage di Nizza ma fin qui, più che una reale pista investigativa, si è trattato di una suggestione. Chokri Chaffroud, il complice di Mohamed Bouhlel, lo stragista di Nizza aveva vissuto per anni a Gravina, dove vive una delle comunità albanesi più importanti e, indagini alla mano, con più affari criminali. Ed erano proprio albanesi due presunti complici di Bouhlel, arrestati dopo la strage sulla Promenade con l'accusa di avergli offerto un supporto logistico per compiere l'attentato.

La prevenzione. Chiaro il rischio, in questi mesi si stanno prendendo tutte le contromisure affinché il pericolo resti potenziale. La Dna, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha sottoscritto in estate un protocollo con i colleghi serbi che serve proprio a mettere in rete le informazioni. In questo senso il porto di Bari, considerato hub per il passaggio, è in grado di offrire un supporto fondamentale: ha un sistema informatico di registrazione dei passeggeri che consente di verificare alle forze di polizia in tempo reale chi, quando e soprattutto accompagnato da chi ha viaggiato.

Proprio grazie a questo software - unico in Italia - è stato possibile individuare Ahmed Dhamani, uno dei fiancheggiatori di Salah Abdeslam, il terrorista che assaltò Parigi il 13 novembre 2015. Nessuno conosceva il suo nome ma la Digos di Bari scoprì che i due avevano viaggiato insieme da Bari a Patrasso il primo e il 5 agosto, in quel viaggio in Grecia nel quale fu probabilmente organizzata la strage.



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Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti


di Sergio Cararo, 9 agosto 2016

Sembrerebbe una legge del contrappasso eppure è lo stesso scenario che si è ripetuto costantemente dall’alleanza con i mojaheddin afgani dal 1980 in poi. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea hanno disgregato gli stati esistenti – anche con i bombardamenti e le operazioni di regime change – hanno sostenuto militarmente i gruppi islamici e hanno consentito il loro rafforzamento economico e militare in enclavi protette e sostenute dal wahabismo saudita. Ma non è accaduto solo in Medio Oriente, è accaduto anche in Europa nella sua periferia balcanica. Una volta diradata la polvere dei bombardamenti (incluso quelli all’uranio impoverito) sul territorio dei Balcani sono rimaste quasi sempre basi militari Usa (in Kosovo, Croazia, Macedonia) e sono prosperati network legati alla jihad globale, sia di osservanza wahabita (legati all’Arabia Saudita) che di altre correnti (legati alla Turchia). Il risultato è che enclavi dello Stato Islamico sono assai più vicine ai confini europei di quanto la geografia e la cronaca abbiano lasciato intendere fino ad ora.

Sono stati infatti individuati diversi network jihadisti che hanno origine in Kosovo (dove in rapporto alla popolazione si segnala il numero più alto di foreign fighters andati a combattere in Siria e Iraq tra le file dell’Isis), Bosnia e Albania. In questi tre paesi balcanici nei quali la Nato è intervenuta militarmente tra il 1995 e il 1999 a sostegno delle ambizioni islamiche,   si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, noto come il “’macellaio dei Balcani”, per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti  posti all’attenzione dalla polizia in Italia, ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Jihad  e che,  secondo gli investigatori,  aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri. Quest’ultimo ha lavorato proprio dentro la base militare Usa in Kosovo, quella di Camp Bondsteel, all’ombra delle quale si segnalano ben cinque campi di addestramento dei miliziani islamici.

Il vero cuore dello Stato Islamico alle porte dell’Europa è proprio il Kosovo, uno stato fantoccio creato dai bombardamenti dalla Nato e riconosciuto come indipendente dalla maggioranza dei paesi europei (tranne la Spagna). Una inchiesta de L’Espresso rivela che Florin Nezir,  l’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, è stato sostenuto in questi anni da Ilir Berisha e Jetmir Kycyku,  arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato in Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.

Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Da Kacanik sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, per andare in Siria e Iraq come foreign fighters al servizio dell’Isis. Il flusso si è ridotto con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina. Qualche mese fa, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, di cui un’ottantina  gli arrestati .
Ma non è solo il Kosovo a preoccupare tra i paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. Negli anni ‘90 in queste regioni attraversate dalla secessioni e dalle guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, è stato imponente l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. La Nato, che ha sempre e solo bombardato la Serbia o la Repubblica Sprska in Bosnia, ha chiuso entrambi gli occhi rispetto a questa rilevante infiltrazione di foreign fighters nelle guerre balcaniche. “Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani” scrive l’inchiesta de L’Espresso, “ la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo”.

A  Bihac, in Bosnia,  c’è una fetta di territorio ormai sfuggito dal controllo statale (debole in un paese di fatto diviso, costruito e per lungo tempo gestito dalla Nato e dall’Unione Europea tramite commissari plenipotenziari), dove la polizia non entra e dove esiste una vera enclave dello Stato islamico. 
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli jihadisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 sono rientrati in Bosnia e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.

In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.

Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antakia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto dei gruppi jiahdisti siriani, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.

Segnali preoccupanti vengono anche da un altro stato sorto nella stagione delle secessioni nella ex Jugoslavia: la Macedonia. Recentemente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo.. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje come Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.






Incessante propaganda mirata allo squartamento della Siria

1) LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia
2) MOSTRA “CAESAR”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?
3) E' INIZIATO IL LINCIAGGIO contro gli archeologi occidentali che "osano" collaborare con i colleghi siriani. Nel mirino anche PAOLO MATTHIAE, il più grande archeologo italiano vivente


Vedi anche:
L'Esercito siriano entra nella città di Palmira (1.3.2017). VIDEO e MAPPA:
Le prime immagini di Palmira liberata (2.3.2017):


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LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia


Con il vostro Comunicato CS 028 – 2017 diffuso il 1° marzo, dopo aver genericamente parlato di inchieste sull’uso di armi chimiche riguardanti “tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria”, rivelate, dalle parole della stessa Tadros,  il vero scopo del comunicato: attaccare il governo siriano impegnato da 6 anni in un durissima battaglia contro orde di terroristi e mercenari etero diretti dall’esterno che hanno il compito di distruggere e smembrare quello sfortunato paese; e attaccare nel contempo Russia e Cina colpevoli di volerlo salvare. Grazie ai loro veti infatti si è evitata la legittimazione di una ennesima aggressione “umanitaria”  da parte della Nato contro un Paese sovrano, come successo nel marzo del 2011 contro la Libia,  le cui conseguenze devastanti sono oggi sotto gli occhi di tutti!

Anche allora avete fornito al “mondo” utili coperture propagandistiche per giustificare bombardamenti e attacchi militari, accusando Gheddafi di orribili stragi di civili e stupri di massa ottenuti distribuendo fiumi di Viagra ai soldati governativi, salvo poi riconoscere, a distruzione del paese avvenuta, che si trattava di fatti non provati o falsità evidenti.

Riguardo alla Siria, avete sponsorizzato una mostra fatta di foto di cadaveri torturati anonimi, di cui  non era possibile accertare identità e circostanze della morte. Foto attribuite a un fantomatico agente siriano “Caesar” di cui non siete stati in grado di fornire né il nome né altre indicazioni, alimentando il generale sospetto che si tratti di pura invenzione.

In altra circostanza avete pubblicato dossier attribuibili all’opposizione armata terrorista e jihadista siriana, in cui si parla senza prove del fantomatico numero di 13.000 impiccati- tutti rigorosamente anonimi – nelle carceri siriane.

