Informazione
Fonte: resistenza_partigiana @ yahoogroups.com
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UN UOMO DELLA RESISTENZA
Scrivo queste righe il giorno 10 febbraio 2006,
il cosiddetto " Giorno del Ricordo ", istituito nell´anno 2005 dal
governo di centro destra per accontentare le frange più estremiste
delle organizzazioni degli esuli e per strumentalizzare la tragedia
delle foibe. Sulle foibe iniziarono a raccontare le loro menzogne i
nazifascisti già nel 1944, mentre per gli esuli istriani tutto ebbe
inizio con il maledetto esodo di Pola del 1947, una fuga generale
insensata provocata dalla propaganda anticomunista che già aveva
incominciato ad imperversare dopo l´inizio della cosiddetta " Guerra
Fredda ". Da parte mia io preferisco ricordare altre cose, come la
visita a Trieste di uno degli uomini migliori che l´Italia abbia mai
avuto come Presidente della Repubblica : l´onorevole Sandro Pertini.
E´ la primavera del 1983. Viene annunciata a Trieste la visita del
Presidente della Repubblica. Già alla mattina presto la piazza Unità è
piena di gente. Oltre agli striscioni portati dagli operai delle
fabbriche e le bandiere sindacali, si notano numerosissimi simboli
della Lista per Trieste, formazione politica allora fortissima ed
alcuni manifesti con scritte di contestazione. In particolare un
striscione nero portato da alcune donne colpisce la mia attenzione :
vi è scritto sopra, in lettere verdastre : " Presidente Pertini,
ricordati
delle foibe ! " Pertini arriva con l´elicottero sul Molo Audace, si
reca in Prefettura acclamato dalla folla e poi ritorna a fare un giro
della piazza a piedi. La gente, trattenuta dalle transenne lo applaude
e mille mani si tendono per toccarlo. I rappresentanti della Lista del
Melòn se ne stanno in cupo silenzio. Io sono in prima fila. Mi passa
davanti quest´ uomo magro, quasi rachitico, più piccolo di me che già
non sono un gigante e quando gli tendo la mano allunga un braccio
sottile come un fuscello e me la stringe con forza insospettata. Non me
la sono lavata per un mese. Poi il Presidente si reca sul palco
allestito davanti al Municipio dove si trova il sindaco Richetti
assieme alle massime autorità. Succede un po´ di confusione. Sembra che
le " vedove della Lista ", quelle con lo striscione sulle foibe,
vogliano parlare con lui. C´ è anche pronta una delegazione della "
Lista per Trieste ". Qualcuno comincia a fischiare ed a urlare
improperi. A questo punto Pertini dice all´orecchio del sindaco
Richetti qualcosa che nessuno sente, poi rimane zitto. Il sindaco di
Trieste dice poche parole di circostanza, e la manifestazione si
scioglie senza che il Presidente della Repubblica in visita alla città
di Trieste abbia detto una sola parola. Poi i giornali scrissero che
il protocollo della visita non prevedeva che il Presidente della
Repubblica facesse alcun discorso in piazza a Trieste, ma i bene
informati fecero sapere in giro che le parole che Pertini aveva
sussurrato nell´orecchio del sindaco Richetti erano : " Io con questi
MATTI non ci parlo ". Successivamente nella stessa giornata Sandro
Pertini si recò in visita ai cantieri navali di Monfalcone e davanti
agli operai metalmeccanici riuniti in assemblea nella mensa aziendale
fece un comizio memorabile, tanto che in seguito fu portato in giro in
trionfo dagli stessi operai, alla faccia del protocollo e dei
regolamenti, e con grande preoccupazione delle sue guardie del corpo. L´
indomani, come al solito, iniziò una lunga serie di polemiche sulle
pagine della rubrica " Segnalazioni " del quotidiano " Il Piccolo " di
Trieste. Ma questa è un´ altra storia.
Gianni Ursini
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dal sito http://www.quirinale.it
INTERVENTO DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
IN OCCASIONE DEL "GIORNO DEL RICORDO".
Palazzo del Quirinale, 8 febbraio 2006
Signor Presidente della Corte Costituzionale,
Signor Vice Presidente del Senato della Repubblica,
Signor Vice Presidente del Consiglio dei Ministri,
Signori Ministri,
Onorevoli Parlamentari,
Autorità,
Signore e Signori,
sono oggi qui con voi, per onorare le finalità della Legge che, con
decisione pressoché unanime del Parlamento, ha istituito il "Giorno
del Ricordo". Le cito:
"conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e
di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli
istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più
complessa vicenda del confine orientale".
E' giusto che agli anni del silenzio faccia seguito la solenne
affermazione del ricordo.
La celebrazione di quest'anno si arricchisce di un momento di grande
significato: la prima consegna a congiunti delle vittime di una
medaglia dedicata a quanti perirono in modo atroce, nelle foibe, al
termine della seconda guerra mondiale.
Il riconoscimento del supplizio patito è un atto di giustizia nei
confronti di ognuna di quelle vittime, restituisce le loro esistenze
alla realtà presente perché le custodisca nella pienezza del loro
valore, come individui e come cittadini italiani.
L'evocazione delle loro sofferenze, e del dolore di quanti si videro
costretti ad allontanarsi per sempre dalle loro case in Istria, nel
Quarnaro e nella Dalmazia, ci unisce oggi nel rispetto e nella
meditazione.
Questo nostro incontro non ha valore puramente simbolico; testimonia
la presa di coscienza dell' intera comunità nazionale.
L'Italia non può e non vuole dimenticare: non perché ci anima il
risentimento, ma perché vogliamo che le tragedie del passato non si
ripetano in futuro.
La responsabilità che avvertiamo nei confronti delle giovani
generazioni ci impone di tramandare loro la consapevolezza di
avvenimenti che costituiscono parte integrante della storia della
nostra patria.
La memoria ci aiuta a guardare al passato con interezza di
sentimenti, a riconoscerci nella nostra identità, a radicarci nei
suoi valori fondanti per costruire un futuro nuovo e migliore.
L'odio e la pulizia etnica sono stati l'abominevole corollario
dell'Europa tragica del Novecento, squassata da una lotta senza
quartiere fra nazionalismi esasperati.
La Seconda guerra mondiale, scatenata da regimi dittatoriali
portatori di perverse ideologie razziste, ha distrutto la vita di
milioni di persone nel nostro continente, ha dilaniato intere
nazioni, ha rischiato di inghiottire la stessa civiltà europea.
Questa civiltà - alla quale noi italiani abbiamo dato, nel corso dei
secoli, uno straordinario contributo intellettuale e spirituale - è
fatta di umanità, rispetto per "l'altro", fede nella ragione e nel
diritto, solidarietà. Le prevaricazioni dei totalitarismi non sono
riuscite a distruggere questi principi: essi sono risorti, più forti
che mai, sulle devastazioni della guerra; hanno cementato la volontà
degli europei di perseguire, uniti, obiettivi di pace e di progresso.
L'Italia, riconciliata nel nome della democrazia, ricostruita dopo i
disastri della Seconda Guerra Mondiale anche con il contributo di
intelligenza e di lavoro degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ha
compiuto una scelta fondamentale. Ha identificato il proprio destino
con quello di un'Europa che si è lasciata alle spalle odi e rancori,
che ha deciso di costruire il proprio futuro sulla collaborazione
fra i suoi popoli basata sulla fiducia, sulla libertà, sulla
comprensione.
In questa Europa di fratellanza e di pace, le minoranze non sono più
vittime di divisioni e di esclusione, ma sono fonte e simbolo di
rispetto e di arricchimento reciproco, di dialogo e di costruttiva
collaborazione. Animata da questo spirito, l'Italia ha rafforzato il
proprio impegno per favorire il processo di rinascita e di
riaffermazione dei diritti delle minoranze italiane in Slovenia e
Croazia, in base ai principi cui debbono attenersi tutti i Paesi
membri dell'Unione Europea.
Il nostro europeismo non nega, anzi rafforza l'amore per la patria,
radicato negli ideali del Risorgimento. Essi ci hanno trasmesso,
insieme alla ritrovata coscienza dell'unità nazionale, il sentimento
profondo di fraternità fra tutte le nazioni, libere e indipendenti.
A oltre cinquant'anni di distanza dall'inizio del progetto politico
europeo, la consapevolezza delle ragioni che lo determinarono, la
memoria dei rischi fatali corsi dai popoli europei sono necessarie
per mantenere vigile la difesa delle fondamenta del vivere civile,
del rispetto per la dignità della persona umana.
Nel ricordare il cammino percorso da allora, possiamo rivendicare
con orgoglio, dopo gli immani travagli del secolo scorso, gli
straordinari avanzamenti compiuti.
Il ricordo di quei travagli e dell'indicibile fardello di dolore che
essi hanno addossato ai popoli europei rafforza la coscienza dei
valori di civiltà in cui si sostanzia l'identità europea. Il
presente e il futuro dell'Europa si fondano sul sentimento di comune
appartenenza di tutti gli europei e sul consolidamento di un unico
spazio in cui i principi e le libertà dell'Unione Europea siano da
tutti pienamente condivisi. La volontà di popoli un tempo fieramente
avversi di vivere insieme, nell'Unione Europea, assicura un futuro
di comune progresso, nella democrazia e nella libertà.
piacere di scrivere, sulla guerra jugoslava e sulle passeggiate nei
boschi")
http://www.zeit.de/2006/06/L-Handke-Interv_?page=all
DIE ZEIT 01.02.2006 Nr.6
Ich komme aus dem Traum
Ein ZEIT-Gespräch mit dem Schriftsteller Peter Handke über die Lust
des Schreibens, den jugoslawischen Krieg und das Gehen in den Wäldern
DIE ZEIT: Es war an einem späten Abend im Januar 1988, als wir
einander aus schierem Zufall in der Pariser Metro begegnet sind. Bei
einem Glas Wein erzählten Sie mir, Sie kämen aus Ägypten und hätten
schon seit vielen Wochen mit keinem Menschen mehr gesprochen. Es war
die Zeit, von der Sie in Ihrem Tagebuch Gestern unterwegs erzählen.
Von Ägypten ist darin wenig die Rede.
Peter Handke: Dort konnte ich nur wenig notieren. Ich war ein bisschen
krank. Und ich konnte nicht für mich sein, weil ich mich ständig von
Händlern und Bettlern bedrängt sah. Ich habe mich dadurch gerettet,
dass ich in eines dieser Teehäuser ging, mich zu den anderen setzte
und an der Wasserpfeife sog oder vielmehr so tat, als ob. Da fand ich
Ruhe.
ZEIT: Sie sind dann drei Jahre lang quer durch die halbe Welt gereist,
nach Japan, Alaska, Schottland, Frankreich, Spanien, Slowenien und
noch weiter. Ich hatte beim Lesen den Eindruck, dass Sie auf
irgendwelche Flughäfen gegangen sind und einfach den nächsten Flug
genommen haben.
Handke: Manchmal war das so.
ZEIT: 1989 brach die DDR zusammen und damit eine ganze Welt. In Ihrem
Tagebuch verlieren Sie darüber fast kein Wort.
Handke: Ich kann nur dann etwas aufschreiben, wenn mir Sprache
zufliegt, Dinglichkeit. Es war mir nie im Sinn, ein zeitgenössisches
Journal zu schreiben. Es sind Reflexe, die erweitert sind, nicht
gerade zu Reflexionen, aber zu Läufen, zu Sprachläufen.
ZEIT: Sie schreiben nicht über persönliche Dinge, über Kopfschmerzen
oder schlechte Betten.
Handke: Ich fand das nicht beschreibenswert. Was ich spüre, muss
festgehalten werden in der Form, in der es sich jetzt zeigt. Dem gehe
ich nach, dem gebe ich Luft durch Sprache, und zugleich verfestige ich
es. Oft waren die Erlebnisse so überwältigend, dass ich eine Scheu
hatte mitzuschreiben. Mein Tagebuch Das Gewicht der Welt war eine
Reportage des Bewusstseins. In Gestern unterwegs habe ich manches
mitgeschrieben, anderes für den nächsten Morgen aufgehoben, bis es
durch den Kopf, durch den Körper gegangen war. Pythagoras hat seine
Schüler dazu angehalten, so lange in den Betten zu bleiben, bis sie
sich vergegenwärtigen konnten, was am Vortag gewesen war.
ZEIT: Wird es dadurch klarer?
Handke: Das Aufschreiben hat mich ortsfest gemacht. Oft wusste ich
nicht, wo ich aufgewacht bin. Man kommt in der Nacht an und sieht nur
Umrisse. Und wenn ich mich am nächsten Morgen in irgendeinem Hotel
hingesetzt habe, um den Vortag aufzuschreiben, war das wie einkaufen
gehen oder das Kind zur Schule bringen.
ZEIT: Ihre Reisen wirken wie Exerzitien. Könnten Sie sich vorstellen,
als Mönch zu leben?
Handke: Oh nein. Ich bin ein Epikuräer. Warum sollte ich auf die Dinge
verzichten, die mir Freude machen? Der Wein zum Beispiel ist eine der
schönsten Erfindungen, er hat mir schon oft gut getan.
ZEIT: Aber Ihre Reisen waren doch keine Vergnügungsreisen.
Handke: Eigentlich schon, ich bin ja zum Vergnügen auf der Welt.
ZEIT: Im Schneesturm durch Hokkaido zu wandern ist ein Vergnügen?
Handke: Aber natürlich. Wenn man dann in Sicherheit ist, die Schwelle
überschritten hat zur Wärme, wird es ein Vergnügen gewesen sein, um im
Futurum exaktum zu sprechen. Jedes Mal wenn man sich aus einer
brenzligen Situation befreit, wenn man denkt, es geht nicht weiter,
wenn man total minimalisiert ist als Mensch und dann über die Schwelle
kommt, merkt man plötzlich, was Leben ist. Diese Übergänge sind das
Fruchtbarste überhaupt. Das schöne Problem der Schwelle beschäftigt
mich seit über 30 Jahren, und es hilft mir immer noch weiter. Es
schubst mich weiter. Schon für mich als Schüler war das Lernen ein
Vergnügen, das Betrachten, Schauen, Übergehen in das Gesehene. Nein,
es ist nicht Vergnügen, es ist Freude. Manchmal ist es das Einswerden
mit den Formen. Man empfindet nicht mehr, dass man der Gefangene der
Historie ist. Man sieht die andere Geschichte, die mich seit je
beschäftigt hat.
ZEIT: Was ist die andere Geschichte?
Handke: Die Historie der Farben, des Versmaßes, der Formen,
japanischer Tuschzeichnungen etwa oder romanischer Skulpturen, auch
des Geschichtenerzählens. Das ist nicht zu realisieren, außer eben im
poetischen Machen.
ZEIT: Ist Ihnen das einmal gelungen?
Handke: Ich erzähle davon. Darauf geht alles hin, was ich schreibe. Es
ist nicht nur Utopie, es ist auch real, das Realste überhaupt. Es ist
ein Vorschlag, ein Traum von Geschichte. Sonst gäbe es ja auch die
Evangelien nicht, gäbe es das Buch Hiob nicht, wenn das Erzählen nicht
auf eine andere Welt zuginge, auf eine Hinterwelt im besseren Sinne,
wie eine Hinterglasmalerei.
ZEIT: Eine Revolte gegen Geschichtsphilosophie?
Handke: Ich bin fast der Überzeugung, ich betone das Wort fast, dass
der philosophische Begriff von Geschichte ein Euphemismus ist.
Geschichte ist nicht zu denken. Hegel hat daraus einen Denkbegriff
gemacht, das ist für mich ein Schmäh. So wird Geschichte nur zum
ewigen Kreislauf von Schweinereien. Ja, es gibt Fortschritte,
Fortschritte der Menschenrechte, auch technische Fortschritte, aber
jeder Fortschritt erzeugt woanders eine Katastrophe. Ich glaube nicht,
dass die Urzeit schlimmer war. Heute ist es nur anders schlimm oder
anders gut.
ZEIT: Denken Sie an das Glücksrad der Fortuna?
Handke: Man könnte es eher ein Lichtrad nennen: Wenn das Licht hierhin
fällt, wird es anderswo umso finsterer. Ich mache daraus keine
Ideologie, aber ich spüre es in mir.
ZEIT: Kommt daher Ihr Wunsch, dem Augenblick Geltung zu verschaffen?
Handke: Das ist kein Vorsatz. So bin ich halt gemacht. Vielleicht ist
es eine Art Krankheit, aber ich mag meine Krankheit.
ZEIT: Wenn man Ihre Bücher liest, ertappt man sich bei seiner eigenen
Unaufmerksamkeit und denkt, das hättest du auch sehen können, wenn du
dir die Zeit genommen hättest. Aber die hat man oft nicht.
Handke: Das nehme ich Ihnen nicht ab. Jeder hat genug Zeit.
ZEIT: Man hat sie, aber man nimmt sie sich nicht.
Handke: Jeder hat eine andere Natur, Gott sei Dank. Ich bin nicht da,
um anderen ein Beispiel zu geben, ich will mich nur selber ermahnen,
mir selber die Bilder geben, den Rhythmus geben. Wenn ich zum Beispiel
einen Tag nicht gelesen habe, schreibe ich: »Tag ohne lesen«, und das
ist wie eine Sünde. Lesen verstanden als Entziffern, Nachspüren. Oder
ich notiere: »Tag ohne Gang in die Wälder.« Ich nehme extra den
Plural, weil der Wald hier sehr verschieden ist, sich für mich in
verschiedene Wälder aufteilt. Ein Tag ohne den Gang in die Wälder ist
ein Versäumnis.
ZEIT: Und Schreiben?
Handke: Ich bin kein fanatischer Schreiber. Nur wenn ich dann im Tun
bin, wird es ausschließlich. Vorher drücke ich mich, solange ich kann.
Indem Sie jetzt hier sind, berauben Sie mich der Wälder. Sonst wäre
ich längst unterwegs. Morgen werde ich schreiben: »Tag ohne Wälder,
nur gequasselt.«
ZEIT: Schade, dass es so früh dunkel wird, sonst hätten wir den Gang
durch die Wälder gemeinsam noch machen können.
Handke: Ich gehe nicht mehr mit anderen, außer mit meiner Tochter. Der
will ich die Wälder nicht gerade zeigen, aber doch anmuten lassen. Ich
mag nicht sagen: Schau mal das oder das, ich gehe mit ihr langsam, in
der Hoffnung, dass sie etwas wahrnimmt, und manchmal sieht sie sogar
besser als ich. Natürlich möchte ich ihr die Stellen, wo man
Steinpilze findet, zeigen, so wie früher die Großväter die Enkel in
die Wälder mitgenommen haben, damit sie, wenn die Großväter einmal
nicht mehr da sind, die Stellen kennen. Ich hatte einmal vor, einen
Plan der Wälder zu machen, wo die Kostbarkeiten aufzuspüren sind, so
wie der Plan der Schatzinsel von Stevenson. Diese Insel habe ich als
Kind total wörtlich genommen, ich dachte, das stimmt alles.
ZEIT: Manche glauben, dass es die Insel gegeben hat.
Handke: In der Hauptsache ist sie wohl erfunden. Es gibt nichts
Schöneres, als, wie Hesse gesagt hat, das Wagnis der Fiktion
einzugehen. Wenn das Schiff der Fiktion parallel zur Realität fährt
das ist für mich ein universelles Erlebnis.
ZEIT: Dann erzählen Sie eine Geschichte.
Handke: Ich erfinde nicht nur Geschichten, auch Wörter. Und natürlich
spielen Träume eine Rolle. Die Träume sind ja verschwunden aus der
Literatur, dabei sind sie ihr Ursprung. Bei den meisten
Schriftstellern sehe ich keinen Traum mehr. Ich komme aus dem Traum.
ZEIT: Wandern, lesen, schreiben machen Sie das vor allem für sich
selber, oder sehen Sie auch den Leser vor sich?
Handke: Als ich das aus der Luft herausgegriffen habe um ein anderes
Wort für notieren zu nehmen , habe ich keineswegs an irgendeinen
Leser gedacht. Vor einem Jahr ungefähr hatte ich gerade den Versuch
über das Gericht in Den Haag und den Besuch bei Milo∆evi hinter mir,
und ich verspürte das Bedürfnis, weiterzutun im Schreiben, und da habe
ich mir die 15 Jahre alten Notizbücher hergenommen. Nach zwei, drei
Seiten war ich begeistert nicht von mir, sondern von der Bewegung
der Reisestationen. Das hat mich lebendig gemacht, und zugleich habe
ich mir gesagt, das soll nicht dich lebendig machen, sondern andere,
und dann habe ich das Ganze kopiert, aber vieles weggelassen. Sonst
lese ich meine früheren Sachen nie, es sei denn, es kommt mal eine
fremdsprachige Ausgabe daher, dann schaut man hinein, und zu seiner
eigenen Schande bleibt man doch länger drin.
ZEIT: Warum Schande?
Handke: Ich bin dann immer gerührt von mir selbst.
ZEIT: Und das mögen Sie nicht.
Handke: Im Moment schon, aber dann geht's immer weiter, und ich bin
immer gerührter, es kommen mir die Tränen, über die Welt, über mein
Tun, was ich gemacht hab.
ZEIT: Es ist jetzt genau 40 Jahre her, dass Ihr erstes Buch erschienen
ist, Die Hornissen. Sie sind dann sehr schnell ein Star der
Literaturszene geworden.
Handke: Aber nicht durch die Hornissen. Durch Princeton, wo ich
blöderweise das Maul aufgerissen habe, und durch die
Publikumsbeschimpfung.
ZEIT: Sie haben damals einen Brief an Ihre Mutter geschrieben. »Mach
Dir keine Sorgen um mich, ich werde sicher weltberühmt.« Haben Sie das
geglaubt?
Handke: Ich habe nie gedacht, dass ich je eine Chance hätte, nie. Ich
habe mich mit den Hornissen einfach retten wollen. Im Studium habe ich
die schwarze Wolke des Nichts vor mir gesehen. Ich habe immer Kafka
bewundert, der es geschafft hat, sein Studium zu vollenden und in den
Beruf zu gehen. Ich konnte das nicht. Dabei war ich ein guter
Jurastudent, ich habe sehr viel auf eigene Faust gelernt, aber ich
habe keine Antwort bekommen von den Professoren. Man braucht ja
irgendwie eine Erotik. Dann habe ich die Hornissen geschrieben. Man
muss sich vorstellen, was das damals bedeutete, aus dem Winkel, aus
dem ich kam, ein Buch bei Suhrkamp zu machen.
ZEIT: Jedenfalls sind Sie sehr rasch erfolgreich geworden. Sie konnten
sich eine Wohnung leisten, Reisen unternehmen.
Handke: Ja, zum Glück. Der größte Erfolg war ganz einfach der, dass
ich schreiben konnte und publiziert wurde. Sich die Zeit zu nehmen,
sie fruchten zu lassen, das ist schon ein Erfolg. Und dann die Sache
zu Ende zu bringen. Die Hornissen zu schreiben war ja nicht leicht,
denn damals gab es eine große Krise. Man fragte zu Recht: Was ist
Schreiben, wie schreibt man, warum schreibt man, ist Schreiben noch
erlaubt? Heute fragt man das nicht mehr. Ich empfinde diese Schwelle
immer noch, den Gedanken, dass das Schreiben eigentlich nicht sein
darf. Heute ist eine ungeheure Geläufigkeit da, einerseits erfreulich,
andererseits fragwürdig. Diese Schwelle überwunden zu haben, das war
Erfolg. Das erste Buch, das einen Auflagenerfolg hatte, war die Angst
des Tormanns beim Elfmeter, vier Jahre später. Aber was ist Erfolg
beim In-die-Welt-Gehen der Bücher? Ich habe selten wirklich gespürt,
dass die Bücher gelesen wurden. Vielleicht der Kurze Brief und
Wunschloses Unglück doch, ja, man spürt es an den Briefen von
Lesern. Ich habe den Eindruck, es werden immer weniger Briefe geschrieben.
ZEIT: Heute schreibt man meist E-Mails.
Handke: Damit habe ich nichts zu tun. Aber es gibt immer noch
herrliche Briefe von Lesern, und wenn ich ein oder zwei im Monat
erhalte Nicht, dass ich davon lebe, aber die kann ich manchmal gar
nicht beantworten, so schön sind sie.
ZEIT: Leiden Sie unter dem Älterwerden?
Handke: Nein. Ich habe zwar nicht gerade heiter die Räume
durchschritten, wie Goethe das gerne von sich gehabt hätte, aber ich
habe die Räume durchstöbert. In meinen Büchern kann man das vergehende
und das sich entwerfende Leben ziemlich genau ahnen. Man kann sehen,
was ein Schriftsteller ist, was Schreiben ist, was Leben im Schreiben
ist. Sonst hätte das alles ja keinen Sinn. Ich bin nie ein Profi
geworden. Ich bin ein Handwerker nur in dem, was ich nicht tue, nur im
Vermeiden.
ZEIT: Lesen Sie gegenwärtige Autoren?
Handke: Ich lese gerne und bin neugierig. Ich bin zutraulich wie ein
Tier, das zum Futtertrog geht, ich freue mich, wenn ich Joseph Zoderer
lese oder Ralf Rothmann oder Walter Kappacher oder Florian Lipus. Das
sind wertvolle Sachen. Wertvoll ist ein dummer Ausdruck, ich weiß,
aber immer noch besser als das, was ihr Kritiker immer sagt,
»wunderbar« oder »großartig«. Solche Wörter müsste man euch verbieten.
ZEIT: Sie haben gesagt, eine Möglichkeit bestehe für Sie immer nur
einmal. Schreiben Sie mit jedem Buch etwas Neues?
Handke: Ein neuen Ansatz vielleicht. Man kann die Comédie humaine
nicht noch mal schreiben. Balzac hat den neuen Menschen des 19.
Jahrhunderts beschrieben, mit der Kraft eines Titanen, voller Sanftmut
und Unbarmherzigkeit. Dieses horizontale Gemälde geht nicht mehr,
heute muss man vertikal schreiben. Aber es wird dadurch vermutlich
enger, vielleicht auch tiefer. Auch ich habe, so kommt es mir vor,
eine Art Comédie humaine dahergestümpert, aber sie ist subjektiv.
Balzac wollte ja objektiv sein. Auch Flaubert, was nicht immer von
Vorteil war. Er hat sich in seinen späteren Büchern verirrt. Wer hat
sich nicht verirrt? Vielleicht Goethe nicht. Es hätte ihm nicht geschadet.
ZEIT: Sie haben sich lange nicht mehr mit ihm beschäftigt.
Handke: Ja, er muss bald wieder drankommen.
ZEIT: Mögen Sie ihn?
Handke: Nach ein paar Sätzen von ihm, ähnlich wie bei Hölderlin,
kriegt man Lichtadern eingezogen. Man spürt, wie sich's gehört. Aber
mögen? Ich kenne ihn nicht. Ich würde ihn gerne kennen lernen,
spiritistisch vielleicht.
ZEIT: Auch er hat gerne Wein getrunken. Ich glaube, keinen besonders
guten.
Handke: Wer weiß. Oft ist der alltägliche Wein der beste. Ich mag
Schriftsteller nicht bewundern. Aber ab und zu bin ich voller
Verehrung für Geschriebenes, voller Freude und auch Sportsgeist. Es
gibt so viele gute Bücher, die kein Mensch mehr liest.
ZEIT: Die meisten Romane heute sind irgendwie realistisch. Das sind
Ihre Bücher eigentlich nie.
Handke: Ich kann nicht nacherzählen, ich kann nur vorerzählen. Bei der
langen Geschichte vom Bildverlust wollte ich möglichst genau die
Geschichte der Sierra de Gredos erzählen. Je näher ich ihr kam, desto
klarer wurde mir: Ich muss alles erfinden.
ZEIT: Warum müssen Sie erfinden?
