Informazione


Guerra a cannonate

1) Le colombe armate dell’Europa (Manlio Dinucci su il manifesto, 21 febbraio 2017) 
2) Un voto che prepara la guerra (Giulietto Chiesa su SputnikNews, 20.02.2017)
3) A sinistra dirimente è la guerra (Tommaso Di Francesco su il manifesto, 19 febbraio 2017)
4) La NATO in marcia verso Est (Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda”)
5) Altro che obsoleta, la Nato con Mattis si allarga a sud con un «Hub» di guerra (Manlio Dinucci su il manifesto, 16 febbraio 2017) 
6) Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo (Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017)
7) Guantanamo (Cuba), 4-6 maggio 2017: SEMINARIO INTERNAZIONALE CONTRO LE BASI MILITARI STRANIERE


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TORCHBEARER OF THE WEST (Berlin calls to replace the US as the West's "torchbearer", GFP 2017/02/14)
In the run-up to the Munich Security Conference this weekend, leading German foreign policy experts are calling on the EU to reposition itself on the world stage, replacing the United States as the West's "torchbearer." Since Washington's change of government, the United States no longer "qualifies as the symbol of the West's political and moral leadership," according to Wolfgang Ischinger, Chair of the Munich Security Conference. It is therefore up to Europe "to make up for this loss." ... "We Europeans" could become an "impressive political and military power," Ischinger cajoled...


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L’arte della guerra
 
Le colombe armate dell’Europa 

Manlio Dinucci
  

Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali. 

A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero. 

Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi. 

Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia. 

Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner». 

Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa». 

L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva». 

I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca. 

Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. 

Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. 

A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».
 
(il manifesto, 21 febbraio 2017) 



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Un voto che prepara la guerra

20.02.2017
Giulietto Chiesa

“Nella mia qualità di Presidente sono guidato dalla volontà del mio popolo e indirò un referendum sulla questione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato”. Con queste parole Poroshenko annunciava, il 9 febbraio scorso, le intenzioni sue e dei suoi burattinai per “chiedere” il cerchio del colpo di stato che lo portò al potere a Kiev nel febbraio 2014.

La citazione testuale, nello strano silenzio di tutti i media occidentali, venne pubblicata dall'importante quotidiano tedesco Frankfurter allgemeine Zeitung. Ed era a corredo della notizia di un recente sondaggio d'opinione, secondo il quale il 54% degli ucraini sarebbe ora favorevole a un immediato ingresso nella Nato. Il condizionale è d'obbligo, ma la cifra potrebbe essere credibile se si tiene conto del martellamento propagandistico cui gli ucraini sono stati sottoposti negli ultimi tre anni da tutti i media del regime (cioè da tutti i media).
Il contenuto di un tale martellamento non è stato diverso, in sostanza, da quello subito dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi occidentali, e i suoi contenuti sono noti: la causa di tutti i mali dell'Ucraina, remoti, passati, presenti, è la Russia (inclusa l'Unione Sovietica); la Russia ha aggredito l'Ucraina e l'ha invasa; la Russia ha "annesso" con la forza la Crimea; la Russia ha preso il Donbass etc.
Se si tiene conto che l'ultimo sondaggio prima del colpo di stato a Kiev del 22 febbraio 2014, aveva detto che i favorevoli a un ingresso dell'Ucraina nella Nato erano soltanto il 16%, si può misurare l'efficacia di un tale martellamento. Del resto identico a quello cui sono stati sottoposti i cittadini di Estonia, Lettonia, Lituania, già membri della Nato e convinti in maggioranza di una cosa del tutto assurda e priva di elementi di supporto, secondo cui la Russia di Putin sarebbe in procinto di invaderli.
Ma il punto non è questo. Il punto è che il governo fantoccio di Kiev ha già ri-avviato la guerra contro le due repubbliche di Donetsk e di Lugansk, in plateale violazione degli accordi di Minsk 1 e 2, bombardando i centri abitati, moltiplicando gli attentati terroristici. Ultimi in ordine di tempo l'assassinio di Mikhail Tolstykh (Givi)comandante del Battaglione Somalia dell'esercito della DNR, quello del capo di Stato Maggiore dell'esercito popolare di Lugansk, colonnello Oleg Anashenko, e quello del colonnello Arsen Pavlov, delle forze armate del Donetsk, dello scorso 16 ottobre. A queste provocazioni terroristiche si aggiungono quelle, anch'esso sanguinose, sventate dai servizi russi, contro la Crimea.
Il proposito è chiaro ed è perfino pubblicamente e ripetutamente proclamato. Come ha detto recentemente il ministro di Kiev per le "regioni temporaneamente occupate", Jurij Grymciak, "noi riteniamo che nel prossimo futuro, un anno e mezzo all'incirca, noi ci riprenderemo i territori (del Donbass e della Crimea, ndr) quando il loro mantenimento si rivelerà troppo costoso per la Federazione Russa".
Sbalordisce il silenzio dell'Europa di fronte a queste dichiarazioni, che rivelano le intenzioni di Kiev di non rispettare, né ora né mai, gli accordi siglati a Minsk, che prevedono un negoziato preliminare con le Repubbliche che si sono proclamate indipendenti, e che escludono la legittimità di una ripresa delle azioni belliche nei loro confronti. Un silenzio che non solo protegge l'aggressione, ma che indica la totale irresponsabilità verso le conseguenze. E' evidente infatti che l'isteria artificialmente creata nei confronti della Russia, sommata a un voto di adesione alla Nato, creerebbe una miscela esplosiva non disinnescabile. Una offensiva ben preparata (e tacitamente approvata dalla Nato) contro la DNR e la LNR metterebbe la Russia nella situazione di dover decidere se lasciare massacrare i russi delle due repubbliche, oppure se reagire. Per non parlare della Crimea che, in quanto parte integrante della Federazione Russa, è impensabile possa essere abbandonata a un destino di tragedia.
A quel punto ogni azione del Cremlino, diversa dallo scenario preparato da Kiev e dagli europei occidentali verrebbe qualificata come "aggressione". Ma non più soltanto come aggressione della Russia contro l'Ucraina (fake news ripetute anche dai nostri media italiani) come, bensì come aggressione della Russia contro la Nato. La "logica" di questa concatenazione di eventi dovrebbe balzare agli occhi a qualunque persona responsabile. Fidarsi dei nazisti di Kiev e dei generali Stranamore che guidano la Nato è cosa insensata. Fidarsi della CIA, che ha organizzato il colpo di stato nazista a Kiev e che sta organizzando l'impeachment contro Trump (il quale a sua volta, ha idee assai confuse sulla gestione di questa crisi, tant'è vero che ha fatto dichiarare al suo portavoce l'augurio che la Russia restituisca la Crimea ai nazisti), significa far precipitare la situazione. Come dice il già citato Grymciak, i tempi sono brevi: un anno e mezzo-due.
Infatti Petro Poroshenko, proprio il 9 febbraio, annuncava l'inizio di una esercitazione militare senza precedenti in territorio ucraino, con la partecipazione di ingenti forze della Nato, segnatamente di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Canada. Decine di convogli militari, e di treni speciali sono in movimento in tutta l'Europa centrale: direzione Ucraina. Solo un cieco potrebbe non connettere i punti di questo disegno. L'America di Trump non mostra segni di rinsavimento rispetto a quella di Obama-Clinton. L'Unione Europea tiene bordone. C'è solo una cosa da fare: impedire l'ingresso dell'Ucraina nazista nella Nato. Sappiamo che il governo italiano non muoverà un dito in questa direzione. È dunque un compito del popolo e dei suoi rappresentanti ancora non avvelenati dalla manipolazione dei dementi che spingono verso la guerra. Gli ucraini possono votare quello che vogliono, assumendosene collettivamente la responsabilità. Ma l'Italia ha un voto dirimente per decidere se questa Ucraina può o non può entrare nella Nato. Occorre fare tutto il possibile per costringere il governo a opporre il proprio diniego. Non si tratta qui di uscire dalla Nato, si tratta di impedire che la Nato ci trascini in una guerra insensata e mostruosa, dove molti di noi moriranno. Poiché è di questo che stiamo parlando.


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A sinistra dirimente è la guerra