Siate certi che queste “informazioni”, prive di riscontri e caratterizzate da una evidente faziosità, sono accolte da un numero crescente di cittadini con sempre maggiore scetticismo, e sempre un maggior numero di persone apprezza il comportamento di Russia, Cina e altri Paesi. Grazie a loro la Siria, malgrado gli attacchi e la devastazione da parte di migliaia di mercenari armati, addestrati e finanziati dalle petromonarchie e dall’impero Usa, è riuscita a difendere e mantenere la sua integrità e sovranità.

Ripensateci ed agite con maggiore responsabilità e dignità.


Cordiali saluti
Vincenzo Brandi, Stefania Russo della Rete No War Roma.




COMUNICATO STAMPA                                                               
CS028-2017 

SIRIA, ALTRO VERGOGNOSO VETO DI RUSSIA E CINA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA 

Russia e Cina hanno per l'ennesima volta usato il loro potere di veto all'interno del Consiglio di sicurezza per bloccare, il 28 febbraio, una risoluzione che avrebbe contribuito ad accertare le responsabilità per l'uso e la produzione di armi chimiche da parte di tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria. 

"Ponendo il veto alla risoluzione, Russia e Cina hanno mostrato un palese disprezzo per la vita di milioni di siriani. Entrambi i paesi fanno parte della Convenzione sulle armi chimiche e anche per questo non c'è alcuna scusa per il loro comportamento", ha dichiarato Sherine Tadros, direttrice dell'ufficio di Amnesty International presso le Nazioni Unite. 

"Da sei anni la Russia, sostenuta dalla Cina, blocca le decisioni del Consiglio di sicurezza riguardanti il governo siriano. Questo atteggiamento impedisce la giustizia e rafforza la tendenza di tutte le parti coinvolte nel conflitto a ignorare il diritto internazionale. Il messaggio della comunità internazionale è che, quando si parla di Siria, non esiste alcuna linea rossa", ha aggiunto Tadros. 

Dall'inizio della crisi siriana, la Russia ha fatto ricorso per sette volte al diritto di veto. La risoluzione del 28 febbraio proponeva sanzioni nei confronti di singole persone collegate alla produzione di armi chimiche in Siria e un embargo su tutti i materiali che potrebbero essere usati per produrle in futuro. 

La proposta su cui Russia e Cina hanno posto il veto faceva seguito alla risoluzione 2118 del settembre 2013, redatta da Russia e Usa, che impone misure sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite sul "trasferimento non autorizzato di armi chimiche e su ogni uso di armi chimiche, da parte di chiunque, nella Repubblica araba siriana". 

Nell'agosto 2015 il Consiglio di sicurezza aveva anche adottato all'unanimità la risoluzione 2235, che aveva istituito un Meccanismo d'indagine congiunto per identificare i responsabili degli attacchi con armi chimiche in Siria. Da allora, il Meccanismo è giunto alla conclusione che tanto il governo siriano quanto il gruppo armato Stato islamico hanno compiuto attacchi con armi chimiche. 

"Il vergognoso atteggiamento della Russia è un ulteriore esempio di come Mosca usi il potere di veto per garantire al suo alleato, il governo siriano, che eviterà di subire conseguenze per i suoi crimini di guerra e contro l'umanità. Ora è di fondamentale importanza che il neo-nominato segretario generale Onu e gli stati membri del Consiglio di sicurezza agiscano con fermezza quando alcuni stati impediscono l'approvazione di risoluzioni per impedire o porre fine a crimini di guerra. Il Consiglio di sicurezza è diventato un luogo in cui fare sfoggio di posizioni politiche e il popolo siriano ne sta pagando il prezzo definito", ha concluso Tadros. 

FINE DEL COMUNICATO                                                       
Roma, 1 marzo 2017 

Per interviste: 
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa 
Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361, e-mail: press@...


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Mostra “Caesar”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?

Comunicato del Comitato Contro La Guerra Milano sulla mostra “Nome in codice Caesar”

Da venerdì 3 marzo giunge anche a Milano la mostra “Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura”, con il Patrocinio del Comune di Milano.

La stessa mostra era stata proposta, la scorsa primavera, alla Camera e al Senato della Repubblica, ma non accettata, poiché serve solo a “scatenare reazioni emotive facilmente strumentalizzabili”, aggiungiamo noi, finalizzate ad accusare il legittimo Governo della Repubblica Araba di Siria di “crimini contro l’umanità”.

I promotori di queste campagne, sono gli stessi che hanno giustificato e fiancheggiato i bombardamenti all’Iraq e alla Libia, motivati con “i falsi”, ampiamente dimostrati, dei bimbi Kuwaitiani uccisi nelle incubatrici da Saddam Hussein, o delle fosse comuni di Gheddafi e altre falsità, ormai conosciute in tutto il mondo, fino ad arrivare alle “famose” provette di antrace mostrate all’ONU dall’allora Segretario di Stato USA, Generale Colin Powell, di cui, persino lo stesso ex Primo Ministro britannico, Tony Blair, dovette scusarsi di fronte al mondo.

Tra i principali finanziatori di “Caesar” compare lo stesso Qatar, paese che, con Arabia Saudita e Turchia, è tra i principali sponsor delle bande armate islamiste della cosiddetta “opposizione siriana”, ISIS inclusa (a cui l’appoggio di questi paesi è ora conclamato), che dal 2011 hanno messo a ferro e fuoco la Siria e il vicino Iraq, provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi in esodo verso l’Europa.

Per approfondimenti sulla mostra “Caesar” si legga il report di SibiaLiria e L’Antidiplomatico (Report sull’attendibilità delle “Foto di Caesar” e sulla relativa mostra – goo.gl/A0YDg8).

Questi approfondimenti legittimano il sospetto che molte di esse non raffigurino “ribelli uccisi da Assad”, ma “poliziotti e soldati uccisi dai ribelli”.

E’ preoccupante il sostegno che la mostra ha ricevuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, è inoltre oltraggioso e dannoso il Patrocinio del Comune di Milano, città simbolo della lotta per la Liberazione dal nazifascismo.

Chiediamo, quindi, spiegazioni all’Amministrazione del Comune di Milano, segnatamente nelle figure del Sindaco Sala e dell’Assessore Majorino, delle ragioni per cui hanno deciso di patrocinare questa mostra, vista la scarsa credibilità della stessa ed anche visto che all’interno della mostra si sono tenuti dibattiti dove hanno avuto modo di pontificare soggetti ripresi in trasmissioni televisive e più volte fotografati in manifestazioni di piazza a fianco di elementi jihadisti, come ad esempio Haisam Sakhanh (https://youtu.be/8VXykI1OGjQ), appena condannato all’ergastolo dalla procura di Stoccolma, poiché colpevole di una esecuzione sommaria, nel corso della quale venivano  assassinati 7 prigionieri, soldati di leva dell’esercito regolare siriano; la condanna all’ergastolo è stata inflitta poiché è stata dimostrata l’aggravante della particolare ferocia e crudeltà del crimine, che pone questo episodio fuori dal diritto internazionale. Si consideri che Sakhanh appare in molte fotografie con armi di ogni tipo. Infine riteniamo opportuno che, dopo questa offesa alla città, l’Amministrazione del Comune di Milano porga le sue scuse, prendendo atto della leggerezza con cui ha agito in questa occasione, laddove le scuse non arrivassero, sarebbe lecito pensare che, come gli amici di Sakhanh, anche l’Amministrazione Comunale sia fortemente condizionata dai rapporti che il Qatar intrattiene con settori economico-finanziari della città di Milano.




