Informazione

Slovenia: le micidiali conseguenze della liberalizzazione dell'economia

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http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2722

Delocalizzazione ad est: la manodopera slovena è troppo cara

Un articolo tratto da Le Courier des Balkans, omologo francese
dell’Osservatorio. Un’indagine sul fenomeno della delocalizzazione
produttiva ad est da un punto di vista sloveno.

(09/01/2004)

Da Lubjana scrivono Maja Grgic e Patarina Fidermuc – Delo
Traduzione a cura dell’Osservatorio sui Balcani

Le imprese si globalizzano ed inseguono i mercati più attraenti.
Altrimenti rischiano di rimanere fuori dai giochi. La delocalizzazione
della produzione industriale verso Paesi con una manodopera a buon
marcato è sicuramente preoccupante per l’economia slovena perché
implica una diminuzione dei posti di lavoro e la chiusura di molte
imprese. La delocalizzazione è l’implacabile risultato della
comparazione tra i salari medi sloveni e quelli di Paesi con una mano
d’opera meno cara e che non siano troppo lontani in modo da limitare le
spese logistiche. Il salario minimo in Romania è sei volte inferiore a
quello Sloveno, quello Bulgaro nove volte inferiore. Nelle produzioni
ad alto tasso di manodopera i calcoli sono presto fatti.

“Dal punto di vista politico sarebbe anche possibile trovare modalità
per rallentare la delocalizzazione, dal punto di vista strategico non è
però una posizione auspicabile” afferma con sicurezza Hribar Milic,
segretario generale dell’associazione degli imprenditori sloveni. “Non
possiamo dimenticare i continui processi di globalizzazione subiti dal
mercato mondiale. Ad est ed in Asia vi sono mercati enormi. Senza
dubbio un numero sempre crescente di imprese cercherà di conquistarli
delocalizzando la propria produzione”.

Un esempio può essere l’azienda Alpina, che produce attrezzatura per
la montagna, che ha deciso di chiudere i propri stabilimenti di Col e
Gorenja Vas (Slovenia) e di spostarsi in Romania ed in Cina. Martin
Kopac, membro del consiglio di amministrazione dell’azienda, chiarisce
le ragioni chiave di questa scelta: una manodopera meno cara ed il
fatto che tutte le aziende concorrenti già hanno aperto stabilimenti in
questi due Paesi. Alpina è stata quindi costretta a muoversi. Kopac fa
notare come con la delocalizzazione progettata Alpina risparmierà circa
250 milioni di talleri (più di un milione di euro) all’anno. Anche la
Labod, attualmente con sede a Novo Mesto, ha già delocalizzato gran
parte della propria produzione in Ungheria, Polonia e Romania.

Le imprese slovene optano per la manodopera meno cara con varie
modalità. Qualcuno costruisce delle fabbriche, qualcun altro con
partecipazioni di capitale, altri affittano degli stabilimenti
produttivi, altri demandano a subcontraenti. Capita spesso che si
delocalizzi la propria produzione nei Paesi più vicini mentre in quelli
più lontani, come ad esempio la Cina, si preferisce optare per
partenariati.

Si può porre termine a questo processo? La Slovenia potrebbe,
adottando misure specifiche, abbassare il prezzo della manodopera e
bloccare il flusso delle produzioni verso Paesi terzi? Accademici ed
economisti constatano in modo unanime che è impossibile, perché la mano
d’opera slovena è troppo cara. Una tendenza che si può addolcire ma non
certo invertire. Il salario netto in Slovenia ha un divario troppo alto
rispetto ai Paesi concorrenti. Secondo Samo Hribar Milic nonostante
quanto risulti da alcune analisi internazionali che deifniscono il
salario sloveno eccessivamente alto rispetto all’andamento generale
dell’economia, sarebbe impossibile abbassarlo. E dunque, essendo
impossibile abbassare quello che per le imprese è un costo, queste
ultime si sposteranno inevitabilmente dalla Slovenia. Un fenomeno già
evidente, anche se non ancora al suo apice.

Anche lo Stato si troverà a dover risparmiare. Diminuirà infatti il
gettito fiscale ed i contributi sociali creando innanzitutto problemi
ai fondi destinati alle pensioni ed alla sanità. E lo Stato dovrà
sforzarsi di affrontare in modo graduale la questione. La
delocalizzazione andrà a colpire soprattutto i lavoratori con una
formazione bassa, il cui reinserimento nel mondo del lavoro non sarà
semplice. I posti di lavoro che andranno a crearsi verosimilmente non
potranno prescindere da una formazione elevata e conoscenze altre
rispetto a quelle in possesso dei lavoratori espulsi. La politica
statale in tal senso dovrà essere attiva, adeguata, trasparente.

Ma la delocalizzazione non è solo dovuta al basso costo della
manodopera. Lek e Kraka, due aziende farmaceutiche slovene, hanno già
messo radici in Polonia e Russia, dove hanno creato una rete di
commercializzazione ben strutturata ancor prima che la dislocazione ad
est divenisse un imperativo per il capitale europeo. Si sono infatti
rese conto che per le imprese farmaceutiche, più che per le altre, nei
Paesi dei quali si voleva conquistare il mercato fosse necessario
ottenere lo status di “imprese nazionali”, privilegiate rispetto a
quelle straniere. Non si può quindi affermare che queste aziende
slovene si siano mosse ad est rincorrendo il basso costo della
manodopera, tanto più che le due società hanno ancora 6500 dipendenti
in Slovenia.


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

INTELLIGENCE SERVICES AWARE OF AL-QA'IDAH PRESENCE IN KOSOVO - SERB
OFFICIAL

Tanjug - January 8, 2004

Nis - Rada Trajkovic, member of the "Povratak" (Return) coalition and a
deputy in the Kosovo Assembly, has stated today that UNMIK (UN Interim
Administration Mission in Kosovo) chief Harri Holkeri is implementing
the policies of informal power centres in Kosmet (Kosovo-Metohija) -
the Crisis Group, the Anglo-American lobby and the American-Albanian
league.
"We have information, precisely from these informal groups, which
unfortunately rule in Kosmet, that, this June, our people and our
state should expect a further destabilization of our government, and
we presently do not know what it will look like," Trajkovic told the
Nis daily Narodne Novine.
This will certainly boost Albanians' appetites, she said, adding that
"unfortunately, certain ambassadors are participating in the creation
of Serbian policy as if they were on the election list".
"There are about 1,500 Al-Qa'idah fighters in Kosovo-Metohija, and the
intelligence services know this for sure. This information comes from
international sources," Trajkovic said.
According to her, "recruiting Albanians for these units is one of the
priorities of that movement".
Trajkovic said that Holkeri had transferred to Kosovo's provisional
institutions almost all the powers and that the next move, if the
state of Serbia failed to do something, could be giving consent to the
setting up of the ministries of foreign affairs and the police.
Due to the victory of the right-wing bloc in Serbia, there is some
nervousness in the international community, she said.
In contrast to this, no-one is talking about the fact that the
Albanians who are responsible for crimes and who should be in The
Hague (International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia -
ICTY), are in power in Pristina, Trajkovic said.

Source: Tanjug news agency, Belgrade, in Serbian 1152 gmt 8 Jan 04
Copyright 2004 Tanjug News Agency
Posted for Fair Use only.
Reproduced at:
http://www.slobodan-milosevic.org/news/tanjug010804.htm

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SEE ALSO:
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JIHADIST HOTBED IN THE BALKANS: THE TRUTH IS OUT

http://www.chroniclesmagazine.org/News/Trifkovic04/NewsST011004.html

by Srdja Trifkovic
Chronicles Magazine
January 10, 2004

<< For years we have been warning that flawed pro-Muslim Western
policies would turn the Balkans from a "protectorate of the New World
Order into an Islamic threat to Western interests" (Chronicles,
December 2001).
This has already happened, according to a spate of media reports and
statements by Western governments and top diplomats over the past few
weeks... >>

http://www.chroniclesmagazine.org/News/Trifkovic04/NewsST011004.html

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1997 REPORT SHOWS BOSNIAN ISLAMISTS READY TO RE-START WAR TO ELIMINATE
BOSNIAN SERBS: IS THE PLAN NOW BEING IMPLEMENTED?

http://www.strategicstudies.org/Balkan/1997Report.htm

Balkan Strategic Studies
October 27, 2003

<< Defense & Foreign Affairs Strategic Policy, in its
November-December 1997 edition, carried an in-depth report by Yossef
Bodansky which highlighted Bosnian Islamist plans to re-start the
Bosnian civil war to eliminate the Bosnian Serb autonomous republic,
Republica Srpska, which was created as a result of the 1995 Dayton
Accords. There are now indications that the Bosnian Islamist leadership
is beginning steps to initiate this strategy, starting with resumed
terrorism which transcends the borders of Bosnia-Herzegovina and relies
on utilizing the infrastructure established with the help of
international Islamists, including the al-Qaida grouping of Osama bin
Laden as well as by the Iranian Government.