il manifesto, 19 febbraio 2017

di Tommaso Di Francesco
La Nato incrollabile. Il vice-presidente Usa Mike Pence in Europa a rassicurare sul rifondato Patto atlantico. Come dimenticare che la guerra è entrata nel dna della sinistra che si è fatta governo?
«Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te»: non sappiamo a chi attribuire questa massima ma certamente ha una attualità sconcertante. Parliamo del silenzio assordante e sempre più affluente sulla condizione della crisi mondiale che attraverso la guerra mostra il suo vero volto, internazionale quanto domestico.
Accade sotto i nostri occhi che, al di là degli annunci ondivaghi, teatrali quanto sprezzanti, alla fine la scelta del nuovo presidente di destra degli Stati uniti d’America Donald Trump sia quella di considerare l’Alleanza atlantica come baluardo «incrollabile».
Lo ha trasmesso ieri il vice-presidente Usa Mike Pence in visita in Europa dove è venuto a rassicurare sulla condivisione del rifondato Patto atlantico. Quello che ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia portandoli da decenni in tutte le guerre devastanti che l’Occidente ha consumato non solo in Medio Oriente e che si allarga a est sulla frontiera russa con truppe, sistemi d’arma, scudo antimissile che monta testate nucleari.
E prima lo aveva affermato due giorni fa il nuovo capo del Pentagono Jim Mattis, non solo ribadendo «amicizia incrollabile» ma chiedendo – bene accolto dagli alleati – un aumento della spesa per la difesa, del 2% del Pil, ai Paesi europei dell’Alleanza atlantica.
Così l’Italia che è «solo» all’1,1% del Pil in speseper la difesa, per un equivalente di 55 milioni di euro al giorno, potrà serenamente arrivare a circa 100 milioni di euro al giorno. Perché l’Unione europea, dalla Merkel alla Mogherini rispondono che sì, «la Nato va rafforzata» e certo anche «l’Ue e l’Onu». La Nato che resta istituzionalmente sotto comando militare dello Stato maggiore americano. Mentre Mike Pence l’Ue nemmeno la nomina.
Allora, vista la crisi drammatica dell’Unione europea che non a caso ha perso con la Brexit la sua fetta atlantica, forse è meglio riflettere. Perché al punto in cui siamo appare evidente che più atlantismo vuol dire solo meno europeismo. Infatti è la Nato che resta «incrollabile», che aumenta il suo bilancio, che si allarga a est, che riempie di basi il Vecchio continente, che si allunga a Sud. Mentre è in forse l’esistenza dell’Unione europea. Sullo sfondo c’è certo la crisi ucraina. Ma come dimenticare che nel 2013 sarebbe stata possibile una diversa soluzione di quella crisi, prima economica e poi politica, se su piazza Majdan fosse arrivata la Commissione di Bruxelles a trattare le condizioni della crisi economica simile a quella greca. Invece arrivarono il capo della Cia John Brennan, il vice presidente democratico Joe Biden e il repubblicano anti-trumpista McCain, a fare comizi e ad arringare folle per buona parte guidate dall’estrema destra xenofoba ucraina. Aprendo un precipizio, dall’impunita strage di Odessa, all’annesione russa della Crimea, alla guerra civile in Donbass. Un precipizio su cui la Nato ha soffiato e soffia con passione. A Est e a Sud. Come in Libia dove, alla fine del memorandum trattato con l’Italia, di fronte alle divisioni del paese e alla rottura con il generale Haftar, il «nostro» premier Sarraj, che non controlla neanche Tripoli, richiama in soccorso proprio la Nato. Lo stesso organismo militare che ha distrutto con i raid aerei il Paese nel marzo 2011.
La guerra è distruzione di vite umane e risorse, è seminagione di odio, è dominio-imperio degli spazi economici e finanziari con la violenza militare; è attivazione della asimmetrica (e strumentale) spirale terroristica. La fuga disperata di milioni di esseri umani che chiamiamo migranti è epocale perché corrisponde all’epoca delle guerre occidentali in Medio Oriente, che hanno distrutto tre stati, l’Iraq, la Libia e la Siria, fondamentali per gli equilibri mondiali; ed è epocale perché corrisponde alla rapina epocale, da parte delle multinazionali, delle ricchezze dell’immensa Africa dell’interno. Ora di fronte a chi fugge dalle guerre e dalla «miseria da rapina» l’Europa, nonostante le evidenti responsabilità, erige muri e militarizza i propri confini. Fino alla soluzione del blocco navale militare e alla pratica di esternalizzare l’accoglienza dei profughi a Paesi esperti in tortura e campi di concentramento. Ecco la nuova governance: la guerra e gli universi concentrazionari.
Nelle stanze domestiche, solo pochi giorni fa in Italia si è consumato un vero e proprio «golpe» da parte del governo Gentiloni (fotocopia di Renzi) che ha approvato un disegno di legge per implementare il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale». Di fatto si istituzionalizza la guerra con l’assegnare alle Forze armate missioni che stravolgono la Costituzione: gli «interessi vitali» del Paese (invece della patria, come da art.52 della Costituzione); il contributo alla difesa collettiva della Nato e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo; la gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento; e, dulcis in fundo, si affida alle Forze armate sul piano interno «la salvaguardia delle libere istituzioni…con compiti specifici in casi di straordinaria necessità e urgenza». Non si tratta di spalare la neve. Siamo alla istituzionalizzazione della «guerra umanitaria» che dai Balcani, all’Afghanistan – dove le truppe italiane sono nel contingente Nato in una inutile quanto sanguinosa guerra da 16 anni – fino all’Iraq e alla Libia non solo non hanno risolto le crisi internazionali ma le hanno aggravate.
Come dimenticare che la guerra sia entrata negli ultimi 25 anni prepotentemente nel dna della sinistra che si è fatta governo? Fino a diventare bipartisan? E come sorprendersi se una nuova destra nazional-populista cresca sui disastri sociali che la guerra e lo sfruttamento di risorse e ambiente hanno prodotto?
A sinistra dirimente è la guerra. È l’assunzione della parola d’ordine della pace costituente. Il rifiuto della guerra e la difesa dell’articolo 11 della costituzione non vanno in appendice alla consapevolezza individuale e collettiva, ma al primo posto. Non c’è alternativa se non si mobilita una nuova umanità contro lo stato di guerra delle cose presenti.
il manifesto, 19 febbraio 2017

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La NATO in marcia verso Est

17 Febbraio 2017
Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda” | da kprf.ru
Traduzione dal russo di Mauro Gemma

La creazione di quattro battaglioni multinazionali in Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia sono già stati pianificati per il 2017. La Germania assumerà il comando del battaglione della NATO in Lituania, gli Stati Uniti saranno al comando in Polonia, i britannici in Estonia e i canadesi in Lettonia.

La Lituania ha dato ufficialmente il benvenuto al primo battaglione militare internazionale della base avanzata della NATO. Alla cerimonia nella città di Rukla (distretto di Jonava) il presidente lituano, la bellicosa Grybauskaité ha evidenziato che i reparti internazionali opereranno come forza di deterrenza.

La dislocazione dei soldati della Bundeswehr sul territorio della Lituania, secondo la leadership locale, è un segnale di fiducia verso la Germania. Ma il parere della gente non importa a nessuno. E non c'è stato un referendum sulla presenza delle truppe straniere nel paese. E' in atto un'evidente violazione della Costituzione. E' ciò che ricordano le forze progressiste della sinistra nelle manifestazioni e nelle azioni di protesta.

Nella cittadina di Rukla sono già state rinnovate le caserme, i dormitori e le aree attrezzate in cui si suppone saranno collocati i container delle forze della NATO e le attrezzature militari. In seguito si prevede di trasformare tutto ciò in una moderna cittadella militare, eretta non lontano dalla capitale Vilnius.

Dal febbraio 2017 è iniziato il dispiegamento principale delle truppe straniere. E' previsto che tutte le unità del battaglione delle forze avanzate della NATO arriveranno in Lituania, in piena capacità operativa, entro la metà di giugno. Il battaglione potrà così prendere immediatamente parte all'esercitazione “Spada di ferro”.

Nel 2017-2018 nel battaglione serviranno militari di Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Croazia e Francia. La Germania, al comando del battaglione, partecipa con circa 600 soldati, mentre gli altri paesi ne forniranno tra 200 e 250. Ma in tutto, in Lituania, dovrebbero essere dislocati 1.200 uomini e la NATO si è detta disponibile ad aumentare il contingente delle sue forze avanzate.

I militari portano con loro un equipaggiamento militare pesante: 13 carri armati Leopard-2, 38 veicoli per la fanteria, artiglieria, forze di difesa aerea a corto raggio, blindati CV90, Boxer, Fennek, ecc.

La Lituania fornirà supporto al battaglione della NATO. Il ministero della Difesa del paese spenderà solo nel 2017 8 milioni di euro per il mantenimento e la formazione del contingente militare straniero.

Nel 2018 la spesa per la difesa della Lituania raggiungerà il 2% del PIL, vale a dire circa 1 miliardo di euro. I leader dei partiti politici parlamentari si sono accordati di aumentare fino al 2,5% del PIL, entro il 2020, le spese per la difesa. E perché no, anche per la guerra? Nell'agosto dello scorso anno è stato firmato con la Germania un accordo per l'acquisto di BMP Boxer per un ammontare di 386 milioni di euro: è il più grande contratto nell'intera storia dell'esercito lituano. Le forze armate lituane acquistano anche obici tedeschi semoventi, autocarri, e i soldati da molti anni utilizzano fucili automatici G-36.

I propagandisti della NATO sono convinti che le unità militari dell'alleanza sul fianco est saranno in grado di “evitare il conflitto, frenando il potenziale aggressore”. Ma la Russia ha ripetutamente dichiarato di non avere alcuna ambizione territoriale nella regione del Mar Baltico, e che sono le forze dell'Alleanza a costituire una minaccia alla sicurezza della Russia.

“Siate vigili!”, esclamò negli ultimi istanti della sua vita l'antifascista ceco Julius Fučík. Non è meno vero anche nei nostri giorni quando l'occupazione strisciante sta inghiottendo i paesi dell'Europa orientale.


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Altro che obsoleta, la Nato con Mattis 
si allarga a sud con un «Hub» di guerra 

Manlio Dinucci
  

Alla riunione del Consiglio Nord Atlantico, apertasi ieri a Bruxelles, la ministra Pinotti e gli altri ministri europei della Difesa hanno tirato un sospiro di sollievo: la Nato non è «obsoleta», come aveva detto il presidente Trump. Nella sua prima dichiarazione ufficiale ieri a Bruxelles, il nuovo segretario statunitense alla Difesa, Jim Mattis, ha assicurato che la Nato resta «la base fondamentale per gli Stati uniti». 

È «l’alleanza militare che nella storia ha avuto il maggior successo», ha detto ai giornalisti mentre era in volo per Bruxelles, portando come prova dell’impegno statunitense nella Alleanza il fatto che l’unico comando Nato con quartier generale negli Stati uniti è quello del Comandante supremo alleato per la trasformazione (Sact), carica già ricoperta dallo stesso Mattis. Il Sact, responsabile del Comitato militare (la più alta autorità militare della Nato), «promuove e controlla la continua trasformazione delle forze e capacità della Alleanza». 

Negli ultimi 20 anni, ha sottolineato Mattis, la Nato si è trasformata (ha infatti inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Urss e tre della ex Jugoslavia), ma «deve continuare a trasformarsi per adattarsi a ciò che è avvenuto nel 2014, anno di svolta in cui le nostre speranze di una qualche partnership con la Russia si sono dimostrate infruttuose». Occorre per questo  «essere certi che il legame transatlantico resti forte». 

A riprova di ciò, il segretario generale della Nato Stoltenberg, nella sua dichiarazione congiunta con il segretario Mattis, ha confermato ieri che «truppe ed equipaggiamenti Usa stanno arrivando in Polonia e nei paesi baltici, dimostrando chiaramente la determinazione degli Stati uniti di stare a fianco dell’Europa in questi tempi travagliati».