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Siria, la grande lite tra gli archeologi 

«Collaborazionista chi va da Assad»

Convegni a Damasco, lettere e email infuocate, accuse in Italia, Gran Bretagna, America
E il decano degli scavi siriani Paolo Matthiae finisce sotto accusa. Lui: «Esigo le scuse»

di Lorenzo Cremonesi, 7 febbraio 2017

Archeologi in Siria: che fare? Riprendere a scavare come nulla fosse stato, oppure rifiutare di collaborare con un regime macchiato di crimini orribili? «Sino a prova contraria, ciò che resta dei siti è ancora al suo posto e solo le autorità e gli archeologi siriani rimasti possono cercare di restaurarli dopo i vandalismi dell’Isis. Ecco perché è nostro compito aiutarli al meglio», ci spiega pragmatico e disincantato l’italiano Paolo Matthiae, il celebre scopritore delle tavolette di Ebla che a 77 anni, di cui circa 50 trascorsi a scavare in Siria, resta il decano dei tanti studiosi che da tutto il mondo hanno operato nel Paese. A lui si affiancano i colleghi (non sono pochi in Italia e all’estero) disposti a scendere a patti con il regime di Assad pur di ritornare.
«Assolutamente no. Impossibile far finta che non sia accaduto nulla. Non si tratta con la dittatura. Si passerebbe per collaborazionisti di un regime sanguinario, repressivo, macellaio che cerca anche nel ritorno degli archeologi stranieri un modo per riacquistare legittimità agli occhi della sua popolazione e sul teatro internazionale. Tornare significa diventare complici dei massacratori», replicano i contrari, tra cui Marc Lebeau, noto studioso di Bruxelles scopritore del sito di Tell Beydar, e Annie Sartre Fauriat, anch’essa ricercatrice del Vicino Oriente, oltre a diversi nomi celebri come Piotr Steinkeller, che insegna a Harvard e Cambridge e Gonzalo Rubio della Pennsylvania State University. Le loro lettere aperte di condanna al«collaborazionismo» dividono gli accademici. Tra i critici non mancano gli italiani come Maria Giovanna Biga, della Sapienza di Roma, la quale con Matthiae ha intavolato uno scambio non proprio amichevole di email di chiarificazione-accusa, in realtà destinato a riacuire lo scontro.
Punto di partenza di questa vera e propria «guerra tra archeologi» è l’ormai noto convegno tenuto a Damasco l’11 e 12 dicembre scorsi per volere del ministero delle Antichità siriane assieme a quello del Turismo con l’intenzione di riprendere i lavori e restaurare i siti danneggiati. Il regime per facilitare l’arrivo degli studiosi dall’estero non ha richiesto visti, in più ha organizzato i trasporti in Siria. Tra gli italiani, Giorgio Buccellati, noto per i suoi scavi a Urkesh, ha steso una delle più rilevanti relazioni in cui magnifica gli interventi delle autorità locali a salvaguardia dei reperti, specie a Palmira. «Non ho potuto esserci per motivi famigliari, ma ci sarei andato molto volentieri e comunque ho inviato la mia relazione», dice Matthiae.
Ma critiche durissime arrivano dai colleghi siriani espatriati per non cadere nelle mani della polizia segreta di Assad. Sette di loro hanno firmato uno degli appelli più noti per il boicottaggio. «Impossibile lavorare in Siria. Il regime continua a reprimere e uccidere. Oltre il 70 per cento di noi è fuggito all’estero, restano solo quelli asserviti. Inoltre i bombardamenti indiscriminati russi e dell’aviazione di Damasco hanno provocato più danni all’archeologia e al patrimonio storico che non tutti i vandalismi dell’Isis messi assieme», ci dice un archeologo di Aleppo. 
Un dato questo confermato da altri colleghi scappati in Europa: quelle stesse autorità che oggi vorrebbero presentarsi come paladine del ripristino del retaggio culturale ne sono state in effetti i peggiori vandali. Le bombe siro-russe sarebbero cadute copiose sui tesori di Palmira, Ebla, Krak dei Cavalieri, sui centri storici di Ariha, Idlib, Homs, Hama, e sulle parti più antiche di Aleppo a partire dal mercato coperto. Per cercare un possibile compromesso, un gruppo di archeologi «critici» ha smussato i toni, proponendo una «carta etica» per chi opera in regioni controllate dalle dittature. Ma la polemica resta aspra. Commenta Matthiae: «Concordo con l’80 per cento di quel documento. Ma le accuse contro di me sono state troppo offensive. Esigo scuse formali prima di firmarlo».

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La guerra in Siria ora si combatte tra gli archeologi

Il belga Marc Lebeau e i suoi seguaci: no ai rapporti con Assad. Matthiae: politicizzazione devastante

di Francesca Paci, 19/01/2017 (Ultima modifica il 27/01/2017)

Qual è il momento giusto per occuparsi delle antichità archeologiche in una guerra come quella siriana in cui, giunto nel 2014 a quota 191 mila, l’Onu ha rinunciato a contare le vittime per concentrarsi sugli oltre 5 milioni di profughi? La domanda, nient’affatto oziosa di fronte alla maggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale, spacca da un mese la comunità degli studiosi internazionali, accomunati dall’amore per la terra ospite di ben 6 siti Unesco ma divisi oggi su come e con chi cooperare per proteggerli.  

 

A Palmira  
Il casus belli risale al 10 dicembre scorso, giorno del ritorno dell’Isis a Palmira precedentemente liberata e celebrata dall’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, quando a Damasco s’incontrano una ventina di specialisti di vari paesi per ragionare insieme sulle sorti del patrimonio archeologico siriano. Damasco significa Bashar al Assad e per diversi accademici, che pure avevano lavorato sotto di lui prima del 2011, la partecipazione dei colleghi equivale a un «deplorevole» sostegno politico al suo regime nel momento in cui, dopo 5 anni di bombardamenti seguiti alla inizialmente pacifica richiesta di riforme, sta sferrando l’ultimo decisivo e cruentissimo assalto alla Aleppo ribelle.  

 

«E’ impossibile far finta che non sia accaduto niente mentre infuria la guerra civile, dobbiamo attendere e rispettare la lotta del popolo siriano» ci spiega da Bruxelles l’archeologo Marc Lebeau, direttore europeo degli scavi di Tell Beydar e promotore di una lettera di fuoco contro il meeting di Damasco. Frequenta la Siria dal 1975, era lì anche quando nel 1982 Hafez al Assad radeva al suolo Hama. Adesso, giura, è diverso: «Chi si occupa del vicino Oriente ne conosce bene l’assenza di democrazia, ma ci sono molte scale di grigi nelle violazioni dei diritti umani. Di Hama abbiamo saputo solo molto tempo dopo, oggi invece vediamo in diretta il massacro dei civili. E soprattutto, diversamente da quanto accaduto a dicembre, gli archeologi di prima non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». 

 

L’implicita assimilazione con gli artisti graditi a Hitler nella Berlino degli Anni 30 ha scatenato l’indignazione dei luminari additati dal j’accuse di Lebeau, del mensile «L’Histoire», di Annie Sartre Fauriat e di altri studiosi firmatari della Carta Etica per l’Archeologia e l’Assiriologia del Vicino Oriente pubblicata martedì sul sito del Penn Cultural Heritage Center. Ora è guerra.  