Handke: Das Erfinden gibt mir ein Triumphgefühl. Wenn ich spüre, es
gibt eine Gegenwelt, die nicht unbedingt der tagtäglichen Welt
widerspricht, aber sie beleuchtet, dann habe ich ein Gefühl von
ZEIT: Macht?
Handke: nicht Macht, sondern von Etwas-gemacht-Haben. Und letzten
Endes das Gefühl, jetzt habe ich das Recht zu leben, zu schreiben. Nur
durch die Erfindung habe ich dieses Recht. Bei Gestern unterwegs habe
ich dieses Gefühl nicht, es ist, als ob es gar nicht von mir wäre, es
mir zugeflogen, durch mich durchgeflogen und wieder aus mir
herausgeflogen wäre.
ZEIT: Der Realismus ist auch eine Erfindung.
Handke: Ja, schon, aber ich bin kein Realist. Cervantes ist auch kein
Realist. Die mittelalterlichen Epen sind auch nicht realistisch. Sie
sind märchenhaft, aber märchenhaft in einem schneidenden Sinn. In der
Abwesenheit habe ich den Parzival fast kopiert. Als ich ihn damals
las, dachte ich, das ist die Form, so lässt die Welt sich erzählen,
so, wie ich sie sehe, fühle und vor allem träume. Denken kann man die
Welt eh nicht. Die Abwesenheit ist im Grunde die gekürzte Fassung von
Wolframs Parzival.
ZEIT: Das habe ich, offen gestanden, nicht gemerkt.
Handke: Soll man ja auch nicht. Bei euch in der ZEIT stand neulich ein
Interview mit dem Sekretär der Schwedischen Akademie. Der Herr sagte,
die Literatur habe sich geändert, Fiktion sei zweitrangig geworden.
Ohne Fiktion aber kann man die Literatur abschaffen. Es sind
ehrenwerte Schreiber, die er genannt hat, wie etwa Kapuczynski, der
aufschlussreiche Reportagen schreibt, aber das kann man doch nicht
Literatur nennen. Man darf nicht alles vermischen, das ist skandalös.
Man muss nur eine Seite von einem Buch lesen, und man sieht: Das ist
Sprache oder eben nicht. Sprache, nicht Stil, das ist ein Unterschied.
Sie lesen eine Seite und wissen: endlich Sprache, endlich Zittern,
aber auch die Sprachlosigkeit in der Sprache. Beides.
ZEIT: Kann man das lernen?
Handke: Es ist kein Handwerk. Das kommt später dazu. Aber der Anfang
ist nie mit Handwerk zu schaffen. Ich verstehe nicht, wie man das
Schreiben in Schreibschulen lernen will.
ZEIT: Korrigieren Sie viel?
Handke: Sehr viel. Ich schreibe seit fünfzehn Jahren mit Bleistift
außer die Theaterstücke, die ich mit der Maschine tippe. Wenn
gesprochen wird, dann muss irgendetwas knallen. Die Prosa schreibe ich
mit Bleistift, und da radiere ich viel. Die Gefahr, mit Bleistift zu
schreiben, besteht darin, dass man in der Stille des Schreibens
vergisst abzusetzen, also Absätze zu machen. Sie hinterher einzufügen
ist nicht gut. Dafür ist die Maschine oder der Computer besser. Aber
die Chance ist eben, dass es eine ganz andere epische Bewegung gibt.
Es spielt auch eine Rolle, dass ich die beiden letzten dicken Bücher,
Die Niemandsbucht und den Bildverlust, oftmals im Freien geschrieben
habe. Im Freien haben sich mir immer wieder neue Räume gezeigt, die
ich nur antupfen musste. Ich habe das als ungeheuer erfreulich
empfunden. Dass es ausschwingen kann in die Räume, die sich im Freien
auftun.
ZEIT: Was war denn die Grundfigur beim Bildverlust? Ich habe das nicht
verstanden.
Handke: Sie haben einen großen Blödsinn darüber geschrieben, so
achtlos, fahrlässig. Bevor Sie kamen heute, habe ich gedacht: Es ist
eigentlich eine Schande, dass dieser Mensch mein Haus betritt. Ich
habe ja immer von Bildern gelebt, von Traumbildern, von Anschauung,
und mit der Zeit bekam ich das Gefühl, dass die Bilder ihre
Gültigkeit, ihre Realität verlieren. Dem wollte ich nachspüren. Ich
erinnerte mich an junge Leute voller Enthusiasmus, voller Unschuld,
denen ich zwanzig Jahre später wieder begegnet bin, und ich sah, dass
diese Begeisterung verschwunden war.
ZEIT: Weil sie älter geworden waren.
Handke: Ja, ich habe mich für Momente wiedererkannt. Es hat mich zu
der Frage gebracht: Wo ist eigentlich die Begeisterung unserer Jugend
geblieben, als wir geschrien haben vor Freude: Wir sind doch alle
aufgebrochen, irgendwohin. Und da habe ich die Geschichte dieser Frau
geschrieben, die die Leute wiederfindet, mit denen sie zusammen war
und deren Begeisterung verschwunden ist, aber vielleicht wieder
geweckt werden kann.
ZEIT: Woher kommen die Kriegsbilder?
Handke: Das hat auch etwas mit Jugoslawien zu tun. Ich hatte die
Vorstellung, dass sich die letzten Menschen da oben im Hochgebirge
sammeln und eine Art Kolonie bilden.
ZEIT: Die Menschen fangen noch einmal von vorn an?
Handke: Ja, die Menschen dort wollen keine Bilder mehr haben, die
Geschichte der Menschheit wird hier wirklich Geschichte. Es geht um
den Konflikt zwischen Bilderglauben und Bildersturm. Ich spüre
manchmal, dass ein neuer Bildersturm an der Zeit wäre. Es geht nicht
so weiter, es ist eine Beleidigung, eine Entseelung, eine
Entleiblichung, was die Bilder mit uns machen. Die Menschen meines
Buchs sind auf der Suche: Wie kann man sich vor den Bildern retten?
ZEIT: Ich als Leser bin verwirrt, weil es in Ihrem Roman keine
Orientierung gibt. Jeder Ort ist zugleich ein anderer.
Handke: Sie sollten nicht sagen: Ich als Leser. Sondern: Der Leser als
Ich. Ja, das glaube ich Ihnen. Wenn Sie Faulkner lesen oder Cervantes,
das ist ab und zu steinig, mühsam. Aber sobald man Vertrauen fasst,
geht man durch die Bewegung hindurch. Das ist Literatur, das ist
Lesen, nicht etwas, was so glatt daherkommt. Ich bemühe mich um
Klarheit, ich möchte nicht dunkel sein. Als ich noch ein junger
Schriftsteller war, stand in irgendeiner Rezension »Der dunkle
Handke«, es hat mir geschmeichelt. Aber das ist lange vorbei. Ich will
Licht sein. Aber ich möchte forschen im Schreiben. Ich will nicht
amerikanisch aufbereitet schreiben. Die deutsche Sprache hat ihr
eigenes Recht, aber auch ihre Schlingen. Wenn man sich ihren
Assoziationen, ihren Klängen völlig hingibt, kann man sich leicht
verlieren. Nicht wenigen Schriftstellern ist das ja passiert.
Andererseits sind wir eben deutschsprachige Schriftsteller, und das
muss man auch merken. Wir können nicht schreiben wie die Amerikaner,
wie die Franzosen. Hätte Eichendorff schreiben sollen wie Flaubert
oder Stendhal?
ZEIT: Eichendorff kann man sich eigentlich in einer anderen Literatur
gar nicht vorstellen.
Handke: Ja, der ist herrlich, die deutsche Literatur hat ihre eigenen
Geschichten, ihren eigenen Fortgang. Das muss man bewahren. Das müssen
Kretins wie ich praktizieren. Und das ist spannend, ist herrlich.
Prosaschreiben ist meine Heimat. Einmal habe ich zwei Jahre lang fast
nur übersetzt. Mit einer bitteren Sehnsucht bin ich zwei Jahre lang um
meinen Schreibtisch herumgeschlichen und dachte, du musst endlich
wieder Prosa schreiben. Aber für mich ist es wichtig, monate- oder
auch mal zwei Jahre lang ohne Schreiben auszukommen, damit Lust und
Bedürfnis sich wieder vereinen.
ZEIT: Ist es nicht so, dass nach langer Pause die Fertigkeit verloren
gehen kann?
Handke: Das nicht, aber eine Geschichte, eine Idee, die man hatte,
kann in dieser Zeit vermodern. Dann kann es passieren, dass man den
Pfingsttag versäumt, um den Anfang zu machen.
ZEIT: Sie haben viele Autoren entdeckt oder wiederentdeckt, Emmanuel
Bove oder Hermann Lenz zum Beispiel.
Handke: Ja, das hatte eine große Wirkung, aber wenn ich heute einen
solchen Autor in der SZ oder der ZEIT vorstellen würde, hätte das fast
keine Wirkung mehr.
ZEIT: Warum?
Handke: Die Aufmerksamkeit ist erschöpft. Die Hinweise auf vergessene
Autoren, die Wiederentdeckungen sind Mode, und der Nutzen wird immer
geringer. Auch habe ich nicht mehr die Stimme wie früher.
ZEIT: Vielleicht liegt das an Ihrer Verteidigung der Serben im
jugoslawischen Krieg.
Handke: Vorsicht, Sie sind hier in meinem Haus.
ZEIT: Ich habe zwar gerade das Messer hier genommen, aber wirklich
nur, um mir ein Stück Käse abzuschneiden.
Handke: Sie werden mich nicht in eine Verteidigung bringen. Ich habe
da nichts zu erklären.
ZEIT: Es gibt viele Buchhandlungen in Österreich, die Ihre Bücher
nicht mehr führen.
Handke: Nicht nur in Österreich, auch in der Schweiz und Deutschland.
Daran seid auch ihr Kritiker schuld. Auf der einen Seite macht ihr im
Feuilleton, wenn ich jetzt mal im Plural reden darf, einen Text wie
den über meinen Besuch bei Milo∆evi oder über meine Reise zu den
Flüchtlingen in Serbien nieder, noch bevor ihr ihn gelesen habt, ihr
blockt ab; und auf der anderen Seite, wenn Gestern unterwegs
erscheint, seid ihr ganz offen und zeigt euch als feine, aufmerksame,
sprachbewusste Leser. Vorher aber habt ihr den Weg zu den Lesern
abgeschnitten, also zu den Buchhandlungen. Die Buchhändler werden
zunehmend moralistisch und gebärden sich als Richter. Eine Bekannte
erzählte mir, sie habe in vier Buchhandlungen gehen müssen, bis sie
endlich Gestern unterwegs erhielt. Ein Buchhändler sagte mir voller
Stolz, er habe alle meine Bücher, als die Winterliche Reise erschien,
aus seinem Laden entfernt.
ZEIT: Das ist idiotisch, das muss ich zugeben, obwohl ich in der Sache
anderer Meinung bin.
Handke: Sie müssen gar nichts zugeben, es geht auch nicht um Meinung.
Meinung haben hat nichts mit Schreiben zu tun. Hat jemals jemand in
einer westlichen Zeitung von den Flüchtlingen, mehr als einer halben
Million, in Serbien erzählt? Nie habe ich etwas darüber gelesen, wie
die vegetieren. Und zum ersten Mal habe ich deren Geschichte erzählt.
Warum geht nicht einer der Reporter der ZEIT, die die Geschichte vom
serbischen Adolf zum siebzigsten Mal als Dossier aufmöbeln, wo doch
die bosnischen Muselmanen und die Kroaten genauso viel Blut am Stecken
haben, zu den serbischen Flüchtlingen? Die kommen aus dem Kosovo, aus
Kroatien, aus Bosnien und werden von den eigenen Landsleuten in
Serbien verachtet. Ich habe darüber geschrieben, ohne irgendeine
Ideologie damit zu verbinden, und ich werde dafür niedergemacht. Zum
ersten Mal kommt einer wie ich nach Srebrenica und erzählt von einer
Mutter, nicht von den Müttern. Ja, es ist ein unverzeihlicher
Racheakt, was die serbische Armee da veranstaltet hat. Aber es ist
eine Rache gewesen an den zerstörten Dörfern rund um Srebrenica. Für
mich habt ihr Deutschen eine große Schuld auf euch geladen, schon mit
der Anerkennung Kroatiens. Euer Herausgeber Joffe hat gesagt, dass das
Wort Auschwitz als Schlagwort verwendet wurde. Aber wer hat damit
angefangen? Es war euer Außenminister Fischer. Scharping hat von KZs
in Prishtina geredet, was ein Unsinn ist. Die Knüppelwörter stammen
von euren Offiziellen. Und die haben den Knüppel benützt, indem sie
den Bombenkrieg mitverantwortet haben.
ZEIT: Es gibt viele Kriege auf der Welt, warum regen Sie sich gerade
über den in Jugoslawien auf?
Handke: Jeder hat sein Land. Der Schriftsteller Péter Esterházy, der
für den Bombenkrieg war, hat gesagt: Ach, dem Peter Handke hat man
sein Spielzeug weggenommen, deswegen ist er so beleidigt. Und der
Esterházy kriegt den Friedenspreis des Deutschen Buchhandels.
Verkehrte Welt. Serbien wurde nie erzählt, und ich habe nur erzählt,
was ich in Serbien gesehen habe.
ZEIT: Mussten Sie den Büchnerpreis zurückgeben?
Handke: Der Büchnerpreis hat ja nichts mit Büchner zu tun, das ist ein
repräsentativer Preis der Bundesrepublik Deutschland.
ZEIT: Was haben Sie gegen die Deutschen?
Handke: Mein Vater war ein Deutscher, er stammte aus einer
Bäckerfamilie im Harz. Ich habe keinen Hass auf Deutschland. Es gibt
viele Deutschlands, das krachlederne Großdeutschland und das
Deutschland der Provinzen, das Deutschland »nebendraußen«, um es mit
einem Wort von Hermann Lenz zu sagen. Das ist mein Deutschland und
wird es bleiben.
ZEIT: Warum sind Sie aus der Kirche ausgetreten?
Handke: Was mich auf die Palme oder vielmehr auf die Serbische Fichte
gebracht hat, war ein Sendschreiben des Bischofs von Amiens. Er hat
den Bombenkrieg gegen Jugoslawien gerechtfertigt mit dem Satz: Wenn
ein Waldbrand herrsche, genüge es nicht, mit dem Eimer zu kommen, man
benötige Löschflugzeuge. Ich scheue mich, mich einen Christen zu
nennen. Aber ich fühle mich in der Nachfolge Christi, ohne dass ich
sein Nachfolger wäre. Er ist für mich die größte Gestalt in der
Geschichte. Der war kein Nazarener, der hatte auch seinen Zorn.
ZEIT: In Gestern unterwegs stößt man immer wieder auf Zitate aus dem
Neuen Testament.
Handke: In der ersten Fassung standen da Seiten um Seiten auf
Griechisch. Ich habe nur weniges übernommen, vor allem, um Lust zu
machen, Griechisch zu lernen. Es ist fast dunkel geworden, soll ich
ein Licht machen?
ZEIT: Nein, so kann ich besser den Garten sehen, die schöne Zeder.
Handke: Es sind zwei, die eine ist eine Libanon-Zeder, die andere eine
Atlantik-Zeder. Links Libanon, rechts Atlantik. Machen wir jetzt
Schluss, ich hole noch einen Wein.
Das Gespräch führte Ulrich Greiner
© DIE ZEIT 01.02.2006 Nr.6
AUS DEM ARCHIV
ZEIT 24/1999: Ein lieber Gast
Peter Handke findet in Serbien andersgelbe Nudelnester und redet
seinen Freunden nach dem Mund ...
http://www.zeit.de/1999/24/199924.handke_.xml
ZEIT 16/1999: Kriegsschauplatz Handke
Der Schriftsteller Michael Scharang fürchtet, daß die poltitischen
Attacken auf Handke dessen Werk beschädigen sollen ...
http://www.zeit.de/1999/16/199916.handke_.xml
Sull'argomento del revanscismo italiano e austriaco contro le
rispettive minoranze slovene, riceviamo e giriamo due interviste di
Angelo Floramo a Lipej Kolenik e a Boris Pahor, apparse sull'ultimo
numero di Paginazero (letterature di confine).
Le opinioni qui espresse non sono necessariamente da noi tutte
condivise. Si noti in particolare la posizione molto diversa, tra
Kolenik e Pahor, sulla salvaguardia delle identità nazionali nella
Jugoslavia federativa e socialista, e sulla natura della attuale
Repubblica di Slovenia. (CNJ)
--- LIPEJ KOLENIK ---
Scheda sull'autore
Lipej Kolenik è nato a marjeti pri Pliberku nel 1925. Vive a
Schilterndorf /Cirkovce, un piccolo villaggio della minoranza slovena
in Carinzia. Nel 1943 fu costretto ad arruolarsi nei ranghi
dell'esercito tedesco, e mandato in Italia. Partecipò alle battaglie
di Montecassino e dopo essere rimasto ferito disertò ed entrò a far
parte della Resistenza, combattendo assieme alle bande partigiane che
operavano in Carinzia, coordinandosi con il movimento di liberazione
sloveno. Alla fine della guerra, durante l'occupazione militare
inglese (1945-1955), subì nuove angherie e discriminazioni a motivo
della sua militanza partigiana. Per l'atteggiamento di diffidenza e di
aperta ostilità dimostratogli dalle autorità rimase disoccupato fino
al 1954. La casa Editrice Drava di Klagenfurt ha creduto in lui,
pubblicandogli nel 1988 l'intenso libro di memorie relative agli anni
della guerra: "Mali ljudje na veliki poti", che ormai è già giunto
alla terza edizione, con una traduzione in lingua tedesca, e il più
recente (2004): "Po zmagi - zatiranje in zapori. Spomini na angleko
zasedbeno oblast 1945-1955 Slowenisch", che invece si riferisce agli
anni difficili dell'amministrazione militare inglese della Carinzia.
Uomo di grande cultura e di rara sensibilità è tra gli organizzatori
dell'importante cerimonia che ogni anno, il 17 luglio, riunisce sul
monte Kömmel/Komelj i reduci partigiani che si opposero al nazismo. In
quell'occasione vengono ricordate le vittime di una delle più feroci
repressioni avvenute in Carinzia per mano fascista praticamente a
guerra già conclusa.
Piove. Sono gocce fitte, pesanti, fredde, che appannano i vetri della
macchina. Anche se luglio è appena iniziato qui sembra già autunno. La
strada insegue la Drava, tradendola a tratti per lasciarsi inghiottire
dalle macchie verdi dei tigli, che hanno foglie brillanti come
ramarri. Sono già le due del pomeriggio ma pare che il fiume non si
voglia ancora svegliare dal torpore della notte. Forse per questo
lascia che il buio ristagni in pozze di ombra nelle fosse che
delimitano il suo letto. C'è bruma dappertutto. E' Carinzia, ma
ovunque ti giri è la Slovenia che vedi: nei tetti dei villaggi, nel
modo di costruire le case, per come si raccoglie il fieno sui graticci
di legno. E' terra di confine. Bilingue. Tutto fluttua dall'asprezza
germanica alla rotondità slava: Bleiburg, Edling, Neuhaus, Rinkenberg
diventano più dolci anche sul percorso della mappa: Pliberk, Kazaze,
Suha, Vogrče. Vale per i nomi dei luoghi come per le donne. Hanno
occhi che sanno già d'oriente, direbbe Paolo Rumiz. Segui la Drava e
sconfini senza accorgertene. E ti viene da pensare che un confine
attraversato dal corso di un fiume non è un vero confine. Non lo è per
la geografia. Non dovrebbe esserlo nemmeno per gli uomini. Oltre è
tutta pianura: il Kobansko Pohorje, dolce di campi ben coltivati e
vigneti. Se la mente ne insegue i profumi arrivi a Maribor in un
sorso. Ed è già odore di Ungheria. La magia di queste terre ! Qui
realizzi che il cuore dell'Europa è per forza meticcio, ibridato di
innesti. Ricchissimo di suggestioni, salvato dalle minoranze che si
incuneano dentro i nazionalismi, come i dubbi minano i dogmi e le
certezze. Mi guardo attorno e capisco che ha proprio ragione Peter
Handke quando parla dell'amore che l'uomo slavo nutre per la terra in
cui è nato. Un amore che sa diventare nostalgia o rabbia, furore o
canto. La guerra partigiana, in queste contrade, è stata anche un atto
d'amore per ogni vallata, ogni villaggio, ogni cresta alpina. Questo
dice Handke che è nato a Griffen, sull'altra riva del fiume. Lo
ricordiamo mentre lasciamo il suo villaggio stampigliato per qualche
secondo nello specchietto retrovisore, proseguendo in direzione
Bleiburg/ Pliberk. Non viaggio da solo. Mi accompagna Sara. E' una
giovane donna windisch della Valcanale, nata e cresciuta in una terra
in cui ci si parla in un miscuglio di "theutsch e crainerisch": un
ibrido musicale di tedesco- carinziano e sloveno, un dialetto che
fonde in sé l'anima stessa del confine, trasformando in musica le sue
apparenti dissonanze. Ora sta completando un dottorato di ricerca
all'università di Klagenfurt. Da studentessa ha seguito le lezioni di
Hans Kitzmüller a Udine. Un corso monografico su Handke. Tanto denso
da fare invidia. Da rimpiangere di non averlo frequentato. Mi è
sembrata da subito la guida ideale per questo mio "attraversamento" di
terre, memorie e suggestioni alla ricerca di Lipej Kolenik, nome di
battaglia "Stanko", partigiano e scrittore, uomo da sempre impegnato a
rivendicare la libertà come valore supremo di ogni essere umano.
"Soprattutto una persona gentile". Così lo definisce Helga Mracnikar,
della casa editrice Drava, di Klagenfurt, che ha pubblicato tutti i
suoi libri, agevolandoci il contatto, con rara cortesia e preziosa
disponibilità. Kolenik venne arruolato, in quanto carinziano, nelle
fila della Wehrmacht. Era il 1943. L'anno terribile. Dovette indossare
l'uniforme di quel popolo che stava schiacciando la libertà delle sue
genti. E di infinite altre ancora. Combatté a Montecassino. Poi decise
di disertare. Scelse la lotta partigiana. I morti non sono tutti
uguali. Cirkovce è un villaggio raccolto nell'abbraccio di poche case;
in tedesco lo chiami Schilterndorf , ma il risultato, per quanto forte
lo chiami, non cambia: quasi si nasconde agli occhi dei forestieri. Se
ti sfugge l'imboccatura della strada puoi ripetere il tragitto diverse
volte, da Pliberk ad Aich, prima di trovare la direzione giusta. A noi
è capitato. Piove e non c'è nessuno per strada. Nessuno a cui chiedere
informazioni. Ma una macchina di targa italiana che viaggia a
rallentatore bordeggiando orti, recinti per animali e silos per i
cereali a lungo andare desta curiosità, se non proprio sospetti.
Finalmente qualcuno esce da un ricovero per gli attrezzi: "Chi?
Kolenik lo scrittore? L'altra casa, quella dietro la stalla". Ci sta
aspettando. E siamo incredibilmente puntuali. Lipej. In sloveno Lipa è
il tiglio. L'uomo che ci sta davanti, a suo modo, è proprio un tiglio
sloveno. Lo è davvero, nella mia immaginazione. Un tiglio enorme,
dalle profonde radici, con un tronco solcato dagli anni. Ma la stretta
di mano è generosa, sicura. Un sorriso che non diresti da guerriero,
ma da uomo di pace. La casa è ospitale, coccolata dalla penombra. Il
tavolo della cucina ricoperto di riviste, album di vecchie foto color
seppia, libri glossati, appuntati, sottolineati. Sono aperti o
impilati un po' ovunque. E alle pareti rimbalzano memorie. Attestati.
Riconoscimenti. Non esibiti. Tuttaltro. Lipej Kolenik è uno Sloveno di
confine. Uno Sloveno di Carinzia. Una terra in cui i fremiti
nazionalistici sono molto forti. E il signor Haider, il governatore,
non aiuta certo il dialogo con le minoranze: " Quello? Oh, quello è un
nazista!". Scuote il capo, il partigiano Stanko. Mi chiedo quanto sia
difficile essere sloveni oggi a Cirkovce, che anno dopo anno,
generazione dopo generazione diventa sempre più Schilterndorf. Quando
siamo scesi al bar sulla strada, poco prima di arrivare in paese, alle
nostre domande in sloveno hanno preferito risponderci in tedesco:
abbiamo chiesto se avessero qualcosa da mangiare" Oprostite, imate ze
jesti?" e ci hanno risposto con un certo imbarazzo, quello di chi
vuole tagliare corto: "Nixt ferstien". Già. Incomprensibile. Davvero !
Cosa ha significato per lei appartenere a una minoranza? E' difficile
essere sloveno? E soprattutto lo è stato in passato (penso in
particolare all'epoca nazista, alle camicie brune, alla lunga notte
del Reich) ?
Molte cose sono cambiate, nel corso degli anni. Innanzi tutto la
maggioranza: non lo siamo più, nella nostra terra. Ora apparteniamo a
una minoranza. Che si è sempre più ridotta a partire dagli anni '70.
Il Reich nazista, le persecuzioni, gli arresti, le deportazioni, e poi
la Resistenza: prenda il nostro villaggio, ad esempio. Un centinaio di
case. In passato solo in quattro famiglie parlavano in tedesco. Oggi
chi parla in sloveno si è ridotto a neanche la metà. La scuola qui non
fa nulla per la tutela della lingua. Poi è inutile che la si insegni
come una materia fra le altre. Se non la parli più nemmeno a casa tua,
è finita. I ragazzi migliori se ne vanno. Attratti da città più
grandi. Luoghi lontani, diversi dalla terra in cui sono nati. Nel
periodo nazista era vietato parlare in sloveno. Ovviamente anche a
scuola. I libri. Hanno bruciato i libri. Ci si doveva esprimere in
tedesco. Noi il tedesco non lo conoscevamo affatto. Lo abbiamo
imparato quel tanto che bastava per seguire le lezioni. Tra di noi
parlavamo sempre in sloveno.
C'era un Kulturni Dom qui?
No, non un vero Kulturni Dom... direi piuttosto un'osteria. Il
proprietario ci aveva messo a disposizione una sala in cui ci
incontravamo. Avevamo messo assieme una piccola biblioteca di libri in
sloveno. Potevamo leggere, giocare, studiare. Ma no, non c'era
ovviamente un Kulturni Dom, come quello odierno.
Ma questa chiusura nei confronti degli sloveni esisteva anche prima
dell'Anschluss?
Già prima, già prima. C'era un'associazione di studenti esiste
ancora oggi organizzati militarmente. Veniva detta Purschenschaft.
Avevano il compito di "germanizzare queste terre". L'acquisto di
proprietà per cittadini di nazionalità tedesca era facilitato in
queste zone. Hanno iniziato con le buone... poi hanno adottato altri
sistemi. Vorrei aggiungere che la Chiesa ha appoggiato questa
trasformazione, agevolando in tutto l'ascesa di Hitler al potere.
Certo, c'è da dire che nel '43 alcuni preti carinziani hanno sostenuto
la guerra partigiana, ma la maggioranza di loro non faceva più di
tanto. Il Vescovo invece, quello sì era molto attivo: quando nel 1938
è arrivato Hitler ci trovavamo in chiesa. E ci è stato chiesto di
uscire e di seguire il corteo. Una vera azione di propaganda.
C'è una grande similarità fra lei e Boris Pahor, lo scrittore sloveno
triestino che ha raccontato la sua vita e quella della sua comunità
negli anni difficili della guerra, e anche prima, durante il ventennio
fascista, in cui ogni diritto veniva negato alla minoranza slovena, a
ogni minoranza... e poi la sua esperienza partigiana... entrambi avete
toccato, ciascuno a suo modo, gli stessi temi, attraversando percorsi
di vita davvero molto vicini. Vi conoscete personalmente? Ha letto
qualcosa di Pahor ? Cosa vi lega... cosa vi diversifica ?