Despite this, Paddy Ashdown, the High Representative for
Bosnia-Herzegovina, appointed by the European Union to oversee
implementation of the Dayton Accords, has steadfastly supported the
Bosnian Islamists and stated that no terrorism was reliant on Bosnian
basing, and that terrorism would never emerge from Bosnia... >>

http://www.strategicstudies.org/Balkan/1997Report.htm

FYROM: Deutsche Dominanz auf dem Pressemarkt

> Da: news@...
> Data: Mar 13 Gen 2004 00:21:05 Europe/Rome
> Oggetto: Newsletter vom 13.01.2004: Deutsche Dominanz auf dem
> Pressemarkt Südosteuropas
>
> Unternehmenskultur
>
> SKOPJE (Eigener Bericht) - Die deutsche Mediengruppe WAZ hat den
> ehemaligen Außenminister Mazedoniens für geeignet befunden, in die
> höheren Dienste der WAZ-Mazedonien zu treten. Der neue Angestellte
> (Dr. Srdjan Kerim), der auch als Botschafter Mazedoniens in
> Deutschland und als UNO-Repräsentant Mazedoniens tätig war, erhielt
> von der Essener Konzernleitung einen Arbeitsplatz in Skopje
> zugewiesen. Dort wird er die Aufträge der deutschen Mediengruppe, die
> seit dem Ende Jugoslawiens in Südosteuropa expandiert, als
> ,,Sonderbeauftragter" erfüllen. Dies lässt der Vorstand der
> WAZ-Mediengruppe in einer Pressemitteilung verlauten.
>
> mehr
> http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1073949271.php

13.01.2004

Unternehmenskultur

SKOPJE (Eigener Bericht) - Die deutsche Mediengruppe WAZ hat den
ehemaligen Außenminister Mazedoniens für geeignet befunden, in die
höheren Dienste der WAZ-Mazedonien zu treten. Der neue Angestellte (Dr.
Srdjan Kerim), der auch als Botschafter Mazedoniens in Deutschland und
als UNO-Repräsentant Mazedoniens tätig war, erhielt von der Essener
Konzernleitung einen Arbeitsplatz in Skopje zugewiesen. Dort wird er
die Aufträge der deutschen Mediengruppe, die seit dem Ende Jugoslawiens
in Südosteuropa expandiert, als ,,Sonderbeauftragter" erfüllen. Dies
lässt der Vorstand der WAZ-Mediengruppe in einer Pressemitteilung
verlauten.

Herr Dr. Kerim hatte sich bereits in mehreren Funktionen verdient
gemacht, bevor er von der WAZ-Mediengruppe befördert wurde. So durfte
er als ,,Sonderberater" im EU-Stabilitätspakt für den Balkan arbeiten,
wo er dessen damaligem Leiter, dem Deutschen Bodo Hombach unterstand.
Da Hombach den Stabilitätspakt in Essen fortsetzte und dort in privater
Funktion WAZ-Direktor wurde, lag es nahe, auch Kerim in die WAZ
einzubringen. Seit Juli 2003 bewährte sich der ehemalige mazedonische
Außenminister in dem WAZ-Subunternehmen ,,Media-Print" (Skopje) und
wies Angriffe wegen der Monopolstellung des deutschen Medienkonzerns in
Mazedonien ab. Die treue Haltung des Mazedoniers, der europäischen
Idealen verpflichtet ist, wurde jetzt durch seine deutschen
Dienstherren besonders anerkannt.

Vergünstigung

Die gegen den Einfluss der WAZ-Gruppe gerichtete Polemik macht sich den
Umstand zu Nutze, dass das Essener Unternehmen etwa 90% des
mazedonischen Zeitungsmarktes betreut und mit den Titeln ,,Dnevnik",
,,Utrinski vesnik" sowie ,,Vest" zivilgesellschaftliche Maßstäbe setzt.
So ist die Mediengruppe WAZ ,,das erste europäische Medienunternehmen,
das sich den OSZE-Grundsätzen zur Wahrung der redaktionellen
Unabhängigkeit verpflichtet hat"1), teilt das WAZ-Direktorium mit.
Trotz dieser besonderen Vergünstigung, die den europaweiten
WAZ-Redaktionen gewährt wird, glauben einheimische WAZ-Konkurrenten,
das deutsche Unternehmen kritisieren zu müssen.

Ausrichtung

So sorgt sich der Mazedonier Ljupko Zikov um angebliche ,,Probleme"2),
die der WAZ-Aufkauf dem regionalen Pressemarkt bescheren könnte. Zikov
ist Herausgeber des Wochenmagazins ,,Kapital". Ähnlich äußert sich Aco
Kabramov, Chefredakteur des mazedonischen Fernsehsenders ,,A1".
Kabramov meint, die hegemoniale Stellung des WAZ-Konzerns beeinflusse
die Medienlandschaft ,,in negativer Weise (...). Wie unabhängig die
Politik der Herausgeber auch erscheinen mag - zu Professionalität und
Pluralismus tragen sie nicht gerade bei (...). Die drei Zeitungstitel
unterstehen ein und demselben Unternehmen und das wird schließlich zu
einer mehr oder weniger einheitlichen Ausrichtung führen." Ähnliche
Sorgen äußert Ana Petruseva vom IWP-Report, die das Pressegleichgewicht
nicht nur in Mazedonien, sondern ,,auch anderswo auf dem Balkan"
gefährdet sieht, sollte die Expansion der WAZ-Gruppe fortgesetzt
werden. ,,In Bulgarien und Kroatien kontrolliert diese Gruppe bereits
weite Teile des Medienmarktes", schreibt Frau Petruseva. Auch in
Serbien sei die WAZ-Gruppe im Begriff, eine Monopolstellung
einzunehmen, und hat 50% der führenden Tageszeitung ,,Politika"
aufgekauft.3)

Staatliche Organe

Wie der WAZ-Konzern mitteilt, ist es die Aufgabe des beförderten
ehemaligen Außenministers, die südosteuropäische Medienpolitik der
deutschen Zentrale zu verstetigen. Dabei werde es nötig werden, dass
Dr. Kerim ,,Verhandlungen mit den staatlichen Organen" des Balkans
führt ,,und die WAZ-Interessen" unter den Einheimischen konsequent
vertritt, heißt es in dem WAZ-Kommunique abschließend.4)


1) DW-Monitor Ost- und Südosteuropa 29.7.2003
2) Institute for War and Peace Reporting. Balkan Crisis Report No.452
vom 13.08.2003
3) Hombach eröffnet der Westdeutschen Allgemeinen Zeitung den
Medienmarkt in Jugoslawien
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1014073200.php%5d,
,,Deutscher Blitzkrieg" auf dem Pressemarkt
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1029500348.php%5d,
Südosteuropa: Presse unter deutscher Kontrolle
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1055887200.php%5d
und Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1066428000.php%5d
sowie ,,Wie im Protektorat"
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1068850800.php%5d
4) Dr. Srdjan Kerim ist neuer Sonderbeauftragter der WAZ-Gruppe in
Südosteuropa; Deutsche Welle Monitor Ost-/Südosteuropa 05.01.2004

Due lettere ad "Osservatorio Balcani" su "La Bosnia di Ballaro'"


1)

C.a. Osservatorio Balcani
rubrica "La posta dei lettori"

(In merito all'articolo "La Bosnia di Ballarò" :
http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2736 )

Sono rimasto fortemente sorpreso dalle reazioni, vostre e dei vostri
lettori, al servizio di RAI TRE sui mujaheddin in Bosnia (*). Mi chiedo
come mai un servizio discutibile sui Balcani sia oggetto, proprio
stavolta, di tante critiche e perplessita', diversamente da moltissimi
altri, ben piu' sconcertanti "pezzi da novanta" della disinformazione
mediatica sui Balcani.