 

Sul campo  
«Se è il momento giusto per l’archeologia? Si è già tardato troppo - tuona Paolo Matthiae, decano della Siria a cui si deve la scoperta di Ebla -. E’ grave che la comunità internazionale abbia isolato la Direzione generale delle antichità di Damasco, impeccabile e valorosa nell’aver salvato dai musei di tutto il paese 300 mila preziosi oggetti di cui ora, con tono neo-coloniale, la Francia si dice pronta a prendere la custodia». E i morti? I raid? Il professor Matthiae tiene al ruolo dello studioso: «Questa polemica avrà conseguenze serie perché ha portato a quella politicizzazione dell’archeologia che io ho sempre evitato sin dalla fondazione dell’Icaane, dove hanno collaborato iraniani e iracheni, israeliani e palestinesi, turchi e ciprioti. Noi studiosi del Vicino Oriente sappiamo bene quanto già gravato sia da logiche politiche e dovremmo prevenirne ulteriori». 

 

Eppure, replicano gli altri, parlare di Siria nel 2017 non può che essere politica. Perché, insiste Lebeau, «il 75% degli alti responsabili della Direzione generale delle antichità siriane ha lasciato il paese» e perché «stando all’Onu, l’80% delle vittime dipende dai bombardamenti lealisti ma anche la distruzione dei beni archeologici, da Aleppo ad Homs, è frutto dei raid». Sulla sua linea è la storica de La Sapienza e a lungo epigrafista a Ebla Maria Giovanna Biga, convinta che l’impegno per i civili preceda quello per le antichità, in Siria come in Yemen: «Molti miei studenti siriani hanno la famiglia là. Ci sono zone non bombardate tipo Tell Mozan, dov’è possibile curare il patrimonio archeologico. Ma altre sono sotto tiro, Aleppo prima e ora Idlib o Tell Mardikh. La Direzione generale delle antichità siriane dovrebbe chiedere al suo governo la fine dei raid. Non sono politicizzata, confidavo negli Assad, Asmaa aveva fatto molto per Ebla. Ma non hanno ascoltato il loro popolo».  

 

I puristi ribaltano su chi li giudica degli opportunisti alla corte di Assad e del suo sponsor Putin l’accusa di covare motivi personali o professionali. L’archeologo emerito Pierre Leriche era al famigerato incontro. Anzi, l’ha organizzato: «Sostenere che ci fosse dietro il governo di Damasco è assurdo, significa ricalcare la posizione propagandistica del governo francese sulla Siria. Dietro c’era solo chi lavora da sempre in Siria e vuole sostenere l’eroico direttore generale delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, riconosciuto dall’Unesco e acclamato anche a Strasburgo la settimana scorsa per aver salvato 13 mila pezzi solo a Deir Ezzor. L’organizzazione nasce in tandem con l’amministrazione delle antichità, tra i cui bravi funzionari ce ne sono anche di non in linea con il governo. La data poi, era stata decisa in estate quando nessuno poteva prevedere Aleppo».  

 

“Nessuna propaganda”  
Come Leriche anche lo scopritore di Urkesh, Giorgio Buccellati, era in Siria il 10 dicembre. E lo rivendica: «Anziché polemizzare bisognerebbe raccontare il sacrificio dei dipendenti delle antichità siriane per il patrimonio del loro paese, nella difesa del quale sono morti almeno in 15. Non c’erano ministri all’incontro di Damasco, è venuto solo un sottosegretario a darci il benvenuto. E la tv che aspettava fuori non ci ha fatto domande». Fine della storia? È improbabile, perché le domande difficili sulla Siria in agonia non finiranno presto.



(русский / english / italiano)

APPELLI INTERNAZIONALI DAL DONBASS

1) DOMENICA 5 MARZO GIORNATA INTERNAZIONALE DI MOBILITAZIONE
Manifestazioni a Venezia e Napoli
2) PETIZIONE per la condanna delle azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko
Ukraine, stop the bloody war in Donbass! / To the United Nations Human Rights Council
3) APPELLO ai leader mondiali perché pongano un freno al massacro che continua ai danni della popolazione civile del Donbass
Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire
4) VERSO LA CAROVANA ANTIFASCISTA 2017


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MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE CONTRO I CRIMINI DI POROSHENKO

5 marzo 2017
PRESIDIO A VENEZIA (stazione Santa Lucia [dalle ore 15:00]) 
PRESIDIO A NAPOLI (via Toledo [dalle ore 10:00])

Il 5 marzo, contemporaneamente, in tante piazze europee, si svolgerà un evento a carattere internazionale: saranno ricordati i bambini del Donbass, vittime della politica genocida ucraina. Per i crimini di Poroshenko contro l’umanità verrà inoltrata richiesta di deferimento al Tribunale Internazionale. Noi saremo a Venezia e a Napoli per dire NO al massacro dei civili in Donbass. 
Oggi come ieri il fascismo non passerà!
Coordinamento Ucraina Antifascista

Link eventi:
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/
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МЕЖДУНАРОДНАЯ МАНИФЕСТАЦИЯ ПРОТИВ ПРЕСТУПЛЕНИЙ ПОРОШЕНКО

Мероприятия пройдут в Венеции - ж-д вокзал Санта Лучия и в Неаполе - улица Толедо

5марта - на многих площадях Европы, ОДНОВРЕМЕННО пройдет мероприятие международного значения : будут помянуты дети Донбасса, павшие жертвами украинской политики геноцида. В Международный Трибунал будут направлены требования о рассмотрении всех противочеловечных преступлений, совершенных Порошенко и его правительством. 
Мы скажем наше НЕТ массовым убийствам гражданского населения Донбасса в Венеции и Неаполе. 
Сегодня, как и вчера - ФАШИЗМ НЕ ПРОЙДЕТ!  
Координационный центр Антифашистская Украина.
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/



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“Come abitante dell'Europa aggiungo la mia firma per associarmi alla denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte dell'Ucraina nel Donbass”. Così si esprimono i cittadini dell'Unione Europea, autori di una petizione online, segnalata dai compagni del Partito Comunista di Ucraina, che è indirizzata al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e che ha già raccolto migliaia di adesioni.
A supporto dell'iniziativa, è stato creato anche il progetto internet 101life.net, dove è contenuto l'elenco con i nomi e le fotografie degli oltre 100 bambini morti in conseguenza dell'aggressione nazista sostenuta da USA/UE/NATO, insieme al testo della petizione che condanna le azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko.
Questi cittadini dell'UE chiedono alla comunità internazionale di premere sulle autorità ufficiali di Kiev, perché interrompano i combattimenti nell'est dell'Ucraina e risolvano il problema del conflitto interno al paese mediante la ricerca del consenso nazionale. 


Pétition - Droits de l'homme / #101life: 

Ukraine, stop the bloody war in Donbass!

14/02/2017  

À l'attention : To the United Nations Human Rights Council

We, unindifferent inhabitants of Europe,

expressing deep concern about the situation of prolonged armed conflict, that has been going on for over 2 years in the Eastern part of Europe, sincerely wishing the senseless bloodshed to stop and peace, order in the European continent to be restored as soon as possible, guided by a desire to lend support in defense of unalienable rights and liberties of Donbass people, appear with the following address:

In 2014, as a response to a coup in Kyiv, the peaceful protest demonstrations were organized by millions of Ukrainian people calling for self-elected Kyiv authorities to comply with the laws of Ukraine. New leadership of Ukraine reacted to the actions of Ukrainian citizens by unleashing of an undeclared war – the so-called anti-terrorist operation. In a moment millions of civilians, who attempted to resist happening lawlessness, were deprived of their basic human’s civil and political rights: the right to life, freedom to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, right to freedom of movement, right to freedom of opinion and expression, and many other unalienable rights recognized by the world community.

Ukrainian propaganda machine systematically tries to represent in front of us people, who are not afraid to express their opinion about the coup in Kyiv in 2014, as the terrorists and militants. 