Certo. Ho letto i libri di Pahor ! Ma le problematiche degli sloveni
in Italia sono molto diverse dalle nostre, qui. Voi eravate meglio
organizzati, come posso dire, vi siete svegliati prima, forse perché
il Fascismo lo avete conosciuto già alla fine della prima Guerra
Mondiale. La Primorska (comunità degli sloveni "del litorale", dunque
oggi in Italia, ndCNJ) ha quindi conosciuto e combattuto il Fascismo
molto prima di noi.
Lo conosce personalmente, Boris Pahor ?
Gli sono stato vicino una volta, durante una conferenza. Ma non ho mai
avuto l'occasione di scambiare qualche parola con lui.
E' interessante che entrambi abbiano avuto esperienze come sloveni di
minoranza, prima nella lotta di opposizione al Nazismo ed al Fascismo
e poi nella letteratura !
Ognuno di noi prende le mosse dalle esperienze che vive in prima
persona. La Storia esiste solo per come noi la sappiamo narrare. Per
questo ho iniziato a pensare che se non avessi scritto le mie
esperienze quella storia sarebbe stata presto dimenticata. Così alla
sera mi capitava di pensare a fatti e momenti della mia vita che
valesse la pena di raccontare. Chiedevo consigli, pareri, opinioni a
chi mi era vicino. Ho letto molto, ho compiuto ricerche personali.
Alla fine di questo lungo percorso sono giunto alla pubblicazione. A
quanto pare è stata una buona idea: il mio libro è ormai giunto alla
terza edizione. Pensi che lo hanno anche pubblicato in tedesco! Chi lo
ha letto lo ha apprezzato.
"Mali ljudje na veliki poti": piccola gente lungo un grande cammino...
un libro intenso, che ha suscitato notevole interesse nei lettori e
nella critica. E non da ultima anche una recensione entusiastica da
parte di Peter Handke. C'è una famiglia di contadini sloveni, a
marjeta... la guerra, combattuta dal protagonista in terra straniera
indossando la divisa tedesca, a Montecassino: la divisa di un regime
che in qualche modo ha sempre soffocato le minoranze, compresa la sua;
e poi la diserzione (o meglio la scelta coraggiosa della verità), la
decisione di aderire alla Resistenza... e ancora tutto l'amore che uno
sloveno prova per la sua terra, i fiumi, l'Alpe, i villaggi... Temi
importanti... a lei molto cari, vicini alla sua biografia... Come si
intrecciano nella sua narrativa ? Nella sua vita ?
La mia esperienza di vita d'allora... beh, da una parte c'era il
Nazismo, dall'altra la Resistenza. Il Nazismo con i suoi
saccheggiatori, i suoi predoni, gli stupratori. Sul fronte opposto i
partigiani. Mi attraeva il mondo della Resistenza, fin da quando avevo
quindici, sedici anni. Avevo contatti con quel mondo fin da allora.
Ben prima di iniziare la lotta al loro fianco. Prima di essere
costretto ad arruolarmi nell'esercito tedesco. Ma non avevo ancora
l'età giusta. Nel 1942 si sono fatti vivi loro. Li abbiamo seguiti in
molti. Nell'estate del '42 ero un soldato. Mi ossessionava il pensiero
di mia madre. Pensavo a quanta paura avesse per me. Per quello che
avrebbe potuto capitarmi. Cosa mi avrebbero fatto, dove mi avrebbero
rinchiuso. Mia madre mi faceva pena. Fu solo l'inizio di una specie di
via crucis. Non è stato per nulla facile. Nel cuore ero antifascista,
mi sentivo vicino ai partigiani. Ma ero costretto a indossare proprio
l'uniforme dei nazisti. Una ribellione che bruciava dentro di me.
Voglio aggiungere che i partigiani qui dovevano cavarsela da soli,
arrangiarsi. Non eravamo organizzati come voi, nella Primorska o in
Slovenia. Ci aiutavamo a vicenda. Ma non c'era nulla che assomigliasse
nemmeno da vicino all'azione di propaganda dell'Osvobodilne Fronte
(Fronte della Liberazione, n.d.r.), che fosse in grado di organizzare
nuove leve per la Resistenza.
Qual è stato il valore della guerra partigiana in questa terra di
frontiera ? Sappiamo molto poco noi italiani dei movimenti
resistenziali in Germania (perché tale era l'Austria dopo l'Anschluss
nel 1938). Cos'ha significato per la sua generazione ? Per lei in
particolare, sloveno e combattente... intendo dire: cosa l'ha motivata
profondamente a scegliere di diventare un partigiano?
Per me è stato un vero e proprio terremoto interiore. Quando hanno
cominciato a deportare le intere famiglie, ad arrestare la gente...
allora abbiamo capito che non potevamo più attendere. Ci saremmo
opposti. Non era più possibile rimanere agli ordini di Hitler. A casa
nostra poi deportavano le persone per metterle nei campi di
concentramento. E' così che è nata la nostra Resistenza. E quelli che
hanno appoggiato le bande partigiane sono stati sempre più numerosi.
Era un modo per salvare la nostra terra. Conoscevamo quella gente fin
dal 1934, fin dai tempi dell' Hitlerputsch. Nel '38 erano sempre loro,
sempre gli stessi fascisti. Loro prima, loro dopo.
Dunque è stata una presa di coscienza matura, una scelta ragionata la
vostra?
Che dire... ho potuto raccogliere tante testimonianze negli anni. La
vita ci insegna. La vita è la nostra scuola. Il Fascismo si svelava
poco alla volta. Ma era possibile capire subito cosa volesse fare
della gente. Avrebbe liquidato tutte quelle persone che non gli
andavano a genio, attraverso uccisioni di massa, arresti... è così che
ha preso forza. Devo dire che alla fine della guerra l'80% della
popolazione dei villaggi, qui, era a favore di un'annessione alla
Jugoslavia. Non credevano che l'Austria ci avrebbe mai potuto dare
altro da quello che ci aveva da sempre elargito: solo promesse e
oppressione.
Ma cosa ha comportato per lei, così giovane, una scelta tanto radicale?
Per prima cosa è stato necessario trovare molto coraggio. E poi una
forte dose di autoconvincimento. Quelli che come me hanno subito
l'oppressione nazista, per quanto ancora molto giovani e privi di
esperienza, si sono lasciati guidare dalle loro coscienze. Ho pensato
a lungo cosa, in questi anni, sia stato maggiormente motivo di
angoscia, per tutti noi. Eravamo considerati dei traditori, quando
abbiamo risposto a Hitler "un fico secco", mettendoci di fatto contro
di lui. Anche la Chiesa ci ha considerato dei traditori, perché
stavamo dalla parte dei "banditi sloveni". Ancora oggi in molti ci
chiamano venduti, traditori dell'Austria. Poco tempo fa, da Vienna, mi
ha chiamato Portisch, quello che sta scrivendo la storia dell'Austria.
Mi ha chiesto perché mai avessimo deciso di combattere sotto la
bandiera di Tito. Gli ho risposto: "Mi dica il nome di un solo
austriaco che in quegli anni sarebbe stato disposto a guidare la lotta
di liberazione contro il Nazismo!". In pochi altri luoghi, come da
noi, si sono raccolti dopo la guerra nazisti fuggitivi provenienti da
molte altre nazioni. Sono stati momenti drammatici, di grande
tensione. Avevamo tutti contro qui: gli Ustaa, i Belagardisti, i
Fascisti... tutti contro di noi. Crede che ora sia cambiato qualcosa?
Non c'è mai stata dopo la guerra una vera e propria
denazistificazione. Non hanno trovato nessun altro da mettere al loro
posto. Così si sono semplicemente cambiati i berretti. Ma le persone
sono rimaste sempre le stesse. E così i loro cervelli. Io non ho mai
avuto una pensione per la mia scelta di libertà. Ma i camerati che
hanno assediato Stalingrado... beh, quelli sì, e anche qualche
menzione ufficiale!
Sono passati 60 anni da allora... come vengono vissuti oggi quei
fatti? In un momento in cui pericolosamente il revisionismo storico
(penso alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte o dell'italiano
Renzo De Felice) porta a riconsiderare gli eventi, a relativizzare il
valore delle scelte di allora, ad insinuare che a diciotto anni una
scelta non può essere consapevole (e quindi in fondo i giovani che
combattevano per i partigiani o per le SS erano uguali, travolti tutti
dalla tragedia della storia)?
Posso dire che oggi guardo con molta preoccupazione allo sviluppo
degli eventi. A sessant'anni di distanza. Sembra che la gente stia
dormendo. Pensi che hanno eretto un monumento agli Ustaa, a
conclusione della guerra. Lo hanno eretto a Lobuki Polje. Arrivano
qui ogni anno da tutte le nazioni quei fuggitivi, quegli assassini, i
macellai di Hitler, per onorarlo. Abbiamo protestato, ma non è servito
a niente. Il monumento è sempre lì. Le autorità dicono che ci
penseranno, ma intanto non prendono provvedimenti. Così ogni anno,
quindicimila, ventimila persone si danno appuntamento sotto quel
monumento. Indossano divise, sventolano bandiere, come ai tempi di
Hitler. E i nostri restano a guardare. Sono convinto che se ci
andassimo noi, lì, con le nostre bandiere... ci arresterebbero subito.
Noi quel periodo lo abbiamo vissuto. Ci siamo dovuti unire in bande. E
abbiamo contribuito a sconfiggere il Nazifascismo. Per noi, per tutti
coloro che si sono ribellati, l'8 maggio è la festa più grande della
Storia. In quel giorno è stato sconfitto il Nazifascismo. L'Austria
non lo celebra volentieri. Ricorda con dispiacere questa ricorrenza.
In fin dei conti ha perso. Qui sentono molto di più le celebrazioni di
ottobre. Ma in realtà non hanno una festa vera e propria. Credono di
essere ancora al comando, come ai tempi di Hitler.
E' dunque così forte il senso di opposizione alla guerra partigiana qui?
E' ancora molto forte. E ogni anno si rinnova. L'anno scorso hanno
diffuso la notizia che alla fine della guerra sono stati uccisi per
rappresaglia 40.000 Ustaa. Ma non è vero. E' una notizia falsa.
Diffusa dall'America ha fatto in breve il giro del mondo. Secondo
questa versione sono stati i partigiani a macchiarsi degli orrori.
Sappia che qui in Carinzia ci sono 53 cimiteri partigiani. Ma mai
nessuna autorità vi ha deposto ufficialmente una corona di fiori. Ce
ne occupiamo noi privati.
Il 17 luglio del 1945 sul monte Kömmel/Komelj i nazisti, a guerra
ormai finita, trucidarono numerosi civili accusati di essere
partigiani. Oggi quella ricorrenza è diventata un appuntamento civile,
di grande urgenza e dignità, celebrato puntualmente ogni anno. Il
valore della memoria si fonda sempre nella sottolineatura della
libertà. E in questo interviene anche la letteratura, intesa come voce
di quella memoria, arte che nobilita quell'impegno. Ce ne vuole parlare?
E' una data importante. Per non dimenticare. Noi che abbiamo vissuto
quella tragedia abbiamo il dovere morale di avvertire gli altri.
Quando l'incendio è divampato è ormai troppo tardi. Non possiamo
dimenticare tutti quei milioni di vittime. È nostro dovere fare in
modo che i giovani non ne perdano la memoria. Solo rimanendo sempre di
sentinella potremo evitare di essere sorpresi per la seconda volta. Da
ogni regione in cui i partigiani hanno combattuto i reduci verranno
qu, sul monte Komelj. Lo scorso anno c'era anche Peter Handke. Lo
ammiro molto perché è una persona semplice innanzi tutto. E poi per il
modo in cui esprime le sue idee: non gli interessa se quello che
scrive può dare fastidio a qualcuno. Spesso mi viene a trovare, come
fosse uno qualsiasi dei miei amici. È stato lui a fare in modo che il
mio libro venisse tradotto. Lo riteneva importante perché questa
storia non fosse dimenticata.
Nel 1943 lei aveva 18 anni... E' stato capace di scegliere. Pensi ai
diciottenni di adesso. Come vivono oggi i giovani della minoranza
slovena di Carinzia ? Le nuove generazioni... Come le vede davanti
alle scelte che l'Europa e il mondo inevitabilmente imporranno loro di
fare ?
Questa è una domanda difficile. La vita oggi è molto diversa da quella
di allora. Oggi la gente è viziata, ha un lavoro, ha di che mangiare.
Cose che non si potevano certo dare per scontato in quegli anni. Per
questo il Fascismo ha potuto diffondersi velocemente. Accade sempre
quando non c'è il pane... E poi perché mai oggi dovrebbero fare una
scelta ? A loro non interessa affatto che il nuovo padrone sia russo o
che sia Hitler o che sia americano. Quello che conta sono i soldi. E
una vita tranquilla.
Esistono dei contatti con la Slovenia ? Vi sentite aiutati in qualche
modo?
Nei confronti della Slovenia nutro una speciale forma di delusione.
Quella non è la terra per la quale ci siamo battuti. Hanno distrutto
la Jugoslavia, che era modello per l'Europa Unita. Uno stato forte che
aveva un certo prestigio a livello internazionale. Capace di rimanere
neutrale e libero dalle politiche dei due blocchi. Oggi sono tutti
divisi, ognuno per conto suo. Non so davvero cosa accadrà. Adesso la
Slovenia è già nell'Unione Europea, tra poco entrerà anche la Croazia,
poi sarà certamente la volta dei Serbi. Quindi tutto tornerà proprio
uguale a prima; ma ci sono dovute essere tante vittime... Questo è ciò
che più spaventa le minoranze. L'Unione europea. Chi non saprà nuotare
in un mare così grande... sarà condannato a sparire per sempre. Gli
aiuti dice? Non ne vediamo, né finanziari né politici.
La scrittura... lei ne ha fatta una ragione di vita. Perché scrivere
? Per l'urgenza di non perdere la memoria, forse?
Allora: la tradizione orale dura a lungo. Ma se scrivi qualcosa, dura
per sempre. Resta! Pensi al plebiscito del 1918. Quanto materiale è
stato raccolto su come abbiano tiranneggiato la gente comune, su come
gli Sloveni siano stati derubati, arrestati? Nessuno ha mai scritto
niente di queste cose. Se solo ci fosse stato uno storico... No, a
dire il vero forse no; perché gli storici scrivono più volentieri
quando oramai non ci sono più superstiti o testimoni vivi. Alle volte
hai quest'impressione. Sai, negli anni vieni a sapere cose che prima
non conoscevi... Festeggiando i sessant'anni dalla fine della guerra,
a Poljane hanno pubblicato un libro, in cui si parla dell'ordine dato
da Tito e Kardelj a Majnik di ritirarsi dalla Carinzia. Invece nel `49
ci spronarono alla lotta per l'annessione. Che senso ha tutto questo?
Noi per averci creduto siamo stati anche rinchiusi, abbiamo subito le
perquisizioni in casa, siamo stati etichettati come Titocomunisti, un
marchio che ci rimane appiccicato addosso ancora oggi. È meglio dire
la verità anche se la strada della verità è sempre più lunga e più
difficile.
In Italia è molto difficile promuovere la diffusione di testi che
provengono dal mondo sloveno. Lo stesso Boris Pahor ha incontrato
molta difficoltà a pubblicare presso un editore italiano. Accade lo
stesso anche in Austria? E quali sono, se ci sono, le possibilità di
vedere finalmente tradotta la sua opera anche in lingua italiana?
Penso che sia una soprattutto questione di soldi. Poi bisogna trovare
qualcuno che crede in quello che stai facendo. A me è successo proprio
con Handke, che mi ha aiutato, e molto: perché se una persona come lui
parla bene di un libro, è già un buon inizio. Così è stata stampata
una prima edizione di "Mali ljudje na veliki poti". Per la seconda
c'erano ancora dei dubbi, non sapevamo se l'opera avrebbe potuto
destare ancora qualche interesse, così ho dovuto aggiungere io dei
soldi. Ma poi il libro è stato pubblicato addirittura per la terza
volta. E' inutile, bisogna fare un po' di pubblicità, vendere il pane
finche è caldo... Il libro che uscirà a novembre si occupa invece
della vita in Carinzia durante l'occupazione Inglese, tra il '45 e il
'55: quanti arresti, quante perquisizioni ! Non ho niente contro gli
inglesi, ma devo dire che qui da noi si sono comportati esattamente
come nelle loro colonie, ne possedevano molte, in mezzo mondo e le
hanno sfruttate... A Bleiburg c'era un poliziotto che indossava la
divisa inglese. Era tedesco ed ebreo, e si accaniva contro i partigiani...
Speriamo che la letteratura possa aiutare la lotta contro le guerre...
Si, ma non sarà di nessun aiuto, se i libri verranno stampati e poi
stivati nei magazzini in pile alte fino ai soffitti. Il loro posto è
qui... devono andare tra la gente...
Kolenik scompare per un attimo dalla nostra vista, per rientrare da
una porta, alle nostre spalle, silenzioso come un partigiano. Ha per
le mani un vassoio di dolcissimi kolaci: "Sono buoni. Li ha fatti mia
figlia!". Una nipotina ogni tanto occhieggia dalla cucina. E' curiosa,
ma troppo timida per fraternizzare. Basta guardarla negli occhi per
capire chi è suo nonno. "Parla lo sloveno?" chiedo temendo una
delusione. "E cos'altro? E' la nostra lingua". La risposta mi
riconcilia anche con la pioggia.
(a cura di Angelo Floramo)
--- BORIS PAHOR ---
Scheda sull'autore
Boris Pahor è nato a Trieste nel 1913, citta in cui ancora oggi vive,
medita e scrive. Laureatosi in Lettere all'università di Padova si è
dedicato all'insegnamento e alla scrittura. Ha pubblicato moltissimo,
e i suoi scritti sono stati tradotti dallo sloveno in francese,
inglese, tedesco e perfino in esperanto, ma in lingua italiana sono
stati editi solamente "Necropoli", Consorzio Culturale del
Monfalconese, Begliano 1997; "Il rogo nel porto", Nicolodi, Rovereto
2001 e "La villa sul lago", Nicolodi, Rovereto 2002. Sempre per i tipi
di Nicolodi è uscito quest'anno "Il petalo giallo" (titolo originale:
"Zibelka sveta", la culla del mondo). Per l'autorevolezza della sua
voce e il valore della sua produzione letteraria è attualmente membro
dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Ljubljana e
Vice-presidente dell'Associazione Internazionale per la difesa delle
lingue e delle culture minoritarie. E' redattore e direttore della
rivista "Zaliv" (il Golfo), che ha sempre dimostrato forte impegno per
la tutela della minoranza slovena e per il processo della
democratizzazione della Slovenia. E' tra gli scrittori candidati al
premio Nobel per la Letteratura.
Anno secondo della rivoluzione fascista. E' una trasparente mattinata
di fine autunno, già quasi in odore d'inverno. L'aula scolastica sa di
gesso e di legno impregnato d'inchiostro. Tutto regolare, non fosse
per Julka. Perché oggi ha occhi umidi di pianto la piccola Julka, che
il maestro si ostina a chiamare Giulia. Il maestro: un omino dai
capelli neri e lucidi come il catrame e il distintivo con il fascio
littorio bene in evidenza all'occhiello della giacca. "Danilo, pej
sem". Tre parole soltanto indirizzate a un compagno. Ma bastano
all'omino del fascio littorio per una condanna senza possibilità di
appello. Siamo nel 1924 e Julka ha parlato in sloveno. Perché nella
sua ignoranza etnica e caparbiamente sciava non ha ancora capito che
si chiama Giulia e che deve parlare in italiano. Non certo in
quell'altra brutta lingua. E' un reato grave, insomma, che offende i
patri confini, e la bandiera, e l'italico suolo. Ora i piccoli piedi
di Julka non toccano terra: rimane sospesa per le lunghe trecce
all'attaccapanni, dove l'omino l'ha trascinata mosso da educativo
furore. Così forse le entrerà in testa che italiani, se non lo si
nasce, lo si diventa. Appesa come un vestito sgualcito Julka sembra
una piccola farfalla dalle ali spiegate. Boris Pahor è il cantore di
questa atroce novella, "La farfalla sull'attaccapanni", ed è il
paradigma di tante altre atrocità, grandi e piccole, di cui egli è
stato testimone, suo malgrado, e che costituiscono la trama di una
prolifica vena letteraria che ancora non si è estinta, visto che
l'autore continua a scrivere, a produrre, a studiare. Le sue
narrazioni si intrecciano alla lunga memoria di una vita altrettanto
lunga, intensa, imprigionata dalle maglie di troppe libertà soffocate,
negate, sottratte. E dal bisogno esistenziale di affermare, al
contrario, il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile
libertà. Questa è la poetica che vivifica la sua letteratura. "Hanno
detto di me che Pahor è tutto memoria del campo di concentramento o
voce della minoranza slovena. Ma non è così. E' un'affermazione
riduttiva. Il valore etico che anima la mia scrittura è l'insofferenza
per la non libertà, di qualunque genere essa sia". Protagonista vigile
e lucidissimo del "secolo breve", sloveno Triestino classe 1913, il
che significa novant'anni indossati con affilata e arguta
intelligenza, Pahor resta ancora quasi del tutto sconosciuto
all'editoria e al mondo intellettuale italiano, che lo hanno
volutamente ignorato, a cominciare da Primo Levi che stroncò fin da
subito "Necropoli", la dolorosa esperienza del campo di concentramento
di Struthof, nei Vosgi, in cui l'autore venne internato dai
nazifascisti nel 1944. Un'opera che rimase anche per questo
totalmente sconosciuta in Italia mentre nel resto d'Europa riscuoteva
ammirati consensi e critiche lusinghiere, che definivano il suo autore
come uno degli scrittori europei più interessanti, certamente la
migliore voce vivente nella lingua di Ljubljana. Ci sono voluti
ventitrè anni e il coraggio del Consorzio Culturale del Monfalconese
perché il romanzo che nel 1995 vinse il premio Kosovel - uscisse
finalmente anche in lingua italiana. Oggi, per unanime consenso, è
considerato un capolavoro. Eppure ancora Pahor rimane misconosciuto
dalla cultura di casa nostra, sempre più mondana e salottiera, così
poco europea da rischiare la stigmate di un sonnacchioso chic
provincialismo fatto più di mode che di sostanza. Unica gradita
eccezione l'intelligente editore Claudio Nicolodi, che ha recentemente
acquistato i diritti d'autore per l'Opera omnia di Pahor, anche per
quei romanzi (quasi tutti) che ancora non sono stati tradotti in
italiano. E forse ha avuto buon fiuto, dal momento che da più parti
giungono segnalazioni per un Nobel alla letteratura che finalmente
riconosca il valore di questa voce tanto orgogliosa della sua
"minorità". Ma chi è in definitiva Boris Pahor ? Ogni buona antologia
slovena lo pone tra le voci più rappresentative del Novecento. Nel
2001 la Germania ha inserito "Necropoli" a pieno diritto nella famosa
Bestenliste, il prestigioso elenco dei dodici libri più belli
pubblicati nell'anno. La Francia lo adora, lo coccola, lo sente quasi
suo. Gli editori parigini Phébus e Le Rocher hanno pubblicato gran
parte dei suoi lavori. E in Francia partecipa frequentemente a simposi
e pubbliche letture. E' infatti appena rientrato da St. Malo, dove
assieme ad altri 150 scrittori europei, in 3 giorni di intensa
attività, ha vivacemente animato ben cinque tavole rotonde, discutendo
di letteratura, di appartenenza, di lingue minoritarie, di libertà
negate. La rassegna si intitola: "Etonnants voyagers": viaggiatori
meravigliosi. E davvero la vita di Pahor è stata un viaggio
meraviglioso. Perché dolore e meraviglia sono emozioni che fanno
grande l'essere umano, tanto da renderlo capace di letteratura.
"A St. Malo ho parlato del Fascismo, di quello che ha fatto. Dei suoi
tanti crimini che sono spesso stati sottaciuti. E questo per non dare
troppa materia al Comunismo, che in Italia era davvero forte dopo la
seconda guerra mondiale. Per questo hanno preferito che non si
raccontasse mai la verità su quello che i fascisti hanno fatto qui a
Trieste, in Slovenia, in Croazia. E non parlo della guerra, ma del
periodo tra le due guerre mondiali. Ci hanno annientati. Ci hanno
trattato peggio degli schiavi neri. Quelli, almeno, parlavano la loro
lingua, mantenevano le loro tradizioni. A noi hanno negato tutto: la
lingua, la cultura, l'identità. Se parlavi in sloveno per strada a
Trieste in quegli anni rischiavi che qualcuno ti allungasse uno
schiaffo!"
Eppure c'è stato un tempo in cui Trieste era orgogliosa delle sue
molte anime, delle sue differenze...
"No, a Trieste non è mai interessato un granchè delle sue anime. Ci
credevano gli intellettuali come Svevo e Joyce. Ma a Trieste Svevo e
Joyce non sono mai piaciuti davvero. Certo la città aveva un nome
all'estero. Qui i bastimenti andavano e venivano da ogni parte del
mondo. E i commercianti sapevano bene che passare all'Italia avrebbe
significato la morte di tutto questo. Eppure gli irredentisti andavano
dicendo: cresca l'erba nel porto, ma vogliamo Trieste italiana ! Così
noi sloveni e croati abbiamo dovuto soccombere. Le nostre etnie, o per
meglio dire le nostre nazioni, sono state immolate ai sacri confini
della regione orientale. L'Istria era a maggioranza croata, c'è poco
da fare. C'erano gli italiani sulla costa, nessuno dice di no. Ma
l'interno dell'Istria era ed è croato. Noi in quegli anni abbiamo
pagato l'imperialismo interno dell'Italia, lo stesso che si è espresso
all'estero sui Balcani o sulla Libia, lo stesso che Bretoni,
Provenzali e Alsaziani hanno dovuto soffrire in Francia, o i Catalani
sotto il regime di Franco".
Ma come è cominciata a Trieste la persecuzione ?
"Già nel 1920. In quell'anno vennero dati alle fiamme tre centri di
cultura sloveni, uno a Trieste città, uno a Barcola e uno a San
Giovanni, assieme a molti studi di nostri avvocati, a tipografie,
teatri. Ma l'incendio dei centri culturali è stato un atto molto
forte, perché noi sloveni siamo sempre stati legati ai nostri centri
di cultura. In ogni borgo, per quanto piccolo, sorge anche oggi una
kulturni dom. E' questa consapevolezza della nostra identità che ci ha
aiutato a sopravvivere nei secoli. Nel `30, a dieci anni
dall'incendio, Francesco Giunta, uno dei fondatori delle squadre
d'azione triestine, celebrò in un libro l'evento come la prova che la
rivoluzione fascista era nata proprio a Trieste".
Lei ricorda quei momenti nella sua opera Il rogo nel porto. Che
impressione le resta di quei giorni ?
"Ho personalmente vissuto la distruzione del teatro di San Giacomo.
Era la festa di San Nicolò e il Santo, accompagnato di diavoli,
distribuiva piccoli regali ai bambini. Poi sono arrivati i diavoli
veri, quelli con il fez e i manganelli. Avevo sette anni. Ero lì con
mio padre e le mie due sorelline. Hanno gettato tutto dalle
finestre... appiccato il fuoco. Era un teatro coi fiocchi... La città
è rimastra neutra. Ha assistito senza esprimere alcun parere."
E in casa quale clima si era venuto a creare in conseguenza al fatto?