Sotto comando degli Stati uniti (cui spetta la carica del Comandante supremo alleato in Europa), la Nato continua continua ad allargarsi ad Est, a rafforzare lo schieramento sul fronte orientale in funzione anti-Russia, nonostante le dichiarate intenzioni del presidente Trump di aprire un negoziato con Mosca. 

Allo stesso tempo, la Nato potenzia il fronte meridionale con nuovi dispositivi militari. «Oggi decideremo di costituire un nuovo Hub per il Sud presso il nostro Comando della forza congiunta a Napoli», ha annunciato Stoltenberg, sottolineando che «questo ci permetterà di valutare e affrontare le minacce provenienti dalla regione, a complemento del lavoro svolto dalla nostra nuova Divisione di intelligence costituita qui al quartier generale Nato».

Con grande soddisfazione della ministra  Pinotti, aumenta l’importanza dell’Italia in quella che Stoltenberg, aprendo il Consiglio Nord Atlantico, ha definito «proiezione di stabilità oltre i nostri confini». Il nuovo «Hub per il Sud», che verrà realizzato a Napoli, costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali in una «regione» dai contorni indefiniti, comprendente Nordafrica e Medioriente ma anche aree al di là di queste. È disponibile per tali operazioni la «Forza di risposta» della Nato, aumentata a 40mila uomini, in particolare la sua  «Forza di punta ad altissima prontezza operativa», che può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento». 

Il nuovo «Hub per il Sud», realizzato presso il Comando della forza congiunta alleata con quartier generale a Lago Patria (Napoli), sarà agli ordini dell’agguerrita ammiraglia statunitense Michelle Howard che, oltre ad essere a capo del Comando Nato, è comandante delle Forze navali Usa per l’Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa. Quindi anche il nuovo «Hub per il Sud» rientrerà nella catena di comando del Pentagono.

Tutto questo costa. Mattis ha ribadito la richiesta perentoria che tutti gli alleati europei portino la spesa per la «difesa» ad almeno il 2% del Pil. Solo cinque paesi Nato hanno raggiunto o superato tale livello: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. 

L’Italia è indietro con «appena» l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: secondo i dati ufficiali Nato, la spesa italiana per la «difesa» è aumentata nel 2015-2016 da 17.642 a 19.980 milioni di euro, equivalenti in media a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende le missioni militari all’estero, finanziate con un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze, né il costo di importanti armamenti finanziati anche dalla Legge di stabilità. 

Stoltenberg, felice, annuncia che finalmente la Nato «ha voltato pagina», accrescendo la spesa militare nel 2015-2016 del 3,8% in termini reali, ossia di circa 10 miliardi di dollari. La ministra Pinotti è fiduciosa che l’Italia arriverà al 2%, ossia a spendere 100 milioni di euro al giorno per la «difesa». 

Aumenterà la disoccupazione, ma avremo la soddisfazione di avere a Napoli il nuovo «Hub per il Sud».
 
(il manifesto, 16 febbraio 2017)


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http://contropiano.org/news/politica-news/2017/02/15/missioni-militari-15-miliardi-mostrare-muscoli-giro-mondo-088947

Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo


di Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017

Nel 2017 il contingente italiano di militari in Iraq sarà secondo solo a quello statunitense. A deciderlo è stato il governo Gentiloni, che ha deciso di aumentarlo fino a 1.497 militari, nell’ambito della “Coalizione dei volenterosi” per la lotta contro l'Isis. I militari italiani avranno anche compiti di ‘force protection’ nell’area di Mosul, in particolare per quanto riguarda la diga, appaltata alla societa’ Trevi. Lo stanziamento previsto per il 2017 e’ di 300,7 milioni. Il contingente militare in Iraq supera quello ancora operativo in Afghanistan.

Ma non c'è solo l'Iraq, c'è anche la Libia dove è stata avviata l'operazione ‘Ippocrate’, intorno all’ospedale da campo di Misurata. Oltre al personale sanitario, ci saranno infatti dei militari con compiti di ‘Force protection’. In tutto saranno impiegati fino a 300 uomini e lo stanziamento per il 2017 e’ di 43,6 milioni. Per fronteggiare l’immigrazione clandestina e assistere la Guardia costiera libica, lo stanziamento e’ di ulteriori 3,6 milioni. Per proteggere il traffico mercantile e le piattaforme petrolifere antistanti la costa libica (operazione Mare sicuro), lo stanziamento e’ di 84 milioni con 700 uomini. Per l’operazione Sophia-Eunavformed contro gli scafisti nel Mediterraneo lo stanziamento è di 43,1 milioni per 585 uomini.

In questo modo le spese complessive dell'Italia per le missioni militari all’estero nel 2017, saliranno a 1,13 miliardi, ai quali vanno aggiunti 295 milioni per la cooperazione che affianca i militari nei teatri di guerra. Gli uomini impiegati nelle missioni militari all'estero saranno 7.459 militari e 167 agenti delle forze di polizia. 

Occorre poi tenere conto che il prossimo anno altri 140 militari partiranno per la Lettonia nell'ambito dello stanziamento di un contingente della Nato. Verrà inoltre rafforzata anche la presenza in altre operazioni in Europa, delle quali quella più numerosa vede impegnati 550 soldati italiani in Kosovo.

Enrico Piovesana, su Il Fatto del 30 gennaio, sottolinea anche il triplicare dello stanziamento (da 5 a 15 milioni) per le operazioni d’intelligence a supporto delle missioni condotte dagli agenti operativi dell’Agenzia di informazione e sicurezza esterna (Aise), attivi soprattutto in Libia, Iraq e Afghanistan. L’incremento è legato alla novità (introdotta un anno fa da Renzi) dell’impiego di assetti militari (forze speciali) a supporto delle operazioni d’intelligence per operazioni segrete.

Secondo l'Osservatorio sulle Spese Militari italiane, nel 2017 verranno spesi 1,28 miliardi di euro contro gli 1,19 miliardi del 2016. Soldi destinati a finanziare l’impiego di 7.600 uomini, 1.300 mezzi terrestri, 54 mezzi aerei e 13 navali in decine di missioni attive in 22 Paesi, nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. 

Da troppo tempo su tutto questo si assiste ad un assordante silenzio, sia in Parlamento che fuori. Sarà il caso che le realtà antimilitariste, antimperialiste, tornino a battere un colpo contro le missioni militari? E non è solo una questione di spese, sono la natura e gli obiettivi di queste missioni che dovrebbero inquietare. Soprattutto quando diventano la proiezione della politica dei fatti compiuti dai quali è sembra rognoso recedere.



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Seminario Internazionale contro le basi militari straniere (4-6 maggio 2017)

17 Febbraio 2017

L'invito del Consiglio Mondiale della Pace (CMP)

da cebrapaz.org.br – Traduzione di Marx21.it

Il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) ha lanciato un appello alla partecipazione al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, che si svolgerà a Guantanamo, Cuba, tra il 4 e il 6 maggio 2017. Oltre che dal CMP, l'importante evento è organizzato dal Movimento Cubano per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) e dall'Istituto Cubano di Amicizia con i Popoli. Tra i promotori vanno segnalati l'Organizzazione della Solidarietà ai Popoli di Asia, Africa e America Latina (OSPAAL), il Centro Martin Luther King Jr. e il Centro di Riflessione Oscar Arnulfo Romero. Anche tutte le entità antimperialiste che fanno parte del CMP promuovono la campagna globale contro le basi “avamposti dell'imperialismo” I contatti per le informazioni riguardanti la partecipazione all'evento sono indicati nel comunicato di MovPaz in cebrapaz.org.br.

Invito alla partecipazione al Seminario Internazionale per la Pace e contro le Basi Militari Straniere, a Guantanamo

All'inizio di quest'anno, sulla base dei nostri più recenti incontri e Assemblea, abbiamo nuovamente esaminato le sfide che i popoli di tutto il mondo affrontano nel rafforzamento della lotta antimperialista per la pace. Tra le sfide che continuano e si intensificano abbiamo messo in evidenza soprattutto la diffusione delle basi straniere al servizio dell'agenda imperialista degli Stati Uniti e delle altre potenze dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Per questa ragione il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) si unisce al Movimento per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) nell'invitare tutte le forze di giustizia e di pace, che difendono la sovranità delle nazioni e si oppongono alla logica della minaccia e della guerra imposta dall'imperialismo al pianeta, al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, tra il 4 e il 6 maggio 2017.

Il luogo in cui si svolgerà il seminario è profondamente simbolico: Guantanamo, Cuba, che ha parte del suo territorio occupata da una base navale degli USA da oltre un secolo. E' la base più antica del mondo, ancora sotto controllo statunitense contro la volontà espressa dal popolo cubano.

Rafforziamo, così, la nostra campagna globale contro le basi militari straniere, chiamando anche a una mobilitazione coordinata in vari paesi e in tutti i continenti, con azioni che esprimano in modo inequivocabile la nostra richiesta di smantellamento di questi avamposti dell'imperialismo, che violano la sovranità dei popoli e cercano di sottometterli in qualsiasi modo.

Ci opponiamo a tutte le forme di manifestazione della minaccia imperialista contro i popoli, di cui le basi militari straniere sono tra le principali. Dall'Africa all'America Latina, dalle Malvine al Giappone, chiediamo finalmente la chiusura delle basi militari imperialiste!

E' per questo che, ancora una volta, abbiamo invitato attivisti e organizzazioni della pace a mobilitarsi e a partecipare al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, denunciando queste postazioni imperialiste. Troviamoci a Guantanamo!