Ukrainian authorities meticulously conceal and hide everything that happens in Donbass from the international community, withheld information about the blockade and the shelling of schools and hospitals. The mass media of the European Union member States, in their turn, also don’t not provide the society with an objective picture of the events taking place in Donbass, thereby they connive the marginal nationalist groups, which are in power in Ukraine.

Only because of individuals of our fellow citizens, who are not afraid of sanctions by Ukraine and who personally visited the territory of Donbass, we have found out the information about all the adversities, which inhabitants of this region have been rubbing through for the last 2 years.


According to eyewitnesses, it is clear that Ukraine "state" is waging war against its own citizens: against children, the elderly, women - millions of civilians, who are going through the inhuman ordeals and excessive suffering without any opportunity to leave their houses, which come under fire; against people, whose rights must be protected by the civilized world community and primarily by our governments.

Now we know that economic and transport blockade of Donbass, alongside with the unceasing battle actions, leads to starvation and suffering of the socially vulnerable citizens, who have found themselves on the brink of survival. Having got no opportunity to produce and export products, industrial giants have to stop production, leaving thousands of workers without a livelihood. The social facilities, such as schools and hospitals, regularly come under the shelling. Erected by the Ukrainian authorities, borders and checkpoints factitiously have separated a part of the territory of the state, and these actions have led to the impossibility of the people of Donbass to be full citizens of their country. 

As a result of actions of the central government of Ukraine, thousands of families have been separated: children and their parents can not see one another; the marriages are breaking down, unable to weather the separation of loved ones. In addition, Kyiv authorities have stopped social payments and by this they have actually abandoned hundreds of thousands of pensioners, mothers, the disabled and others with state-guaranteed right to social security to their own fate.

Having learned about such outrages of Ukrainian authorities, we can no longer bear to watch our governments and international organizations stay inactive or providing passive assistance to the crimes of Ukrainian authorities. 

We can not remain silent, and we responsibly declare:
We are convinced that the people of Donetsk and Luhansk regions are not extremists, terrorists or criminals. These are people that require respect for fundamental human rights, which are based on the fundamental principles of humanism: right to life, right to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, for the observance of which we stand!

We believe that the war in Donbass can be stopped only by the peaceful means, 
through the negotiations and a national consensus, which is possible only with the active impartial assistance of European states and the entire world community.

We are certain that every person has the right to information, to freedom of speech and belief and, therefore, we demand that our governments stop the information blockade.

We call on Ukraine to stop the bloody war in Donbass, and the governments of our countries to lend active assistance for the withdrawal of the Ukrainian troops by the President Poroshenko P.A., for the peace negotiations and establishing a lasting peace in the territory of Donbass.

In accordance with Article 1 of the Charter of the United Nations, the actual organization is intended to achieve international cooperation in promoting and encouraging respect for human rights and fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language or religion. 
This is our common aim as people and citizens in the XXI century. Therefore, we can not ignore what is happening in close proximity to us and we urge the United Nations to pay attention to the flagrant violations of human rights in Ukraine.

I, an inhabitant of Europe, append the signature under this petition to show my commitment to the information stated in petition and join to the complaint to the United Nations Human Rights Council, regarding the human rights violations by Ukraine in Donbass.




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ORIG.: Совместное обращение председателей Народных Советов ДНР и ЛНР к мировым лидерам (ЯНВАРЬ 31, 2017) 
Председатели Народных Советов ДНР и ЛНР Денис Пушилин и Владимир Дегтяренко сообщили, что с сегодняшнего дня организован сбор подписей жителей Республик и дополнительных свидетельств действий Украины по усугублению гуманитарной катастрофы под их совместных обращением к мировым лидерам...


Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire al seguente APPELLO al Presidente della Federazione Russa Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Merkel perché pongano un freno al massacro contro la popolazione civile del Donbass da parte del regime neonazista ucraino e del suo esercito:


APPELLO URGENTE!

I Presidenti dei Consigli del Popolo, Denis #Pushilin e Vladimir #Degtjarenko, hanno riferito di aver organizzato un appello con raccolta di firme, tra gli abitanti delle Repubbliche Popolari, per denunciare la situazione gravissima nelle città del Donbass sottoposte ai bombardamenti dell’esercito ucraino. 

Situazione che rischia di diventare un vero e proprio disastro umanitario. 

Questo appello sarà consegnato al Presidente della Federazione Russa Vladimir #Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Donald #Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Angela #Merkel.

“Dichiarazione dei Presidenti dei Consigli Popolari della LNR e della DNR Vladimir Degtjarenko e Denis Pushilin”

Le autorità ucraine continuano il genocidio della popolazione del Donbass.
Gli attacchi e i bombardamenti continui sulla linea di contatto hanno danneggiato una serie di infrastrutture sociali, industriali e edifici residenziali. Alla fine del 2016, come risultato del sabotaggio da parte dell’esercito di Kiev, l’80% della LNR è stata lasciata senza energia elettrica. Si trova sotto la minaccia continua di sabotaggio del sistema idraulico e di distribuzione del gas per il riscaldamento.

Più volte ci sono stati tentativi ucraini di fermare il flusso di acqua dall'impianto di filtraggio occidentale (sito industriale "Carbon") di Petrovsky nel territorio della LNR. 

A causa di ciò circa 400.000 persone sono state colpite dalla carenza di acqua potabile nelle città di #Lugansk#Alchevsk#Stakhanov#Bryanka#Pervomaisk e di un certo numero di altri insediamenti. 

I distretti della DNR hanno dovuto collegarsi alla rete di alimentazione della città di Yasinovataya e molti insediamenti circostanti sono ancora senza acqua. 

Parte di Makeyevka è ancora a secco. La struttura di pompaggio dell'acqua dal fiume Kalmius è stata sottoposta al fuoco di artiglieria. Pervomaysk è scollegata dalla rete del gas. Il malfunzionamento di queste strutture mette in pericolo più di 500.000 residenti.
L’esercito ucraino ha deliberatamente scelto come obiettivi le strutture industriali civili la cui distruzione può provocare un disastro ecologico nella regione. 

Sotto costante fuoco di artiglieria si trova l’impianto di filtraggio di Donetsk in cui ci sono stoccati reagenti chimici pericolosi. Sono più di 500.000 le persone che vivono nei distretti di quest’area limitrofa al confine Ucraino. 

La situazione è simile, a causa di sostanze potenzialmente pericolose, nell’impianto di “fenolo” Dzerzhinsk vicino al villaggio Novgorod e nell'impianto di "stirene" vicino alla città di Gorlovka.
Inoltre l'Ucraina non ha fatto nulla per ripristinare il sistema bancario, a causa del quale non vi è alcuna possibilità di trasferimenti di denaro. I cittadini delle Repubbliche non sono dotati di pensioni e prestazioni sociali. Questa restrizione colpisce soprattutto i pensionati e le categorie più socialmente vulnerabili (circa il 30%) della popolazione.
Vi chiediamo di intervenire presso il Presidente dell’Ucraina, Poroshenko, per fermare le attività criminali contro il popolo del Donbass. 

Fate smettere di sparare contro i civili!

Fate smettere il blocco economico!

Questo deve essere fatto prima che sia troppo tardi! 

Ancora siamo il tempo a fermare il disastro ambientale e umanitario!

Stop a Poroshenko! Salvare la gente del Donbass!


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CAROVANA ANTIFASCISTA 2017
Il Primo Maggio di nuovo a Luganksk!

[La Banda Bassotti presenta l'iniziativa della Carovana Antifascista per il Donbass alla Rosa-Luxemburg-Konferenz di Berlino]
Берлин: в поддержку жителей Донбасса (17 Январь 2017.)