"Mio padre bestemmiava, mia mamma piangeva... e poi piangeva anche
perché mio padre bestemmiava. Era un uomo buonissimo mio padre, ma
quando si scaldava... vendeva burro, miele e ricotta a Ponterosso. Un
mestiere molto duro. D'inverno rischiavi che la bora buttasse tutto in
canale. C'era tanto freddo che mio padre si metteva un giornale sotto
la giacca, per proteggersi in qualche modo dal gelo. E d'estate invece
il burro si scioglieva per il gran calore. Pensi che sotto l'Austria
era fotografo della polizia scientifica. Poi il nuovo governo italiano
pensò bene di allontanare tutti gli amministrativi e lo trasferirono
in Sicilia. Ma mio padre preferì mettersi in pensione. E per vivere
andò ad aiutare mio nonno su questo banco a Ponterosso. Era tenace, ci
teneva alla sua identità. Volle che sulla tomba di famiglia, in
cimitero, ci fosse una croce con su scritto Drusina Pahor, famiglia
Pahor, in sloveno. In quegli anni cambiavano i nomi anche ai morti. Ma
quella croce è rimasta lì... chissà, forse perché non eravamo
importanti, non ci conosceva nessuno e così nemmeno la notarono".
Lei allora era un ragazzino...
"Ho vissuto malissimo quegli anni. Il passaggio alla classe quinta
elementare è stato drammatico. Dopo quattro anni di scuola in sloveno
dover diventare improvvisamente italiano... E' stato un disastro
completo. Ovviamente andavo malissimo a scuola. E mio padre lo visse
come un fallimento personale. Tanto che qualcuno suggerì in famiglia
di farmi entrare in seminario. Fui mandato così a Koper, Capodistria.
Una città istriana, ma abitata da lattaie e contadine croate e
slovene, come Gorizia, come Trieste. E qui ho incontrato moltissimi
altri giovani croati e sloveni, come me. Sono stati anni
importantissimi. Ho preso coscienza di me stesso. Mi sono ricostruito
psicologicamente. Ma non era certo la mia strada, quella del
seminario. Così dopo altri due anni di teologia sono uscito e appena
fuori mi hanno arruolato: era la Campagna di Libia. Un'esperienza
strana. Facevo il militare per una nazione che voleva annullare la mia
identità. Ho combattuto per quella Nazione e ho guadagnato anche due
medaglie".
E' una situazione paradossale davvero: scommetto che sulle medaglie
l'iscrizione non era in lingua slovena !
"Oh no ! Ma ero contento, in un certo senso, di essere lontano dal
groviglio Triestino. Il deserto poi mi suggeriva una vastezza di
orizzonti che non avevo mai potuto vivere prima. E gli arabi: li
sentivo a me molto vicini, una nazione oppressa dall'Italia, come lo
era anche la mia nazione. Dall'esperienza di quegli anni è nato un
libro: "Nomadi senza oasi". E poi in Libia ho potuto prendere il
diploma di maturità classica, al liceo Carducci di Bengasi. Mi ero
portato dietro tutti i libri che potevo, infilandoli in ogni tasca
disponibile. Il mio comandante infatti non mi poteva sopportare. Era
uno che aveva combattuto in Spagna per Franco... e dal momento che io
non mi interessavo proprio ai suoi cannoni, mi aveva fatto lasciare
gran parte dei miei libri a Tripoli... per ripicca".
Beh, un fatto singolare... uno sloveno che in Libia consegue la
maturità classica in un Liceo Italiano !
"E' stata una specie di riscatto. Dei trentacinque ufficiali italiani
che hanno sostenuto l'esame ne sono stati promossi soltanto sei. E tra
quelli l'unico otto in italiano è stato il mio, quello di Boris Pahor,
sloveno triestino!".
E poi l'esperienza terribile del campo di concentramento, dalla quale
nasce il romanzo Necropoli...
"Le mie simpatie per i partigiani erano evidenti. Assieme ad altri
avevo costituito nel 1944 un comitato triestino di opposizione ai
nazifascisti. Ma una settimana dopo ero già nelle loro mani. Trovarono
in casa mia dei documenti compromettenti. Avevo scritto da qualche
parte che i nazisti si sarebbero rotti la testa sulle scogliere di
Trieste. Questo è bastato. Era il 28 febbraio del 1944. Assieme a me
sono partiti altri seicento disgraziati come me".
Ma la sua voce è sempre stata pronta a condannare ogni tipo di non
libertà, da qualunque parte venisse l'oppressione...
"La mia letteratura si è sempre interessata alle storie semplici della
povera gente. La mia poetica è e resterà l'insofferenza per la
mancanza di libertà. Sono stato sempre un non allineato. Per questo
non ho mai riscosso grandi simpatie, né da una parte né dall'altra. La
lotta di liberazione partigiana è stata pluralistica, animata da un
fortissimo valore etico: comunisti, liberali e cristiano sociali hanno
lottato assieme per la libertà. Poi le cose sono cambiate. Pensi a
quello che è accaduto a Edvard Kocbek: un cristiano sociale che ha
combattuto assieme a Tito, un intellettuale di grande levatura e
apertura culturale, autore tra l'altro di un libro importantissimo e
non adeguatamente valorizzato, La Compagnia (ed. Cseo, Bologna 1979,
n.d.r.), che andrebbe rivalutato; uno che è diventato vicepresidente
del Parlamento iugoslavo... beh, è stato liquidato politicamente
perché non allineato con le scelte della Iugoslavia di allora. E gli
eccidi compiuti nel '45 contro gente disarmata non possono essere
considerati lotta di liberazione ! Io non potevo non pronunciarmi su
tutto questo. Per questo la mia è ancora oggi considerata una voce
scomoda."
E poi la fine della guerra, il ritorno a casa...
"E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a
Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo
scontro tra Oriente e Occidente. Due delle opere che compongono la mia
trilogia, come l'hanno chiamata i critici, "Labirinto" e "Primavera
difficile" (la terza opera della trilogia è "Oscuramento"; nessuna
delle tre è ancora stata tradotta in italiano, n.d.r.), sono
ambientate in quegli anni così difficili. Si parla di un amore
contrastato, della malattia di TBC contratta dal protagonista, delle
difficoltà di adattamento di un ex deportato".
Dunque ancora gabbie, ancora confini. Confini che forse l'Europa che
sta nascendo potrà cancellare. Crede che l'Europa unita, di cui anche
la Slovenia entrerà a far parte, permetterà di abbattere queste
barriere ?
"Il Presidente della Repubblica Slovena mi ha invitato a partecipare
come ospite gradito alla celebrazione della festa dell'Indipendenza
della Repubblica, il 25 giugno scorso. Ma non ci sono andato perché la
comunicazione mi è giunta troppo tardi. La lettera ci ha messo sette
giorni per arrivare da Ljubljana a Trieste. Sette giorni per
attraversare una distanza di sessanta chilometri. Come vede l'Europa
dei confini resta".
E la Slovenia, cosa potrà portare all'Europa ?
"Per prima cosa l'esempio di come si possa restare fedeli alla propria
identità senza armate, senza generali e senza ammiragli. Un'identità
bastata sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo
sopravvivendo a una storia che da sempre ha cercato di assorbirli, di
omologarli: prima la germanizzazione dell'Impero Asburgico, poi il
Fascismo e l'Italianizzazione forzata e infine gli anni iugoslavi,
serbizzanti, orientalizzanti. L'internazionalismo di Tito è sempre
stato contrario alla salvaguardia delle identità nazionali. Una
posizione molto lontana da quella del Partito Comunista Italiano, che
appunto è sempre stato fiero della sua identità nazionale: prima
comunisti ma poi anche italiani. E poi la Slovenia ha una grande
tradizione letteraria. Una letteratura di valore, per quanto
espressione di un piccolo popolo, è sempre motivo di ricchezza per
tutti".
E dedicandosi a questa ricchezza lei continua a pensare, a scrivere, a
raccontare...
"L'ultimo libro che ho scritto si intitola "Zibelka sveta", la Culla
del mondo, che in Francia è stato edito da Le Rocher nel 2002. Qui in
Italia è edito da Nicolodi. E' uscito quest'anno con il titolo: "Il
petalo giallo". E' la storia di un incesto perpetrato per anni da un
padre sulla propria figlia. La protagonista si innamorerà di un
sessantenne sopravvissuto ai campi di sterminio. E i loro dolori, le
loro prigionie, così diverse ma tanto simili, si incontreranno nella
ricerca di se stessi attraverso un sentimento molto forte che dalla
conoscenza passa alla convivenza, quindi alla comprensione per
sbocciare infine nell'amore".
La donna che redime il dolore attraverso l'amore dunque ?
"La donna è la culla del mondo".
(a cura di Angelo Floramo)
"foibe ed esodo":
https://www.cnj.it/documentazione/paginafoibe.htm
Indice dei documenti sulle "foibe" ed il revanscismo italiano su
Istria e Dalmazia
(in ordine inverso di inserimento):
# Asse revanscista-revisionista tra Roma e Berlino (dal sito GFP,
aprile 2005)
# Le foibe istriane di Giacomo Scotti (intervento ai margini della
iniziativa PARTIGIANI!, Roma 7-8 maggio 2005)
# G. Scotti: Reality Foibe. Così iniziò la stagione di sangue ("Il
Manifesto" di Venerdì, 4 Febbraio 2005)
# Quando si cominciò a parlare di foibe? Ristabiliamo la verità
storica di Federico Vincenti (pubblicato su "Patria Indipendente" del
19/9/2004)
# Dossier : La verità sulle foibe di Marco Ottanelli - mirror dal
sito: democrazialegalita.it
# Operazione foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica:
dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al
neoirredentismo (versione online integrale della edizione 1997 del
libro di Claudia Cernigoi): https://www.cnj.it/FOIBEATRIESTE/index.htm
Dibattito sulle foibe ed a proposito della fiction fascista "Il cuore
nel pozzo":
Il mercato chiede foibe, Repubblica risponde (R. Pignoni, marzo 2005)
Intervista a Claudia Cernigoi (febbraio 2005, Angelo Floramo / Il
Nuovo FVG)
La memoria delle foibe in Istria: intervista a Giacomo Scotti
(10.02.2005, Andrea Rossini / Oss. Balcani)
Intervento del giornalista e scrittore Armando Černjul (Pula/Pola,
4.02.2005)
Comunicato del Comitato contro le falsificazioni storiche (Trieste,
dicembre 2004)
Comunicato dell'Associazione Promemoria (Trieste, dicembre 2004)
Dalla redazione de "La Nuova Alabarda" (Trieste, settembre 2004)
Polemiche nel Partito della Rifondazione Comunista sulle iniziative
della maggioranza bertinottiana in merito alle "foibe":
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4327
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4308
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4271
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4196
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3179
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3095
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2852
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2838
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2830
Due interventi di una esule istriana sul "Giorno delle Smemoranze" (10
Febbraio) e sulle vere cause dei drammi con i quali si è conclusa la
II Guerra Mondiale
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4255
--> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4239
Bibliografia
Alla pagina: https://www.cnj.it/documentazione/paginafoibe.htm
...Nostalgia del Real o anche di Madrid?
"Soprattutto di Madrid. A quei tempi, dieci anni fa, si respirava
un'aria effervescente, l'aria del Paese che, in Europa, stava facendo
i progressi più grandi. Quando sono tornato in Italia, mi è sembrato
di avere fatto dei passi indietro: questo paese dorme".
La Spagna in sintesi?
"Il calore e la creatività latina regolati da un ordine rigoroso.
L'ordine che viene da Franco".
Franco era un dittatore.
"Ma ha lasciato in eredità l'ordine. In Spagna funziona tutto e
funziona bene, ci sono educazione, pulizia, rispetto e poca
burocrazia. Dovremmo prendere esempio..."
(dall'intervista a Fabio Capello, allenatore, su Repubblica:
http://www.repubblica.it/2005/k/sezioni/sport/calcio/capemadrid/franco2/franco2.html
)
...All'interno dello stadio, prima e durante la partita, sono comparsi
nella curva degli ultras romanisti, striscioni che innegiavano ai
forni crematori, bandiere naziste, svastiche, croci celtiche e
drappi con il ritratto di Mussolini e anche immagini della capra
istriana... Il vice premier, Gianfranco Fini, non crede che sia una
questione politica... In molti sostengono che, in presenza di fatti
del genere, le partite andrebbero fermate...
(da Il Piccolo del 31/1/2006)
...si trovavano attorno agli striscioni e ai simboli nazisti apparsi
domenica nella curva sud dell'Olimpico prima di Roma-Livorno, dalle
svastiche al lugubre «Gott mit uns» e all'inquietante «Lazio Livorno
stessa iniziale stesso forno»... Ponte Duca d'Aosta, prima del
passaggio dei pullman livornesi: lì c'era il materiale per l'agguato,
sei bottiglie molotov e lo striscione con la scritta «V'avemo bruciato
vivi» che sarebbe servito per l'agghiacciante rivendicazione dalla
curva...
(da il manifesto del 1 Febbraio 2006,
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/01-Febbraio-2006/art121.html
)
(français / italiano)
200 pages, Editions Le Verjus, 2005
Correspondance: CAP 8, BP 391, 75869 Paris cedex 18
email: ldalmas @ wanadoo.fr -- www.b-i-infos.com
---
http://www.b-i-infos.com/dossier_srebrenica.php
Le dossier caché du "génocide" de Srebrenica
Recueil de documents
Editions Le Verjus
En publiant l'an passé, sous le titre "Ma vérité", la version française du plaidoyer que Slobodan Milosevic a prononcé devant le Tribunal pénal international de La Haye en introduction à sa défense, l'association Vérité et Justice ne prenait pas le parti de l'ancien président de la République fédérale de Yougoslavie, mais celui d'une information complète et équitable. Si ce procès était le "procès du siècle", comme le proclamait la presse en France et ailleurs, les comptes rendus de son audience auraient dû être constants et abondants. Or ils ne l'ont été que dans les périodes où le procureur portait ses accusations, mais pour ainsi dire jamais lorsque l'accusé démontrait leur inanité. "Ma vérité" visait ainsi à rétablir pour le public français un équilibre négligé par les chroniqueurs de La Haye. Et elle permettait dans le même temps de faire entendre sur la tragédie yougoslave une argumentation et des réalités auxquelles, durant une quinzaine d'années, les colonnes des journaux de ce pays étaient hermétiquement closes.
C'est avec le même souci de fournir une information complète que parait aujourd'hui le deuxième ouvrage de l'association Vérité et Justice, consacré, cette fois, au dossier de Srebrenica. A l'occasion du 10e anniversaire des crimes commis après la prise par les Serbes de Bosnie de cette "zone de sécurité" de l'ONU en juillet 1995, la communauté internationale a organisé, l'été dernier, dans la région du drame, une cérémonie du souvenir, en lui donnant une solennité conforme à la thèse qu'elle avait soutenue durant la décennie écoulée et qui assimilait ces crimes à la "pire horreur perpétrée en Europe depuis la fin de la Seconde guerre mondiale". En rendant compte de cette manifestation, tous les médias ont répété, sans la moindre réserve, la version officielle en l'honneur depuis dix ans et selon laquelle les forces serbes de Bosnie, après avoir pris le contrôle de la ville, avaient exécuté de sang froid de 7 à 8.000 prisonniers musulmans, aussi bien civils que militaires, selon un plan conçu à l'avance, connu et autorisé par les principaux dirigeants de la Républika Srpska, à savoir Radovan Karadzic et le général Mladic, et même par Slobodan Milosevic, président alors de la Serbie. Et dans cette présentation des faits, la tuerie n'apparaissait pas seulement comme un massacre ordinaire, mais comme un génocide caractérisé, perpétré délibérément contre la population musulmane en vue de l'éliminer de la région.
Cette version a été d'autant plus ressassée à l'occasion de la commémoration qu'elle avait été "légalisée" auparavant par le TPI.
Le 2 août 2001, la chambre de première instance du tribunal de La Haye avait, en effet, jugé que les évènements de Srebrenica en juillet 1995 constituaient un "génocide" et avait condamné pour ce crime (et d'autres) le général Ratislav Krstic, commandant une unité engagée dans cette opération, à 46 ans de prison. Certes, la chambre d'appel du même tribunal avait réduit, le 19 avril 2004, la sentence à 35 années de détention, estimant que l'officier serbe n'était coupable que "d'aide et de complicité", mais elle avait maintenu la qualification de "génocide" pour le cas de Srebrenica dans son ensemble.
La presse française a applaudi à ces deux jugements qui satisfaisaient son attente parce qu'ils justifiaient ses engagements passés. Elle a omis de signaler que son avis était loin d'être partagé par des experts de réputation mondiale.
Ainsi Michael Mandel, professeur de droit international à l'université York de Toronto déclarait, dans un texte figurant dans l'ouvrage de l'association Vérité et Justice : "L'affirmation du Tribunal qu'un génocide a eu lieu à Srebrenica, n'est corroborée ni par les faits relevés ni par le droit invoqué". Rien de moins, et il en faisait une brillante démonstration qui aurait dû, à coup sûr, retenir l'attention. Le juriste soutenait aussi : "Si le cas de Krstic (le général condamné) a un sens quelconque, il signifie qu'il n'y a pas eu de génocide à Srebrenica. La conclusion de la cour ne peut être considérée que comme une forme légale de propagande, et comme une nouvelle contribution à l'impression grandissante que le tribunal est plus un 'instrument politique' qu'une 'instance juridique', pour paraphraser son plus célèbre accusé" (Slobodan Milosevic).
Michael Mandel travaille depuis des années au sein du Srebrenica Research Group réunissant des personnalités anglo-saxonnes indépendantes décidées à faire la lumière sur le cas de Srebrenica en bannissant tous les préjugés. Ce groupe de recherche a publié récemment ses conclusions où il apparaît qu'aucune des propositions articulant la version officielle de l'affaire de Srebrenica ne résiste à un examen sérieux des faits, du nombre des victimes musulmanes jusqu'à l'accusation de génocide commis par les forces serbes de Bosnie, en passant par la préméditation et la planification, deux conditions nécessaires pour que ce crime soit constitué, et sans même parler des responsabilités remontant au sommet de la hiérarchie serbe qui ne sont jamais sorties du domaine des présuppositions du Tribunal de La Haye. Qu'il y ait eu des exécutions sommaires, donc des atrocités, ne fait aucun doute pour tous les collaborateurs du groupe. Simplement ils estiment, s'appuyant sur leurs analyses, que le nombre et la nature des victimes, ainsi que le contexte général des évènements de Srebrenica, ont été présentés de manière tendancieuse et qu'il faudrait les réexaminer sans parti pris. Et pour y parvenir, écrivent-ils, il est indispensable de replacer ces crimes à la fois dans les conditions de la guerre civile qui a ravagé cette région de Bosnie occidentale depuis 1992, et dans le déploiement par les principaux protagonistes des dispositions tactiques et stratégiques qui, durant l'année 1995, ont précédé et préparé le nettoyage des Serbes de la Krajina et la réduction, toujours par la force, des dimensions, donc aussi du poids, de la Republika Srpska, à laquelle les accords de Dayton finiront par attribuer les droits et les frontières actuelles.
"Le dossier caché du génocide de Srebrenica" réunit la traduction d'un certain nombre de textes étrangers, indispensables à la manifestation de la vérité, et sur lesquels la presse française a observé un mutisme complet, donc coupable, quelles qu'en soient les véritables raisons.
Dans une première partie figurent trois contributions du Groupe de recherche sur Srebrenica : celle de Michael Mandel sur le TPI et le concept de "génocide" ; l'analyse générale (et lumineuse) des évènements faite par le directeur du groupe, Edward Herman, de l'université de Pennsylvanie ; et, enfin, le témoignage de Philip Corwin qui a été le coordinateur des affaires civiles en Bosnie.
La deuxième partie présente les témoignages personnels du général canadien Lewis MacKenzie, premier commandant des forces de la paix de l'ONU à Sarajevo, et d'un officier portugais, Carlos Martins Branco, ancien observateur militaire de l'ONU en Bosnie et selon lequel les chefs bosniaques musulmans auraient facilité la reprise de Srebrenica par les Serbes en juillet 1995 pour pouvoir mieux les isoler sur le plan international en les culpabilisant à outrance pour les méfaits qu'ils ne manqueraient de commettre.
Dans cette même partie, on trouvera deux témoignages sur le chef musulman Nasser Oric et ses hommes qui avaient massacré des civils serbes et harcelé sans cesse cette population avant et après la création à Srebrenica d'une zone de sécurité de l'ONU.
La troisième partie est constituée par le rapport sur Srebrenica que deux organismes de la Republika Srpska (le Centre de documentation et le Bureau gouvernemental chargé des relations avec le TPI) ont rendu public le 3 septembre 2002.
C'est un document inédit car il n'a jamais pu être diffusé. Dès sa présentation, il était dénoncé avec violence par les milieux musulmans, le Haut commissaire Paddy Ashdown, l'ambassade des Etats-Unis et celle du Danemark parlant au nom de l'Union européenne. Le TPI le déclarait "scandaleux et honteux" parce qu'il ignorait "les preuves établies par le Tribunal lors du procès (en première instance) du général Ratislav Krstic pour génocide commis sur les musulmans de Srebrenica".
Le gouvernement de Banja Luka était contraint de le retirer et d'abandonner son projet de lui donner une suite. Il sera plus tard forcé de parrainer un autre rapport, autrement plus en phase avec les désirs de la communauté internationale, mais ce texte n'a pas été publié jusqu'à ce jour, sans qu'on en connaisse le vrai motif. Il était en tout cas normal que le rapport condamné de 2002 figure dans ce livre car il montre de manière indirecte ce que cette "communauté" refuse d'entendre dans son souci pragmatique d'imposer une vérité au lieu de s'intéresser à la vérité.
"Le dossier caché du génocide de Srebrenica" témoigne que l'enquête sur cette affaire est loin d'être terminée car, pour satisfaire l'esprit et le cur, elle doit être complète non seulement sur les faits eux-mêmes, mais aussi sur leurs manipulations et sur les auteurs de celles-ci, avec leurs mobiles et leurs calculs. "L'hypocrisie, disait Péguy, est la forme la plus abjecte de la violence". C'est dans le but précis d'illustrer ces évidences que ce livre a été conçu et publié.
Kosta CHRISTITCH
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La verità sull'episodio della guerra in ex Jugoslavia presentato dai grandi media come la peggiore atrocità in Europa dalla seconda Guerra Mondiale
L'analisi del gruppo di ricercatori americani
Documenti e testimonianze inedite
Il rapporto censurato dei Serbi di Bosnis
Un video dubbio passato al microscopio
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IL GRUPPO DI RICERCA SU SREBRENICA
Questo libro è il secondo di una collezione che vuole essere il riflesso fedele di una realtà troppo sovente deformata dai grandi media, e che si impegna quindi a pubblicare documenti inediti, celati o ignorati.
La prima opera è stata un'analisi dell'ultimo decennio dei Balcani, fatta dal " criminale di guerra" Slobodan Milosevic [1], a cui nessuno aveva osato dare le parole. Il suo testo ne arringa o autobiografia, o memorie, ma esposizione geostrategica abbondantemente documentata ci è sembrava un contributo storico interessante nella misura in cui si differenziava in modo solidamente sostenuto dalla versione ufficiale degli avvenimenti
Il dossier nascosto del " genocidio di Srebrenica è dedicato ad un episodio diventato il simbolo della "barbarie serba": la conquista da parte dei serbi di Bosnia di una" zona di sicurezza" dell'ONU, la cittadina di Srebrenica, strappata alle forze bosno-musulmane nel luglio 1995. Secondo gli occidentali, la caduta di questa enclave è stata insanguinata dall'esecuzione di 7 a 8 mila musulmani, adulti maschi e giovani, indistintamente militari e civili, un massacro qualificato dai media del mondo intero "genocidio" e "il peggior orrore perpetrato in Europa dall'a fine della seconda Guerra Mondiale."
Il dossier che abbiamo assemblato mette seriamente in dubbio questa affermazione.
Il dossier è diviso in quattro parti:
1 Parte:
Il risultato di numerosi anni di ricerca effettuate da un gruppo indipendente di personalità anglosassoni the Srebrenica Research Group (Gruppo di Ricerca su Srebrenica) - ciascuna un'autorità nel suo campo, che si sono prefisse come obbiettivo di investigare sugli avvenimenti di Srebrenica senza pregiudizi o partiti presi. Le loro conclusioni ampiamente documentate sono appena state pubblicate negli Stati Uniti. Noi abbiamo scelto di tradurre gli articoli di tre dei firmatari del rapporto [2][Unp1]: l'alto responsabile delle Nazioni Unite Philip Corwin, che descrive un contesto nel quale egli ha avuto un ruolo capitale; lo scrittore e giornalista Ed Herman, che riassume l'insieme del lavoro del gruppo; Michael Mandel, che passa al pettine l'accusa di genocidio formulata dal Tribunale penale internazionale dell'Aja.
2 Parte:
Opinioni e testimonianze degli attori responsabili degli avvenimenti, come il generale canadese Lewis Mac Kenzie e l'alto funzionario dell'ONU Carlos Martins Branco, o persone che hanno vissuto delle esperienze sul terreno.
3 Parte:
Il testo integrale del rapporto redatto da una commissione speciale del governo dell'entità serba di Bosnia, la Repubblica Srpska, Questo rapporto contiene una descrizione precisa dei fatti che sono seguiti alla caduta della cittadina, e un'enumerazione dei commessi nei suoi dintorni, durante gli anni precedenti, dalla guarnigione musulmana dall'enclave cosiddetta smilitarizzata. E' stato censurato dall'Alto Rappresentante delle Nazioni Unite in Bosnia, Lord Paddy Ashdown, che l'ha fatto sostituire con un testo redatto a sua convenienza.
4 Parte :
L'analisi critica di una video cassetta che mostra l'esecuzione di sei prigionieri musulmani da parte di un gruppo paramilitare serbo. Questa cassetta è stata opportunamente "ritrovata" nel 2005, in concomitanza con il decimo anniversario della caduta di Srebrenica, ed è stata presentata dai grandi media mondiali come la prova "definitiva ed irrefutabile"del massacro.
Per ultimo, delle conclusioni riassumono l'insieme del dossier ed enumerano alcune ragioni per non accettare la versione ufficiale propagata dai media occidentali da oltre dieci anni.
Alcuni si stupiranno di vedere l'Associazione Verité et Justice consacrare una seconda opera a quella che può essere considerata come una difesa dei Serbi. In effetti questa non è la specialità che si è fissata per vocazione.
Ma i Serbi sono stati l'oggetto, nel corso dell'ultimo decennio, di una demonizzazione unilaterale ed incessante da parte di tutti i grandi media occidentali, accompagnati da una costante riduzione al silenzio di tutti coloro che si inquietavano per questa imparzialità [3], che ci è sembrato la più elementare equità dare la parola alla parte emarginata. Non si scrive la storia ascoltando solo una parte. Il nostro ruolo non è di dire ai Serbi che hanno sempre ragione; è di ascoltarli. Se l'opinione pubblica vuole giudicarli, che lo faccia a conoscenza di causa, permettendo agli accusati di esprimersi. Questo non è stato il caso fino ad ora, ed è questo disquilibrio che noi abbiamo voluto compensare, ricercando, conformemente al nome della nostra associazione, la verità pensando alla giustizia.
Ringraziamo specialmente Frédeic Saillot, che ha tradotto dall'inglese il rapporto della Repubblica Srpska, [4] Ivanka Mikitic, che ha tradotto dal serbo le testimonianze di certi testimoni e ha riletto le prove, Kosta Kristic e Fabrice Garniron, che hanno rivisto i testi e apportato le correzioni necessarie.
Presidente dell'associazione Verité et Justice
[1] Ma Verité di Slobodan Milosevic Edizioni Le Verjus (Associazione Verité et Justice)
[2] Il rapporto comprende altri testi importanti per i quali non avevamo sfortunatamente posto per la pubblicazione: in particolare quelli di gorge Bogdanic, che ha contribuito a due rimarcabili analisi del contesto politico e militare dell'affare Srebrenica, diJonathan Rooper, che ha studiato la manipolazione delle cifre, e di Philip Hammond che ha esaminato in dettaglio il modo in cui i media britannici hanno riportato gli avvenimenti.