Socorro Gomes
Presidenta del Consiglio Mondiale della Pace





Prossime iniziative antifasciste

* Modena 19/2: FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
Forlì 20/2: NOI RICORDIAMO TUTTO… 
Trieste 22/2: GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Roma 24/2: GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA
Roma 3/3: DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA


=== Modena, domenica 19 febbraio 2017
alle ore 15.30 nella Sala Ulivi dell’Archivio Storico della Resistenza
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese



=== Forlì, lunedì 20 febbraio 2017
alle 18:30 presso la Sala Foro Boario, piazza Foro Boario 7
NOI RICORDIAMO TUTTO… Per una lettura storicamente corretta delle questioni nord-orientali
ne parliamo con Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
organizzano ANPI e UDU



=== Trieste, mercoledì 22 febbraio 2017
alle ore 17:00 in via Tarabochia 3, presso la sala di Rifondazione Comunista, primo piano
GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Intervengono:
Alessandra Kersevan, La criminalizzazione della ricerca storica;
Claudia Cernigoi, Chi nega cosa;
Sandi Volk, Chi ricorda la Repubblica nata dalla Resistenza



=== Roma, venerdì 24 febbraio 2017
alle ore 18.30 presso Baccelli d’Idee in via Orciano Pisano 9

(ex scuola Baccelli a Montecucco dietro l’AMA) 

l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sezione Trullo-Magliana “Franco Bartolini” di Roma, in occasione della festa del tesseramento 2017, presenterà il libro:

"GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44" di Davide Conti, Odradek 2017

Ne discutiamo con l’autore e storico Davide Conti, con il partigiano dei GAP di Roma Nando Cavaterra, e con lo scrittore ed editore della Red Star Press Cristiano Armati.

Sarà l’occasione per ribadire e ricordare perché la città di Roma merita una medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, di cui è ancora in attesa di assegnazione.
Vogliamo qui citare solo alcuni dati: duecentosettantuno giorni di occupazione nazista, migliaia di caduti civili e militari, quasi quattromila partigiani inquadrati nelle organizzazioni armate, centinaia di azioni di guerra e sabotaggio compiute quotidianamente. Questa è stata la Resistenza a Romauna guerriglia urbana di nove mesi organizzata dalle forze antifasciste e resa possibile dall’appoggio della popolazione civile.
 

Le drammatiche vicende della «Città Aperta», iniziate con i seicento caduti a Porta San Paolo e chiuse dalla strage di La Storta, furono caratterizzate da una guerra partigiana che rifiutò l’ordine nazista su Roma e fece della Resistenza armata la leva storica «costituente» in grado di conferire ai cittadini un nuovo protagonismo all’interno della sfera pubblica, facendo della guerriglia urbana una delle radici fondamentali della Repubblica.

All’interno del perimetro urbano della capitale, il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito d’azione, si dotarono di reparti armati che diedero vita ad un conflitto asimmetrico in grado di infliggere all’esercito nazista gravi danni strategici e pesanti perdite materiali.

In ogni zona della città, centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio vennero realizzate dai partigiani lungo tutti i nove mesi di occupazione, confliggendo apertamente contro l’ordine pubblico criminale dei nazifascisti gestito attraverso la pratica militare della «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti e deportazioni (carabinieri, ebrei, quartieri popolari), di stragi (Pietralata, Forte Bravetta, Fosse Ardeatine, La Storta) e di “camere di tortura” (via Tasso e le Pensioni Oltremare e Jaccarino).

Le otto zone in cui i tre partiti della sinistra del CLN divisero la capitale divennero campo di battaglia accidentato e pericoloso per nazisti e fascisti grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione che permise ai partigiani di ricevere protezione e collaborazione in tutti i quartieri della città e di combattere un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse.

 

Davide Conti, storico. È consulente dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica presso cui ha curato il riordino degli archivi personali dei membri dei GAP centrali Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini. Ha pubblicato: L’occupazione italiana dei Balcani (Odradek 2008); Alle radici del sindacato. La fondazione della Cgil e le carte del congresso costitutivo del 1906 (Ediesse 2010); Criminali di guerra italiani (Odradek 2011); L'anima nera della Repubblica. Storia del Msi, (Laterza 2013); La Resistenza di Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini dai GAP alle Missioni Alleate, (Senato della Repubblica 2016).

Nando Cavaterra, partigiano. Ex combattente della Resistenza romana nel quartiere di Centocelle, inquadrato nei Gap dell’ VIII zona. Attualmente è membro del Comitato Provinciale dell’ANPI di Roma. 

Cristiano Armati, scrittore ed editore. Impegnato nell’industria editoriale dal 1999, lavora per Coniglio Editore, Newton Compton, Castelvecchi e Perrone prima di tentare di assaltare il cielo con la casa editrice Red Star Press, che contribuisce a fondare nel 2012 e che vanta nel suo catalogo diversi libri dedicati alla Resistenza. Ha scritto fra gli altri i romanzi Rospi acidi e baci con la lingua L’amore che ho cercato, la narrativa non finzionale di Roma criminaleItalia criminaleCuori rossi La scintilla.


=== Roma, venerdì 3 marzo 2017 

alle ore 17:30 alla Casa della Memoria e della Storia, Via San Francesco di Sales 5


Presentazione del libro 

"DONBASS - i neri fili della memoria rimossa"

di Silvio Marconi


intervengono: Silvio Marconi, Giovanni Russo Spena, Davide Conti, Fabrizio De Sanctis
organizza: ANPI prov. Roma
scarica la locandina: 

Silvio Marconi 
DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA
Roma: Ed. Croce, 2016

"Donbass, i neri fili della memoria rimossa" vuole essere un contributo alla rottura di una operazione di rimozione storica che si compie non solo nel caso dell'Ucraina, ma più in generale su aspetti rilevanti di vicende europee la cui eredità è tutt'altro che estinta. Grazie alla "guerra fredda", agli interessi delle élites conservatrici occidentali, alle complicità fra mandanti ed esecutori dei crimini dei nazisti e dei loro collaborazionisti e settori degli apparati istituzionali occidentali post-1945, una coltre di silenzio e mistificazione è calata su molti aspetti di quei crimini, il che ha permesso scandalose impunità e riesumazioni di personaggi assurti ad eroi. È il problema dell'Ucraina, che i media e le cancellerie occidentali fanno finta di non vedere. Importante, poi, è il fatto che spezzando quella rimozione, risulta che il caso del Donbass e del nero filo che collega i neonazisti attuali all'opera contro le genti di quella terra e i collaborazionisti ucraini dei nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, riguarda direttamente noi Italiani: in quella guerra di 70 anni fa partecipammo all'aggressione nazifascista all'URSS e occupammo per un certo periodo proprio il Donbass. Introduzione di Giovanni Russo Spena.
http://www.edizionicroce.com/libro.asp?idlibro=733

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Donbass, i neri fili della memoria rimossa


di Silvio Marconi

Sono sempre stato convinto, condividendo in questo le idee di autorevoli storici come Le Goff, Braudel, ecc., che la falsificazione e mistificazione della Storia sia stata e sia uno degli strumenti essenziali per la realizzazione delle fondamenta di qualsiasi progetto di oppressione, di aggressione, di guerra, di etnocidio, di genocidio e che, conseguentemente, lo studio ed il disvelamento non solo della realtà storica ma dei processi di sua mistificazione, dei loro autori e dei loro scopi, rappresenti un elemento imprescindibile di qualsiasi battaglia contro quei progetti disumani, se non ci si vuole affidare alla sloganistica generica, al richiamo a semplici emozioni o alla demagogia.

Quando quella mistificazione si presenta non solo e non tanto sotto la veste della aperta falsificazione (che pure è sempre componente di tale processo) ma come rimozione voluta di aspetti “scomodi” della Storia e soprattutto di quella Storia che si ama presentare come “propria”, come fondante la “propria” identità, a cui abbeverarsi per forgiare miti e realtà, comportamenti collettivi e decisioni politiche, linee educative e tendenze mediatiche, paradossalmente il danno è maggiore e più profondo perché tende a dilatarsi nei decenni e talora nei secoli, pronto a farsi alimento di qualsiasi infamia sciovinista, militarista, razzista, revisionista, di qualsiasi demagogia mobilitante, di qualsiasi banalizzazione tesa a creare confusione voluta.

Il 2 maggio 2014, i neonazisti ucraini bruciarono vive almeno 45 persone nella Casa dei Sindacati di Odessa, mentre a Kiev, nuovi leaders affermatisi grazie a quegli eventi di Maidan (in realtà un vero golpe etero diretto da ambienti NATO) in cui tali forze neonaziste erano state determinanti e che venivano presentati ciecamente dai media italiani come “rivoluzione democratica”, avevano iniziato un processo che li avrebbe portati rapidamente ad integrare quei neonazisti nelle forze armate ucraine, a rispondere alle manifestazioni di chi si opponeva alla svolta di Maidan con tanks e bombardamenti, innescando una guerra civile, a distruggere i monumenti ai caduti nella lotta contro l’invasore nazifascista del 1941-1943, ad assumere esplicitamente come riferimenti mitico-eroici i collaborazionisti ucraini dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Era per me chiaro, proprio sulla base delle mie analisi sui processi di rimozione e falsificazione storica ( Banditi e banditori, Manni, Lecce, 2000; Reti mediterranee, Gamberetti, Roma, 2002; Il nemico che non c’è, Dell’Albero/COME, Milano, 2006), che quel laboratorio di neonazismo in cui si stava trasformando l’Ucraina, sotto gli auspici e con la complicità dell’intero Occidente, basava il suo agire ancora una volta su quei processi di rimozione e falsificazione storica e che al tempo stesso si doveva non solo all’azione di media embedded e di settori politici UE ma anche all’azione pluridecennale di processi appartenenti a quella categoria il fatto che tale laboratorio di neonazismo era largamente sottovalutato in Italia.

Sottovalutato volutamente dagli ambienti più direttamente succubi rispetto al volere di NATO, UE, governi occidentali, ma anche, forse non volutamente, da buona parte delle forze antifasciste e democratiche, dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali antirazziste, da tanti che si proclamano “rivoluzionari” o anche “innovatori” nel modo di far politica. Dietro quella sottovalutazione grave, che oltre tutto lascia e lasciava spazio a confusioni “rosso-brune” (che mascherano il volto fascista dietro l’anti-americanismo) ed a simpatie esplicitamente dimostrate verso settori dei neonazisti di Kiev da parte di esponenti di partiti italiani che si dicono “democratici” (come il PD Pittella con “Pravy Sektor”) ci fosse anche stavolta una operazione di rimozione complessa, articolata e prolungata, iniziata non nel 2014, né al momento della dissoluzione dell’URSS, ma decenni fa. Una rimozione  di molteplici aspetti storici delle vicende ucraine in generale e del loro rapporto, ancor più nascosto, con la Storia stessa del nostro Paese.