Se infatti il servizio in questione si inserisce senz'altro "bene" nel
contesto di una campagna "contro il terrorismo islamista" che ha
assunto toni esasperati e le cui motivazioni vanno cercate altrove - ad
esempio nelle guerre per il petrolio, oppure in Palestina -, tuttavia
la presenza di volontari stranieri nelle file dell'Armija di
Izetbegovic e' stata una realta' innegabile, la cui denuncia resta
tuttora tardiva ed insufficiente, nonostante Ballaro'.

Di fatto, solo pochi anni fa nessuno si sarebbe azzardato a porre il
problema, poiche' i musulmani dovevano svolgere nello spettacolo
mediatico il ruolo delle uniche vittime, in Bosnia, e la presenza di Al
Qaida laggiu' era funzionale agli interessi strategici occidentali -
per rafforzare cioe' la parte musulmana, secessionista, contro i serbi
che non volevano staccarsi da Belgrado.

Oggi invece la presenza del fondamentalismo islamista e/o del
terrorismo in Bosnia viene considerata con preoccupazione persino da
Massimo D'Alema, presente a Ballaro'... Il quale pero' porta la
responsabilita' storica di avere guidato il nostro paese in una guerra
di aggressione in appoggio al secessionismo su base etno-razziale dei
terroristi dell'UCK, i quali hanno poi fatto scempio del patrimonio
culturale non-islamico in Kosovo (si guardi almeno alle chiese
devastate, se le minoranze scacciate e le persone massacrate non
commuovono altrettanto).

Oggi, evidentemente, del problema dell'Islam militante nei Balcani si
puo' finalmente parlare: ma sempre e soltanto al fine di imporre il
controllo militare-strategico della regione da parte occidentale.

Un vostro lettore lo scorso 8 gennaio vi chiedeva: "Pensate sia
possibile una vera convivenza tra serbi, croati e musulmani senza un
uomo come Josip Broz Tito?". Avete risposto: "Siamo convinti si possa
prescindere da Tito per aspirare alla convivenza pacifica tra comunità
... altrimenti sarebbe un problema."

Giusto. Mi chiedo pero' come sia possibile una vera convivenza tra
serbi, croati e musulmani a prescindere dalla Jugoslavia - cioe' dallo
Stato comune degli slavi del sud: i serbi, i croati, i musulmani, e gli
altri.

Personalmente ritengo che il fondamentalismo islamista sia stato
utilizzato dall'Occidente - insieme alle altre forme di revanscismo ed
identitarismo reazionario - per distruggere la Jugoslavia
multinazionale e sovrana. E' ancora vietato dire questo?

Andrea Martocchia


(*) Dalla trasmissione Ballaro' del 13 gennaio 2004, tuttora visibile
in internet, in formato Real Player, alla URL:
http://www.ballaro.rai.it/R3_popup_articolofoglia/
0,6844,107%5E1932,00.html


2)

Riguardo alla reazione del governo bosniaco (suppongo
"bosgnacco") sull'ottima trasmissione "Ballarò":  

E'  da quel dì che segnalavamo la presenza dei mujahedini, sia in
Bosnia ed Erzegovina che nel Kosmet (Kosovo e Metohija). Identificati
anche nei filmati in nostro possesso. 
Bravissimo il conduttore! Come sempre raffinato nelle domande, soltanto
che tanti fanno "orecchie da mercante", compreso qualcuno di
questa segreteria, alla quale chiedo di "illuminarmi": a che prò questa
scoperta "dell'acqua calda" ?

Ma, al ministro Frattini, gli sta bene la presenza su quei
territori dei mujahedini tagliagole e terroristi di ogni razza!? 
Perché sembra aver giustificato così la presenza dei bravi soldatini,
anche italiani, a tenere la Bosnia-Erzegovina sotto protettorato?!

Ancora non hanno capito i cittadini della Bosnia ed Erzegovina, in
primis i bosgnacchi, già musulmano bosniaci, dove li stanno conducendo
i vari "capi tribù"...

"L' Osservatorio dei Balcani" non potrebbe "illuminare" il vasto
pubblico rispetto a di che stampo sia il Protettorato della Bosnia ed
Erzegovina, dove non possono decidere proprio nulla, nemmeno sulla
propria bandiera e tantomeno sul soldo. Infatti viene usata la
"konvertibilna marka" (il marco convertibile). Mentre i "capi tribù"
nostrani e vari intelettual- borghesi, che meritano tutto il disprezzo
jugoslavo, "tirano fuori" delle lingue inesistenti.   
                                
Ivan

Predrag Matvejevic o manjinama / sulle minoranze...

...ma anche sul "demente nazionalismo serbo" e sui "crimini" dei
comunisti (foibe ed esodo)

(italiano / srpskohrvatski)

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Premessa

Prima di scrivere le righe che seguono e di mandarle a "Slobodna
Dalmacija", ho telefonato a Predrag Matvejevic. Nei pochissimi istanti
di conversazione, ho voluto soffermarmi su due punti, quelli che
trovate sotto, benché nell’articolo - veramente demenziale - "si tirino
in ballo" pure le "foibe" e "la statistica comunista" riguardo l’esodo…
Sono riuscito a ribadirgli telefonicamente la mia opinione sulla "mezza
verità" riguardante Milosevic, ma quando ho toccato il tasto del
"demente nazionalismo serbo", il Matvejevic mi ha bruscamente
interrotto, accusandoci di non avere scritto quanto lui disse contro
Tudjman. Infine, ricordando che se ne andò da Zagabria, verso il suo
tanto volentieri citato "asilo – esilio", mi ha riattaccato la
cornetta.

Ivan

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Slobodna Dalmacija, 18.12.03.

Razgovor o manjinama s Predragom Matvejevicem, hrvatskim knjizevnikom i
profesorom na rimskom sveucilistu.

PRIZNANJE TRAZE I SUDBINSKE MANJINE,  

pise Silvije Tomasevic

...Posljednji ratovi izmijenili su balkanski zemljovid manjina. Fojbe
se nicim ne mogu opravdati. Talijanska krajnja desnica preuzima
"komunisticku statistiku" o 350.000 esula. Svedjani u Finskoj su
zasticeniji nego u Svedskoj. Naporan hod umjetnickih manjina...

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Clanak "Priznanje traze i sudbinske manjine", t.j. Razgovor o manjinama
s Predragom Matvejevicem hrvatskim knjizevnikom i profesorom u
"Slobodnoj" od 18.12.03., od Silvija Tomasevica, nije bas "smece", ali
je veoma dvosmislen. Nista cudno kad ga i pise jedan bivsi komunist i
ondasnji dopisnik "Tanjuga", koji je jos 1990 ovdje u Rimu, obnovio
partijsku ZNA SE KOJU knjizicu.

Inace o prevrtljivosti Predraga Matvejevica "hrvatskog knjizevnika i
profesora", (zar nije "tek" iz Hrvatske, ili tocnije iz BH?!), znano je
ovdje u Italiji.

U tom intervjuu, Matvejevic je, konacno, rekao i poluistinu u vezi
(glede, sto li..)Milosevica. Dakle ipak Milosevicu se ne moze pripisati
"gdje i jedan Srbin je Srbija". Koliko mi je poznato, Milosevic je
rekao da "i Srbi imaju pravo da imaju svoju drzavu", sto je po
jugoslavenskom Ustavu bilo i zakonito u smislu da konstitutivan narod
moze odluciti kako zeli zivjeti, (a ne republike, autonomne regije u
administrativnim granicama, i razne "vodje plemena").