1.2.2017: USB e Banda Bassotti in collegamento video
Video conferenza dal Donbass: "sono a rischio le vite di 500 mila persone" (01/02/2017)
Parlamentare del Lugansk: "Puo' essere bombardato in queste ore un impianto che contiene al suo interno sostanze chimiche con possibili fuoriuscite di scorie nocive. Sono a rischio 500 mila cittadini che vivono nella zona"...
in collegamento con la federazione sindacale di Lugansk, Donbass
__ CAMPAGNA PER IL DONBASS __
Donbass : la guerra in europa con il nazifascismo che rialza la testa e uccide di nuovo (Unione Sindacale Di Base, 1.2.2017)
Da due giorni sono riprese le azioni di attacco delle bande naziste e delle truppe ucraine contro i territori delle repubbliche popolari del Donbass.
Sono state bombardate centrali elettriche e idriche che hanno lasciato senza acqua potabile, al buio e senza riscaldamento centinaia di migliaia di persone in presenza di temperature proibitive.
Questa mattina nella sede Usb è stato organizzato un collegamento in videoconferenza con il sindacato della repubblica Popolare di Lugansk . 
Usb, insieme al gruppo musicale della Banda Bassotti, lancia la Carovana di Solidarietà con il Popolo del Donbass che si batte per l'autodeterminazione del popolo contro il nazifascismo.
1° Maggio 2017 a Lugansk e Donetsk con una delegazione di Usb e la Banda Bassotti.

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BANDA BASSOTTI - La Brigata Internazionale - Official Trailer (rizomafilmproduzioni,14 ott 2016)
Trailer del documentario sulla Banda Bassotti con accenni al Donbass. Dal 23 Ottobre il film in anteprima su:
https://vimeo.com/ondemand/bandabassotti
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=tNmdUt4dwrY



(italiano / français)

Guerre mediatique

1) Les chauffards du bobard (Pierre Rimbert / LMD)
2) « Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles (P. Michel / Acrimed)


vedi anche:

La propaganda occidentale contro le fake news (La Tana dell'Orso, 23 feb 2017)

L’ennesima bufala dei “bombardamenti con il Cloro” (di Francesco Santoianni, 20.2.2017)
Brucia ancora ai media mainstream la liberazione di Aleppo. Che ora rispondono diffondendo la “notizia”– patrocinata da un Rapporto di Human Rights Watch (HRW) – del Cloro che, a dicembre, sarebbe stato sganciato dall’aviazione russa e siriana sui quartieri di  Aleppo presidiati dai “ribelli”...

Cosa ne sa Laura Boldrini della corretta informazione (Pandora TV, 10.2.2017)

Fake news. Su Internet sono gratis, su Repubblica le paghi (di Redazione Contropiano, 10 febbraio 2017)
... Nei giorni scorsi è circolato un rapporto di Amnesty International che, tra le altre cose, accusava Assad di aver fatto impiccare almeno 13.000 prigionieri... Repubblica non sapeva proprio come "provare" anche fotograficamente una simile notizia ed è ricorsa a un metodo semplice quanto truffaldino: ha preso una foto utilizzata tre anni fa da un giornale russo...

Il sapore “orwelliano” di Decodex, il motore di ricerca di Le Monde (di Jacques Sapir, 9 febbraio 2017)
Il sito web del quotidiano Le Monde ha lanciato nei giorni scorsi, uno “strumento” chiamato “Decodex“, che dovrebbe consentire agli utenti dei diversi siti di discernere la verità dalla menzogna...


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Le MONDE diplomatique, janvier 2017, page 2

Les chauffards du bobard


Depuis la défaite de Mme Hillary Clinton à l’élection présidentielle, les chefferies éditoriales de New York, Londres ou Paris découvrent une effarante vérité : les médias mentent. Pas eux, bien sûr : les autres. Des journaux en ligne proches de la droite radicale américaine, d’obscurs blogs créés en Macédoine, des « trolls » qui publient à la pelle des fausses nouvelles (fake news) : la ministre de la justice aurait ordonné d’« effacer immédiatement tous les tatouages représentant le drapeau confédéré », le pape soutiendrait M. Donald Trump, Mme Clinton dirigerait un réseau pédophile basé dans l’arrière-salle de la pizzeria Comet Ping Pong à Washington... Ces boniments relayés par Facebook, Twitter et Google auraient altéré le jugement des esprits simples qui ne lisent pas chaque jour le New York Times.
Il n’en fallait pas davantage à la presse vertueuse pour entrer en résistance. « C’est une menace pour la pertinence et l’utilité même de notre profession, estime la reporter-vedette de Cable News Network (CNN) Christiane Amanpour le 22 novembre 2016. Le journalisme et la démocratie sont en danger de mort. » Un avis partagé par le New York Times, dont un éditorial-fleuve intitulé « Vérité et mensonges à l’ère Trump » (10 décembre 2016) incrimine les réseaux sociaux et déplore l’indifférence populaire à l’égard des informations fiables — cruelle ironie, la version numérique de ce texte était illustrée par une publicité pour un site de fake newsannonçant la mort de l’acteur Alec Baldwin. À en croire le Washington Post (1), l’épidémie de fausses nouvelles provient plutôt d’une « campagne de propagande sophistiquée » pilotée par la Russie ; mais son enquête repose sur des sources si peu fiables qu’elle est à son tour dénoncée comme un « cas chimiquement pur de “fake news” » par le journaliste Glenn Greenwald (The Intercept, 26 novembre 2016).
C’est entendu : avant l’entrée en campagne de M. Trump, la démocratie et la vérité triomphaient. Certes, les médias vivaient grâce à la publicité qui promet le bien-être aux buveurs de Coca-Cola, et relayaient les « actualités » fabriquées par des agences de communication. Mais les « fausses nouvelles » s’appelaient « informations », puisqu’elles étaient publiées de bonne foi par des journalistes professionnels.
Ceux qui trompaient la Terre entière en décembre 1989 avec les faux charniers de Timişoara, en Roumanie ; ceux qui diffusaient sans vérification, en octobre 1990, la fable des soldats irakiens détruisant des couveuses à la maternité de Koweït afin de préparer l’opinion à une intervention militaire ; ceux qui révélaient à la « une » du Monde (8 et 10 avril 1999) le plan « Fer à cheval » manigancé par les Serbes pour liquider les Kosovars — une invention des services secrets allemands destinée à légitimer les bombardements sur Belgrade. Sans oublier les éminences du New York Times, du Washington Post ou du Wall Street Journal qui relayèrent en 2003 les preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak pour ouvrir la voie à la guerre.
À présent, leur monopole de l’influence s’effrite, et ils fulminent : les poids lourds de la désinformation s’indignent que des chauffards du bobard roulent les lecteurs sans permis.

Pierre Rimbert


(1) Craig Timberg, « Russian propaganda effort helped spread “fake news” during election, experts say », The Washington Post, 24 novembre 2016.


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« Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles

PATRICK MICHEL, 24 Fév 2017


Apparu dans les années 2000 et remis au goût du jour dans les suites du Brexit puis de l’élection de Donald Trump, le concept a fini par s’imposer : nous vivrions actuellement dans l’ère de la « post-vérité », dans laquelle la vérité a perdu sa valeur de référence dans le débat public, au profit des croyances et des émotions suscitées ou encouragées par les fausses nouvelles devenues virales grâce aux réseaux sociaux. Sans doute la diffusion de fausses nouvelles est-elle une réalité, mais la façon dont certains journalistes des grands médias, et en particulier les cadres des rédactions, posent le problème, ne nous en apprend pas tant sur l’idée bancale de « post-vérité » que sur les croyances de ces mêmes journalistes et les points aveugles de la conception du rôle qu’ils jouent dans les événements politiques en général, et dans la situation actuelle en particulier.