La ricerca che dal maggio 2014 al febbraio 2016 ha portato infine alla pubblicazione del mio nuovo libro Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016) si è quindi incentrata su alcuni di quegli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati, per mettere a disposizione di chi non accetta i frutti orrendi del laboratorio neonazista ucraino e del suo ruolo nelle strategie dei circoli neoliberisti occidentali più radicali strumenti di approfondimento, e quindi di lotta, posto che smascherare quelle rimozioni, analizzare quegli elementi volutamente censurati rappresenta uno degli elementi imprescindibili per opporsi alle strategie ed alle tattiche di chi ne è l’autore e li usa per realizzare, fra l’altro, quel laboratorio neonazista ucraino e non solo (si pensi alla situazione nei Paesi Baltici, in Polonia, in Turchia, ecc.).

Se si vuole collocare la realtà attuale ucraina nel suo vero contesto, innanzi tutto storico prima ancora che geopolitico, ed in rapporto con una tendenza alla costruzione sistematica della “russofobia” (così ben analizzata da Guy Mettan nel suo recentissimo Russofobia. Mille anni di diffidenza; Sandro teti editore, Roma, 2016) va prima di tutto notato che gli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati relativi all’Ucraina e specificamente alla realtà del Donbass sono molti e riguardano anche ambiti storici antichi, come il fatto che in realtà Kiev, lungi dall’essere “cuore della patria ucraina” è il luogo dove nasce nel IX secolo d.C. …il primo stato proto-russo, la Rus’ di Kiev, appunto,  cristianizzata a cavallo fra X e XI secolo dal Principe Vladimir, che il simbolo scelto dai “nazionalisti” ucraini (detto “tridente”) è in realtà un girifalco, uccello che rappresentava lo stemma araldico della famiglia del suddetto Principe Vladimir della Rus’ di Kiev  e che quella Galizia culla del “nazionalismo ucraino”, del collaborazionismo coi nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e del neonazismo ucraino attuale non solo appartiene all’Ucraina solo grazie alle annessioni all’URSS realizzate dal tanto odiato Stalin, che la sottrasse alla Polonia (ricompensata con territori ad Ovest, ex-tedeschi, dopo la sconfitta del nazismo), non solo era abitata prevalentemente da Polacchi ed Ebrei prima delle stragi che nazisti e collaborazionisti ucraini vi compirono dal 1941, ma, nella sua fase di sudditanza all’Impero Austro-ungarico, prima, ed in quella di occupazione germanica durante la Prima Guerra Mondiale, poi, fu teatro della costruzione di quel “nazionalismo” ucraino (inizialmente chiamato “ruteno”, termine che in realtà nel Medioevo significava “della Rus”, ossia…”russo”!) che nacque come strumento della cultura e della politica germano-centrica contro lo zarismo russo e sulla base delle concezioni del nazionalismo-romanticismo germanico.

Sebbene, però, questi ed altri elementi relativi alle fasi storiche fra il Medioevo e la Prima Guerra Mondiale non vadano affatto trascurati ed anzi vadano ulteriormente portati alla luce per combattere la disinformazione ed il pressappochismo e siano citati nel libro, esso si concentra su altri aspetti, più recenti e significativamente proiettati sull’oggi. In primo luogo sul ruolo dell’Italia nelle politiche di conquista, rapina e massacro di impronta germanica in quella che da poco più di 150 anni si suole chiamare “Ucraina” come parte del progetto di espansione genocida tedesca ad Est. Ruolo che trova i suoi germi concettuali e concreti addirittura in politiche italiane largamente antecedenti alla presa stessa del potere in Germania da parte del nazismo, sia relative alle pratiche coloniali di annientamento e sfruttamento (in Eritrea, in Libia, poi in Etiopia e Somalia), sia a quelle di snazionalizzazione e deculturazione delle minoranze attuate nel SudTirolo e nelle aree slovene del Friuli-Venezia Giulia dal 1919, sia allo stabilirsi di strutture italiane finalizzate allo sfruttamento economico nei territori austroungarici dopo la vittoria italiana del 1918, inclusi appunto territori galiziani.

Ruolo che si intreccia con l’ideologia antisemita ed antirussa (prima ancora che antibolscevica), della Chiesa cattolica, che del resto dopo la frattura con quella ortodossa del 1054, è motore significativo di aggressioni alla Russia ed agli Ortodossi, fin da quando papa Gregorio VII (1073-1085) promuove l’azione del feudalesimo tedesco contro le genti russe in funzione di una loro auspicata conversione forzata al Cattolicesimo, fin da quando nel 1220, con questa scusa, i Cavalieri teutonici aggrediscono la terra russa (e vi vengono battuti nel 1242 dalle forze guidate da Aleksandr nevskji), fin da quando la Chiesa cattolica patrocina “crociate” dei cattolici polacco-lituani contro gli Ortodossi russi per tutto il XIII secolo o quando, nel 1596, il regno cattolico polacco-lituano impone alla Chiesa Ortodossa delle regioni galiziano-voliniane di sottomettersi all’autorità papale (nascita del fenomeno “uniate”) o nel 1612 si spinge ad attaccare la città di Mosca.

Una pratica ideologica che continua nei secoli seguenti, con l’appoggio di vescovi cattolici (fra cui quello di Tulle nel 1854 che dichiara relativamente agli Ortodossi russi: “vi sono uomini che rispondono al nome di cristiani più pericolosi per la Chiesa che i pagani stessi) e dell’arcivescovo di Parigi Sibourg (che la definisce “guerra contro l’eresia ortodossa”) alla Guerra di Crimea contro la Russia e si proietta fino alle “apparizioni di Fatima” in cui la madonna chiederebbe la “conversione della Russia” (mesi prima che avvenga la Rivoluzione bolscevica!!!) e prende vigore dal 1918 nella campagna contro il bolscevismo definito sì ateo ma spesso anche “giudeo” (identificazione che sarà cara ai nazisti….).

Ruolo che, però, trova la sua massima e piena realizzazione col e nel fascismo, ancora una volta sia sul piano teorico che pratico, fino a fare da base alla realtà della partecipazione italiana alla guerra hitleriana di aggressione all’URSS, con uno specifico ruolo proprio in Ucraina.

Su questo piano sono molti i miti da sfatare e lo si può fare, se solo lo si vuole, agevolmente, se si interconnettono a rete elementi contenuti in studi realizzati da Del Boca, Conti, Focardi, Oliva, Pisanty, Rochat e soprattutto Schlemmer e li si arricchiscono di analisi comparate (come si è cercato di fare nel mio testo) con frammenti di verità conservati in quel che resta nell’Archivio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano (al netto delle depredazioni angloamericane e soprattutto di un “provvidenziale” incendio di parte cospicua dei documenti avvenuto il 23 aprile 1945….), con contraddizioni palesi fra schegge di memoria contenute in testi diversi di reduci italiani della Campagna di Russia, a partire da quello del comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), generale Messe, e con altro materiale reperibile da varie fonti.

Il primo mito da sfatare è quello che l’Italia fu trascinata nella Campagna di Russia da Hitler. In realtà Hitler preferiva vedere l’Italia concentrarsi sul fronte africano e fu Mussolini che ripetutamente ed insistentemente chiese di poter far partecipare truppe italiane all’aggressione all’URSS, con due scopi dichiarati: avere un ruolo nella “crociata antibolscevica” ed ottenere territori e risorse da sfruttare. Scopi che già esplicitano che la partecipazione italiana aveva caratteristiche di fondo non diverse da quelle naziste, perché l’intervento italiano si configura sia come “guerra ideologica” che come “guerra di rapina” e porta con sé in entrambi gli aspetti la necessità evidente di praticare una strategia di massacro ed affama mento.

Il secondo mito da sfatare è quello di una massa di soldati ed ufficiali italiani gettati nella carneficina del fronte orientale senza convinzione e senza concezioni radicali; lettere, testimonianze, memorie confermano invece che l’ideologia nazista del Mein Kampf  (testo largamente diffuso negli ambienti colti e soprattutto giovanili italiani da cui proveniva la maggioranza degli ufficiali) era ampiamente nota ed accettata, che gerarchie ecclesiastiche e parroci di campagna “caricarono” i soldati di un senso sacrale della lotta contro il “bolscevismo ateo”, che l’antisemitismo diffuso dal 1938 attraverso una panoplia di strumenti mediatici aveva largamente attecchito e che erano condivise (anche dallo stesso Messe) concezioni care ai nazisti che ebbero traduzione pratica in ordini e pratiche di massacro, come quella che identificava “boslcevichi” ed “ebrei”, destinandoli alla eliminazione.

Il terzo mito da sfatare, collegato al secondo, è quello degli “Italiani brava gente”, ossia di una contrapposizione fra i “cattivi tedeschi” ed i “buoni italiani”, che in realtà è significativamente una estensione della menzogna tedesca che contrapponeva e per decenni ha contrapposto i “cattivi SS” ai “buoni soldati della Wehrmacht”. In realtà, certamente i gruppi speciali di sterminatori (einsatzgruppen) e le SS commisero sul fronte orientale e soprattutto in URSS crimini insuperabili per orrore e quantità, ma la Wehrmacht non fu affatto “innocente”, partecipando attivamente ai massacri di Ebrei, partigiani, comunisti, civili in genere, alle deportazioni e schiavizzazioni di massa, alle rapine e distruzioni sistematiche, all’annientamento per fame dei prigionieri di guerra. Le truppe italiane (e non solo i reparti di camicie nere come la Legione Tagliamento) non si resero responsabili di una quantità e qualità di crimini equiparabile a quelli tedeschi ma presentarli in massa come “brava gente” è una menzogna densa di conseguenze. I reparti italiani, che operarono in Russia sempre sotto il comando tedesco, erano reduci da crimini di guerra terribili in Etiopia (e in Libia prima ancora del fascismo!), in Grecia, in Albania e soprattutto in Yugoslavia; in URSS parteciparono ai rastrellamenti, crearono campi di concentramento per prigionieri di guerra (affamandoli), consegnarono ai tedeschi per destinarli a sicura morte partigiani, comunisti, Ebrei, civili rastrellati, praticarono distruzioni e rappresaglie e se non poterono rapinare su vasta scala (ed usare come programmato le risorse agricole ucraine per sfamare gli Italiani e migliaia di prigionieri russi per le miniere sarde) è solo perché i tedeschi non vollero spartire il bottino  e la rapina con gli Italiani e questi ultimi furono costretti a servirsi solo….dei pacchi da inviare a casa (volutamente aumentati di peso….).