Koje to "dementno drzanje srpskog nacionalizma prema Albancima na
Kosovu" (Kosmetu!) spominje P. Matvejevic?! Zar nije Matvejevic zivio u
Jugoslaviji (Ah da, znao je govoriti da je zivio u Hercegbosni!)?!.
Zaboravlja prof Matvejevic terorizam i ubistva koja su vrsili siptarski
teroristi secesionisti i za vrijeme Tita, a narocito nakon njegove
smrti.Da spomenem samo dva emblematicna: pokolj regruta raznih
nacionalnosti u kasarni u Paracinu i silovanje razbijenom pivskom fasom
nastavnika Martinovica na Kosovu i Metohiji. Osokolili su se ti
teroristi i posljednijh devedestih godina, pa je vlada iz Srbije
(pardon za siru publiku Milosevic) imala pravo da vodi borbu protiv
terorizma!....Sada jos brutalnije siptarski teroristi cine pod okriljem
UNMIK-a. Upotrebljavam izraz "Siptar" bez vrijedjanja. Pa zar nisu se
tako i htjeli definirati da bi se "razlikovali" od Siptara u Albaniji.

Citajte profesore Matvejevicu i druge, recimo Andre Malraux-a, sto je
govorio o Kosovu i Metohiji jos 1974., a ne "pravite se vaznim" samo
svojim imenom, prilagodjavajuci se, kao kameleon, prilikama.

Ivan Istrijan

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Traduzione

L’articolo di Silvije Tomasevic "Il riconoscimento lo richiedono anche
quelle che, per destino, sono minoranze" (Priznanje traze i sudbinske
manjine), con il sottotitolo "Conversazione sulle minoranze con Predrag
Mtatvejevic, scrittore e professore croato", apparso sul quotidiano
"Slobodna Dalmacija" del 18.12.2003, non puo' forse proprio dirsi
"immondizia" (usando il termine del presidente Mesic in merito ad un
articolo nel quale era stato attaccato), ma è molto molto fazioso.

Niente di strano, essendo l'autore dell'intervista un ex comunista,
all’epoca corrispondente della Tanjug, il quale ancora nel 1990, qui a
Roma, aveva rinnovato la ben nota tessera!

Si sa invece della volubilità, adattabilita', qui in Italia, di Predrag
Matvejevic, "scrittore e professore croato" (ma non era soltanto "dalla
Croazia", o per meglio dire "dalla Bosnia ed Erzegovina"?!)

In questa intervista, il Matvejevic riguardo (o "rispetto", o "circa",
o altro... pare che a causa del "nuovo" vocabolario croato si possa
usare soltanto la piu' pura espressione "croata") Slobodan Milosevic,
ha detto, finalmente, una mezza verità! Benche' mezza, dunque: a
Milosevic non si può attribuire di aver detto che "dove c’è un serbo
deve essere Serbia".

Per quanto se ne sa (per quelli che vogliono ricordare), Milosevic
disse: "Anche i serbi hanno diritto di avere il proprio Stato", il che,
secondo l’allora Costituzione della RSF di Jugoslavia, significava che
avevano anche essi il diritto all'"autodeterminazione" (dunque non
nelle frontiere amministrative, tantomeno nelle Regioni autonome o in
base alla lottizzazione dei vari capi tribù! Ma in quanto "popolo
costitutivo", costituzionalmente).

Di quale "demente nazionalismo serbo contro gli albanesi del Kosovo" (e
Metohija!) parla il Matvejevic?! Non viveva forse il Matvejevic in
Jugoslavia, all'epoca? Ah certo, qui in Italia, tempo fa, raccontava di
aver piuttosto vissuto nella "Erzeg-bosnia"...

Dimentica il professor Matvejevic il terrorismo ed i crimini dei
secessionisti schipetari, anche mentre Tito era in vita, ma soprattutto
dopo la sua morte? Bisogna ricordare al Matvejevic soltanto due casi
emblematici: la strage durante il sonno delle reclute di tutte le
nazionalità nella caserma di Paracin, e lo stupro con una bottiglia di
birra rotta ai danni professor Martinovic in Kosovo-Metohija.

E questi terroristi tagliagole, che hanno assassinato preferibilmente
ragazzi e giovani uomini, si sono rinfrancati particolarmente alla fine
degli anni Novanta. Perciò il governo di Belgrado (pardon, per gli
ignoranti in materia: "Milosevic") aveva tutto il diritto di muoversi
militarmente contro queste bande. Ora le brutalità dei terroristi
secessionisti schipetari continuano "alla luce del sole", cioè
all’ombra dell’UNMIK.

Uso la denominazione "schipetari", perché così si voleva denominare
l’etnia schipetara che viveva nella Jugoslavia socialista, per
distinguersi dagli schipetari che vivevano in Albania ("albanesi").

Legga, esimio professore, anche quello che scrivono e hanno scritto
altri, sul Kosovo e Metohija... Per esempio André Malraux, ancora nel
1974. E non si faccia "maravea" (per dirla alla maniera triestina –
istriana) soltanto col proprio nome, adattandosi, come un camaleonte, a
tutte le circostanze.

Ivan Istrijan

http://antiwar.com/malic/index.php?articleid=1700

Balkan Express - January 15, 2004


Back to the Balkans?

Calls for Renewed Intervention

by Nebojsa Malic


Is the Balkans back in Washington vogue? After a couple of seemingly
isolationist years (that were, of course, nothing of the sort) when
the limelight was on the Middle East, there's been a renewed push by
the forces of punditry to get the peninsula back on the Imperial
agenda. Underneath dire warnings and venomous denunciations lies a
hunger to revisit the scene of Clintonian triumphs as the Great Bush
Adventure keeps foundering in the sand. Triumph of the Radicals in
the recent Serbian parliamentary election
[http://www.antiwar.com/malic/?articleid=1390] may have provided the
opportunity, but it is unlikely the renewed interest in the
south-eastern corner of Europe is unrelated to the politics of the
upcoming American election.

With Wesley Clark actually boasting about his "accomplishments" in
Kosovo and inching ahead in polls, raising the Balkans issues could
be a way to support his candidacy. If he were ever elected, Heaven
forbid, chances are he would resurrect the policies of intervention
in all their cruise-missile glory. On the other hand, if all the
caterwauling manages to sway the Bush regime to get Clintonesque on
the peninsula, the shills would still be happy. They care little as
to who holds the reigns of power, long as he leads in their desired
direction. Right now, it seems that direction is back to the Balkans.

The Two Rants: Abramowitz…

According to an op-ed by ICG's godfather Morton Abramowitz, which
appeared
[http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/articles/A60592-2004Jan6.html%5d
in the Washington Post on Christmas Day (as celebrated in Serbia),
America's alleged inactivity in the Balkans threatens to undo all
the "successes" of the previous regime, and urgent action is needed.

Apparently, even though "much effort and treasure have been spent on
trying to help produce decent, functioning states," the "stench of
Slobodan Milosevic's rule still pervades Serbia" enough that a
"rabid nationalist party led by an indicted war criminal" threatens
to ruin everything the noble Americans and their European allies
have wrought over the past decade.

Abramowitz also rants against the Serbia-Montenegro union and bemoans
the fact that Kosovo was not given independence immediately after
its forced detachment from Serbia. He blames those on American and
European policy-makers, additionally making an absurd accusation
that western governments "largely avoided putting conditions on
their aid and coddled the democratic forces."

Say again? Granted, Abramowitz's pet regime in Podgorica may have
been a recipient of unrestricted US largesse, but Serbia, Croatia and
even Bosnia have known nothing but blackmail and extortion for years.
Even Zoran Djindjic had complained bitterly about not receiving the
promised 30 pieces [http://www.antiwar.com/malic/m100401.html%5d of
silver.