[3] Da più di otto anni, il mensile B.I. (ex Balkans Infos) ha rilevato numerosi esempi di questa informazione tendenziosa. La collezione completa dei numeri può essere consultata sul sito b-i-infos.com
[4] Il rapporto era scritto in un inglese a volte maldestro, risultato indubbio della traduzione dal serbo. Non abbiamo potuto ottenere la versione serba originale, la cui diffusione è stata proibita dall'Alto rappresentante delle Nazioni Unite [Unp1]
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PRIMA PARTE
IL GRUPPO DI RICERCA SU SREBRENICA
(Il gruppo americano di ricerca su Srebrenica)
Il SREBRENICA RESEARCH GROUP è un gruppo autofinanziatosi di giornalisti e ricercatori universitari che lavorano insieme da oltre tre anni allo studio di tutte le informazioni relative alla caduta di Srebrenica, e alla comparazione fra i fatti reali e la loro presentazione unilaterale e in grande scala che ne è stata fatta.
Il gruppo è diretto da Edward Herman, dell'Università di Pensylvenia, autore di molti libri sugli avvenimenti militari e la loro copertura mediatica Egli è coeditore con Philip Hammond di una serie di saggi intitolata "Degraded capability: the Media and Kosovo crisis" ( Capacità degradata: la crisi dei Media e del Kosovo), ed è coautore con Noam Chomsky di "Manufacturing consent" (Consenso fabbricato), uno studio classico del ruolo della stampa nella guerra del Vietnam e d'altri conflitti.
Sono membri attivi del gruppo il giornalista della BBC Jonathan Rooper, che esercita a Londra dopo aver tenuto una rubrica nel New York Press, che ha collaborato con numerose pubblicazioni inglesi e americane e che lavora per il National Law Journal a New York, George Bogdanic, anch'egli a New York, i cui articoli sono stati pubblicati da Chicago Tribune, The Nation, The Progressive e molti altri e che ha realizzato e prodotto con Martin Lettmayer il documentario "Yugoslavia: la guerra evitabile" proiettato in Europa e in Canada.
Mchael Mandel, professore di diritto internazionale all'Università York di Toronto, ha scritto molto sul tribunale per i crimini di guerra. Un altro commentatore della copertura mediatica dei conflitti è Philip Hammond, dell'Università London South Bank. Tim Fenton è un ricercatore e documentarista londinese. David Petersen, che risiede nei dintorni di Chicago, scrive di politica estera per diverse pubblicazioni e molti siti internet. Milan Bulajic, del Fondo di ricerca sul genocidio, ha passato cinquant'anni di carriera a studiare i crimini di guerra. Giurista di diritto internazionale, ha diretto la Commissione dello Stato jugoslavo sui crimini di guerra ed il Museo del genocidio, e è l'autore di sessanta libri sui genocidi e i crimini di guerra.
Fra i collaboratori e consiglieri del gruppo figura Phillip Corwin, ex coordinatore dell' ONU per gli affari civili in Bosnia e ex redattore dei discorsi del Segretario dell'ONU Perez de Cuellar, autore di " Dubious mandate: a Memoir of the UN in Bosnia" e di "Doomed in Afganistan".
Un altro responsabile dell'ONU, Carlos Martins Branco, ha servito come vice direttore dell'UNMO ( UN Monitors in Bosnia- i controllori delle Nazioni Unite in Bosnia) e ha "débriefé" gli osservatori dell'ONU a Srebrenica. Egli è oggi colonnello dell'esercito portoghese.
Hanno in ugual maniera prodigato i loro consigli Diana Johnstone, autrice di "La crociata dei pazzi" , il professore belgradese Vera Vratusa, il ricercatore residente in Germania George Pumphrey, lo scrittore di Belgrado Milivoje Ivanisevic, che si è occupato di importanti ricerche sui crimini di guerra in Bosnia., l'esperto scientifico militare internazionalmente riconosciuto Zoran Stankovic, e l'archeologo Srboljub Zivanovic, membro londinese del Royal Anthropological Institute.
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### Il libro "Il Dossier nascosto del "genocidio" di Srebrenica" è in corso di traduzione in lingua italiana. ###
il manifesto - 29 Gennaio 2006
EUROPA - CARINZIA
L'ultima battaglia di Haider contro gli sloveni
Nazionalisti austriaci e locali contro la sentenza della Corte sui
«cartelli bilingui». Schüssel tace
ANGELA MAYR
«E' possibile che delle persone adulte nell'Europa dell'anno 2006
temano una invasione slovena?», si chiede il quotidiano viennese Der
Standard appellandosi direttamente «An die Kärntner» (ai carinziani),
gli abitanti della regione austriaca governata da Jörg Haider
confinante con l'Italia e la Slovenia. In nome loro, della «comunità
di popolo» rimessa in campo, il governatore della Carinzia si oppone
all'installazione di cartelli topografici bilingui, in sloveno oltre
che in tedesco, prescritta da una sentenza della corte costituzionale
austriaca del dicembre scorso. «La sentenza è sbagliata,
contraddittoria, non corretta, non ammissibile e mette in pericolo la
pace nel paese», ha minacciato Haider, ex leader della Fpö ora a capo
di un partito arancione, Bzö, da lui fondato, accusando di illegalità
il presidente della corte costituzionale Karl Korinek. Già nel 2001
una sentenza della Corte chiese l'installazione di cartelli
topografici bilingui nei comuni con una popolazione slovena superiore
al 10% (abrogando una legge regionale che prevedeva un tetto del 25%)
in applicazione dell'articolo 7 del contratto di stato del 1955 -
fondamento della ricostituita autonomia statuale austriaca postbellica.
L'articolo 7 sancisce i diritti di parità delle sei minoranze
linguistiche autoctone austriache. In Carinzia (Kaernten/Koroska)
circa 200 comuni dovrebbero avere cartelli bilingui. «I cartelli sono
diventati il simbolo del riconoscimento dell' esistenza di una
minoranza slovena sul posto, - spiega Rudi Vouk del consiglio degli
sloveni carinziani - là dove ci sono lo sloveno è riconosciuto come
lingua ufficiale e le associazioni culturali slovene vengono
sovvenzionate dai comuni». Avvocato di professione, è stato Vouk a
provocare le due sentenze della Corte costituzionale con un espediente
originale: attraversando in macchina oltre i limiti di velocità prima
S.Kanzian e poi Bleiburg, paesi con minoranza slovena, e rifiutandosi
poi di pagare la multa per l'assenza di cartelli in lingua slovena.
Altri 20 ricorsi contro multe linguisticamente scorrette giacciono
presso la Corte.
Contro la sentenza Haider ha confezionato un'inchiesta popolare
chiamando la maggioranza a decidere sui diritti della minoranza: un
attacco alla democrazia e allo stato di diritto senza precedenti
denunciato dalle opposizioni di socialdemocratici e Verdi e dal
presidente della repubblica Heinz Fischer, ma tollerato nei fatti dal
cancelliere Wolfgang Schüssel del partito popolare (övp) rimasto
finora in silenzio.
Non a caso, giacché Schüssel, presidente di turno dell'Unione europea,
è ostaggio dell'alleato di governo Haider che minaccia di far saltare
l'accordo con i popolari se la övp pretende l'applicazione della
sentenza. E c'è da credergli perché sulla questione dei cartelli
topografici Haider gioca la sua ultima partita in vista delle elezioni
politiche previste l'autunno prossimo, dopo il tracollo subito alle
regionali di Stiria, Vienna e Burgenland dove il Bzö è rimasto senza
rappresentanza: ottenere un seggio diretto in una circoscrizione della
Carinzia, nell'area dei comuni bilingui è oggi il solo modo per
assicurarsi l'ingresso in parlamento, visto che il suo partito è dato
largamente al di sotto del quorum nazionale fissato al 4%. Per battere
la concorrenza dell'altro pezzo del suo vecchio partito che è rimasto
col nome Fpö, Haider punta sul «superamento a destra», come ha
registrato l'ex ideologo e europarlamentare della Fpö Andreas Mölzer-
Ostaggio di Haider è diventato anche l'Orf, la televisione di stato
austriaca, che si rifiuta di trasmettere una documentazione storica
sulla disputa dei cartelli in Carinzia «Articolo 7- il nostro
diritto», già mostrata in alcuni festival austriaci e alla tv slovena.
Prodotto dallo stesso Orf, il documentario mostra anche il noto
assalto ai cartelli bilingui del 1972 fatti erigere in Carinzia a
tappeto dall'allora cancelliere Bruno Kreisky, accolto sul posto da
grida di Heil Hitler e sporco ebreo.
Di nuovo anche oggi si mobilitano le organizzazioni patriottiche
tedesche nazionali e tradizionali carinziane già promotrici
dell'assalto ai cartelli del 1972. In testa il «Karntner Abwehrbund»
(Kab) motiva il suo rifiuto di cartelli bilingui con il vecchio
stereotipo: «In questo modo in Carinzia si delimita un territorio
sloveno». E intanto l'ordinanza per l'installazione dei cartelli
bilingui chiesta dalle opposizioni al cancelliere Wolfgang Schüssel
intanto non arriva.
Subject: [icdsm-italia] Harold Pinter sul "tribunale" dell'Aia
Date: February 6, 2006 11:11:05 AM GMT+01:00
To: icdsm-italia @ yahoogroups.com
H. Pinter: non starò in silenzio
Intervista di Matthew Tempest
da The Guardian, Venerdì 3 agosto 2001
E' la nozione di giustizia transnazionale o supernaturale che tu contesti?
No, assolutamente no. Ritengo questa corte sia illegittima e senza una
propria legittimità a livello internazionale. Penso che sia una corte
ispirata dal modello americano, voglio dire fu Madaleine Albright (ex
segretario di Stato degli USA) a darle vita. E' una corte parziale,
priva di fondamento legale.
Io credo che una Corte Penale Internazionale sia molto necessaria e
infatti, come lei sa, ci fu un intero movimento di pressione per
ottenere una Corte Penale Internazionale, per la cui istituzione ci fu
il voto di centinaia di Stati, ma con l'opposizione degli Stati Uniti,
i quali non permettono che abbia luogo, perché dicono che nessun
cittadino americano potrà mai essere chiamato in giudizio, per questo
loro non accetteranno mai questa Corte.
In aggiunta hanno affermato che qualora dei cittadini americani
dovessero esser citati, probabilmente questi sarebbero dei marines.
Hanno detto ciò?
Sì. Beh, non hanno detto esattamente i marines, dissero che in base ad
alcune delle clausole dello Statuto della Corte: "...Sarebbero
perseguite azioni che noi invece riteniamo opportune, incluse quelle
militari". Il quale significa azioni portate avanti dai marines.
Così in questa particolare faccenda, non contesteresti che sia
processato Milosevic se ci fosse anche un processo anche a Blair e a
Clinton?
Questo è un altro problema, prima di tutto penso che Milosevic debba
essere processato da una corte appropriata, imparziale accettata a
livello internazionale.
Questa corte non lo è.
Vorrei aprire una parentesi a tal proposito: uno dei tuoi colleghi,
Henry Porter, stamane, ha scelto di discutere delle mie idee e
ricordando il mio pensiero su Pinochet, affermava che la mia posizione
dell'epoca fosse in contrasto con quella attuale.
Ciò non è vero affatto, perché quando parlai di Pinochet, dissi che
avrebbe dovuto avere un processo in una corte adatta, e se questa
fosse in Spagna o in Cile, questo non aveva importanza.
Un'altra cosa che vorrei aggiungere, sebbene abbia già mandato una
lettera alla redazione, riguarda la maniera curiosa con cui il
Guardian abbia riportato una mia dichiarazione.
Il Guardian ha asserito che io avrei affermato che "Milosevic è
innocente". Questa citazione veniva attribuita a me! E' pura
menzogna. E chi ha riportato questa notizia deve vergognarsi di se
stesso. E penso anche che il Guardian si debba prendere una parte di
responsabilità per l'accaduto.
E' piuttosto curioso che il Guardian, tanto blasonato e rispettato,
ritenga tutto ciò giusto solo per avere un'ottima prima pagina, ma
"Milosevic è innocente, afferma Pinter", non è un buon titolo da prima
pagina. E' una bugia. Non ho mai detto questo. Il fatto che possano
arrivare a far ciò, lo considero deplorevole.
Ciò su cui voglio parlare è come sia facile per la propaganda fare il
proprio lavoro, e per i dissidenti essere derisi.
C'è stata una quantità enorme di propaganda su Milosevic. Ci hanno
raccontato che era responsabile della morte di 100.000 persone. Questo
naturalmente non fu mai provato, e ovviamente non era vero.
Fu definito "il macellaio di Belgrado". Fu chiamato Hitler, e così
via. Avevano già inculcato nella testa dell'opinione pubblica che era
colpevole , un genocida. Credo che ciò debba esser provato da una
corte che però sia adatta allo scopo.
Hai toccato un argomento su cui è facile essere derisi. Ti sei esposto
a un mare di risate difendendo Milosevic, che è il nemico numero uno
in occidente. Al di là dei tuoi timori circa la tua reputazione,
ovviamente non sei un apologeta di Milosevic.
(Ridendo) Per niente. Ho solo affermato che venga consegnato ad un
tribunale appropriato, la cui procedura sia legalmente posta in
essere. Ma non credo che stia succedendo ciò.
Dopo tutto, è stato più o meno rapito e portato all'Aja. Gli jugoslavi
lo hanno consegnato solo perché hanno ricevuto 1,3 miliardi di dollari
dagli USA, è un evidente caso di corruzione. Tornando a Clinton e
Blair - vorrei dire che li considero dei criminali. La stessa azione
della Nato è illegale, illegittima, contro il diritto internazionale e
sprezzante della Carta dell'ONU.
Perchè è un atto da banditi bombardare i civili, è un atto da
assassini, e loro lo volevano deliberatamente. Come lei sa , da 15.000
piedi nel cielo, non un pilota Nato ha ricevuto un graffio, mentre
loro hanno spazzato via persone riducendole a pezzi grazie all'uso
delle cluster bomb e dell'uranio impoverito, i cui effetti ancora non
conosciamo. Ci vuole tanto tempo prima che si manifestino, sebbene in
Iraq gia s'intravedano.
Credo che queste persone abbiano agito in maniera davvero brutale, i
Governi di Usa e Gran Bretagna si sono comportati come efferati
criminali. E non verranno mai citati in giudizio. Non da questa corte,
perché loro sono la corte.
Tu affermi che fu più di un rapimento, fu un oltraggio alle procedure
parlamentari?
Esatto, le procedure parlamentari furono bypassate. Non sto dicendo
che Milosevic non sia responsabile, ma ciò che viene omesso dal
pubblico dibattito e dalla stampa e' che si trattava di guerra civile.
E poi l'UCK, sostenuta dagli Usa, non fu solo un'organizzazione di
banditi ma fu anche responsabile, e lo è ancora ora più che mai, della
pulizia etnica in corso in Kosovo negli ultimi nove mesi.
Perché consideri uno specifico incidente - quello della stazione
televisiva a Belgrado - una atto terroristico, mentre erano in corso i
ben peggiori bombardamenti sui civili con le cluster bombs?
Non ho detto che è stato peggiore del bombardamento con le cluster.
Esso spicca come evidente atto di assassinio, poiché non c'era
personale militare della stazione televisiva. C'erano donne truccate.
Furono spazzate via. Non credo che si tratti di incidente, perché la
Nato lo giustificò per bocca del suo distinto portavoce Jamie Shea.
Dissero che era per fronteggiare la propaganda serba. E' assurdo.
Tante persone morirono e penso che sia un atto di assassinio giacché
le Convenzioni di Ginevra stabiliscono che in nessuna situazione di
guerra i civili possano essere colpiti, a meno che questi non
intraprendano azioni ostili, cioè lanciando bombe o impugnando
pistole. Le ragazze truccate non avevano pistole. Su questa questione
controversa ci furono numerose critiche ai media britannici e
occidentali, che non fecero reportage dal campo, ma si limitarono a
trasmettere in diretta numerosi briefing dalla sede Nato di Bruxelles,
in maniera assolutamente acritica.
Noi pensavamo che le terrificanti bombe fossero molto precise, e non
penso che sia stato colpito qualche obiettivo militare. Ciò che
colpirono furono la stazione TV e l'ambasciata cinese, anziani,
ospedali e scuole. Non credo che si tratti di incidente. Colpirono
tutto ciò che poterono, e distrussero pressoché tutte le
infrastrutture del paese.
E' un atto criminale al di sopra di ogni livello, ma gli Usa e i paesi
aderenti alla Nato lo definiscono "intervento umanitario". Penso che
sia un'espressione melensa che sarà smentita dalla storia. Ammesso che
noi si abbia una storia, visto che quella che si studia è frutto delle
elucubrazioni del potere americano.
Pensi che troppa attenzione vada alla cattura dei militari, visto che
verosimilmente la loro sarà una deposizione più diretta sui massacri
facendo sì che Milosevic e gli altri politici se ne escano con le mani
meno sporche?
Le mani di Clinton rimangono incredibilmente pulite, vero? E il
sorriso di Tony Blair largo come sempre. Vedo queste maschere con
profondo disprezzo. Così tante persone in occidente che si fingono
arbitri di moralità sono così patetici, veramente pericolosi e il modo
in cui la stampa accetta tutto ciò che costoro sostengono è molto,
molto pericoloso.
Tornando su ciò che ho detto a proposito della derisione dei
dissidenti. La mia posizione è stata definita comica. Costoro
considerano che le altre 1000 persone che la pensano come me siano
comiche? Tutti i dissidenti sono comici?
C'è una tradizione nel ceto intellettuale britannico che è quella di
ridicolizzare ogni forza non politica che vuole occuparsi di temi di
politica, specialmente se questi vengono dalla sfera dello spettacolo,
del teatro e dell'arte, si pensa che siano solo dilettanti, vero?...
mezze seghe. A dire il vero in nessuno dei paesi in cui sono stato:
Francia, Spagna, Italia, Grecia e persino negli Usa, c'è una
concezione simile. Ma qui sì.
Bene, io non intendo semplicemente andar via scrivere le mie opere
teatrali ed essere un bravo ragazzo. Intendo rimanere indipendente ed
occuparmi di politica. E' un mio diritto.
==========================
IN DIFESA DELLA JUGOSLAVIA
Il j'accuse di Slobodan Milosevic
di fronte al "Tribunale ad hoc" dell'Aia"
(Ed. Zambon 2005, 10 euro)
Tutte le informazioni sul libro, appena uscito, alle pagine:
http://www.pasti.org/autodif.html
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/204
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ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27 -- 00043 Ciampino (Roma)
tel/fax +39-06-4828957 -- email: icdsm-italia @ libero.it
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*** Conto Corrente Postale numero 86557006, intestato ad
Adolfo Amoroso, ROMA, causale: DIFESA MILOSEVIC ***
LE TRASCRIZIONI "UFFICIALI" DEL "PROCESSO" SI TROVANO AI SITI:
http://www.un.org/icty/transe54/transe54.htm (IN ENGLISH)
http://www.un.org/icty/transf54/transf54.htm (EN FRANCAIS)
--- In aa-info @ yahoogroups.com, "pedroslavo" ha scritto:
FOIBE: FASCISTI SANTI SUBITO
"A dio i martiri non hanno fatto mai cambiar giudizio" (Giorgio
Gaber)
Il 10 febbraio ricorre la "Giornata della memoria per le vittime delle
foibe". O meglio: erano "vittime" due anni fa. Sono diventati
"martiri" l'anno scorso. Quest'anno sono passati allo status di "eroi"
(come quel mercenario di Quattrocchi, non a caso). L'anno prossimo
assisteremo alla Santificazione dei fascisti giustiziati dalle truppe
di liberazione dell'Esercito jugoslavo di Tito.
Potremmo stare a guardare mentre la Storia viene riscritta da malferme
mani di squadristi ripuliti più avvezzi al manganello che alla penna?
Potremmo. Già lo fanno i democratici di sinistra, gli innocenti
egualmente pentiti, gli intellettuali di sinistra ansiosi di
pubblicizzare l'abiura, i conformisti salottieri d'ogni dove. Ma non
vogliamo.
L'equiparazione tra vittime partigiane e vittime dei partigiani, che
segue di pari passo quella legislativa tra Repubblichini di Salò e
Garibaldini, è il frutto marcio della cattiva coscienza di un'opinione
pubblica anestetizzata che concede credito alla malafede di un ceto
politico disgustosamente nostalgico composto di fascisti tanto codardi
da spacciare gli Assassini e i Coloni come Eroi perché incapaci di
sopportarne il peso e la memoria.
Si basano sull'ignoranza, costoro. Sul pathos, sull'emotività distorta
di tanti immemori che non hanno mai sentito parlare dell'occupazione
italiana in Jugoslavia, come di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema,
della Risiera di San Sabba, del confino politico di Ventotene, delle
Tremiti del campo di prigionia di Manfredonia ma che, dopo il lavaggio
televisivo, PRETENDONO di PONTIFICARE sulla storia dell'Istria, sul
confine orientale, sui partigiani rossi e i "poveri italiani
massacrati"...
Si processano le foibe per processare la Resistenza, per eliminare gli
"opposti estremismi", per giungere alla "pacificazione", per poi
riprendere col discorso neoirredentista sul confine orientale.
Noi non lo permettiamo.
IN FACCIA AI FASCISTI (ripuliti e non), AI DEMOCRATICI in sconto, AGLI
EQUIDISTANTI D'OCCASIONE, gridiamo: VIVA LA RESISTENZA EUROPEA, VIVA
TITO, VIVA I PARTIGIANI ITALIANI E JUGOSLAVI.
Collettivo comunista AgitProp
Laboratorio politico Jacob
via M.Pagano,38 - Foggia
www.agitproponline.com
*manifesto affisso a Foggia il 6/02/2006
--- Fine messaggio inoltrato ---
VIGNETTE SATIRICHE SU GESÙ CRISTO
Danish paper rejected Jesus cartoons
(Gwladys Fouché)
Jyllands-Posten, the Danish newspaper that first published the
cartoons of the prophet Muhammad that have caused a storm of protest
throughout the Islamic world, refused to run drawings lampooning Jesus
Christ, it has emerged today. The Danish daily turned down the
cartoons of Christ three years ago, on the grounds that they could be
offensive to readers and were not funny. In April 2003, Danish
illustrator Christoffer Zieler submitted a series of unsolicited
cartoons dealing with the resurrection of Christ to Jyllands-Posten...
http://www.uruknet.info/?s1=1&p=20374&s2=07
"Intellettuali di servizio: Bernard Henri LEVY"
si veda:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1434
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1500
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1538
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2564
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3033 )
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2006-01-02%2007:39:15&log=attentionm
BHL, les patrons et les médias
Les maquignons du prêt-à-penser : BHL et les autres
Leila
Il était une fois en France des philosophes et des penseurs
universels, Bourdieu , Deleuze, et d'autres qui, par la profondeur de
leurs pensées ont apporté au monde des éléments de réflexion et des
concepts novateurs ; ils ont formé, inventé et créé des concepts
nouveaux qui leur ont survécus et qui sont actuellement enseignés dans
les lycées et universités.
dimanche 1er janvier 2006, par Leila
http://www.oulala.net/Portail/article.php3?id_article=2077
Malheureusement, depuis les années 80, la marchandisation de la pensée
et sa médiatisation ont permis l'émergence d'une industrie nouvelle,
celle de la pensée creuse et éphémère vendue par des maquignons du
prêt-à-penser.
L'omniprésence médiatique de ces pseudo-intellectuels a eu pour effet
de surmultiplier leur audience, d'appauvrir la pensée et le débat
public et d'empêcher toute pensée critique « leur pensée est nulle...
ils procèdent par gros concepts, aussi gros que des dents creuses, LA
loi, LE pouvoir, LE maître, LE monde, LA rébellion, LA foi, etc. Ils
peuvent faire ainsi des mélanges grotesques, des dualismes sommaires,
la loi et le rebelle, le pouvoir et l'ange. En même temps, plus le
contenu de pensée est faible, plus le penseur prend d'importance, plus
le sujet d'énonciation se donne de l'importance par rapport aux
énoncés vides » pour reprendre le texte de Gilles Deleuze à propos de
ces nouveaux « penseurs ».
Parmi ces usurpateurs, Alain Finkielkraut, Alexandre Adler, Bernard
Henri Levy et bien d'autres. A des années-lumière des penseurs
universalistes, ces personnages développent des analyses simplistes,
duales, biaisées et orientées par une logique communautariste.
Manichéens jusqu'au bout des ongles, adeptes de la « croisade du bien
contre le mal », ils travaillent pour une vulgarisation du « choc des
civilisations » au sein de la société française. Le bien étant
incarné, bien entendu, par l'Amérique, Israël et leurs défenseurs et
le mal par tout ceux qui s'opposent à l'impérialisme et au sionisme en
d'autres termes par « une ultragauche qui va des altermondialistes
dévoyés aux islamo-progressistes, aux contempteurs du néolibéralisme «
américano-sioniste » ou aux gens du monde diplomatique » comme le
précise BHL.
Dans une grande partie de ses écrits et de ses prestations
médiatiques, BHL accrédite la thèse d'un complot islamiste mondiale et
présente une population arabe fanatique « Les talibans n'ont pas été
seulement vaincus. Ils l'ont été sans combattre. Ils l'ont été
piteusement, sans même un baroud d'honneur. Et l'image de ces
combattants défaits, que, de Damas à Tunis, la rue arabe avait
auréolés de tous les prestiges, l'image de ces Saladins qui étaient
censés mettre l'Amérique à genoux et qui, au premier coup de feu, ont
détalé comme des poulets, n'a pu que stupéfier ceux qui se
reconnaissaient en eux. » [1]
Dans son livre « Qui a tué Daniel Pearl ? », un livre formidablement
bidonné, BHL distille son mépris de l'islam et sa haine du Pakistan et
de Karachi en particulier. D'après BHL, ce pays « antisémite » et qui
« hait » Israël ne peut-être que « la maison du Diable », « un pays
drogué au fanatisme, dopé à la violence », « un enfer silencieux,
plein de damnés vivants » avec ses « mollahs cauchemardesques » et
Karachi est « un trou noir », rempli de « demi-morts », où les «
derviches fanatiques aux cheveux longs et aux yeux furieux et injectés
de sang » hurlent devant la « porte du Diable ». Le pakistanais est un
« fanatique au sourire venimeux », au « regard fixe de tarentule »,
qui émet un « sifflement semblable à celui d'un serpent ». Quant au
ministre pakistanais, il est « aimable à l'extrême », mais, au moment
où il pense que BHL ne le regarde pas, « ses yeux lancent un éclair de
férocité meurtrière ». Et BHL conclut que Daniel Pearl « est
certainement, de ce point de vue, un martyre de l'antisémitisme
moderne » .
Aujourd'hui BHL se polarise sur « une nouvelle judéophobie »
arabo-musulmane. A t-il jeté aux oubliettes ses vieux griefs autour de
Vichy et du nazisme ?
Il n' y a pas si longtemps, BHL affirmait dans son livre « l'idéologie
française » que les origines et racines du fascisme sont françaises et
ne sont ni italiennes ni allemandes, ni autres ; c'est « un langage
qui est, à la lettre, structuré comme un inconscient » et loge « au
cur de l'identité française » écrivait-il. Il a demandé à la gauche
française de déconstruire le mythe d'un peuple français opprimé,
héroïque et résistant, de rejeter la Nation et la Révolution française
et de faire une lecture différente de son histoire et de l'histoire de
la France. Il a expliqué que le fascisme en général et l'antisémitisme
en particulier parlent français et que le peuple français était à
l'aise dans ses chaussons de l'antisémitisme et de la collaboration
aussi bien à droite qu'à gauche et même au sein du communisme français
« le pétainisme rouge » d'ailleurs le communisme « c'est une barbarie
comme le nazisme » affirmait t-il.