Truppe, ufficiali italiani, perfino la Polizia Politica fascista erano a conoscenza dei crimini enormi che i nazisti commettevano, con l’appoggio dei collaborazionisti locali, ma non vi fu una reazione istituzionale di alcun tipo e si proseguì tranquillamente a cooperare con gli autori e garantire condizioni perché molti di quei crimini avvenissero.

Da tante lettere di semplici soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani impegnati sul fronte russo 8e specificamente, per tanti mesi, proprio in Ucraina) emerge entusismo nella partecipazione ad una “impresa” che viene vissuta come “crociata contro il bolscevismo ateo”, come “campagna per portare la superiore civiltà romana ai barbari delle steppe russe”, come “lotta alle sanguisughe giudee”.

Per non parlare della “cameratesca” complicità durante l’invasione nazifascista all’URSS fra reparti nazisti e reparti maggiormente ideologizzati delle truppe italiane, come quella X MAS che fu di stanza a Mariupol o della Legione Tagliamento, i cui superstiti dopo la ritirata dalla Russia formarono il nerbo dell’omonimo reparto repubblichino che si distinse dopo l’8 settembre 1943 nella repressione antipartigiana, nelle stragi in Italia.

L’altro aspetto affrontato nel libro è il ruolo dei collaborazionisti ucraini in rapporto sia coi Tedeschi che con gli Italiani. Anche qui ci sono miti da sfatare, tanto più gravi in quanto sono oggi rilanciati ufficialmente dalla giunta oligarco-fascista di Kiev, primo fra i quali il considerare tali collaborazionisti come “nazionalisti ucraini”. Erano invece tanto poco veri “nazionalisti” che non evitarono né di essere arruolati a migliaia come guardiani dei lager nazisti, operando nei centri polacchi di Sobibor, Treblinka, Majdanek, ecc. ma perfino nella Risiera di San Sabba a Trieste, né di combattere al servizio dei nazisti in aree che nulla avevano a che vedere con l’Ucraina, come la Slovacchia o l’Italia settentrionale.

Erano soprattutto autori di crimini in questo caso assolutamente equiparabili a quelli nazisti, sia in termini di crudeltà degli aguzzini che di stragi di massa di Ebrei, Polacchi (oltre 200.000 trucidati solo in Galizia e Volinia dai collaborazionisti ucraini), prigionieri sovietici, partigiani, civili sospettati di aiutarli, sia di rapina ai danni delle vittime e dei propri concittadini. Anche in questo caso, un aspetto volutamente dimenticato è che vi fu organica cooperazione di simili bande di criminali anche con le truppe italiane, in particolare proprio nel Donbass, visto che esso fu il teatro di impiego del CSIR nel 1941 (mentre quando gli Italiani estesero la partecipazione e crearono un’armata, l’ARMIR, nel 1942 essa venne schierata sul Don) e che Stalino (l’attuale Donetsk) era la sede del Comando Italiano, oltre che uno dei luoghi di deportazione ancora nel 1942-43 in lager per prigionieri di guerra sovietici gestiti da Italiani e che di stragi efferate di migliaia di civili compiute dai nazisti.

Si arriva perfino al paradosso che gli attestati di “benemerenza” da parte di criminali collaborazionisti ucraini verso ufficiali italiani vengono usati nel dopoguerra per inventare un rapporto positivo di alcuni di costoro (accusati dai Sovietici di crimini di guerra e mai processati in Italia) con l’insieme della popolazione locale, mentre si nascondono i propositi di ufficiali italiani (come il col. Piccinini) che propongono lo sgombero totale della popolazione da località del Donbass come Rykovo perché “infestata da bolscevichi”!

Ancora, alla fine della guerra, se tante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini dei nazisti, compresi i membri della famigerata XIV Divisione SS “Galizien”, riusciranno a sfuggire alla giusta punizione sovietica arrendendosi agli Angloamericani e verranno perfino fatti emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, ciò avviene con la complicità sia di esponenti anticomunisti come il generale polacco Anders (che certifica falsamente la cittadinanza polacca di tutti i membri di quella divisione), sia di ambienti vaticani e di conventi in territorio italiano. Saranno quei collaborazionisti che nella “diaspora”, per decenni, durante la Guerra Fredda, alleveranno figli e nipoti ai disvalori, ai simboli, ai riti del collaborazionismo, della russofobia, del nazismo, forniranno reclute alla rete di spie e sabotatori occidentali contro l’URSS che vedeva nella sua leadership l’ex-capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Gehlen, daranno vita, dopo la dissoluzione elstiniana dell’URSS, ai nuclei dei movimenti di destra radicale nell’Ucraina diventata indipendente ed i cui confini, tanto “sacri” per chi si definisce “nazionalista” e pratica lo sport della russofobia, includono territori che proprio l’URSS dell’aborrito Stalin aggregò all’Ucraina sottraendoli a Polonia, Slovacchia e Ungheria!

Solo se si ricostruisce questa trama storica, di cui si è dato in questa sede qualche cenno, si può, allora, comprendere cosa sta avvenendo in Ucraina in questi ultimi anni. Non è un caso se la NATO ha scelto l’Ucraina, ed in diversa misura Paesi Baltici in cui si negano i diritti civili a chi è discendente di Russi, si distruggono i monumenti antinazisti, si esaltano come eroi anche in questo caso i collaborazionisti dei nazisti (co-autori anche in quelle terre di stragi di Ebrei, Russi e prigionieri sovietici…), come laboratorio principale per riattivare su larga scala quella russofobia criminale che fu una delle molle non solo del fascismo, dell’hitlerismo, dei suoi collaborazionisti orientali (baltici, ucraini, croati, ecc.) e di tanti regimi fascisteggianti europei (da quello stesso polacco a quello ungherese, ad esempio) ma per decenni delle cosiddette “democrazie occidentali” pre-Seconda Guerra Mondiale, da quella britannica a quella statunitense.

Una russofobia che, come si è detto, affonda nella Storia, anch’essa, ben al di là dello stesso antibolscevismo e dello stesso atteggiamento della Chiesa cattolica ed ha esempi lampanti quali il disprezzo di Voltaire e quello di Napoleone per quelli che definiva assieme “tartari” e “barbari del Nord” e che si intreccia ovviamente, dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, con l’odio assoluto verso il Paese reo di aver portato a compimento la prima costruzione di un esperimento sociale non asservito alla logica del capitale occidentale.

A quella russofobia di sfondo, fa riscontro, dalla fase in cui fascismo e poi più ancora nazismo furono scelti dal capitale internazionale (inclusi settori di quello USA, come Ford) come strumenti di distruzione delle velleità di giustizia sociale redistributiva del proletariato europeo, appunto l’uso del nazifascismo come strumento estremo per imporre la volontà del capitale monopolistico, ieri, globalizzato, oggi, anche a costo di vedersi sfuggire di mano quegli strumenti esattamente come accade in altro modo e per altro verso con gli integralismi religiosi estremistici (alimentati in passato contro i nazionalismi laici e marxisteggianti o, ancora una volta, contro la vecchia URSS) e vederseli trasformare in soggetti autonomi capaci di mordere anche la mano di chi li ha allevati, come già avvenne negli anni ’30 proprio con fascismo e nazismo.

Se, quindi, in Ucraina come altrove (ma con le debite differenze da non sottovalutare) la rete dei fili neri della ragnatela dell’oppressione pseudo-nazionalista, sciovinista, fascista, intrisa di mistificazione storica, affonda le sue radici perfino in lontani passati proto-borghesi, come ci insegnava Gramsci parlando del Risorgimento italiano, dinanzi ad essa, ai ragni che la tessono, alle conseguenze nefaste che ne scaturiscono non ha senso domandarsi quale livello di affidabilità rivoluzionaria, quale dose di progettualità socialisteggiante, quale tasso di eredità classista abbiano le forze che ad essa si oppongono, fermo restando ogni rifiuto indispensabile di qualsiasi contaminazione “rosso-bruna”. Chi si opponeva ieri all’invasione ed alle rapine di Napoleone (anche quando era perfino più retrogrado dello stesso Napoleone, ma difendeva la sua terra), chi si è opposto all’orrore nazifascista (si trattasse di un liberale britannico convertitosi per necessità all’antifascismo o di un bolscevico russo convertitosi all’alleanza con i “capitalisti” inglesi per altrettanta necessità, di un ufficiale sovietico recuperato dal fondo di un gulag staliniano o di un ufficiale monarchico italiano pronto a non tradire i suoi compagni di lotta comunisti sotto le torture a Via Tasso, di un minatore del Donbass sabotatore della produzione asservita ai Tedeschi o di un resistente gaullista francese, ecc.), chi si oppone oggi ai nuovi laboratori in cui quell’orrore si vuole riprodurre (si tratti di un miliziano cosacco del Donbass o di un antifascista milanese, di un antinazista tedesco o di un comunista ucraino costretto alla illegalità, di un aderente all’ANPI di Roma o di un Polacco che scende in piazza contro il regime, di un Siriano che si batte contro l’ISIS foraggiata dal fascista Erdogan o di un pilota russo che lo appoggia, ecc.) e non si fa adescare da fascisti e razzisti, antisemiti e provocatori mascherati da “antiamericani” e perfino da “filoputiniani” fa storicamente parte della risposta necessaria a quella ragnatela: una rete del colore del sangue che affermava, afferma ed affermerà che la memoria non si deve rimuovere e la lotta prosegue, in forme sempre diverse, contro lo stesso orrore di sempre.