If it seems Abramowitz has an axe to grind, that's because he does.
In addition to being one of the US-sponsored advisors to the KLA
[http://www.hri.org/news/misc/events/1999/99-03-10_1.even.html%5d
delegation in Rambouillet, he is also the founder of the
International Crisis Group [http://www.antiwar.com/malic/m050301.html%5d,
which advocates a re-centralized Bosnia
[http://crisisweb.org/home/index.cfm?id=1524&l=1] and independence for
an Albanian Kosovo [http://crisisweb.org/home/index.cfm?id=1640&l=1]
and a de-Serbified Montenegro.
[http://crisisweb.org/home/index.cfm?id=1714&l=1]

…And Silber

A near-identical call could be heard six days later, on the pages of
The New York Times/International Herald Tribune, where Laura Silber
[http://www.iht.com/articles/124659.html%5d, chief political advisor
to George Soros' Open Society Institute, was adamant: "America must
act." Not only is Serbia in a "backslide," Kosovo is still not
independent and Bosnia is not yet fully centralized. According to
Silber, this is an inexcusable disaster, and must be remedied
forthwith.

Not surprisingly, Silber's arguments echo Soros's own
[http://sorosny.org/gsbio/financial_times_052403.htm%5d. They are also
incoherent. Just as an example, she criticizes the Dayton
Constitution as creating a Bosnia "hamstrung by layers of
overlapping and contradictory constitutions, laws and administrations,"
but supports a proposal
[http://www.esiweb.org/reports/bosnia/showdocument.php?document_ID=48]
"reducing" the current thirteen governments to twelve!

Such an argument against the present arrangement's cost and efficiency
does not hold water, for one simple reason. If efficiency were truly
an issue, common sense would dictate that centralization should
begin from the eleven governments of the Muslim-Croat Federation.
But this is somehow never entertained seriously, and any
consolidation of the Federation into two ethnic units is seen as
"partition" instead. The real goal is to abolish the Serb Republic,
which compared to the Federation runs remarkably smoothly, by dividing
it into cantons or provinces – in effect, creating more
inefficiency, only now easier to control from Sarajevo or Washington.

None of this should come as a surprise. Silber's claim to expertise
stems from co-authoring "Yugoslavia: Death of a Nation,"
[http://www.amazon.com/exec/obidos/tg/detail/-/0140262636/
antiwarbookstore/] a hateful little pamphlet
[http://www.antiwar.com/malic/foretold.html%5d that blames all the
Balkans ills on Slobodan Milosevic.

The Great Hunt

Meanwhile, in Bosnia itself, NATO's occupation forces launched
another futile hunt
[http://story.news.yahoo.com/news?tmpl=story&cid=586&e=4&u=/nm/
20040111/wl_nm/warcrimes_bosnia_karadzic_dc] for Radovan Karadzic,
wartime president of the Serb Republic wanted by the Hague
Inquisition on charges of "genocide." In cruel winter conditions,
they raided the town of Pale
[http://www.serbianna.com/news/story/104.html%5d for two days,
ransacked private homes, churches and hospitals, held people hostage
and eventually arrested one former police officer on vague suspicions.
Needless to say, they failed
[http://story.news.yahoo.com/news?tmpl=story&cid=586&e=2&u=/nm/
20040112/wl_nm/warcrimes_bosnia_dc] to find any trace of Karadzic,
but declared yet another "success."

Armed raids by occupying forces can never be civil, but NATO seems
to enjoy poking the Bosnian Serbs in the eye every chance it gets.
In addition to Americans and Britons, this weekend's raid was conducted
by German, Bulgarian and Italian troops – just like in the good old
days [http://www.antiwar.com/orig/savich3.html%5d of WW2. Their
ancestors knew how to organize a proper hunt back then
[http://www.eliteforces.freewire.co.uk/Waffen%20SS%20Text+Images/
FAL_500.htm], complete with paratroopers and armored columns. Of
course, they had failed just as badly…

Besides the desire to validate its Balkans interventions by
capturing and putting on trial one of the men it has designated a
villain, there are signs the Empire may also be seeing to "bag"
[http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-
dyn?pagename=article&node=&contentId=A59012-2001Nov7¬Found=true]
Karadzic for the sake of appeasing the world Muslim opinion. However
hard they may try, the endeavor is a waste of breath. It seems the
prevalent Muslim opinion
[http://usa.mediamonitors.net/content/view/full/3808/%5d on Bosnia and
the West is already well-established, and there is no room in it for
acknowledging American intervention. Indeed, it is often denied
entirely.

Nonetheless, voices claiming that Bosnia is an example of the US
"helping Muslims" [http://www.antiwar.com/malic/m022003.html%5d are
still raised from time to time, and Washington's commitment to the
Muslim vision of Bosnia remains constant. Such ongoing support of
causes connected to the jihad
[http://www.chroniclesmagazine.org/News/Trifkovic04/NewsST011004.html%5d
seems to stem from belief that militant displays of Islam could be
harnessed for Imperial purposes – a notion as dangerous as it is
misguided. One thing is clear, at least: Bosnia and Kosovo are proof
that the "War on Terror" is both bogus,
[http://www.antiwar.com/malic/?articleid=967] and a far cry from a
"crusade."

Not Done Yet

There are few reasons for the Bush regime to listen to exhortations
by Abramowitz and Silber. For whatever reason, the Balkans has not
been the preferred foreign policy battlefield of the current US
government. Trying to make it into one now would offer too many
potential pitfalls, and few discernible benefits, what with the
former Yugoslavia being treacherous political grounds on the best of
days. Also, it would look too much like a retreat from Babylon, and
play neatly into the hands of Candidate Clark
[http://www.antiwar.com/malic/?articleid=1009]. Anything is
possible, though.

Whatever the White House decides, one thing is a given: the Empire
isn't done with the Balkans.

Not by a long shot.

Ma bistren ! Non dimenticate ! Don't forget ! N'oubliez pas !


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MA BISTREN !

DJIVESA LIPARNE - E NASALDE RROMENGE THAJ SA E VIKTIMENGE KATAR O KOSOVO

16 THAJ 17 BAREDIVAJ E 2004 BERSESQO

Neziri Nedzmedin
URYD
86, rue du Général Sarrail
10600 La Chapelle St. Luc.
FRANCE
Tel/fax: + 33 3 25 75 69 30
E-mail: diaspora_rroms@...

---

Da: "Roma Network"
Data: Mon, 12 Jan 2004 00:00:28 +0200
Oggetto: [Romano_Liloro] RROMA FROM KOSOVA COMMEMORATIVE DAYS

Da:   Neziri Nedzmedin

 
NON DIMENTICARE
GIORNI DELLA MEMORIA PER I ROM DEL KOSSOVO
16 e 17 Giugno, 2004
 
Cari amici,
 
I giorni del 16 e del 17 giugno rappresentano per i Rom del Kossovo un
anniversario del terrore, che rimarrà impresso nella loro memoria coma
una data storica e tragica.
 
In quei giorni nel 1999 iniziò una pulizia etnica di massa e il più
importante eseodo della popolazione Rom dal Kossovo: più di 140.000
furono espulsi dalle loro case, dove vivevano da quattro secoli,
obbligati a prendere la strada dell'esilio, sotto la spinta dei diversi
nazionalismi. Molte famiglie furono smembrate e molti perirono.
Oggi, a distanza di 5 anni, la memoria di quei giorni è ancora
fortemente presente. Ed inoltre, l'esodo continua tutt'ora.
Per la prima volta, ci riuniremo, Rom del Kossovo sparsi in tutta
Europa, per commemorare questa data e perché non debbano più succedere
queste tragedie.
Vi chiediamo di unirvi al nostro ricordo.

Neziri Nedzmedin
URYD
86, rue du Général Sarrail
10600 La Chapelle St. Luc.
FRANCE
Tel/fax: + 33 3 25 75 69 30
E-mail: diaspora_rroms@...

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DON'T FORGET

RROMA FROM KOSOVA COMMEMORATIVE DAYS

JUNE 16 & 17, 2004

Dear Friends,

The days of june 16th and 17th represent to the Rroma from Kosova a
painful anniversary. They will remain engraved on their memory as
historical and tragic dates.