Cette lecture de l'histoire française a fait réagir Raymond Aron qui
répond dans un article publié dans l'Express « Que leur (juifs de
France) dit ce livre (L'Idéologie française, de BHL), Que le péril est
partout, que l'idéologie française les condamne à un combat de chaque
instant contre un ennemi installé dans l'inconscient de millions de
leurs concitoyens. (...) Il nous annonce la vérité pour que la nation
française connaisse et surmonte son passé, il jette du sel sur toutes
les plaies mal cicatrisées. Par son hystérie, il va nourrir l'hystérie
d'une fraction de la communauté juive, déjà portée aux actes du délire
uvre d'intérêt public, écrivait en conclusion le compte rendu du «
Nouvel Observateur ». Intérêt public ou danger public ? »
Hier, BHL a matraqué l'histoire française et a mis un signe d'égalité
entre le peuple français et le fascisme ; aujourd'hui il rompt avec la
tradition profonde juive pour laquelle l'islamophobie et le mépris
arabe n'ont jamais été des passions et sombre dans un racisme primaire
et grossièrement huntingtonien.
En réalité, derrière ce comportement débridé se cache une recherche
identitaire renforcée par l'amour d'un pays suridéalisé et d'une
religion rêvée comme l'explique Esther Benbessa. Si le personnage
mythique Majnoun [2] était fou de Leila, BHL est quant à lui Majnoun
de l' « idyllique » Israël. Son cur est hermétiquement scellé et ne
laisse pénétrer que l'amour de la dulcinée ; désormais, il n'entend
que par elle et pour elle, ne voit que par elle et pour elle, ne parle
que par elle et pour elle et ne lutte que par elle et pour elle.
Le problème de BHL, c'est qu'en plus de cette maladie d'amour
passionnelle et obsessionnelle, il est atteint du délire de
persécution. Il se voit avec sa bien aimée victimes sacrées d'un
antisémitisme éternel varié et multiforme, logé dans l'inconscient de
millions voire de milliards de non-juifs. Pour chasser ce démon, le
fou d'Israël a traversé le pays des « damnés vivants » au « péril de
sa vie ». Aujourd'hui, il est parti, seul, en Amérique sur les traces
de Tocqueville nous raconte t-il mais « à la réflexion, on finit par
comprendre que le sujet réel de BHL n'est pas l'Amérique » [3] ; la
raison est toujours la même : la chasse au démon. Dans ses délires
paranoïaques, BHL voit le péril partout : l'antiaméricanisme,
l'anti-impérialisme, l'anti-néolibéralisme et la critique des médias
ne seraient que des versions de l'antisémitisme « l'antiaméricanisme
constitue l'un des fonds communs d'une certaine gauche et d'une
certaine extrême droite », à ce « fonds commun » , à ce « socialisme
des imbéciles », on retrouve la lutte contre la mondialisation
néolibérale en général et les actions de M. José Bové en particulier »
estime BHL [4].
Le commun des mortels atteint du délire paranoïaque est hospitalisé
même contre son gré ; apparemment l'intellectuel le plus médiatique de
France échappe à cette règle. Normal, BHL est riche, très riche et
dispose d' un réseau complexe, fait d'amitiés réelles, de rapports
professionnels, de relations d'intérêt, de convictions partagées etc... .
BHL est l'héritier d'une immense fortune familiale. Son père, André
Lévy a fondé La Becob, une société d'importation de bois africains qui
fut rachetée par le groupe Pinault-Printemps-Redoute en 1997.
Des intérêts réciproques ont rapproché deux hommes : BHL intellectuel,
« gauchiste » et pourfendeur du fascisme et François Pinault, un homme
puissant, sans diplôme, sans lignage, avec un passé douteux et des
ex-amis issus des milieux d'extrême droite.
François Pinault, qui avait déjà renforcé ses relations dans les
milieux de droite, a pu grâce à BHL pénétrer un milieu qui n'est pas
sien, comme l'explique Philippe Cohen dans « BHL, une biographie »
dont on peut lire un extrait publié dans l'Express. BHL lui a servi de
relais médiatique et ses multiples relations ont permis à l'industriel
d'acquérir la Fnac et le Point, journal dont BHL est l'un des
chroniqueurs réguliers. En retour, BHL a eu le plaisir de bénéficier
de la compagnie d'un puissant industriel et de profiter de ses services.
François Pinault sait aussi exprimer sa gratitude, il contribue «
généreusement » pour combler le déficit de SOS Racisme, dont BHL est
parrain, facilite la venue et la rencontre des lecteurs dans sa
librairie (la Fnac) avec Taslima Nasreen et Salman Rushdi auteurs
adulés de BHL, diabolisation de l'islam oblige. En 1994, le
capitaliste finance le film de BHL « Bosna ! » et en 1997, il
s'associe à France Télévision pour produire l'un des plus grands bides
du cinéma français « Le Jour et la nuit », un navet mémorable de BHL !
BHL a deux autres grands amis, Arnaud et Jean-Luc Lagardère. Cette
amitié lui a ouvert divers horizons. En effet, le groupe Lagardère
possède Hachette Livre, Hachette Filipacchi Médias (premier éditeur de
presse magazine au monde avec plus de 200 titres), Hachette
Distribution Services, Lagardère Active (audiovisuel et nouveaux
médias). Il est propriétaire de Grasset, la maison où BHL est auteur
et éditeur. Il possède les magazines Elle, France Dimanche, Ici Paris,
Paris Match, Première, Télé 7 Jours, ..., les radios Europe 1 , Europe
2 , RFM, le réseau de distribution Virgin en France... Tous ces médias
sont des tribunes ouvertes et des relais permanents offerts par les
Lagardère à leur ami BHL.
Et bien évidemment BHL sait renvoyer l'ascenseur. En 1992, quand
Jean-Luc Lagardère est mis en examen pour abus de biens sociaux, BHL
utilise son Bloc Note du Point pour défendre son ami ; il dénonce la «
surchauffe hystérique d'un discours » qui transforme en « escroc
n'importe quel chef d'entreprise » conduisant ainsi à la « destruction
des élites ». Même scénario en 2000, lorsque Jean-Luc Lagardère est à
nouveau mis en examen, BHL fustige « la clameur populiste » de cette
France « qui n'en finit pas d'accabler ses élites ». Le comble c'est
en 2002 lorsque Lagardère Média (groupe Hachette), s'est porté
candidat pour le rachat de Vivendi Universal Publishing ; BHL, qui ne
s'est pas du tout inquiété des conséquences de la concentration
éditoriale, est monté au créneau pour fustiger ceux qui accusent le
groupe de vouloir dominer le marché de l'édition. Pire, il va jusqu'à
reprendre dans son plaidoyer un argumentaire qu'Hachette a distribué à
ses salariés pour diffuser des mensonges telles par exemple :
l'ensemble Hachette-VUP ne représenterait qu'un tiers du marché global
du livre francophone. En réalité, cette fusion permettrait à
Hachette-VUP d'avoir 70% de la distribution du livre en France, 60 %
de l'édition du livre de poche et plus de 80 % du livre scolaire ce
qui lui rapporterait entre 42 à 50 % du chiffre d'affaire de l'édition
sur le seul marché français.
Les amitiés de BHL ne se recrutent pas seulement parmi les grands
patrons. Le journal Le Monde qui d'après BHL, « a trempé dans «
l'Idéologie française » (fascisme français), qui en a même été l'un
des laboratoires et qui a fini par en sortir au terme d'un travail sur
soi dont l'histoire reste à faire mais dont on sait, d'ores et déjà,
ce qu'il doit à son actuelle direction » est devenue une tribune et un
relais permanents grâce à des soutiens sûrs tels Colombani, Plenel et
Minc. Par ailleurs, Jean Marie Colombani et Edwy Plenel ont permis à
BHL d'accéder à d'autres tribunes au sein des émissions « La rumeur du
Monde » sur France Culture et « Le monde des idées » sur LCI dont ils
sont animateurs respectifs.
Le nouvel Observateur est depuis longtemps un soutien régulier de BHL
grâce à l'amitié entretenue avec Jean Daniel, cofondateur et directeur
du Nouvel Observateur et à Françoise Giroud éditorialiste du même
hebdomadaire.
Le carnet d'adresse de BHL est bien fourni. Annette Lévy-Willard à
Libération ; Maurice Szafran, Guy Konopniki et Alexis Liebaert à
Marianne ; Josiane Savigneau et Roger-Pol Droit au Le Monde des livres
; Paul Guilbert au Figaro. A cette liste d'amis on peut inclure
Jean-Pierre Elkabbach , Georges-Marc Benamou, Philippe Sollers,
Franz-Olivier Giesbert, Laure Adler, Jorge Semprun, Françoise Giroud,
Jérôme Clément, Anne Sinclair, Tahar Ben Jelloun, Robert Menard,
Pierre Lescure, Thierry Ardisson, Michel Drucker sur France 2, Karl
Zéro sur Canal ++, Claire Chazal, Patrick Poivre d'Arvor, sans oublier
ses appuis à Gala, Voici, l'événement du jeudi, France Culture, les
médias détenus par Hachette-Lagardère (Paris Match, Elle, Le Journal
du dimanche, télé 7 jours, Europe1,...) etc.
Sans oublier Arte, dont il préside depuis 1993 le conseil de
surveillance, le journal le Point, dont il est l'un des chroniqueurs
réguliers et Grasset la maison d'édition où il est auteur et éditeur ;
cette maison suit d'ailleurs à merveille la ligne de « l'imam » BHL et
s'est spécialisée dans l'édition des livres qui vulgarisent « le choc
des civilisations ».
Si BHL est fasciné par la puissance et les médias, il aime aussi le
pouvoir et l'admire ; la fréquentation des hommes politiques lui
confère une distinction, une certaine honorabilité. BHL peut-être de
gauche ou de droite, c'est selon. Une flatterie, une petite
reconnaissance et BHL est dans la poche : c'est l'intello rêvé du
politique écrivent les deux auteurs du livre « Le B.A.BA du BHL ». Son
rapport au pouvoir est si spécial que le sigle BHL a pris une
connotation particulière « J'allais devenir le BHL de ces messieurs. »
déclare l'historien Le Roy Ladurie agacé d'être choyé par Mitterrand
et Giscard d'Estaing.
Ses amis de la vie politique sont nombreux et se recrutent à gauche
comme à droite : Laurent Fabius, Dominique Strauss-Kahn, Julien Dray,
Dominique de Villepin , Nicolas Sarkozy qu'il tutoie ([un Nicolas
Sarkozy qui s'est construit un réseau médiatique colossal sans
précédent dans la vie politique récente ] [5]) et la liste est longue.
BHL use et abuse de sa plume pour être un bon communicant et un porte
parole de ces messieurs et il en reçoit à son tour des prébendes. En
1991 Jack Lang, à l'époque ministre de la culture, le nomme à la
présidence de la commission d'avance sur recette (commission qui
décide de l'attribution de l'aide accordée par le Ministère de la
Culture au bénéfice des films français). En 1993 Alain Carignon le
nomme à la tête du conseil de surveillance de la Sept-Arte. En 2002,
Jacques Chirac et Lionel Jospin lui confient une mission d'enquête sur
la reconstruction de l'Afghanistan.
Mais tout cela ne suffit pas, la star veut occuper toute la scène
médiatico-politique. Ainsi, lors de la création de la spectaculaire
association SOS-Racisme, BHL fut l'un des tout premiers à se
précipiter pour proposer « spontanément » ses services. Le «
philosophe » et Marek Halter ont joué un rôle décisif dans la
médiatisation en profondeur de SOS. BHL parrain, puis initiateur de
l'agence de presse SOS, a ouvert l'association sur d'autres mondes de
la politique et a provoqué sa rencontre avec beaucoup d'intellectuels.
Il était aussi l'éditorialiste vedette de Globe, un journal lancé par
SOS-Racisme et dirigé par son ami Georges Benamou. Ce mensuel qui
n'était qu'un relais aux idées présidentielles - « On y organisait des
campagnes de communication directement décidées à l'Elysée » raconte
un ancien collaborateur de Jacques Pilhan [6] - a permis à BHL de
devenir un communicant à nul autre pareil de l'Elysée.
Et lorsque l'association clone de SOS-racisme, l'hyper médiatique
association « ni putes ni soumises » fut créée, le promoteur BHL
accoura et fit profiter l'association de ses réseaux et en particulier
du magazine Elle (du groupe Lagardère). Le combat est « noble » : ne
faut-il pas « libérer » la femme du « joug de l'homme arabe indigène
brutal et barbare » ?
Si la première association a été un tapis rouge emprunté par le parti
d'extrême droite pour passer de l'ombre à la lumière, la seconde a
joué un rôle non négligeable dans la diabolisation des jeunes issus de
l'immigration et a imputé le phénomène des viols collectifs à la
"barbarie" supposée de ces jeunes, chose que le sociologue Laurent
Mucchielli a réprouvé et il a pu démontrer, preuves à l'appui, que le
phénomène du viol collectif n'est pas nouveau et qu'il n'est pas
l'apanage des cités.
L'étude du cas BHL montre comment un groupuscule et un
néo-réactionnaire liés par une connivence inaltérable ont réussi à
s'emparer de la parole pour contrôler les pensées, les sentiments et
les comportements des gens. Ce travail de sape a mis au panier des
chercheurs, des intellectuels, des militants et des artistes pour
donner la parole à des clowns de service qui font la promotion de la
marchandisation du monde et poussent au crime en faisant l'apologie de
la théorie de la guerre de civilisation.
BHL le retour
Sitôt de retour de son périple chez l'oncle Sam, le fou d'Israël,
activera son réseau et tout le « système BHL » qui attend avec
impatience le retour de sa marque déposée : BHL se mettra alors en
route ; ensemble ils verseront dans la tête de la « masse imbécile »
celle qui a pris goût à consommer des pensées toutes faites et n'a
plus le temps de réfléchir à l'essentiel, l'uvre « monumentale » du
parano prodige déguisé cette fois-ci en Tocqueville.
P.S.
(1) Le B.A.BA du BHL, Jade Lindgaard, Xavier De La Porte, La
découverte, 2004.
(2) L'idéologie française, BHL, Grasset, 1981
(3) Rassurante Amérique : BHL dans les pas de Tocqueville, David A.
Westbrook, Esprit, Novembre 2005.
(4) BHL, une biographie, Philippe Cohen, Fayard, 01/2005
(5) Les nouveaux Chiens de garde, Sege Halimi, Raison D'Agir, 2005.
(6) Le scandale des "tournantes" : Dérives médiatique, contre-enquête
sociologique, Laurent Mucchielli,La Découverte, 2005
[1] tiré de Ce que nous avons appris depuis le 11 septembre, par
Bernard-Henri Lévy, Le Monde, 21 décembre 2001.
[2] Majnoun mot arabe qui signifie fou. Majnoun Leila est une légende
rapportée sous forme d'un recueil de poèmes enivrants qui conte
l'amour fou d'un couple mystique : Quais et Leila. Quais tomba
amoureux de Leila et pour son grand malheur, il la chante et en
faisant cela il la perd et il le sait. Quand Leila lui devint
inaccessible, il s'exila au désert et vécut parmi les gazelles. Sur
chaque roche, sur chaque grain de sable, Quais a inscrit le nom de sa
Leila. Cette passion qui l'a dévoré, a supprimé chez lui toute trace
de raison et l'a conduit à la folie puis à la mort.
[3] Rassurante Amérique : BHL dans les pas de Tocqueville, David A.
Westbrook, Esprit, Novembre 2005.
[4] Cf. Bernard-Henri Lévy, « Gare à l'antiaméricanisme » , Le Point,
10 septembre 1999
[5] Emission de Daniel Mermet du 15/12/05 avec Serge Halimi :
http://w3.la-bas.org/rm/
[6] Jacques Pilhan, fut un publicitaire et l'ancien conseiller en
communication du président François Mitterrand
"The Politics of the Srebrenica Massacre"
by Edward S. Herman; July 07, 2005
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4475
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=74&ItemID=8244 )
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2006-01-20%2009:24:19&log=attentionm
Analyse des événements de Srebrenica
Ed Herman, etc.
Srebrenica. L'épisode est devenu le symbole du mal, particulièrement
du mal serbe. Il est décrit comme "une horreur sans égale dans
l'histoire de l'Europe depuis la Seconde guerre mondiale", qui a vu
l'exécution de sang-froid "d'au moins 8.000 hommes et jeunes gens
musulmans".
Les événements se sont déroulés à l'intérieur ou dans les environs de
la ville bosniaque de Srebrenica, entre le 10 et le 19 juillet 1995,
lorsque l'armée serbe bosniaque (ASB) l'a occupée, en combattant et en
tuant de nombreux musulmans bosniaques, dont un nombre inconnu sont
morts au cours des affrontements ou ont été exécutés. Il est hors de
doute qu'il y a eu des exécutions, et que beaucoup de musulmans
bosniaques ont péri au cours de l'évacuation de Srebrenica et de ses
suites. Mais bien qu'on en discute rarement, le problème majeur est de
savoir combien d'entre eux ont été exécutés, étant donné que bien des
corps retrouvés dans les tombeaux locaux sont ceux de victimes des
combats, et qu'une grande partie des musulmans bosniaques qui ont fui
la ville sont arrivés sans encombre en territoire bosniaque musulman.
Certains cadavres exhumés sont aussi ceux des nombreux Serbes tués au
cours des razzias effectuées par les musulmans bosniaques sortant de
Srebrenica dans les années précédant juillet 1995.
Le massacre de Srebrenica a joué un rôle particulier dans la politique
occidentale de restructuration de l'ex-Yougoslavie, et plus
généralement dans sa politique d'intervention. Il a suscité un regain
d'intérêt en raison de la commémoration de son dixième anniversaire en
juillet 2005. On le cite constamment comme preuve du mal serbe et des
intentions génocidaires de la Serbie. Il a servi à justifier la
punition des Serbes et de Milosevic, ainsi que la guerre de l'OTAN à
la Serbie en 1999. Il a aussi fourni un alibi moral aux futures
guerres occidentales de vengeance, de projection de pouvoir et de
"libération", en démontrant qu'il existe un mal que l'Occi-dent peut
et doit éradiquer.
Cependant, il y a trois éléments qui auraient du soulever de graves
questions à propos du massacre, à l'époque et aujourd'hui, et qui ne
l'ont pas fait.
Le premier est que le massacre a satisfait très opportunément les
besoins politiques du gouvernement Clinton, des musulmans bosniaques
et des Croates (première partie ci-dessous).
Le second est qu'on avait déjà fait état avant Srebrenica (et qu'on a
continué depuis) d'une série de prétendues atrocités serbes, révélées
régulièrement aux moments stratégiques où se préparait une
intervention violente des Etats-Unis et du bloc de l'OTAN et
nécessitant un solide soutien de relations publiques, atrocités dont
il a été démontré par la suite qu'elles n'ont pas existé (seconde
partie).
Le troisième est que les preuves d'un tel massacre, surtout de 8.000
hommes et jeunes gens, ont toujours été pour le moins sujettes à
caution (troisième et quatrième partie).
1). L'opportunité politique
Les événements de Srebrenica, et les révélations d'un énorme massacre,
ont beaucoup aidé le gouvernement Clinton, la direction bosniaque
musulmane et les autorités croates. Clinton, en 1995, était pressé à
la fois par les médias et par Bob Dole d'agir avec plus de force en
faveur des musulmans bosniaques, et son gouvernement recherchait
activement la justification d'une politique plus agressive. Les
autorités clintoniennes se sont précipitées sur la scène de Srebrenica
pour confirmer et rendre publiques les affirmations d'un massacre,
comme William Walker l'a fait plus tard, en janvier 1999. Le rapport
instantané de Walker à Madeleine Albright a fait exulter celle-ci, qui
s'est écriée : "Le printemps est apparu tôt cette année". Srebrenica a
permis à l'automne "d'apparaître tôt" à l'administration Clinton en
cet été de 1995.
Les leaders bosno-musulmans se battaient depuis des années pour
persuader les puissances de l'OTAN d'intervenir plus énergiquement en
leur faveur, et il y a de fortes indications qu'ils étaient préparés
non seulement à mentir, mais aussi à sacrifier leurs propres citoyens
et soldats pour obtenir l'intervention (questions traitées dans la
seconde partie). Des autorités musulmanes bosniaques ont déclaré que
leur chef, Alija Izetbegovic, leur avait dit que Clinton les avait
avertis que l'intervention n'aurait lieu que si les Serbes tuaient
plus de 5.000 personnes à Srebrenica. L'abandon de Srebrenica par une
force militaire bien plus considérable que celle des attaquants, et la
retraite rendant vulnérable cette force supérieure et entraînant de
nombreuses victimes de combats ou de règlements de comptes,
permettaient d'arriver à des chiffres correspondant plus ou moins au
critère de Clinton. Il y a des preuves que le retrait de Srebrenica ne
découlait d'aucune nécessité militaire, mais était une décision
stratégique selon laquelle les pertes encourues était un sacrifice
obligatoire à une cause plus importante.
Les autorités croates étaient ravies de voir révéler un massacre à
Srebrenica, car cela détournait l'attention de leur dévastateur
nettoyage ethnique antérieur des Serbes et Bosno-musulmans en Bosnie
de l'ouest (presque totalement ignoré par les médias occidentaux). Et
cela fournissait une justification à l'expulsion déjà planifiée de
plusieurs centaines de milliers de Serbes de la région de Krajina en
Croatie.
Cette opération de nettoyage ethnique massif a été menée avec
l'approbation des Etats-Unis et leur soutien logistique, à peine un
mois après les événements de Srebrenica, et elle a probablement
entraîné la mort de plus de civils serbes qu'il n'y a eu de civils
bosno-musulmans tués dans le secteur de Srebrenica en juillet. La
plupart des victimes bosno-musulmanes étaient des combattants, les
Bosno-serbes ayant mis les femmes et enfants en sûreté en les
convoyant par autobus, ce que les Croates n'ont pas fait, avec pour
résultat la mort de beaucoup de femmes, d'enfants et de vieillards
massacrés par eux dans la Krajina. Le cynisme des Croates était
impressionnant : "Les troupes des Nations Unies ont regardé horrifiées
les soldats croates traîner des cadavres serbes le long de la route
bordant le centre de l'ONU, les truffer de balles d'AK-47 et les
écraser ensuite sous les chenilles d'un tank." Mais on n'y a guère
fait attention dans l'explosion d'indignation et de propagande qui a
suivi Srebrenica, grâce aux grands médias dont le rôle belliciste dans
les guerres balkaniques était déjà solidement rodé.
Le Tribunal pénal international pour la Yougoslavie (TPIY) et les
Nations Unies ont aussi joué un rôle important dans la consolidation
du récit standard du massacre de Srebrenica. Depuis ses débuts, le TPI
a été le bras juridique des puissances de l'OTAN qui l'ont créé,
financé, utilisé comme instrument de police et d'information, et qui
ont bénéficié en retour des services qu'elles en attendaient. Le TPI
s'est fortement concentré sur Srebrenica et a rassemblé des
confirmations importantes et prétendument indépendantes de la réalité
du massacre avec des affirmations de "génocide" planifié "utilisables
en justice".
Les Nations Unies se sont moins impliquées dans les exigences des
puissances de l'OTAN, mais leur ont fait écho et, dans l'affaire de
Srebrenica, ont pris les positions voulues par les Etats-Unis et leurs
alliés.
L'intérêt politique du massacre de Srebrenica ne prouve pas forcément
que le récit de l'establishment soit erroné. Mais il implique la
nécessité d'être prudent et de se méfier des falsifications et des
affirmations exagérées. Cette vigilance a totalement fait défaut aux
comptes rendus de Srebrenica faits par les mass-médias.
2). Le mensonge incessant avant et après Srebrenica.
A chaque étape du démantèlement de la Yougoslavie et de son nettoyage
ethnique, comme avant et pendant la guerre de l'OTAN pour la province
serbe du Kosovo en 1999, les mensonges de propagande ont joué un rôle
très important dans le soutien du conflit et la justification des
intrerventions antiserbes. Il y a eu des mensonges par omission et des
mensonges qui ont propagé des informations et des impressions fausses.
Un des plus graves mensonges par omission a été la présentation
systématique du comportement criminel comme une spécificité serbe,
sans ajouter qu'il caractérisait aussi les musulmans et les Croates,
pour ne pas parler de l'ensemble du conflit. Cas après cas, les médias
ont décrit les offensives et les atrocités serbes, sans mentionner les
attaques préalables lancées contre les Serbes dans les mêmes villes,
faisant ainsi passer les ripostes serbes pour des actions non
provoquées d'agression et de barbarie.
Cela a été évident dès le début des affrontements sérieux en 1991,
dans la République de Croatie. Dans leur couverture de la ville de
Vukovar, par exemple, en Croatie orientale, les médias (et le TPI) se
sont exclusivement appesantis sur la prise de la ville, en automne
1991, par l'armée fédérale yougoslave, en ignorant totalement le
massacre, au cours du printemps et de l'été précédents, par les
troupes de la Garde nationale croate et des paramilitaires, de
centaines de Serbes qui vivaient dans le secteur. Selon Raymond K.
Kent, "une considérable population serbe de l'importante ville slavone
de Vukovar a disparu sans s'être enfuie, en laissant des traces de
tortures dans les vieilles catacombes autrichiennes sous la cité, avec
des preuves de viols et d'assassinats. Les médias occidentaux, déjà
fortement engagés dans la diabolisation des Serbes, a choisi d'ignorer
ces faits." Cette approche tendancieuse et trompeuse était la pratique
habituelle des grands médias et du TPI.
D'autres mensonges par omission ont été évidents dans la mise en
exergue de camps bosno-serbes de prisonniers comme Omarska, décrits en
détail et avec indignation, alors qu'en fait les musulmans et les
Croates avaient des camps similaires à Celebici, Tarcin, Livno,
Bradina, Odzak et le camp Zetra à Sarajevo, entre autres avec des
chiffres de prisonniers et des installations comparables, et un
traitement pire des prisonniers. Mais à la différence des Serbes, les
musulmans et les Croates ont eu recours à des firmes compétentes de
relations publiques et ont refusé de laisser inspecter leurs
installations et l'édifice de partialité déjà mis en place faisait
que les médias ne s'intéressaient qu'aux camps serbes.
De folles allégations de conditions de détention à la Auschwitz dans
les "camps de concentration" serbes ont été reprises par les
journalistes de service qui avalaient la propagande diffusée par les
autorités musulmanes et croates et leurs employés de relations
publiques. Roy Gutman, qui a remporté le prix Pulitzer avec John Burns
pour ses reportages en Bosnie en 1993, se fiait presqu'uniquement aux
autorités musulmanes et croates, et à des témoins à la crédibilité
douteuse et aux affirmations invraisemblables, et il a été une source
majeure du bourrage de crâne exagéré, tendancieux et mensonger sur les
"camps de concentration". Le prix Pulitzer de John Burns était basé
sur une longue interview de Boris Herak, un prisonnier bosno-serbe qui
lui avait été fourni, ainsi qu'à un cinéaste financé par Soros, par
les musulmans bosniaques. Quelques années plus tard, Herak a avoué
qu'on l'avait forcé à faire sa confession hautement invraisembable et
qu'il avait du apprendre par cur de nombreuses pages de mensonges.
Deux de ses prétendues victimes sont apparues plus tard bien vivantes.
Dans le reportage sur Herak, John Burns et le New York Times (ainsi
que le film financé par Soros) ont omis de mentionner un détail qui
aurait ruiné leur crédibilité : Herak accusait aussi l'ex-chef de
l'UNPROFOR, le général canadien Lewis MacKenzie, d'avoir violé une
jeune musulmane dans un bordel serbe. Ces deux scandaleux prix
Pulitzer témoignent de la partialité médiatique qui régnait en 1992 et
1993.
Dans un récent accès de curiosité, au cours d'une visite au mourant
Izetbegovic, Bernard Kouchner a interrogé l'ex-chef de l'Etat
bosniaque sur les camps de concentration bosno-serbes. Izetbegovic lui
a fait le surprenant aveu que l'information sur ces camps avait été
grossie dans le but d'obtenir de l'OTAN le bombardement des Serbes.