Silvio Marconi, 9 luglio 2016



(srpskohrvatski / italiano)

N.B. Tra le forze politiche comuniste esistenti nell'area jugoslava, il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) è quella che segue la tradizione "filosovietica", da cui la Jugoslavia di Tito si allontanò nel 1948, come è esplicitato al termine della intervista che riportiamo di seguito. Per una più ampia panoramica delle formazioni comuniste in Serbia e nelle altre repubbliche ex-federate rimandiamo alla nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/politica.htm

Isto pogledaj / guarda anche:

25 GODINA SKOJ-a Svečana Akademija
Svečana akademija povodom 25 godina od obnove SKOJ-a – http://www.skoj.org.rs/
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zTaXeiBJYjI

Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale / FSM) e candidato alle elezioni della presidenza della Serbia per la lista "IL LAVORATORE NON È MERCE", interviene di fronte alla platea dell'organizzazione giovanile del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia. Dietro di lui, tra le altre, la bandiera della RFSJ. L'iniziativa si è aperta con il canto dell'inno jugoslavo "Hej Slaveni":

Veselinović: Srbiju treba vratiti u vreme kada su radnici bili gospoda
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=KLb-cBt58yU
Svecana akademija SKOJA
VIDEO: https://www.facebook.com/joint.unionsserbianunity/videos/1221907344553401/

Веселиновић: Србију треба вратити у време када су радници били господа
REPORT: http://sloga.org.rs/veselinovic-srbiju-treba-vratiti-u-vreme-kada-su-radnici-bili-gospoda/

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www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 13-02-17 - n. 620

NKPJ: La nostra tradizione poggia sull'internazionalismo proletario

International Communist Press (ICP) | sol.org.tr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Speciale intervista della International Communist Press con Aleksandar Banjanac, Segretario Generale del Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ)

13/02/2017

ICP: Di recente assistiamo alla riproduzione di forme di nazionalismo serbo. Il Partito Radicale Serbo del criminale di guerra Vojislav Seselj ha ottenuto 22 seggi alle ultime elezioni parlamentari. Dall'altra parte, il governo della Serbia ha cercato di ripristinare l'onorabilità di collaboratori nazisti quali Milan Nedic. Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) ha avviato una serie di proteste per resistere a questi tentativi e per contrastare l'esistenza di organizzazioni fasciste nelle università. In che modo il vostro Partito intende continuare l'azione anti-nazionalista?

Aleksandar Banjanac: Dalla creazione del nostro Partito in poi, ci siamo sempre opposti a ogni forma di sciovinismo, fascismo e discriminazione.
In Serbia, così come nelle repubbliche post-jugoslave, il nazionalismo è stata l'ideologia che ha legittimato le classi dirigenti e gli obiettivi imperialisti. Questa idea ha diviso la classe operaia su base etnica, portandola a un crollo sociale e materiale. Inoltre, ha aperto la strada alla restaurazione dell'onorabilità di collaborazionisti nazisti e del revisionismo.
Noi cerchiamo sempre di disvelare e mostrare il terreno su cui attecchisce il nazionalismo. Abbiamo sostenuto la nostra posizione nelle proteste contro la restaurazione dell'onorabilità di nemici pubblici vissuti ai tempi della seconda guerra mondiale. Presentiamo questa posizione nel nostro programma di Partito, nei nostri comunicati, nelle discussioni pubbliche e nelle riunioni di partito.

ICP: Durante quest'anno si svolgeranno probabilmente in Serbia le elezioni presidenziali e forse quelle parlamentari. Quale sarà la posizione di NKPJ?

Aleksandar Banjanac: Il Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia mostrerà una posizione organizzata, presentando il presidente del sindacato "Sloga", compagno Željka Veselinović, come candidato. Sloga è l'unico sindacato affiliato alla Federazione sindacale mondiale, FSM-WFTU, in Serbia. Prima delle elezioni verrà presentato un programma elettorale articolato in dieci punti. Tra i nostri bersagli presi di mira nei dieci punti: le collaborazioni con il FMI, la Banca Mondiale, la UE e la NATO, così come le politiche di privatizzazione e le politiche nazionaliste. E' ancora prematuro parlare di elezioni parlamentari.
Il sistema elettorale della Serbia non consente parità di condizioni per i partecipanti. Senza una copertura finanziaria sufficiente, si incontrano problemi; grazie alla collaborazione con Sloga ci auguriamo di superare l'ostacolo.
Ci aspettiamo un salto di qualità in nome della classe operaia nelle elezioni e anche il creare delle forme organizzative più forti tra i nostri membri e alleati.

ICP: Pochi giorni fa, un treno che viaggiava sulla linea ferroviaria da poco ristabilita tra Belgrado e Mitrovica nel Kosovo, è stato fermato dai funzionari kosovari a causa dello slogan scritto sui convogli in 21 lingue: "Kosovo è Serbia", cosa che ha causato una nuova crisi politica. Quali sono le vostre previsioni sull'evoluzione del clima politico sul Kosovo?

AB: La "Repubblica del Kosovo" è una base NATO proprio nel centro dei Balcani. I discorsi sul "Kosovo indipendente" sono il risultato della guerra espansionista, di occupazione e di intervento contro la Repubblica Socialista della Jugoslavia da parte delle forze NATO nel 1999.
Allo stesso tempo, questo intervento significa l'occupazione del Kosovo e Metohija, che è una regione di importanza strategica. D'altra parte, i Balcani sono sotto il controllo delle forze Usa da così tanto tempo. Una delle più grandi basi americane in questa regione è "Bondstil", situata in Uroševca, Kosovo. Di recente sono emerse sulla stampa prove dell'esistenza di una prigione di guerra all'interno della base. In altre parole, possiamo parlare della Guantanamo europea. Inoltre, è previsto un nuovo aiuto militare da parte del governo di Trump in Kosovo.
Entrambi i governi di Kosovo e Belgrado sono asserviti alla NATO in egual misura. Il fatto del treno, orchestrato dal governo serbo, era pura propaganda pre-elettorale. Allo stesso tempo, vale come graduale riconoscimento del Kosovo da parte del governo, che è diretto dall'imperialismo occidentale. La situazione attuale può solo surriscaldare il nazionalismo serbo e quello albanese a discapito dei serbi in Kosovo. Queste attività non sono utili a nessuno, tranne che a loro. Si dimostrano le incapacità dei rispettivi governi.
L'occupazione imperialista deve volgere al termine. Sostenere la pace e la realizzazione della solidarietà tra i popoli albanesi e serbi non è utile alla NATO. Entrambe le parti sono vittime della NATO. I popoli dei Balcani saranno in grado di determinare il proprio futuro solo se i Balcani gli apparterranno.

ICP: La posizione della Russia in Ucraina ha portato la UE a levare delle sanzioni contro la Russia. Allo stesso tempo la Russia ha annunciato la realizzazione di un gasdotto turco, un progetto che include la Serbia nel suo percorso. Poco dopo, il presidente russo Vladimir Putin ha visitato Belgrado, con la rivista della parata militare congiunta degli eserciti russo e serbo. Il governo della Serbia è stato criticato di mostrare un eccesso di senso pratico nel processo di negoziazione in corso sul lato opposto, con l'UE. Qual è il vostro commento sulla posizione del governo serbo riguardo a queste relazioni?

AB: Sì, il governo della Serbia ha mostrato un atteggiamento "pragmatico", sostenendo le bande fasciste e l'illegittimo Presidente Poroshenko, mentre negoziava con la Russia. Anche l'Unione europea è stata criticata per non premere abbastanza sulla Serbia. Questa è chiaramente una prova del predominio della UE sul governo.
Subito dopo la visita di Putin a Belgrado e la parata militare, il governo è stato costretto a rendere una dichiarazione alla NATO, rendendo noti accordi coperti. Questi accordi forniscono una serie di priorità alla NATO in entrambi i campi militari e civili. In uno stato di guerra, dovremo dare il controllo delle nostre basi, ospedali e aeroporti alla NATO.
Non abbiamo bisogno di un tale pragmatismo. Uno dei nostri modi di dire, recita: "se non nutri il tuo esercito, nutri un altro esercito".

ICP: Qualche tempo fa, il NKPJ ha tenuto il suo congresso. Una delle decisioni più importanti prese nel congresso è stata l'obiettivo del ringiovanimento, scommettendo sulla vostra organizzazione giovanile, SKOJ. Qual è l'obiettivo atteso in NKPJ per questa transizione?

AB: L'obiettivo di svecchiamento era un progetto pianificato da molti anni. Si è concretizzato nel nostro V Congresso straordinario. Sono stato eletto come nuovo Segretario generale del nostro Partito nello stesso Congresso e la mia età non supera ancora i 34 anni. Abbiamo anche compagni più giovani nella Segreteria, nell'Ufficio politico e nel Comitato centrale. Siamo uno dei rari partiti nella regione con una così giovane dirigenza.
Nonostante tutte le difficoltà e le limitazioni, puntiamo a realizzare un potente partito dei lavoratori. Abbiamo bisogno di un NKPJ che sia in grado di rispondere alle esigenze dei lavoratori. Abbiamo bisogno di organizzare i giovani e indurli a staccarsi dal sistema di sfruttamento e a considerare il socialismo non come un periodo nostalgico ma come unica alternativa contro il capitalismo. Finché il NKPJ si basa sui giovani, i giovani si baseranno sul partito.

ICP: Perché considerate la Jugoslavia, oggi divisa in molti stati diversi, come scala politica, invece che la Serbia?

AB: Prima di tutto, anche se la Jugoslavia è divisa in più parti, anche se manipolata e le sue risorse sono sottratte, noi non pensiamo che abbia perso il suo significato storico.
Siamo l'unico partito che affronta la questione nazionale con l'identità jugoslava. Abbiamo la volontà di risolvere questo problema attraverso la ridefinizione di tutti i popoli nella regione nel suo complesso. Un altro problema passato, era l'esistenza di confini interni dentro la Jugoslavia. E' stato uno dei motivi principali della guerra che si è verificato subito dopo la dissoluzione.
Inoltre, è evidente che dal '90 la pace non è stata stabilita nella regione. Frizioni tra i popoli e i governi dei paesi della ex Jugoslavia, spesso si surriscaldano.
L'intervento dell'imperialismo occidentale divide il nostro Paese in termini economici, militari, nazionali, sociali ed educativi. Dopo lo scioglimento, hanno anche esportato le loro politiche per i nuovi governi.
Usando il termine di Jugoslavia, noi presentiamo la sua effettiva legittimità. Oltre ad utilizzare questo termine, denunciamo l'occupazione della NATO. Insistiamo sul fatto che tutte le forze progressiste devono mostrare una posizione congiunta contro questa occupazione.
Persone che ancora oggi si definiscono con l'identità jugoslava, esistono. Esse condannano il clima politico attuale e danno il loro sostegno al nostro Partito.