Indeed, the june 16th and 17th,1999 began a massive ethnic cleaning and
the most important exodus for the rroma population from Kosovo: more
than 140.000 Rroma have been expeled from their homes, where they have
lived for more than 4 centuries and they have been obliged to take the
road to exile, under the threat of some nationalist. A lot of families
have been separated. Many people died.

Today, 5 years after, the memory of these days is still strongly
present. All the more so as exodus still continues.
For the very first time, an european gathering of Rroma communities in
diaspora from Kosova will commemorate these dates so that we don't
forget the tragedy they recall.

We'd like that you give a thought for all the victims caused by these
days.

Union des Rroms de l’Ex-Yougoslavie en Diaspora
U.R.Y.D.

Neziri Nedzmedin
URYD
86, rue du Général Sarrail
10600 La Chapelle St. Luc.
FRANCE
Tel/fax: + 33 3 25 75 69 30
E-mail: diaspora_rroms@...

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N’OUBLIEZ PAS !

JOURNEES COMMEMORATIVES DES RROMS DU KOSOVO

16 ET 17 JUIN 2004

Chers amis,

Les journées des 16 et 17 juin sont pour les Rroms du Kosovo un triste
anniversaire. Elles resteront gravées dans leur mémoire comme des dates
historiques et tragiques.

En effet, les 16 et 17 juin 1999 ont commencé un nettoyage ethnique
massif et l’exode le plus important pour la population rrom du Kosovo:
plus de 140.000 Rroms se sont vus chassés de leurs foyers que leurs
familles occupaient depuis plus de 4 siècles et se sont vus obligés,
sous la menace de nationalistes kosovars, de partir en prenant la route
de l’exil. De nombreuses familles ont été séparées. Beaucoup d’autres
ont périt.

Aujourd’hui, 5 ans après, le souvenir de ces journées est encore trop
présent. D’autant plus que, encore aujourd‘hui, l’exode continue.

Pour la première fois, un regroupement européen des communautés Rroms
du Kosovo en diaspora commémorera ces dates pour que la tragédie
qu’elle évoque ne soit pas oubliée.

Nous vous demandons d’avoir une pensée pour toutes les victimes causées
par ces journées.

Union des Rroms de l’Ex-Yougoslavie en Diaspora
U.R.Y.D.

Neziri Nedzmedin
URYD
86, rue du Général Sarrail
10600 La Chapelle St. Luc.
FRANCE
Tel/fax: + 33 3 25 75 69 30
E-mail: diaspora_rroms@...

LE REPUBBLICHE BALTICHE EX SOVIETICHE TRA INTEGRAZIONE EUROPEA E
“APARTHEID”

a cura di Mauro Gemma

 
ESTONIA

Con un territorio di 45.000 Kmq e una popolazione di solo 1,3 milioni
di abitanti (che per oltre il 60% parlano una lingua simile al
finlandese), l’Estonia è la più piccola delle repubbliche baltiche ex
sovietiche. Essa ha fatto parte dell’impero zarista fino al 1917, anno
in cui venne coinvolta nel processo rivoluzionario che portò alla
temporanea presa del potere da parte del movimento comunista. Ma già
agli inizi del 1918, l’avanzata tedesca ebbe la meglio sul potere
sovietico e, sebbene formalmente all’Estonia fosse garantita
l’indipendenza, venne instaurato un regime di occupazione che mirava
alla “germanizzazione” del paese e alla restituzione degli antichi
privilegi alla nobiltà feudale. In seguito all’armistizio
sovietico-tedesco, il paese venne rioccupato da truppe bolsceviche. Ma,
con l’aiuto di contingenti stranieri e russi “bianchi” e della flotta
britannica, il governo provvisorio estone, nel febbraio del 1919,
riuscì a sgomberare tutto il territorio e a riaffermare l’indipendenza
del paese, che durò fino al 1940. I governi che si succedettero furono
tutti caratterizzati da tendenze conservatrici. Nel 1932 fu varata una
riforma che trasformava il parlamento in senso “corporativo” e fino al
1938 il paese fu sottoposto ad un regime autoritario. Sul piano
internazionale, l’Estonia, dopo aver siglato, insieme a Lituania e
Lettonia la cosiddetta “intesa baltica”, nel 1939, stretta tra URSS e
Germania, strinse un patto di mutua assistenza con l’Unione Sovietica.
Nel giugno del 1940, i sovietici entrarono nel paese. Il 22 luglio
dello stesso anno, l’Estonia diventava parte integrante dell’URSS. Dal
1941 al 1944, in seguito all’occupazione nazista, l’Estonia fu teatro
di una sanguinosa guerra civile che vide contrapposti i sostenitori
della resistenza antifascista e i soldati dell’ “Armata Rossa” ai
nuclei di collaborazionisti, inquadrati direttamente nelle SS, che si
resero responsabili, come nelle altre repubbliche baltiche, di massacri
e rappresaglie in particolare contro comunisti ed ebrei. Tali
avvenimenti segnarono duramente i primi anni del dopoguerra, dopo la
sconfitta del nazismo. Ripreso il controllo, il potere sovietico adottò
una politica di dura repressione contro gli esponenti del fascismo
estone e quei settori della società che li avevano sostenuti (a
cominciare dalla grande proprietà terriera), che fu accompagnata da
deportazioni e dall’esodo di molti estoni, sospettati di avere
collaborato con i nazisti. Contemporaneamente, attraverso una massiccia
immigrazione dalle repubbliche slave dell’URSS, veniva avviato un
processo di “russificazione” del paese, che, inevitabilmente doveva
alimentare, tra gli estoni, fermenti nazionalistici e un forte
risentimento verso Mosca. Così, quando, con l’avvento della
“perestrojka” di Gorbaciov, fu lasciato spazio al pieno manifestarsi
delle tendenze nazionaliste, le spinte più radicali verso la
riconquista dell’indipendenza ben presto si manifestarono
prepotentemente. Nel marzo del 1991, dopo che anche le componenti
maggioritarie del partito comunista e della repubblica si erano
schierate apertamente per l’opzione secessionista, nel corso del
cosiddetto “referendum sull’Unione” il 78% della popolazione si
pronunciava a favore dell’indipendenza. La definitiva separazione da
Mosca avveniva il 20 agosto 1991, in seguito al fallito golpe che
avrebbe aperto la strada allo smantellamento dell’URSS. Il partito
comunista veniva dichiarato fuorilegge e non sarebbe stato più
riammesso. L’Estonia indipendente otteneva in breve tempo il
riconoscimento della comunità internazionale e della stessa Russia, le
cui truppe avrebbero definitivamente lasciato il paese nell’agosto del
1994. Sul piano economico la scelta dell’Estonia si concretizzò
nell’abbandono delle forme sovietiche di proprietà, nel ripristino
della proprietà privata dei mezzi di produzione e in una politica di
liberalizzazione dei prezzi e di progressivo inserimento nei meccanismi
di mercato capitalistico. Nonostante il paese avesse rappresentato una
delle più prospere repubbliche dell’ex URSS (e fosse stata protagonista
di innovativi tentativi di “riforma economica” già negli anni ’70), la
brusca interruzione dei rapporti con il mercato sovietico, tradizionale
sbocco delle sue produzioni e da cui l’Estonia dipendeva per gli
approvvigionamenti energetici, ha comportato in pratica il collasso del
sistema industriale, la costosa scelta di dipendenza economica
dall’occidente e pesanti conseguenze sul piano sociale, che si fanno
tuttora sentire, e che potrebbero venire addirittura acutizzati
dall’avanzare dei processi di integrazione nella costruzione europea. A
farne le spese è stata in particolare la componente russa della
popolazione (600.000), che rappresentava parte significativa della
classe operaia presente nel paese. I russi e i “russofoni”, che sono
venuti a trovarsi improvvisamente nella condizione di “occupanti”, non
solo hanno pagato le conseguenze più serie della ristrutturazione
economica, ma si sono visti privare di tutti i diritti di cittadinanza,
compreso il diritto al lavoro a pari dignità con la popolazione
autoctona e persino il diritto di voto. Tale comportamento dell’Estonia
ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni per i “diritti
umani” e delle stesse autorità russe, ma non sembra avere intaccato il
giudizio positivo dell’UE, che sta alla base dell’accettazione di
questo paese baltico nel consesso europeo. In tal modo, la pratica
assenza di un elettorato russo di una certa consistenza (l’unico
partito della minoranza russa presente alle elezioni, il conservatore
“Partito Unitario del Popolo Estone”, non supera il 2% dei voti),
spiega in parte perché sia le elezioni presidenziali che quelle
parlamentari abbiano visto un sostanziale equilibrio tra forze di
centro-sinistra e centro-destra etnicamente estoni e sostanzialmente
allineate nell’accettazione del nuovo corso economico e nella ricerca
di interlocutori internazionali a occidente, nella NATO e nell’Unione
Europea. Tale processo di avvicinamento all’occidente ha avuto il suo
completamento nell’adesione dell’Estonia alla NATO (fortemente
osteggiata dalla Russia, per la pericolosissima vicinanza delle future
installazioni dell’Alleanza Atlantica ai centri nevralgici del paese),
formalizzata al vertice NATO di Praga del novembre 2002, e
nell’ingresso nell’Unione Europea, ratificato dal referendum svoltosi
nel settembre del 2003. Al termine di un ciclo politico che ha visto
alternarsi forze borghesi più o meno moderate, che vede alla presidenza
della repubblica il “leader” dell’indipendenza Arnold Ruutel (già
segretario del locale Partito Comunista!), solo il 58,2% dei cittadini
chiamati al voto ha eletto nel marzo del 2003 un parlamento largamente
dominato da partiti centristi e di destra moderata (“Partito di centro
estone”, “Res Publica”, “Partito delle riforme estone” e “Unione del
popolo estone”). Da aprile 2003, capo del governo (espresso dalla
coalizione tra “Res Publica” e il “Partito delle riforme”), è stato
eletto il trentaseienne Juhan Parts, uomo particolarmente legato agli
interessi degli Stati Uniti nella regione baltica. L’unico partito che
si definisca di sinistra alternativa, operante in Estonia, è il
“Partito Social Democratico del Lavoro Estone” (ESDTP), che conta 1.250
iscritti ed è presieduto attualmente da Tiit Toomsalu. L’ESDTP ha
ottenuto solo lo 0,4% dei voti nelle elezioni parlamentari. Il piccolo
partito, che si è opposto all’ingresso dell’Estonia nella NATO e
nell’UE e che si è battuto per i diritti civili della minoranza russa,
ha aderito sia al “Forum della nuova sinistra europea” che al “Partito
della Sinistra Europea” costituitosi l’11 gennaio 2004 a Berlino. 
            