Concepts flous, utilisations orientées

L’expression « post-vérité » (post-truth politics en version originale), apparue dès les années 2000 [1] connaît actuellement une deuxième vie, tellement riche qu’elle a été désignée « mot de l’année 2016 » par le dictionnaire Oxford. C’est Katharine Viner, rédactrice en chef « Informations et Médias » du quotidien britannique The Guardian, qui l’a remis au goût du jour, en l’actualisant, dans un éditorial du 12 juillet 2016. Au lendemain du Brexit, cette journaliste spécialiste des questions médiatiques donne ainsi un nouveau cadre à l’expression : les électeurs, trompés par de fausses nouvelles (fake news), ont voté pour le Brexit alors même que les médias favorables au maintien de la Grande-Bretagne dans l’Union européenne leur exposaient à longueur de colonnes et d’émissions les faits qui auraient dû les convaincre de voter « remain ».

Avoir la vérité de son côté ne suffit plus, nous dit-on, à persuader les électeurs, davantage enclins à suivre celles et ceux qui font appel à leurs émotions et à leurs croyances personnelles [2].

Cette utilisation de l’expression est celle qu’on retrouve depuis dans la grande majorité des médias dominants, avec une fréquence accrue après les élections « surprises » de Donald Trump aux États-Unis, et de François Fillon puis Benoît Hamon aux primaires de leurs camps respectifs en France. Chaque défaite électorale de l’option préférentielle des médias dominants (Hillary Clinton, Alain Juppé [3], Manuel Valls [4]) semble alors confirmer le diagnostic.

Dans un dossier consacré au sujet, un article de Libération résume le lien présumé (auquel son auteure ne semble pas souscrire complètement) entre fausses informations, crédulité du public et résultats électoraux : « Les médias dits traditionnels vérifient, contredisent, rétablissent les faits. Pour quels effets ? Après le Brexit, Trump est élu… Un faux tweet fait-il une vraie élection ? Mal informés voire désinformés, les électeurs voteraient pour Donald Trump ou Marine Le Pen. »

L’auteure de cet article est l’une des rares à prendre la précaution du conditionnel pour exposer cette théorie. Or celle-ci, reprise au moins implicitement dans nombre de contributions médiatiques au sujet de la « post-vérité » [5], souffre d’un point aveugle important : la réalité d’un changement de la crédulité du public est pour le moins mal étayée. En effet, on ne peut qu’être curieux de savoir ce qui a bien pu modifier à ce point le rapport que le public entretient avec la vérité. Pour se limiter à la question des élections, on pourrait se demander lesquelles ont été remportées par des candidats faisant campagne autour de faits (forcément vrais), et lesquelles ont été remportées par ceux qui auraient fait appel à l’émotion et à la croyance (forcément irrationnelles). Mais ces questions ne sont jamais posées sérieusement. Tout au plus peut-on apprendre que l’émergence de nouveaux moyens de diffusion de l’information a augmenté le nombre de personnes exposées à des fausses nouvelles. Ce qui conduit logiquement à l’idée que les réseaux sociaux doivent être contrôlés, ou au moins régulés [6].

 

Fausses nouvelles, fabrications ou mauvais journalisme

Les esprits mal tournés, et ceux disposant d’un peu de mémoire et de quelques archives, feront également remarquer que la diffusion de fausses nouvelles n’est pas apparue avec la création des réseaux sociaux : si les médias dits traditionnels vérifient, contredisent et rétablissent les faits, il ne fait aucun doute qu’il leur arrive également de diffuser des mensonges, et plus fréquemment encore des informations biaisées ou tronquées. C’est ce que rappelle l’article du Monde Diplomatique dans lequel Pierre Rimbert liste les principales fabrications médiatiques sur les questions internationales des trente dernières années, des faux charniers de Timişoara aux preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak. C’est ce que nous a rappelé récemment l’affaire de la fillette sauvée par des CRS dans une voiture en feu à Bobigny : une information diffusée par la préfecture et reprise sans vérification (et sans conditionnel) par, entre autres, Le ParisienLe Journal du dimanche ou encore Valeurs actuelles, alors qu’il a rapidement été établi que c’était un jeune manifestant qui avait sorti la fillette de la voiture, et que cette dernière n’était pas encore en feu.

Pour reprendre le cas du Guardian, on aura noté que l’éditorial de Katharine Viner a suscité bien plus de reprise et de commentaires que l’article du journaliste Glenn Greenwald qui dénonçait la falsification d’une interview de Julian Assange par le quotidien britannique. Le même Greenwald, ancien journaliste du Guardian à l’origine des premières publications de « l’affaire » Edward Snowden et aujourd’hui directeur du site d’information The Intercept, exposait aussi récemment deux autres fabrications parues dans le quotidien américain The Washington Post, grand pourfendeur de la post-vérité et des « fake news », qui dispute la place de « quotidien de référence » outre-Atlantique au New York Times [7]. Greenwald relevait également que les articles dans lesquels apparaissent ces fabrications sont très profitables au journal qui les publie puisqu’ils génèrent beaucoup de trafic sur son site. Surprise : la course à l’audience et aux publications spectaculaires pourrait donc être à l’origine de la diffusion de fausses nouvelles, y compris au sein des médias traditionnels… Quant aux correctifs ajoutés après coup, qui reconnaissent la fausseté des informations centrales des articles originaux, ils n’ont pas été relayés par les journalistes du « Post » sur leur compte Twitter, pas plus que leurs tweets diffusant les articles originaux n’ont été supprimés.

En France aussi, il arrive que des journalistes professionnels diffusent de fausses informations : par exemple sur les circonstances de la mort d’Adama Traoré ou les prétendus mensonges d’une interne en médecine critiquant la ministre de la Santé. Ou lorsque l’AFP reprend les fausses informations du Washington Post dans une dépêche qui donnera lieu à plusieurs articles, dont celui du Monde, qui lui-même sera par la suite corrigé discrètement [8].

Mais, comme le note Greenwald, ceux qui distinguent la catégorie de « fake news » de celle de « mauvais articles » le font à dessein. Dans le lexique de la rubrique « Les Décodeurs » du Monde, déjà cité plus haut, une « fake news » est ainsi un « faux prenant l’apparence d’un article de presse ». Cette distinction fondée sur l’intentionnalité, souvent difficile à déterminer, de la personne qui produit l’information, permet surtout d’immuniser par avance le journalisme professionnel qui pourrait ainsi être à l’origine de mauvais articles, mais jamais ou très rarement de « fake news ».