Cette importante confession n'a pas été mentionnée par les médias
américains ou anglais.
Un des plus spectaculaires mensonges des années 90 a été celui
concernant le camp serbe de Trnopolje, visité par les reporters
britanniques d'ITN en août 1992. Ces reporters ont photographié un
certain Fikret Alic, le montrant émacié et apparemment enfermé
derrière la barrière d'un camp de concentration. En fait, Fikret Alic
se trouvait dans un camp de transit, était malade de tuberculose bien
avant d'arriver au camp, ne représentait en aucune façon les autres
résidents du camp, et est parti peu de temps après en Suède. De plus,
la barrière entourait les photographes, pas le photographié. Mais
cette photo particulièrement malhonnête, qui a fait la une partout en
Occident comme preuve de l'existence d'un Auschwitz serbe, a été
dénoncée par les autorités de l'OTAN, et a fourni le fondement de la
création du TPI et de sa mission de combattre le mal serbe.
Dans le cas du siège de Sarajevo, comme dans ceux des conflits autour
des villes "protégées", le gouvernement musulman bosniaque s'est
engagé dans un programme régulier de provocation des Serbes, les
condamnant pour leur riposte, mentant sur le nombre de victimes et
tentant la plupart du temps avec succès de faire endosser aux
Serbes toutes les responsabilités. Comme le dit Tim Fenton : "Des
allégations de massacres de musulmans bosniaques suivait tout
affrontement comme la nuit suit le jour : le plus éloquent étant le
Premier ministre musulman Haris Silajdzic qui affirmait que les
Nations Unies étaient responsables de la mort de 70.000 personnes à
Bihac au début de 1995, alors qu'en fait il n'y avait pratiquement pas
eu de combats et que le nombre de victimes était très peu élevé."
Une remarquable caractéristique de la lutte des musulmans bosniaques
pour la diabolisation des Serbes, en vue d'obtenir de l'OTAN qu'elle
vienne à leur secours avec des bombes, a été leur propension à tuer
leurs propres concitoyens. L'exemple le plus notable a été le
bombardement de civils de Sarajevo au cours de trois massacres : en
1992, le "massacre de la boulangerie" ; en 1994, le "massacre du
marché" de Markalé ; et en 1995, le second "massacre du marché". Dans
la version officielle, les Serbes étaient responsables de ces
atrocités, et on peut admettre qu'il est difficile de croire que les
autorités musulmanes tuaient leurs propres gens pour obtenir un
avantage politique, même si les faits convergent en ce sens. Mais ces
massacres ont été l'objet d'un "timing" parfaitement mis au point pour
influer sur la décision imminente des Etats-Unis et de l'OTAN
d'intervenir en faveur des bosno-musulmans. Plus encore, de nombreuses
autorités de l'ONU et chefs militaires occidentaux ont affirmé qu'il y
avait de fortes présomptions pour que les trois actions aient été
planifiées et exécutées par les musulmans bosniaques. L'officier de
l'armée US John F. Sray, qui était sur place en Bosnie lors de ces
massacres et dirigeait la section du renseignement américain à
Sarajevo, a même considéré que les incidents, et la probable
implication des autorités bosno-musulmanes, "méritait une enquête
approfondie du tribunal pénal international." Inutile de dire
qu'aucune enquête n'a été entreprise. En un mot, cette analyse des
trois massacres ne relève pas de la théorie des complots, mais d'une
conclusion fondée sur de multiples et sérieuses constatations, qui n'a
même pas été évoquée dans les comptes rendus tendancieux de l'histoire
balkanique récente.
A la fois avant et après Srebrenica, la manipulation des chiffres a
été une pratique courante, contribuant à conforter le récit dominant.
Pour la Bosnie, en décembre 1992, le gouvernement musulman bosniaque a
fait état de 128.444 morts militaires et civiles, un nombre qui est
passé à 200.000 en juin 1993, puis à 250.000 en 1994. Ces chiffres ont
été avalés sans sourciller par les politiciens occidentaux, les médias
et les intellectuels prônant la guerre, avec Clinton lui-même citant
celui de 250.000 dans un discours de novembre 1995. L'ex-responsable
du Département d'Etat George Kenney s'est souvent référé à ces
chiffres, et s'est étonné de voir la crédulité avec laquelle les
médias les ont acceptés sans la moindre velléité de vérification. Sa
propre estimation s'est située entre 25.000 et 60.000. Plus récemment,
une étude parrainée par le gouvernement norvégien a fait une
estimation de 80.000, et une enquête du TPI lui-même a conclu à
102.000 victimes. Ni l'un ni l'autre de ces résultats n'a figuré dans
les médias US, qui avaient régulièrement abreuvé leurs lecteurs des
chiffres grossis.
Une inflation comparable a eu lieu pendant les 78 jours du
bombardement de l'OTAN en 1999, avec de hautes autorités américaines
mentionnant, à divers moments, 100.000, 250.000 et 500.000 meurtres
d'Albanais du Kosovo par les Serbes, et utilisant à tort et à travers
le terme "génocide" pour décrire les opérations serbes au Kosovo. Ces
chiffres ont peu à peu été ramenés à 11.000, et sont restés à ce
niveau bien qu'on n'ait trouvé que quelques 4.000 corps au cours d'une
des plus intenses recherches scientifiques de l'histoire, et qu'un
nombre indéfini de ces corps étaient des combattants, des Serbes, ou
des victimes du bombardement américain. Mais le chiffre de 11.000 doit
être juste parce que les membres de l'OTAN et le TPI l'ont déclaré
tel, et Michel Ignatieff a assuré les lecteurs du New York Times que
"la découverte de ces 11.334 cadavres dépendait du fait que l'armée et
la police serbes les avaient ou non déplacés."
Ce récital de désinformation systématique ne prouve pas nécessairement
la fausseté de la version officielle du massacre de Srebrenica. Mais
il évoque la nécessité d'examiner de plus près des allégations qui se
sont révélées si opportunes, un examen que les mass-médias se sont
toujours refusés à faire.
Les douteuses allégations de massacre.
Au moment des événements de Srebrenica en juillet 1995, le décor avait
été bien planté pour que les allégations de massacre paraissent
crédibles. Pratiquement personne n'avait démenti l'incessante série de
mensonges des médias, le processus de diabolisation et de manichéisme
bien-contre-mal était parfaitement rodé, le TPI et les dirigeants de
l'ONU suivaient à la lettre le programme des USA et de leurs alliés,
et les médias leur emboîtaient le pas dans leur bellicisme.
Il était pourtant facile de déceler les failles du contexte. Un
élément en était que la notion de "zone protégée" n'était qu'une
fraude, ces zones étant supposées désarmées. Or il n'en était rien,
avec la connivence de l'ONU . Les musulmans bosniaques les
utilisaient, à Srebrenica et ailleurs, comme rampes de lancement
d'attaques des villages serbes environnants. Au cours des trois années
précédant le massacre, plus de mille civils serbes ont été tués par
les forces musulmanes dans un grand nombre de villages dévastés. Bien
avant juillet 1995, le commandant musulman de Srebrenica Naser Oric a
fièrement fait voir à des reporters occidentaux des vidéos montrant
quelques unes de ses victimes serbes décapitées, et s'est vanté de ses
assassinats. Témoignant devant le TPI le 12 février 2004, le
commandant militaire des Nations Unies en Bosnie en 1992 et 1993, le
général Philippe Morillon, a affirmé sa conviction que l'attaque de
Srebrenica avait été une "réaction directe" aux massacres de Serbes
par Naser Oric et ses forces en 1992 et 1993, massacres que Morillon
connaissait parfaitement. Le témoignage de Morillon n'a pas intéressé
les médias occidentaux, et quand le TPI s'est finalement résolu à
inculper Naser Oric le 28 mars 2003, probablement pour se forger une
image d'impartialité juridique, ce dernier n'a été accusé que du
meurtre de sept Serbes qui avaient été torturés et battus à mort après
leur capture, et d'avoir détruit au hasard des villages environnants.
Bien qu'il se soit vanté ouvertement devant des reporters occidentaux
d'avoir massacré des civils serbes, le TPI "n'a trouvé aucune preuve
de victimes civiles des attaques de villages serbes dans son théâtre
d'opérations".
Quand les Serbes de Bosnie se sont emparés de Srebrenica en juillet
1995, il a été rapporté que le 28e régiment de l'armée musulmane
bosniaque (AMB), comprenant plusieurs milliers d'hommes, avait fui la
ville. Les médias ne se sont pas demandés comment une force aussi
importante pouvait se trouver dans une "zone protégée" désarmée. Ayant
aussi ignoré les exactions perpétrées précédemment à partir de la zone
protégée, ils pouvaient ainsi adopter la version officielle d'un
"génocide" et d'une inexplicable cruauté, plutôt que celle d'une
revanche admise par les médias pour excuser en partie la violence de
victimes "agréées" (comme celle des Albanais expulsant et tuant les
Serbes et les Roms après la l'occupation du Kosovo par l'OTAN).
Un second élément du contexte a été la possible raison politique de la
livraison de Srebrenica par une force en bonne position défensive,
supérieure en nombre à l'attaquante ar-mée serbe bosniaque (ASB) dans
la proportion de six ou huit contre un, mais battant en retraite avant
l'assaut, ses chefs ayant été retirés au préalable par le gouvernement
musulman bosniaque. Cette retraite a laissé la population sans
protection, et a rendu les cadres de l'AMB vulnérables au moment où
ils refluaient en désordre vers les lignes bosno-musulmanes. Etait-ce
une nouvelle manuvre d'auto-sacrifice des leaders en vue de produire
des victimes, peut-être pour atteindre la cible des 5.000 fixée par
Clinton et pousser à une intervention plus énergique de l'OTAN ? La
question n'a jamais été posée par les grands médias.
Les événements de Srebrenica présentaient bien des aspects rendant
plausible la version des 8.000 "hommes et jeunes gens" exécutés.
L'un d'entre eux était la confusion et l'incertitude quant au sort des
militaires bosno-musulmans en fuite, certains réussissant à gagner
Tuzla en sécurité, d'autres finissant tués dans les combats, d'autres
ayant été faits prisonniers. Le chiffre de 8.000 a été de prime abord
donné par la Croix Rouge, basé sur l'estimation brute que l'ASB avait
capturé 3.000 hommes et que 5.000 étaient portés "disparus". Il est
bien établi que des milliers de "disparus" sont arrivés à Tuzla ou ont
été tués dans les combats. Mais dans une extraordinaire transformation
qui témoigne de l'ardeur à situer le mal du côté des Serbes et à faire
des musulmans des victimes, les catégories d'"arrivées en sécurité" ou
de "morts au combat" des manquants à l'appel ont été ignorées, et tous
les disparus ont été considérés comme exécutés ! Cette trompeuse
conclusion a été renforcée par la Croix Rouge se référant aux 5.000
comme "simplement disparus", et le fait qu'elle n'ait pas corrigé
cette qualification politiquement tendancieuse et précisé, bien
qu'elle l'ait elle-même reconnu, que "plusieurs milliers" de réfugiés
étaient arrivés en Bosnie centrale.
Elle a aussi été renforcée par le refus des autorités bosno-musulmanes
de donner les noms et le nombre des gens sauvés sans encombre. Mais il
y avait une remarquable propension dans l'establishment occidental non
seulement à ne tenir aucun compte de ceux arrivés à bon port, mais
aussi à ignorer les morts au combat et à considérer tous les cadavres
comme des victimes d'exécutions. La foi aveugle est ici sans limites :
le reporter David Rohde a vu un os emergeant d'un site de tombeaux
près de Srebrenica, et il a su d'instinct que c'était le vestige d'une
exécution et la preuve sérieuse d'un "massacre". La pratique courante
des médias a été de passer de la constatation avérée de milliers de
disparus, ou de la nouvelle d'une exhumation de corps sur un site, à
la conclusion que l'exécution de 8.000 personnes était ainsi démontrée.
Avec 8.000 exécutions et des milliers de morts dans les combats, on
aurait du trouver d'énormes sites d'enterrements, et amasser par
satellites des preuves des exécutions, des enterrements et
éventuellement des déplacements de corps. Mais les recherches dans le
secteur de Srebrenica se sont avérées douloureusement décevantes, avec
la découverte pour toute l'année 1999 de seulement quelques 2.000
corps, comprenant des combattants et même des Serbes, certains datant
d`avant juillet 1995. La maigreur de ces résultats a conduit à l'idée
que les corps avaient été déplacés et remis en terre ailleurs, mais il
était très difficile d'en être convaincu car les Serbes ont été soumis
à une intense pression militaire après juillet 1995. C'était la
période où l'OTAN bombardait les positions serbes et où les armées
croate et musulmane développaient une offensive en direction de Banja
Luka. L'ASB était sur la défensive et manquait sérieusement
d'équipement et de ressources, y compris d'essence. Monter une
opération de la taille de l'exhumation, du transport et du nouvel
enterrement de milliers de cadavres dépassait de loin les moyens dont
elle disposait à l'époque. De plus, en exécutant un programme de cette
envergure, elle ne pouvait espérer passer inaperçue du personnel de
l'OSCE, des civils locaux et des observations par satellite.
Le 10 octobre 1995, Madeleine Albright a montré des photos par
satellite à une session à huis clos du Conseil de sécurité, comme
faisant partie du dossier d'accusation des Serbes de Bosnie. L'une
d'entre elles montrait des personnes données comme des musulmans
bosniaques près de Srebrenica rassemblées dans un stade, et une
autre, prétendument prise peu après, un champ à proximité avec un sol
"remué". Ces photos n'ont jamais été rendues publiques, mais même si
elles étaient authentiques, elles ne prouveraient ni exécutions ni
enterrements. En outre, bien que le TPI fasse état d'une "tentative
organisée et globale" de dissimuler les cadavres et que David Rohde
parle d'un "gigantesque effort serbe de cacher les corps", ni Albright
ni qui que ce soit d'autre n'a jamais montré la moindre photo
satellite de gens exécutés, enterrés ou déterrés pour être déplacés,
ou de camions transportant ailleurs des milliers de cadavres. Soit un
manque flagrant de documentation, malgré l'avertissement de Madeleine
Albright aux Serbes "Nous vous surveillons" et au moment où les
satellites faisaient au moins huit passages quotidiens et où les
drones géostationnaires pouvaient se placer au-dessus de la Bosnie et
prendre des photos à haute définition, pendant l'été de 1995. Les
grands médias ont considéré que cette lacune n'avait aucun intérêt.
Un grand nombre de corps ont été rassemblés à Tuzla, quelques 7.500 ou
plus, beaucoup en très mauvais état ou en fragments, leur ramassage et
leur manipulation incompatibles avec les normes scientifiques
professionnelles, leur origine incertaine, leur lien avec les
événements de juillet 1995 à Srebrenica loin d'être prouvé et même
improbable, et la cause de la mort en général indéfinie. Il est
intéressant de noter, alors que les Serbes étaient sans cesse accusés
de cacher les corps, qu'on n'a jamais suggéré que les musulmans
bosniaques, chargés pendant longtemps de la recherche des cadavres, et
pourtant coutumiers de falsifications, pouvaient déplacer des corps et
manipuler les informations. Une tentative d'utiliser l'ADN pour
rattacher les vestiges à Srebrenica est en cours, mais elle soulève de
nombreux problèmes : à part ceux des procédés d'investigation et de
l'intégrité des sujets d'examen, elle ne résoudra pas celui de la
différenciation entre une exécution et une mort au combat. Il y a
aussi des listes de disparus, mais elles sont remplies d'erreurs, avec
des doublons, des noms de personnes décédées avant juillet 1995, qui
ont pris la fuite pour éviter de servir dans l'ASB ou qui se sont
inscrites sur les listes électorales en 1997, et elles comprennent des
morts au combat, des rescapés qui se sont réfugiés en sécurité ou qui
ont été faits prisonniers, et qui ont entamé une nouvelle existence
ailleurs.
Le chiffre de 8.000 est aussi incompatible avec l'arithmétique
élémentaire relative à Srebrenica avant et après juillet 1995. Les
personnes déplacées de Srebrenica c'est-à-dire les survivants du
massacre qui se sont fait enregistrer au début d'août 1995 par
l'Organisation mondiale de la santé (OMS) et le gouvernement
bosniaque, atteignaient un total de 35.632. Les musulmans qui ont pu
gagner les lignes musulmanes "sans que leurs familles soient
informées" étaient au moins 2.000, et environ 2.000 ont été tués dans
les combats. Soit un total de 37.632 rescapés, plus les 2.000 morts au
combat, qui, avec les 8.000 exécutés, porterait la population
d'avant-guerre de Srebrenica à 47.000 habitants, alors qu'elle était
en réalité plus proche de 37 à 40.000 (La juge du TPI Patricia Wald
l'a estimée à 37.000). Les chiffres ne concordent pas.
Il y a eu des témoins de tueries à Srebrenica, ou des gens qui ont
affirmé avoir été des témoins. En petit nombre, certains ayant
manifestement des comptes politiques à régler ou se révélant peu
crédibles.46 Cependant plusieurs étaient sérieux et décrivaient sans
doute des événements horribles et réels. Mais nous parlons ici de
quelques centaines d'exécutions, pas de 8.000 ou de quoi que ce soit
d'approchant.
Le seul témoin qui ait prétendu avoir directement participé à un
nombre dépassant le millier a été Drazen Erdemovic, un Croate associé
à un groupe de tueurs mercenaires qui avaient reçu 12 kilos d'or pour
leur service en Bosnie (selon Erde-movic lui-même) et avaient fini par
travailler au Congo pour le renseignement français. Son témoignage a
été accepté, malgré son inconsistence et ses contradictions, et le
fait qu'il souffrait de troubles mentaux au point d'avoir été exonéré
de son propre procès, à peine deux semaines avant d'être admis comme
témoin dispensé de contre-interrogatoire. Les dépositions de ce témoin
et d'autres ont beaucoup souffert du procédé de marchandage préalable
selon lequel les prévenus peuvent négocier une réduction de peine en
échange de leur collaboration avec le tribunal.47
Il est également important de souligner le nombre d'observateurs
relativement impartiaux qui n'ont pas vu le moindre signe de massacre,
y compris les membres des forces hollandaises présentes dans la "zone
protégée" et des gens comme Henry Wieland, le chef enquêteur de l'ONU
pour les abus de droits de l'homme, qui n'a trouvé aucun témoin
oculaire d'atrocités après cinq jours d'interviews au sein des 20.000
survivants de Srebrenica rassemblés dans le camp de réfugiés de
l'aéroport de Tuzla.48
Anomalies
Une anomalie concernant Srebrenica consiste en la stabilité du chiffre
de victimes bosno-musulmanes 8.000 en juillet 1995 et 8.000
aujourd'hui, malgré le caractère brut de la première estimation, la
preuve que beaucoup ou la plupart des 5.000 "disparus" ont rejoint le
territoire bosno-musulman ou ont été tués dans les combats, et
l'incapacité de produire des témoignages probants en dépit d'un effort
massif. Dans d'autres cas, comme l'estimation relative aux attentats
du 11 septembre, ou même celles des morts en Bosnie ou des victimes
des bombardements au Kosovo, les chiffres ont été revus à la baisse au
fur et à mesure que les relevés de corps rendaient indéfendables les
premières évaluations exagérées.49 Mais en raison de son rôle
politique primordial pour les Etats-Unis, les musulmans bosniaques et
les Croates, et de la foi quasi-religieuse en l'existence de
l'atrocité qui s'y serait déroulée, Srebrenica s'est révélée étanche à
toute réalité. Depuis le premier jour jusqu'à aujourd'hui, le chiffre
de 8.000 a été considéré comme une vérité intangible, dont la mise en
doute serait une hérésie et une apologie du démon.
Une autre anomalie qui illustre le caractère sacré, intouchable et
politisé du massacre dans l'idéologie occidentale, a été sa rapide
qualification de "génocide". Le tribunal a joué ici un grand rôle,
avec l'exceptionnelle crédulité, le psychologisme débridé et
l'incompétence des raisonnements juridiques que les juges ont
manifestés exclusivement dans les cas concernant les Serbes. En
matière de crédulité, un juge a entériné comme un fait l'affirmation
d'un témoin que les soldats serbes ont forcé un vieillard musulman à
manger le foie de son petit-fils 50 et les magistrats ont sans arrêt
évoqué comme un fait établi l'exécution de 7 à 8.000 musulmans, tout
en reconnaissant en même temps que leurs informations "suggéraient"
qu'une "majorité" des 7-8.000 disparus n'avaient pas été tués au
combat, ce qui diminuait sensiblement le chiffre accepté.51
Le tribunal a résolu l'embarrassant problème des Serbes génocidaires
transportant par bus en zone sûre les femmes et les enfants musulmans
bosniaques, en disant qu'ils l'avaient fait pour des raisons de
relations publiques, mais comme le fait remarquer Michael Mandel, ne
pas commettre un acte criminel malgré son désir de le faire s'appelle
un "acte criminel non commis."52 Le tribunal ne s'est jamais demandé
pourquoi les Serbes génocidaires n'avaient pas encerclé la ville avant
de la prendre pour empêcher des milliers d'hommes de s'échapper, ni
pourquoi les soldats musulmans bosniaques avaient laissé leur femmes
et enfants, avec de nombreux camarades blessés, à la merci des
Serbes,53 et il n'a jamais relevé le fait que 10.000 habitants de
Zvornik, principalement musulmans, s'étaient mis à l'abri de la guerre
civile en se réfugiant en Serbie même, comme l'a attesté le témoin de
l'accusation Borislav Jovic.54
Parmi les autres incohérences des arguments des magistrats du
tribunal, figure la notion qu'il s'agit d'un génocide lorsque vous
tuez les hommes d'un groupe dans le but d'en réduire la population
future, rendant ainsi le groupe inviable dans le secteur. Vous
pourriez simplement vouloir les tuer pour éviter qu'ils ne vous tuent
plus tard, mais la cour connaît mieux la psychologie serbe cela ne
pouvait être la seule raison, il fallait qu'il y ait un but plus
sinistre. Le raisonnement du tribunal est qu'avec un peu de
psychologie favorable à l'accusation, n'importe quel cas d'élimination
d'un adversaire peut être considéré comme un génocide.
Il y a aussi le problème de la définition du groupe. Les Serbes
cherchaient-ils à éliminer tous les musulmans de Bosnie, ou les
musulmans en général ? Ou seulement les musulmans de Sarajevo ? Les
juges ont considéré que leur expulsion de Sarajevo était en lui-même
un génocide, et ils ont en gros assimilé le génocide au nettoyage
ethnique.55 Il est cependant important de souligner que le TPI n'a
jamais qualifié de "génocide" le nettoyage ethnique de 250.000 Serbes
de la Krajina, bien que dans ce cas beaucoup de femmes et d'enfants
aient été tués, et que ce nettoyage se fut déroulé sur un plus vaste
territoire et eut entraîné plus de victimes civiles qu'à Srebrenica.56
Le 10 août 1995, Madeleine Albright s'est écriée au Conseil de
sécurité que "jusqu'à 13.000 hommes, femmes et enfants ont été chassés
de leurs foyers" à Srebrenica.57 Peut-être le tribunal a-t-il fait
sienne l'impayable formule de Richard Holbrooke qualifiant la Krajina
d'un cas d'"expulsions involontaires" !58 La partialité est éclatante,
la politisation de l'instance juridique extrême.
La couverture médiatique des événements à Srebrenica et en Krajina a
suivi le même schéma et illustre comment les médias ont différencié
les bonnes et les mauvaises victimes selon la prise de position
politique. Les Serbes étant la cible du gouvernement, et le
gouvernement soutenant massivement le programme croate de nettoyage
ethnique dans la Krajina, les médias ont gratifié Srebrenica d'un
traitement énorme et indigné, avec un langage haineux, des appels à
l'action et peu d'évocation du contexte. La Krajina, elle, n`a eu
droit qu'à une attention faible et passagère, dépourvue d'indignation
; la description détaillée du sort des victimes était réduite au
minimum, le langage des comptes rendus était neutre, et le contexte
évoqué rendait les événements compréhensibles. Le contraste a été si
grossier qu'il en devenait risible : l'attaque de Srebrenica était
"glaçante", "meurtrière", "sauvage", "criminellement perpétrée de
sang-froid", "génocidaire", qualifiée d'"agression" et bien entendu de
"nettoyage ethnique". Avec la Krajina, rien de comparable, même
"nettoyage ethnique" était de trop. L'agression croate n'était qu'un
gros "soulèvement" qui "affaiblissait l'ennemi", une "offensive
éclair", expliquée comme une "riposte à Srebrenica" et un résultat des
"excès" des leaders serbes. Le Washington Post a même cité
l'ambassadeur US en Croatie Peter Galbraith disant "l'exode serbe
n'est pas un nettoyage ethnique".59 Le journal ne permettait aucune
mise en doute de ce jugement. En fait, les opérations croates en
Krajina ont fait de la Croatie le plus ethniquement pur de tous les
composants de l'ex-Yougoslavie, bien que l'occupation du Kosovo par
l'OTAN ait permis un nettoyage qui rivalise avec la purification
ethnique de la Croatie.
Une autre anomalie de l'affaire de Srebrenica est l'insistance mise à
poursuivre devant le tribunal tous les criminels (serbes), et à
obtenir des bourreaux volontaires (serbes) qu'ils reconnaissent leur
culpabilité, leur aveu étant une nécessité de la justice et la
condition de la réconciliation. Le problème est que la justice ne peut
être partiale, ou alors elle cesse d'être la justice, et elle révèle
son vrai visage de vengeance et de justification de buts politiques.
Le nettoyage ethnique en Bosnie n'était en aucune façon le fait d'un
seul côté, et les morts par nationalité ne sont pas loin de
correspondre aux proportions de la population.60 Les Serbes affirment,
documents à l'appui, qu'ils ont eu des milliers de morts dûs aux
musulmans bosniaques et à leurs cadres moudjahidin importés, ainsi
qu'aux Croates, et ils ont leur propre groupe d'enquête cherchant à
identifier les corps d'un nombre de charniers estimé à 73.61 Ces
victimes n'ont pas retenu l'attention des médias occidentaux ou du
TPI. Le distingué scientifique yougoslave, le Dr Zoran Stankovic, a
observé en 1996 que "le fait que son équipe avait précédemment
identifié les corps de 1.000 Serbes de Bosnie dans la région (de
Srebrenica) n'avait pas intéressé le procureur Richard Goldstone."62 A
la place, on entonne sans cesse le refrain sur la tendance à se
plaindre et à gémir des Serbes, alors que les plaintes des musulmans
bosniaques sont considérées comme celles de vraies victimes et ne sont
jamais comparées à des gémissements.
Loin de contribuer à la réconciliation, l'insistance sur les victimes
et les meurtriers de Srebrenica stimule la haine et le nationalisme,
comme la guerre et la violence au Kosovo y ont exacerbé les haines et
les tensions, et démontré que le but affiché de Clinton d'un Kosovo
tolérant et multiethnique était une farce. Au Kosovo, la propagande
partiale et l'occupation de l'OTAN ont dechaîné une incontrôlable
violence antiserbe et antirom, antiturque et anti-dissidents
albanais aidée par la complaisance des autorités de l'OTAN qui
détournent les yeux pendant que leurs alliés les prétendues victimes
prennent leur revanche et poursuivent leur sempiternel objectif de
purification ethnique.63 En Bosnie et en Serbie, les Serbes ont été
incessamment dénoncés et humiliés, et leurs leaders et chefs
militaires punis, alors que les criminels parmi les musulmans
bosniaques, les Croates et les puissances de l'OTAN (Clinton, Blair,
Albright, Holbrooke ) ne sont l'objet d'aucune sanction64 et, pour
certains (Clinton et al.), sont présentés comme des champions de la
justice.