ICP: Il vostro Partito ha una posizione diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia rispetto l'URSS e l'ideale del socialismo. Qual è l'eredità per il NKPJ?

AB: Giusto, abbiamo una posizione molto diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia. Questa presa di posizione poggia principalmente su principi riguardanti la costruzione del socialismo.
Poiché abbiamo fatto nostra la posizione del Partito Comunista di Jugoslavia, diciamo che la Lega dei Comunisti, istituita dopo il 1948, cambiando il nome del Partito, è stata una mutazione opportunista e revisionista, che ha voltato le spalle al movimento comunista internazionale.
Dopo il XX Congresso, anche in URSS si è avviato un periodo revisionista. Tuttavia, allo stesso tempo, hanno mostrato un'opposizione realistica contro l'imperialismo durante la Guerra Fredda. La Jugoslavia ha scelto di rimanere neutrale in questa guerra di classe. Come dice Lenin, ogni terza via respinge la seconda. Così la terza via jugoslava ha rifiutato di opporsi alla principale questione: quindi, la Jugoslavia di Tito ha diretto il movimento dei Non Allineati. Da questa posizione, la Jugoslavia si è allineata all'imperialismo e ha istituito la "piccola NATO", collaborando con la Turchia e la Grecia negli anni '50.
Tito e i quadri di Partito avevano organizzato la guerra di sovranità nazionale, eroicamente e trionfando con una rivoluzione. Il ruolo di Tito in questo periodo storico non può essere svalutato. Ma, purtroppo, non sostennero la rivoluzione che avevano stabilito. Al contrario, hanno giocato il ruolo di "cavallo di Troia" all'interno del movimento comunista internazionale e si sono diretti verso la restaurazione del capitalismo.
La nostra tradizione si basa sul Partito socialdemocratico e successori: il Partito Comunista di Jugoslavia, che ha sostenuto le rivendicazioni dell'internazionalismo proletario, la III Internazionale, il Cominform e il socialismo scientifico fino al 1948.




L’arte della guerra
Il Libro (del golpe) Bianco 

Manlio Dinucci
  
Mentre i riflettori mediatici erano puntati su Sanremo, dove si è esibita anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti cantando le lodi delle missioni militari che «riportano la pace», il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio il disegno di legge che consentirà l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, delegando al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». 

Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione. Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio. 

Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «
interessi vitali del Paese». Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese»

Il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’Art. 11, viene sostituito nella terza missione dalla  
«gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale»

Il Libro Bianco demolisce in tal modo i pilastri costituzionali della Repubblica italiana, che viene riconfigurata quale potenza che si arroga il diritto di intervenire militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri interessi economici e strategici, e , al di fuori di tali aree, ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando degli Stati uniti. 

Funzionale a tutto questo è la Legge quadro entrata in vigore nel 2016, che istituzionalizza le missioni militari all’estero, costituendo per il loro finanziamento un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze. 

Infine, come quarta missione, si affida alle Forze armate sul piano interno la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive. 

Il nuovo modello accresce fortemente i poteri del Capo di stato maggiore della difesa anche sotto il profilo tecnico-amministrativo e, allo stesso tempo, apre le porte delle Forze armate a «dirigenti provenienti dal settore privato» che potranno 
ricoprire gli incarichi di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti. Incarichi chiave che permetteranno ai potenti gruppi dell’industria militare di entrare con funzioni dirigenti nelle Forze armate e di pilotarle secondo i loro interessi legati alla guerra. 

L’industria militare viene definita nel Libro Bianco 
«pilastro del Sistema Paese» poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati». 

Non resta che riscrivere l’Art. 1 della Costituzione, precisando che la nostra è una repubblica, un tempo democratica, fondata sul lavoro dell’industria bellica.
 
(il manifesto, 14 febbraio 2017)   

Il giorno 02 feb 2017, alle ore 18:50, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:


Il velo “umanitario” sulle missioni militari all’estero va strappato


di Sergio Cararo

Il vice presidente della Commissione Difesa, on. Massimo Artini (ex M5S), ha replicato con un lungo e articolato commento al nostro articolo di venerdi – ovviamente e fortemente critico – verso la legge approvata a luglio 2016 ed entrata in vigore il 31 dicembre 2016. Ci contesta una lettura negativa di un impianto legislativo a suo dire positivo. A noi così non sembra affatto, e non sembra esserlo stato neanche per 41 senatori che si sono astenuti o votato direttamente contro (al Senato l'astensione vale come voto contrario, ndr).

La legge quadro sulle missioni militari all'estero, infatti è stata approvata al Senato con 194 sì, un no e 40 astenuti, tra questi ultimi i senatori del M5S e alcuni del gruppo misto. Il voto contrario alla legge e' stato della senatrice Paola De Pin (anche lei ex M5S).

La legge disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO e la Ue), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese. 

All'apparenza la Legge prevede che la decisione di spedire militari in teatri di guerra adottata dal governo, vada inviata al Parlamento, il quale con appropriati atti di indirizzo, può dare luce verde o meno alla missione. Tale autorizzazione può essere sottoposta a condizioni. Dal momento che si è in presenza del totale coinvolgimento dei due rami del Parlamento, se non venisse dato l’assenso dai deputati e senatori, la missione internazionale non si potrebbe realizzare. Probabilmente, su questo impianto, a luglio 2016, quando la legge è stata approvata, il governo già riteneva che il Senato non ci sarebbe più stato in base alla controriforma costituzionale che il paese ha respinto a maggioranza il 4 dicembre con il referendum. Avevano insomma fatto i conti senza l'oste e venduto la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.

Un risultato è stato comunque raggiunto dal governo. Le missioni militari all'estero non dovranno essere rinnovate (anche economicamente) ogni sei mesi ma saranno una decisione strategica che può essere revocata solo con un atto politico del governo. Nè ci sembra che la gravità della Legge sulle missioni militari possa essere attenuata da una delle operazioni più insidiose che abbiamo denunciato negli anni scorsi: i cosiddetti Corpi civili di pace che potranno affiancare le missioni militari vere e proprie. Su questo vedi un articolo pubblicato tempo addietro.

E' una lettura catastrofista e pregiudiziale della legge? Per dimostrare che su questo pesano e fanno la differenza i presupposti di partenza, è interessante vedere come invece i “laboratori” legati agli apparati di potere hanno dato la loro lettura delle legge stessa.

Ad esempio secondo la fondazione Astrid:“La legge quadro in questo senso costituisce un vero e proprio salto di qualità nella governance della nostra politica estera e di difesa”. Prendiamo ancora a prestito le valutazioni positive espresse dall'Astrid che, come noi coglie il dato secondo cui questa legge cerca di sanare le molteplici contraddizioni manifestatesi nella politica militare italiana dalla prima guerra del Golfo nel 1991. “L’importanza della cooperazione internazionale nelle missioni di peace-keeping, peace-making e peace-enforcement si è andata affermando soprattutto negli ultimi venti anni. Lo spartiacque può essere considerato la prima guerra del Golfo chevide operare, sotto l’egida di una risoluzione Onu, una coalizione di 34 nazioni, tra cui l’Italia, guidata dagli Stati Uniti”. Non solo. Lo stesso think thank ammette che quelle contraddizioni andavano sanate con un apparato legislativo che adeguasse la proiezione militare dell'Italia al nuovo scenario nelle relazioni internazionali: “Da allora, a causa di contesti internazionali sempre più complessi e di vincoli costituzionali molto stringenti, tale paradigma cooperativo si è rapidamente imposto come la principale modalità di intervento delle nostre Forze armate all’estero. Di fronte al moltiplicarsi degli eventi che hanno richiesto una partecipazione dell’Italia a missioni internazionali si è dunque reso necessario il rinnovamento di un quadro normativo che rimaneva troppo legato alle logiche rigide e bipolari della guerra fredda”.

L'on. Artini, di cui apprezziamo l'attenzione per il nostro articolo, ragiona su un presupposto diverso e distante dal nostro. In questa legge vede una razionalizzazione dell'impianto legislativo sulle missioni militari all'estero, noi ci siamo battuti sistematicamente contro l'idea e le decisioni di partecipare alle missioni militari italiane nei teatri di guerra. Perchè di questo si è trattato. Adesso ci sono 300 militari in Libia “per proteggere la costruzione di un ospedale a Misurata” e 1300 militari in Iraq “per proteggere la ristrutturazione della diga a Mosul”. Tremiamo all'idea che una azienda italiana vinca l'appalto per la costruzione di una autostrada in Siria o in qualche altro paese in guerra.

Negli anni scorsi, la cortina fumogena “umanitaria” in Jugoslavia, Libia, ha nascosto orrori e decisioni politicamente vergognose dei nostri governi. Quella poi dell'intervento militare in Afghanistan e Iraq è quanto ha somigliato di più ad una partecipazione vera e propria ad una guerra di aggressione ad altri Stati. E su questo non c'è alcuna mediazione possibile, né in parlamento né fuori. Su questo presupposto, e proprio per questo, abbiamo fatto a sportellate e poi rotto con i senatori e i deputati della sinistra al tempo del secondo governo Prodi. Purtroppo e per fortuna abbiamo buona memoria e senso della coerenza.

18 gennaio 2017



Il giorno 13 gen 2017, alle ore 18:00, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:

http://contropiano.org/news/politica-news/2017/01/13/litalia-si-dota-della-legge-la-guerra-087877

L’Italia si dota della Legge per la guerra


di Sergio Cararo

Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:


a) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea;


2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".


3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)


“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge. 

 

E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.
 

13 gennaio 2017