LETTONIA

La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni di abitanti,
rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte dell’URSS,
che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è
costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo
baltico. Oltre il 33% è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa
l’8% da altre componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo
sovietico, in generale hanno sempre considerato il russo come loro
prima lingua.      

La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta
dell’impero zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel
1940, venne occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica
sovietica. Dal 1941 al 1944 il paese fu sottoposto all’occupazione
nazista, che si manifestò con particolare ferocia nei confronti della
resistenza e nelle operazioni di sterminio degli ebrei, che portarono
all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone di religione israelita.
Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da consistenti gruppi di
collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle SS, che, al
momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento direttamente a
Hitler. Queste formazioni, note agli storici della resistenza per la
loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che
avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli
appartenenti alle minoranze. In seguito alla liberazione del paese da
parte dell’ “Armata Rossa”, molti fascisti cercarono rifugio nelle
folte foreste che coprono il territorio della Lettonia, proclamandosi
“fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari terrieri e di
settori della popolazione contadina (una vera e propria “Vandea”),
cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in
attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di
comunisti, impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero
così massacrati nei primi anni del dopoguerra, fino a quando il
movimento terroristico fascista (a cui non sono certo attribuibili le
caratteristiche di “movimento di liberazione nazionale” sbandierate
dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante operazione di
riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne
definitivamente represso. Seguirono, in epoca staliniana, una serie di
misure particolarmente severe che comportarono la deportazione in altre
repubbliche di circa 200.000 persone e l’immigrazione massiccia in
Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che andarono a costituire il
nerbo del locale proletariato industriale. Anche se, a partire dagli
anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso
rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo
innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le
tensioni postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva
composizione. Così quando, con la “perestrojka”, i fermenti
nazionalisti e anticomunisti affiorarono in superficie, le tendenze
“revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto “Fronte popolare”,
ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza, attraverso la
proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva
divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.

Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e
guidata allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si
incamminò sulla strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami
con il mercato sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme
all’Estonia, la più prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad
avviare trasformazioni strutturali in senso liberista, che dovevano
portare in breve tempo all’esplodere di una crisi economica di vaste
proporzioni. A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe
operaia, che ha assistito allo smantellamento di un apparato
produttivo, che aveva perso i tradizionali mercati di sbocco. E, dal
momento che il proletariato è rappresentato in larga parte da cittadini
russi o “russofoni”, la “questione sociale” è venuta così mescolandosi
con la “questione nazionale”. Fin dal 1991, i governi che si sono
succeduti hanno praticato una politica che, non solo ha teso ad
impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio (attraverso,
innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e
l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di
detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro
partecipazione alla repressione del collaborazionismo locale
nell’immediato dopoguerra: tanto da sollevare l’indignazione dello
stesso presidente russo Putin, che ha definito questi anziani
partigiani “valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma
che ha puntato (tra le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma
nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali) alla
realizzazione di una vera e propria “pulizia etnica”. Dopo il 1991, in
Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle minoranze
nazionali è stato privato dei diritti civili. Costoro non beneficiano
né del diritto di voto, né del diritto di impiego nella funzione
pubblica. Non godono della pensione e vengono discriminati nelle
richieste di affitto e di lavoro. Sul loro passaporto figura
addirittura la dicitura “non cittadino”. Il governo è arrivato al punto
di adottare una legge che viola il diritto fondamentale
all’insegnamento nella propria lingua madre. Secondo la nuova
legislazione, solamente le scuole che insegnano in lingua lettone
verranno sovvenzionate. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio
regime di “apartheid”, a cui l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo,
la stessa sinistra del continente, con l’eccezione dei comunisti greci
e di alcune componenti comuniste italiane e belghe) non hanno saputo
rispondere se non con qualche timida reprimenda.

Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto
buono” del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle
strutture sia della NATO che dell’Unione Europea. Così, tra il novembre
del 2002 e la fine del 2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso
nel consesso occidentale con costi sociali inauditi (ad esempio, il
sistema agricolo rischia il collasso con l’entrata in vigore dei
vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al carro delle
avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre ingenti
del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il
mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente
in Iraq).

Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi
che si sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale
corso della politica nazionale. E, più di tutti, l’ultimo di
centro-destra che, dopo le elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da
Einars Repse ed esprime una coalizione formata al Saeima (parlamento)
da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di maggioranza relativa), dal
“Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre formazioni minori di
orientamento conservatore. Anche in occasione del referendum per
l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica “europeista”
come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito ad
oltre il 20% degli abitanti di votare. Al contrario delle altre
repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti (fuorilegge, anche dopo
l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi, attraverso nuove
coperture legali. Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il Partito
Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga
detenzione, è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista
di Lettonia fino all’agosto 1991. Il Partito Socialista, decisamente
contrario all’integrazione nel sistema occidentale di alleanze, si
pronuncia per la creazione di un sistema “protetto socialmente sulla
base della teoria marxista” e intende difendere “gli interessi politici
e sociali del popolo lavoratore”. Il Partito Socialista è
particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori antifascisti e
contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di
incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone,
ottenendo anche qualche parziale risultato. Il Partito Socialista è la
più importante tra le forze di sinistra ( le altre sono il “Partito
della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e il
“Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa)
che hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una
Lettonia unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda
forza politica con il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della
precedente consultazione). La coalizione ha preso parte, in veste di
osservatore, alla riunione di Berlino in cui è nato il “Partito della
Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.             