Quoi qu’il en soit, il incombe aux tenants de la notion de « post-vérité » de répondre aux questions suivantes : pourquoi les fabrications des médias traditionnels n’ont-elles pas présenté dans le passé, et ne présentent-elles pas aujourd’hui le même type de menace que les « fake news » dont on s’inquiète tant ? Et comment expliquer que le public, autrefois rationnel et raisonnable, soit devenu aussi hermétique aux faits, vérifications et explications fournis par les médias traditionnels ? L’explication qui prend uniquement en compte le rôle de diffusion des réseaux sociaux semble un peu courte, a fortiori si l’on s’intéresse aux audiences massives de certaines émissions d’information (environ 8 millions de téléspectateurs combinés chaque soir pour les journaux télévisés de 20 heures de TF1 et France 2), ou que l’on remarque le poids croissant des productions de médias mainstream dans les contenus partagés sur Facebook ou Twitter. Notons ici que, selon l’ACPM, les cinq sites d’information les plus consultés en France étaient, en mai 2016, LeMonde.fr, LeFigaro.fr, 20minutes.fr, LeParisien.fr et Bfmtv.com [9]. Soit une écrasante domination des médias « traditionnels »…

 

Derrière la « post-vérité » : une conception particulière du rôle du journaliste

À bien y regarder, l’ère de la « post-vérité » ne se singularise donc pas essentiellement par une attitude radicalement différente du public par rapport à la vérité (qui reste à démontrer), mais bien par la perception par les journalistes que l’opinion ne les suit plus. On pourrait même donner une assez bonne définition de l’ère de la « post-vérité » comme période au cours de laquelle les électeurs votent contre les options électorales soutenues par la majorité des grands médias. Et ce n’est pas un hasard si une grande partie des articles [10] traitant de « fake news » ou de « post-vérité » font un lien direct avec les événements électoraux récents, preuves douloureuses, administrées à plusieurs reprises en 2016, que les médias ne font pas l’élection, en tout cas certainement pas tout seuls [11].

Ce qui semble poindre derrière l’idée de la disparition de la vérité comme valeur référence du combat politique est une certaine angoisse devant l’impossibilité pour certains journalistes de remplir le rôle qu’ils semblent s’assigner : permettre aux électeurs de voter correctement. Il est donc naturel que Céline Pigale, directrice de la rédaction de BFM-TV, résume ainsi les enjeux [12] : « Il faut rétablir, il faut obtenir que les gens nous croient. » Ce que l’on peut traduire ainsi : « Lorsque les citoyens-électeurs ne nous écoutent pas, ils votent n’importe comment ; il est donc impératif qu’ils nous écoutent et nous croient à nouveau. »

Cette conception du rôle du journalisme comme responsable de la certification des faits pertinents, mais aussi de leurs interprétations acceptables, est celle qui fait tenir aux éditorialistes leurs sempiternels discours sur le « réalisme », « le pragmatisme », l’inquiétante « montée des populisme », etc. C’est cette conception qui était la cible de l’article de Frédéric Lordon que nous avions recensé : si les médias professionnels ont une responsabilité dans les évolutions politiques des dernières décennies, c’est bien celle d’avoir, au nom d’un rôle prescriptif rarement revendiqué mais néanmoins assumé, marginalisé avec beaucoup de constance et d’application un certain nombre d’options politiques qui sortent du « cercle de la raison », et d’avoir rendu une immense partie de l’espace médiatique impraticable pour les tenants de ces options [13].

 

Une crise de confiance : mais confiance en qui ?

Or les options admises semblent intéresser un public de moins en moins nombreux, mais pour des raisons qui ne sont pas fondamentalement liées à leur traitement médiatique ou à celui de leurs concurrentes exclues. Et l’on est frappé de voir la victoire de Donald Trump analysée principalement comme un échec des médias qui avaient pris parti pour son adversaire, et qui n’avaient pas su prédire le résultat de l’élection en raison d’une déconnexion d’avec une large part des électeurs américains : cette analyse, modèle d’auto-centrisme aveuglé, néglige à peu près tous les facteurs politiques, économiques et sociaux qui ont pu pousser les électeurs à voter pour le candidat républicain – aussi bien les aspects de son programme et de son positionnement politique qui ont pu trouver un écho auprès des électeurs, que ceux qui les ont rebutés dans le programme de son adversaire et dans le bilan de la présidence Obama qu’elle défendait. Autant d’éléments, régulièrement écartés des discussions « post-vérité » [14]. Mais il est vrai que la prise en compte de ces éléments pourraient amener à soulever des questions autrement plus fâcheuses : « Et si ces gens qui ne nous écoutent plus avaient en fait quelques bonnes raisons pour cela ? »

Et l’analyse autocentrée se poursuit par cette esquisse de solution : en reprenant contact avec les « vrais gens », avec la France (ou l’Amérique) « profonde », les médias restaureront leur crédibilité et la confiance que leur accorde le public. Malheureusement, il apparaît qu’un projet comme celui du Monde, qui annonce « une “task-force” de six à huit journalistes lancés à la rencontre de “la France de la colère et du rejet” » [15] a bien peu de chance d’atteindre cet objectif. La raison en est aussi simple que difficile à entendre de la part de journalistes qui, souvent généreux, prétendent « rétablir la confiance » à coup de faits et d’enquêtes : tant que la quasi-totalité des grands médias restera dans la sphère d’influence des pouvoirs politique et économique, les journalistes resteront souvent victimes, qu’ils le méritent ou non, du discrédit et de la contestation qui frappent les oligarchies économiques et le microcosme politique. Autrement dit : la défiance et la critique à l’égard des journalistes et des informations se nourrissent de raisons diverses et nombreuses qui sont également, voire essentiellement extra-médiatiques.

Sans doute notre association s’intéresse-t-elle surtout à la façon dont la discussion – thèmes possibles à aborder et opinions possibles à défendre – est fermement encadrée dans une grande partie de la production médiatique mainstream : « pragmatisme » et « réalisme » versus « populisme » et « utopie ». Mais nous tentons de ne pas nous laisser griser par notre enthousiasme : ce n’est pas l’efficacité grandissante de cette critique qui explique prioritairement la perte de crédit des médias dits professionnels. Il semble plutôt qu’après plusieurs décennies catastrophiques aux plans politique, social, économique et environnemental, les principaux pouvoirs suscitent de plus en plus de défiance, ce qui se répercute quasi mécaniquement sur les satellites médiatiques de ces pouvoirs.

 

Restaurer la confiance : l’énergie dispersée du désespoir

C’est assez dire que la capacité de restaurer leur crédit ne dépend pas des seuls médias. Sans doute, traquer les fausses informations, comme le font par exemple les « Décodeurs » du Monde, est-il utile, voire indispensable. Il ne s’agit alors que de rehausser le travail ordinaire des journalistes d’information : vérifier, recouper et, quand il le faut, corriger. Mais ce serait une illusion d’attribuer des vertus quasi miraculeuses à ces tentatives de reconquête.

Cela ne signifie pas que rien ne dépend du monde médiatique. Mais la capacité de faire revenir la confiance, et donc le public, en particulier pour la presse écrite qui continue de perdre des lecteurs à un rythme soutenu, repose notamment sur le développement de médias indépendants des pouvoirs économique et politique [16] et plus généralement d’une transformation démocratique de l’ensemble de l’espace médiatique : une transformation dont la nécessité est éludée par les journalistes et les chefferies éditoriales qui animent le débat médiatique sur la « post-vérité ».

Or, outre l’idée de la « reconnexion » au terrain, symbolisée par l’expérience militaro-journalistique de la « task-force » du Monde, on voit se diffuser la conviction que c’est en exposant les « fakes news » que les « fact-checkeurs » des médias dominants renverseront la vapeur. Là encore, et peut-être de façon encore plus visible, ces louables intentions révèlent le rôle que les chefs de rédaction assignent au journalisme : informer, certes, mais pour encadrer.

Tel est le rôle assigné au dispositif annoncé par Facebook en France, sur la base de ceux existant en Allemagne et aux USA, et rapporté dans un article des Échos : n’importe quel utilisateur du réseau social y trouvant un article relayant une information suspecte pourrait la signaler, et des journalistes soumettraient l’article à une vérification, puis y accoleraient si nécessaire un label « intox », qui diminuerait la visibilité de l’article sur le réseau social, ainsi qu’un article correctif. Les journalistes préposés à ce « fact-checking » ne seraient pas rémunérés par Facebook, mais par leur rédaction [17

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