Il est évident que le but de ceux qui exigent le châtiment des Serbes
n'est pas la justice ou la réconciliation. Il est d'unifier et de
consolider la position des musulmans bosniaques, d'écraser la
Republika Srpska et même peut-être de l'éliminer complètement comme
entité indépendante en Bosnie, de maintenir la Serbie dans un état de
désorganisation, de faiblesse et de dépendance de l'Occident, et de
continuer à présenter sous un jour favorable l'agression des USA et de
l'OTAN et le démantèlement de la Yougoslavie.
Ce dernier objectif requiert de détourner l'attention du rôle de
Clinton et des musulmans bosniaques dans l'établissement d'une tête de
pont d'Al Qaeda dans les Balkans, de l'alliance étroite d'Izetbegovic
avec Osama bin Laden, de sa Déclaration islamique exprimant son
hostilité à l'Etat multiethnique,65 et de l'importation de 4.000
mudjahidin pour mener une guerre sainte en Bosnie avec l'aide active
du gouvernement Clinton et de l'association UCK-Al Qaeda.
Cet aspect de la prise de position en faveur des musulmans bosniaques
a toujours embarrassé les propagandistes de guerre, et l'embarras
s'est accru après les attentats du 9 septembre. Le US 9/11 Commission
report affirme que deux des onze pirates de l'air, Nawaf al Hazmi et
Khalid al Mindhar, ainsi qu'un des cerveaux de l'attaque, Khalid
Sheikh Mohammed, ont "combattu" en Bosnie, et que Bin Laden avait des
"bureaux" à Zagreb et Sarajevo.66 Malgré l'énorme couverture
médiatique du 9 septemebre et d'Al Qaeda, ces liens n'ont pas été
mentionnés par les grands médias et n'ont eu aucun effet sur le
proconsul en Bosnie Paddy Ashdown, qui a assisté aux funérailles
d'Izetbegovic et continue à prendre le parti des musulmans bosniaques.
Les Serbes s'étaient bien sûr déjà plaints des cruautés (et des
décapitations) des moudjahidin en 1993, mais les médias et le TPI ne
s'y sont pas intéressés à l'époque et ne s'y intéressent toujours pas.
Il ne faut parler que de Srebrenica, des musulmans bosniaques comme
uniques victimes, et du secours généreux quoiqu'un peu tardif apporté
par Clinton et l'Occident à ces malheureux opprimés.
Mais les Serbes de Bosnie n'ont-ils pas "avoué" avoir assassiné 8.000
civils ? Les médias occidentaux se sont emparés de cet "aveu",
démontrant une fois de plus leur soumission à l'agenda politique de
leurs leaders. Les Serbes ont en effet publié un rapport sur
Srebrenica en septembre 2002,67 mais ce rapport a été rejeté par Paddy
Ashdown pour n'avoir pas abouti aux conclusions appropriées. Le
proconsul a exigé un nouveau rapport en renvoyant une charrette de
politiciens et d'analystes de la Republika Srpska, menaces au
gouvernement à l'appui, et a fini par faire rédiger un texte par des
gens acceptant les conclusions officiellement approuvées.68 Ce
rapport, publié le 11 juin 2004, a alors été accueilli par les médias
occidentaux comme une confirmation significative de la version
officielle. Le refrain a été que les Serbes avaient "admis" le
massacre et que la question était désormais réglée. L'amusant est que
ce rapport imposé de force est loin de reconnaître 8.000 exécutions
(il ne parle que de "plusieurs milliers"). La seule chose que "prouve"
cet épisode est que la campagne occidentale destinée à faire ramper
les Serbes vaincus n'est pas terminée, pas plus que la crédulité des
médias et leur assujettissement à la propagande.
Conclusion
Le "massacre de Srebrenica" est le plus grand triomphe du bourrage de
crâne dans les guerres des Balkans. D'autres assertions et mensonges
ont joué leur rôle dans les conflits balkaniques, mais alors qu'ils
n'ont occupé qu'un rang modeste dans le répertoire de la propagande
malgré la concurrence (Racak, le massacre de Markalé, le refus serbe
de négocier à Rambouillet, les 250.000 morts de Bosnie, la conquête de
la Grande Serbie comme élément moteur des guerres balkaniques),69 le
massacre de Srebrenica les dépasse tous par son pouvoir symbolique.
C'est le symbole de la malfaisance serbe et de la souffrance des
musulmans bosniaques, comme du bien-fondé du démantèlement de la
Yougoslavie et des interventions occidentales, comprenant un
bombardement et l'occupation de la Bosnie et du Kosovo.
Malheureusement, il n'y a aucun lien entre ce triomphe de la
propagande, et la vérité et la justice. La négation de la vérité
s'incarne dans le fait que la première estimation de 8.000, incluant
5.000 "disparus" qui avaient quitté Srebrenica pour rejoindre les
lignes bosno-musulmanes a été maintenue après qu'il ait été
rapidement établi que plusieurs milliers avaient gagné ces lignes et
que des milliers d'autres étaient morts dans les combats. Ce beau
chiffre rond reste intangible aujourd'hui, face à l'incapacité de
trouver des corps d'exécutés et malgré l'absence de la moindre photo
par satellite montrant des exécutions, des cadavres, des gens qui
creusent, ou des camions transportant des corps pour les réenterrer.
Les médias se sont bien gardés de poser des questions à ce sujet, en
dépit de la promesse de Madeleine Albright d'août 1995 : "Nous vous
surveillons".
La déclaration d'Albright, et les photos qu'elle a montrées à
l'époque, ont détourné l'attention du "massacre de la Krajina" qui se
déroulait dans la Krajina croate, un nettoyage ethnique d'une grande
cruauté plus important qu'à Srebrenica, comportant moins de combats
réels qu'à Srebrenica, fait d'attaques, d'assassinats et d'expulsions
de civils sans défense. A Srebrenica, les Serbes de Bosnie ont mis les
femmes et les enfants en sécurité et il n'existe aucune preuve qu'ils
en aient tués,70 alors que dans la Krajina n'a été organisée aucune
séparation de ce genre et qu'on estime à 368 le nombre de femmes et
d'enfants tués, avec de nombreux malheureux trop âgés ou infirmes pour
s'enfuir.71 Le succès de la propagande peut se mesurer au fait que les
médias n'ont jamais évoqué la possibilité que l'attention intense
portée au massacre de Srebrenica ait servi à masquer le "massacre de
la Krajina" qui l'a immédiatement suivi, et qui avait l'appui des
Etats-Unis. Pour les médias, Srebrenica a contribué à provoquer la
Krajina, et les Serbes méritaient ce qui leur est arrivé.72
Les médias ont joué un rôle important dans le triomphe de propagande
qu'a été le massacre de Srebrenica. Comme il a été dit précédemment,
ils sont devenus les complices du bellicisme en 1991, et toutes les
normes d'objectivité ont disparu dans leur soutien servile de la
politique pro-bosnomusulmane et anti-serbe. Décrivant les reportages
de Christine Amanpour et d'autres sur les combats autour de Gorazde,
le lieutenant-colonel de l'armée US John Sray a écrit déjà en octobre
1995 que les informations "était dépourvues de tout semblant de
vérité", que les Américains souffraient d'un "monument de
désinformation", que "l'Amérique n'a pas été aussi lamentablement
trompée" depuis la guerre du Vietnam, et que la perception populaire
de la Bosnie "avait été forgée par une prolifique machine de
propagande qui a réussi à manipuler des illusions pour soutenir les
buts musulmans."73
La machine de propagande a conquis les libéraux et une grande partie
de la gauche aux USA, qui ont avalé la version dominante des méchants
Serbes recherchant l'hégémonie, n'ayant recours qu'à des stratégies
brutales et génocidaires et ruinant le havre multiethnique qui
existait auparavant en Bosnie un havre dirigé par Osama bin Laden et
son ami et allié Alija Izetbegovic et, selon une correction apportée
tardivement par Clinton, Holbrooke et Albright, étroitement lié à
l'Iran, la Turquie et l'Arabie Saoudite ! La coalition belliciste
libérale-gauche devait diaboliser les Serbes pour justifier la guerre
impériale et ils l'ont fait en s'imprégnant de l'ensemble de mensonges
et de mythes qui composait la version officielle.74 Cet amalgame du
missile de croisière de la gauche (MCG) et des libéraux a beaucoup
contribué à développer la thèse de l'"intervention humanitaire"
consistant à attaquer les Serbes au profit de l'armée de liberation du
Kosovo, et en fait à préparer le terrain pour les guerres de
"liberation" de Bush.75 Le massacre de Srebrenica a aidé à faire
croire les libéraux et le MCG à la croisade dans les Balkans et a
fourni la justification morale à leur soutien de l'expansion impériale
de leur pays et de ses alliés.
L'ex-responsable de l'ONU Cedric Thornberry, dans un texte de 1996, a
noté : "Mise en évidence dans un certain nombre de médias
internationaux libéraux", la position prise est que "Les Serbes sont
les seuls vilains". Déjà au quartier général des Nations Unies en
1993, il avait été averti en ces termes : "Garez vous, le trucage est
en route"76 La manipulation était en effet en route, même si elle
n'était que tacite et infiltrée dans les relations entre le
gouvernement, les médias et le tribunal. Elle a contribué à faire du
massacre de Srebrenica le symbole du mal et, avec l'aide de la
"justice" du tribunal et le soutien des libéraux et du MCG, à fournir
une justification de l'agression US-OTAN et du démantèlement de la
Yougoslavie, et plus largement, de l'"intervention humanitaire". Que
peut-on demander de plus à un système de propagande ?
Texte traduit par les éditions Le Verjus et publié dans le livre : Le
dossier caché de Srebrenica
http://www.b-i-infos.com/dossier_srebrenica.php
Voir aussi :
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2006-01-18%2015:44:08&log=attentionm
NOTE: THE FOLLOWING FOOTNOTES ARE WRONGLY NUMBERED. PLEASE CFR. THE
ORIGINAL ENGLISH VERSION AT
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4475
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=74&ItemID=8244
FOT THE PROPER NUMBERING (CNJ)
50. "Bosnia : 2 Officials Dismissed for Obstructing Srebrenica
Inqui-ry" (Bosnie : deux officiels renvoyés pour avoir fait
obstruction à l'enquête sur Srebrenica), Depêche d'AP, New York Times,
17 avril 2004.
Marlise Simons, "Bosnian Serb Leader taken before War Crimes Tribunal"
(Un leader serbe de Bosnie amené au tribunal pour crimes de guerre),
New York Times, 8 avril 2000.
Nations Unies, "The Fall of Srebrenica" (La chute de Srebrebnica)
(A/54/549), Rapport du Secrétaire général suite à la résolution 53/35
de l'Assemblée générale, 15 novembre 1999, § 506.
(http://www.un.org/News/ossg/srebrenica.pdf)
51. Cf. Ivo Pukanic : "US Role in Storm : Thrilled with Operation
Flash, President Clinton gave the Go Ahead to Operation Storm" (Le
rôle des Etats-Unis dans Tempête : enthousiasmé par l'opération Flash
(Eclair), le président Clinton a donné le feu vert à l'opération
Tempête), Nacional (Zagreb), 24 mai 2003.
52. Barton Bellman, "The Path to Crisis : How the US and its Allies
Went to War" (Le chemin de la crise : comment les Etats-Unis et leurs
alliés sont entrés en guerre), Washington Post, 18 avril 1999.
53. "Des survivants appartenant à la délégation de Srebrenica ont
affirmé que le président Izetbegovic avait aussi dit qu'il avait
appris qu'une intervention de l'OTAN en Bosnie-Herzégovine était
possible, mais n'aurait lieu que si les Serbes entraient dans
Srebrenica et tuaient au moins 5.000 de ses habitants. Le président
Izetbegovic a nié catégoriquement avoir fait une telle déclaration."
The Fall of Srebrenica (La chute de Srebrenica), (A/54/549), Rapport
du Secrétaire général suite à la résolution de l'Assemblée générale
53/35, 15 novembre 1999, § 115.
(http://www.haverford.edu/relg/sells/reports/Unsrebrenicareport.htm).
Le rapport des Nations Unies ne mentionne pas que neuf autres
personnes étaient présentes à cette réunion, et que l'une d'entre
elles, Hakija Meholijic, ex-chef de la police de Srebrenica, avait
déclaré que huit d'entre elles (tous les survivants) "pouvaient
confirmer" la suggestion de Clinton. (Dani, 22 juin 1998)
(http://edsp.neu.edu/info/students/marko/dani/dani2.html).
54. "Politics of War Crimes" (La politique des crimes de guerre),
Bogdanich, chapitre 2, "Prelude to Capture" (Prélude à la capture) et
Fenton, chapitre 3, "Military Context" (Contexte militaire). Voir
aussi Tim Ripley, "Operation Deliberate Force" (Opération force
délibérée), Centre d'études de défense et de sécurité, 1999, p. 145.
55. Dans son Balkan Odyssey, Lord David Owen dit "qu'en avalisant la
prise de la Slavonie occidentale par le gouvernement croate, le Groupe
de contact a en fait donné le feu vert aux Bosno-Serbes pour attaquer
Srebrenica et Zepa." (pp. 199-200). Owen se trompe : le Groupe de
contact ne soutenait qu'un côté, et le fait que les médias n'aient ni
rendu compte ni critiqué l'agression ainsi avalisée a permis de
présenter la prise de Srebrenica comme exceptionnelle et non provoquée.
56. Veritas a estimé que 1.205 civils avaient été tués au cours de
l'opération Storm (Tempête), dont 358 femmes et 10 enfants. Voir
"Croatian Serb Exodus Commemorated" (Commémoration de l'exode des
Serbes de Croatie), Agence France Presse, 4 août 2004, et aussi
Veritas à www.veritas.org.yu. Dans les tombes autour de Srebrenica
fouilléees au cours de l'année 2000, on n'a identifié comme féminin
qu'un seul des 1.883 cadavres exhumés (Cf. la note 70 pour la source).
57. Ripley, "Operation Deliberate Force" (Operation force délibérée),
p. 192. Voir aussi les notes 56 et 70.
58. Ce rôle belliciste a été décrit par Peter Brock dans "Dateline
Yugoslavia : the Partisan Press" ( Yougoslavie : la presse partisane),
Foreign Policy, hiver 1993-1994. Un livre à paraître de Brock traitant
du "Media Cleansing, Uncovering Yugoslavia's Civil Wars" (nettoyage
médiatique : révélations sur les guerres civiles yougoslaves) donne de
plus abondants détails sur cette partialité. Dans son autobiographie,
le secrétaire d'Etat James Baker écrit qu'il avait donné à son
attachée de presse Margaret Tutweiler des instructions de soutenir la
cause des musulmans de Bosnie, notant qu'il lui "avait enjoint
d'utiliser ses contacts dans les quatre chaînes de télévision, le
Washington Post et le New York Times." (James A. Baker, "The Politics
of Diplomacy" (La politique de la diplomatie), Putnam 1995, pp. 643-644.)
59. Lorsqu'on a interrogé le porte parole de l'OTAN Jamie Shea, le 16
mai 1999, sur la possibilité de voir l'OTAN relever de certaines
accusations du tribunal, il a déclaré qu'il n'éprouvait aucune
inquiétude. La procureure, a-t-il dit, commencera ses investigations
"parce que nous lui donnerons l'autorisation de le faire". De plus,
"les pays de l'OTAN ont fourni le financement" et quant à la nécessité
d'établir une seconde chambre "de façon à accélérer les réquisitoires
nous sommes totalement avec le tribunal sur ce point, nous voulons
voir jugés les criminels de guerre."
http://www.nato.int/kosovo/press/p990516b.htm
Voir aussi Michael Mandel, "How America Gets Away with Murder"
(Comment l'Amérique se blanchit de ses crimes), Pluto, Londres 2004,
chap. 4-5 et Edward Herman, "The Milosevic Trial, Part 1" (Le procès
Milosevic, première partie), Z Magazine, avril 2002
60. 11 Cf. Bogdanich, "Politics of War Crimes" (La politique des
cri-mes de guerre), chap. 7 : "UN Report on Srebrenica : a distorted
Picture of Events" (Le rapport de l'ONU sur Srebrenica une image
faussée des événements).
61. Raymond K. Kent, "Contextualizing Hate, the Hague Tribunal, the
Clinton Administration and the Serbes" (Le contexte de la haine : le
tribunal de La Haye, le gouvernement Clinton et les Serbes), Dialogue,
Paris, décembre 1996, v. 5, n° 20 (figurant sur le site in-ternet
d'Emperor's Clothes, www.emperorsclothes.com/misc/kent.htm
62. Carl Savich, "Celebici",
http://www.serbianna.com/columns/savich/047.shtml
63. Il serait difficile de dépasser la sauvagerie des musulmans
bosniaques du camp de Celebici, décrite dans le texte de Savich. Cf.
aussi Diana Johnstone, "La croisade des fous", Le temps des cerises,
Paris 2005, pp. 140-141.
64. Cf. les deux ouvrages de Peter Brock (note 9 ci-dessus) et
John-stone, "La croisade des fous", p. 146.
65. Pour les détails et les citations, voir l'article et le livre de
Peter Brock (note 9 ci-dessus).
66. Bernard Kouchner, "Les guerriers de la paix", Paris, Grasset 2004,
pp. 372-374.
67. Johnstone, "La croisade des fous", pp. 133-135. Thomas Deich-mann,
"Misinformation : TV Coverage of a Bosnian Camp" (Dé-sinformation : la
couverture TV d'un camp bosniaque), Covert Action Quarterly, automne
1998, pp. 52-55.
68. Communication privée en date du 21 novembre 2003.
69. Pour un excellent résumé de ces affaires d'"d'atrocités
auto-infligées" avec d'autres références, voir le Rapport du personnel
du Sénat de janvier 1997 sur "Clinton Approved Iranian Arms Trans-fers
Help Turn Bosnia into Militant Islamic Base" (l'approbation par
Clinton du transfert d'armes iraniennes transforme la Bosnie en une
base islamique militante),
http://www.senate.gov/%7erpc/releases/1997/iran.htm//top
Voir aussi Cees Wiebes, "Intelligence and the War in Bosnia" (Le
renseignement et la guerre en Bosnie), 1992-1995", Londres, Lit.
Verlag 2003, pp. 68-69.
http://213.222.3.5/srebrenica/toc/p6_c02_s004_b01.html
70. John E. Sray, "Selling the Bosnian Myth to America : Buyer beware"
(Vendre le mythe bosniaque à l'Amérique : acheteur, attention !),
Foreign Military Studies, Fort Leavenworth, Kansas, octobre 1995.
http://fmso.leavenworth.army.mil/documents/bosnia2.htm
71. Quelques exceptions à cette règle : Leonard Doyle, "Muslims
Slaughter their own People" (Les musulmans massacrent leurs propres
gens), The Independant, 22 août 1992 ; Hugh Manners, "Serbs not Guilty
of Massacre" (Les Serbes pas coupables du massacre), The Sunday Times
(Londres), Ier octobre 1995. David Binder n'a pas pu obtenir de son
propre journal, The New York Times, qu'il publie ses analyses d'une
possible implication des musulmans dans les massacres de Sarajevo, et
il a du les faire paraître ailleurs. Voir David Binder, "The Balkan
Tragedy : Anatomy of a Massacre" (La tragédie balkanique : anatomie
d'un massacre), Foreign Policy, n° 97, hiver 1994-1995 et David
Binder, "Bosnia's Bombers" (Les lanceurs de bombes bosniaques), The
Nation, 2 octobre 1995.
72. Pour un bon résumé, voir Srdja Trifkovic, "Une spectaculaire
révision de chiffres", B. I. (Balkans-Infos), février 2005.
73. Georges Kenney, "The Bosnian Calculation" (Le calcul bosnia-que),
New York Times Magazine, 23 avril 1995
74. Cf. Trifkovic, supra, note 23, et aussi
http://grayfalcon.blogspot.com/2004/12/deathtolls-part-3.html.
75. Cf. Edward Herman et David Peterson, "The NATO-Media Lie Machine :
`Genocide' in Kosovo" (La machine à mensonges de l'OTAN et des médias
: le `génocide' au Kosovo), Z Magazine, mai 2000.
http://www.zmag.org/Zmag/articles/hermanmay2000.htm
76. Michael Ignatieff, "Counting bodies in Kosovo" (Le compte des
corps au Kosovo), New York Times, 21 novembre 1999.
77. Bogdanich, "Politics of War Crimes" (La politique des crimes de
guerre), chap. 2, "Prelude to capture" (prélude de la capture).
78. L'ambassadeur de Yougoslavie à l'ONU a présenté aux Nations Unies
les preuves de "Crimes de guerre et de génocide en Bosnie orientale
(communes de Bratunac, Skelane et Srebrenica) perpétrés sur la
population serbe d'avril 1992 à avril 1993". Voir aussi Milivoje
Ivanisevic, "Expulsion of Serbes from Bosnia and Herzegovina,
1992-1995" (L'expulsion des Serbes de Bosnie-Herzégovine, 1992-1995),
Edition WARS Book II, 2000, et Joan Phillips, "Victims and Villains in
Bosnia's War (Les victimes et les malfaiteurs dans la guerre de
Bosnie), Southern Slav Journal, printemps-été 1992.
79. Bill Schiller, "Muslim Hero vows he'll Fight to the Last Man" (Le
héros des musulmans jure qu'il combattra jusqu'au dernier homme),
Toronto Star, 31 janvier 1994, et John Pomfret, "Weapons, Cash and
Chaos lend Clout to Srebrenica's Tough Guy" (Les armes, l'argent et le
chaos renforcent le dur de Srebrenica), Washington Post, 16 février 1994.
80. Carl Savich, "Srebrenica and Naser Oric : an Analysis of General
Philippe Morillon's Testimony at the ICTY" (Srebrenica et Naser Oric :
une analyse du témoignage du général Philippe Morillon au TPI),
http://www.serbianna.co
81. "No Evidence of Civilian Casualties in Operations by Bosnian
Commander" (Pas de preuves de victimes civiles au cours des opérations
du chef bosniaque), Revue BBC des informations internationales, 11
avril 2003. Pour un compte rendu des opérations d'Oric et une analyse
critique de la décision du TPI, voir Carl Savich, "Srebrenica, the
Untold Story" (Srebrenica, l'histoire qu'on n'a pas racontée),
http://www.serbianna.com/columns/savich/o51.html
82. "Politics of War Crimes" (La politique des crimes de guerre),
chap. 2-3. L'ONU a estimé que de 3 à 4.000 soldats musulmans se
trouvaient à Srebrenica juste avant sa chute.
83. Ibid.
84. "Politics of War Crimes", chap. 2
85. "Conflict in the Balkans, 8.000 Muslims Missing" (Conflit dans les
Balkans, 8.000 musulmans disparus), AP, New York Times, 15 septembre
1995.
86. Un responsable de la Croix Rouge a dit à un interviewer allemand
que les musulmans arrivés en sécurité "ne pouvaient pas être retirés
de la liste des disparus parce que nous n'avons pas reçu leurs noms",
cité par Pumphrey, "Srebrenica Three Years Later, and still Searching"
(Srebrenica trois ans après : les recherches continuent). Voir aussi
"Former Yugoslavia, Srebrenica : Help for Families still awaiting
News" (Ex-Yougoslavie, Srebrenica : le secours aux familles qui
attendent encore d'être informées), Comité international de la Croix
Rouge, 15 septembre 1995.
http://www.icrc.org/Web/Eng/siteeng0.nsf/iwpList74/7609D560283849CPC1256B6600595006
87. Ibid.
88. Johnstone, "La croisade des fous", p. 147.
89. Ce saut de quelques corps à 8.000 exécutés a été récemment
illustré par le commentaire de Tim Judah et Daniel Sunter, dans
l'Observer de Londres, de la vidéo du meurtre de six bosno-musulmans,
qui a bénéficié d'une énorme publicité en juin 2005. C'est
"l'évidence, la preuve finale et irréfutable de la participation serbe
aux massacres de Srebrenica, où plus de 7.500 hommes et jeunes gens
bosno-musulmans ont été assassinés". "How the Video that put Serbs in
Dock was brought to Light" (Comment a émergé la video qui met les
Serbes au banc des accusés), 5 juin 2005.
90. ICTY, Amended Joinder Indictment (TPI, inculpation annexe
amendée), 27 mai 2002, § 51.
http://www.un.org/icty/indictment/english/nik-ai020527c.htm et David
Rohde, "The World Five Years Later : the Battle of Srebrenica is now
over the Truth" (Le monde cinq ans après : la bataille de Srebrenica
est maintenant pour la vérité), New York Times, 9 juillet 2000.
91. Steven Lee Meyers, "Making Sure War Crimes are'nt Forgotten"
(S'assurer que les crimes de guerre ne sont pas oubliés), New York
Times, 22 septembre 1997. En fait, un responsable américain a reconnu,
en fin juillet 1995, que "les satellites n'avaient rien montré". Paul
Quinn-Judge, "Reports on Atrocities Unconfirmed so Far : US Aerial
Surveillance Reveals Little" (Les rapports sur des atrocités non
confirmés jusqu'ici : la surveillance aérienne US révèle peu de
choses), Boston Globe, 27 juillet 1995.
92. Le site internet de la Commission internationale des personnes
manquantes en ex-Yougoslavie reconnaît que les corps "ont été exhumés
dans divers sites de Bosnie-Herzégovine du nord-est", pas seulement
dans la région de Srebrenica. Cité en 2003 dans un "Statement by ICMP
Chief of Staff Concerning Persons Reported Missing from Srebrenica in
July 1995" (Déclaration du directeur du personnel d'ICMP concernant
les personnes disparues de Srebrenica en juillet 1995), Gordon Bacon.
93. "Politics of War Crimes", Rooper, chap. 4, "The Numbers Game" (Le
jeu des chiffres).
Ibid.
46 Ibid. Cf. aussi "Politics of War Crimes", Szamuely, chap. 5,
"Witness Evidence" (Les témoignages).
47 Szamuely "Witness Evidence".
48 Butcher, "Serb Atrocities in Srebrenica are Unproven" (Les
atrocités serbes à Srebrenica ne sont pas prouvées), The Daily
Tele-graph, 24 juillet 1995.
49 "Politics of War Crimes", Rooper, chap. 4, "The Numbers Game".
50 Cette affirmation apparaît dans les inculpations de novembre 1995
de Radovan Karadzic et Ratko Mladic. Elle a été reprise par le
policier français Jean-René Ruez, et a été citée au TPI pour la
première fois au début de juillet 1996, lors d'une audition de sept
jours des charges pesant sur Karadzic et Mladic, organisée comme un
"coup" publicitaire
A l'époque Associated Press a rendu compte en ces termes du témoignage
hépatophage de Ruez (Jennifer Chao, 3 juillet 1996) : "Au sein du
fébrile massacre, on trouvait un sadisme à vous étrangler d'horreur.
Ruez a cité un incident où un soldat a forcé un homme à ouvrir au
couteau le ventre de son petit-fils et à manger son foie. Il s'est
emparé du vieillard et a mis un couteau dans sa main et a ouvert le
ventre du petit garçon et avec la pointe du couteau a sorti l'organe
et a forcé l'homme à le manger, a déclaré Ruez à la cour."
51 "Politics of War Crimes", Mandel, chap. 6, "The ICTY calls it
Genocide" (Le TPI l'appellent génocide).
52 Ibid.
53 Chris Hedges, "Bosnian Troups Cite Gassing at Zepa" (Des troupes
bosniaques parlent de gaz à Zepa), New York Times, 27 juillet 1995.
54 Jovic a témoigné au procès de Milosevic le 18 novembre 2003,
www.slobodanmilosevic,org, 18 novembre 2003.
55 "Politics of War Crimes", Mandel, chap. 6. Voir aussi Michael
Mandel, "How America Gets Away with Murder", Pluto 2004, pp. 157-158
56 Carlos Martin Branco, un ex-observateur militaire de l'ONU en
Bosnie, considère que c'est beaucoup plus en Krajina qu'à Srebrenica
qu'on peut identifier un processus de génocide prémédité, "quand
l'arm<br/><br/>(Message over 64 KB, truncated)