 
LITUANIA

La Lituania, con una superficie di 65.200 Kmq e una popolazione di 3,5
milioni di abitanti, è la più meridionale delle repubbliche baltiche ex
sovietiche. A differenza di Lettonia ed Estonia, in questa repubblica
oltre l’80% della popolazione è costituita da lituani (8,7% di russi e
7% di polacchi), in gran parte cattolici, che parlano una lingua del
gruppo baltico. Annessa alla Russia alla fine del 1700, occupata dai
tedeschi durante la prima guerra mondiale, la Lituania riconquistò
l’indipendenza nel 1918. Governata, a partire dal 1926 dal regime
autoritario di Antanas Smetona, la Lituania adottò una costituzione di
tipo corporativo (fascista) nel 1938. Dopo l’accordo sovietico-tedesco,
la Lituania, come le altre repubbliche baltiche, fu inclusa nell’Unione
Sovietica, dopo avere ottenuto la restituzione dell’attuale capitale
Vilnius, fino ad allora sotto controllo polacco. L’occupazione nazista
(1941-1944), appoggiata dalle feroci formazioni fasciste locali (si
distinse il padre di Vytautas Landsbergis, il leader più conosciuto del
movimento indipendentista che riconquistò l’indipendenza nel 1991), si
rese responsabile, fra l’altro, del massacro e della deportazione nei
campi di sterminio di oltre 240.000 ebrei, che costituivano una delle
più significative comunità israelitiche europee. Il periodo postbellico
di potere sovietico, caratterizzato da un rilevante afflusso di
investimenti e di risorse energetiche, nonostante un livello di
industrializzazione meno elevato che in Lettonia ed Estonia, ha
favorito una significativa crescita dell’economia, in particolare del
settore agro-industriale (l’agricoltura lituana era tra le più
produttive dell’URSS), ponendo la Lituania ai primi posti per livelli
di benessere tra le repubbliche sovietiche. La “sovietizzazione”
comportò una fase particolarmente dura di repressione dei fermenti
nazionalistici, caratterizzato anche da deportazioni di cittadini
lituani. Il processo di “russificazione” fu però meno rilevante che
negli altri paesi del Baltico. Per questa ragione la Lituania, in cui
un ruolo di particolare rilievo nella conservazione delle tradizioni
nazionali è stato svolto dalla locale Chiesa cattolica, è stato il
primo paese a proclamare l’indipendenza, confermata dall’adesione quasi
plebiscitaria (90%) alla richiesta di distacco da Mosca nel referendum
del marzo 1991. Solo il collasso dell’URSS ha però portato al
riconoscimento internazionale del nuovo stato, alla cui guida si è
trovato, nell’agosto ’91, il movimento nazionalista di destra (Sajudis)
di Vytautas Landsbergis. Fu subito avviato un processo di restaurazione
capitalistica, improntato al liberismo più sfrenato, da cui sono presto
derivati gravissimi squilibri economici e sociali. L’inflazione
galoppante, la penuria di combustibile (dovuta alla brusca interruzione
delle relazioni economiche con il mercato ex sovietico), che arrivò
addirittura a provocare la totale mancanza di riscaldamento, e la crisi
del settore agricolo, seguita al riassetto proprietario dopo la
privatizzazione delle terre, alimentarono un vasto malcontento
popolare, che portò, nel 1992, alla clamorosa disfatta del “Sajudis” e
alla vittoria degli ex comunisti di Algirdas Brazauskas (“Partito
democratico del lavoro”, negli anni seguenti, trasformatosi in “Partito
socialdemocratico lituano”, aderente all’Internazionale Socialista, che
insieme ad altre forze minori, tra cui l’ “Unione lituano-russa” in
rappresentanza della minoranza russofona, ha dato vita alla cosiddetta
“Coalizione socialdemocratica”) favorevoli a riforme più caute e
graduali. Nel corso degli anni ’90, che hanno visto l’alternarsi di
governi di centro-destra e di centro-sinistra, la linea predominante di
politica estera è stata la ricerca dell’integrazione della Lituania
nell’ambito delle alleanze occidentali. Sono proprio i governi
“socialdemocratici”, del resto, quelli che più si sono attivati
(trovando sostegno nella stessa “Internazionale Socialista”) per
avvicinare il paese all’Unione Europea e alla NATO. Lo stesso
Brazauskas ha fatto della “vocazione europea e occidentale” della
Lituania uno dei suoi “cavalli di battaglia” e, dal 2001, in seguito
alla vittoria elettorale nelle elezioni dell’ottobre 2000, è alla guida
del governo di coalizione tra i “socialdemocratici” e la “Nuova Unione
dei social-liberali”, che ha sancito l’ingresso formale ( tra il 2002 e
il 2003) della repubblica baltica nel sistema di alleanze
dell’Occidente. Durante il premierato di Brazauskas, nel gennaio del
2003, al ballottaggio, Rolandas Pauskas, del Partito liberaldemocratico
lettone, batteva il presidente della repubblica uscente Valdas Adamkus,
facoltoso emigrato negli USA, eletto a sorpresa nel 1998. Il nuovo
presidente della repubblica si è trovato ben presto al centro di un
clamoroso scandalo, per i suoi legami con ambienti della mafia russa,
e, nell’ultimo scorcio del 2003, in seguito a grandi manifestazioni
popolari, ha dovuto subire l’avvio delle procedure di “impeachment”. In
Lituania, anche per una più limitata presenza della componente russa
che, in generale, rappresentava il nucleo operaio delle strutture
comuniste, quando le repubbliche baltiche facevano parte dell’URSS, la
sinistra è oggi elettoralmente rappresentata in modo quasi esclusivo
dal “Partito socialdemocratico lituano”. Il Partito Comunista Lituano
(PCL), messo brutalmente fuorilegge all’indomani dell’indipendenza, non
ha più riacquistato una veste legale (il piccolo Partito Socialista di
Lituania, costituito da alcuni militanti comunisti e presieduto da
Mindaugas Stakvilevicius, svolge un ruolo molto marginale). Molti
militanti comunisti, costretti alla più assoluta clandestinità, sono
stati sottoposti a persecuzioni di ogni tipo, purtroppo passate
inosservate persino alla gran parte della sinistra antagonista europea.
Dirigenti del PCL sono stati sottoposti a torture e maltrattamenti, ed
altri, nei primi anni ’90, sono stati persino rapiti in Bielorussia,
dove si erano rifugiati, in conseguenza di un blitz, effettuato dai
servizi segreti lituani. Solo negli ultimi mesi del 2003, grazie
all’iniziativa del Partito Comunista di Grecia (l’unico che, in sede
europea, si è finora battuto con vigore e coerenza contro le ricorrenti
violazioni dei diritti umani nei paesi ex socialisti del nostro
continente), Stratis Korakas, parlamentare europeo di questo partito ha
potuto fare visita agli anziani leader del PCL (Mikolas Burakiavitsious
e Giuozas Kuolialis), tuttora detenuti nelle carceri di Vilnius,
chiedendone il rilascio immediato e sollecitando l’interessamento degli
organismi competenti europei, che, naturalmente, è ancora una volta
venuto meno.

AMERICA AMERICA

"L'America e' l'unica nazione della storia ad essere passata
direttamente dalla barbarie alla degenerazione senza l'intervallo
consueto della civilta'"

(Georges Clemenceau, primo ministro di Francia all'inizio del XX secolo
e nel corso della I Guerra Mondiale)

"America is the only Nation in history which has gone directly from
barbarism to degeneration without the usual interval of civilization"

Georges Clemenceau cited by Geoffrey Wasteneys at
http://www.artel.co.yu/en/reakcije_citalaca/2004-01-08.html

PERICOLOSE SIMILITUDINI

"La battaglia di Algeri" e quella di Bagdad

WASHINGTON - La «Battaglia d'Algeri», il film del 1966 con cui Gillo
Pontecorvo ha raccontato la resistenza algerina contro
l'esercito coloniale francese, torna, in versione restaurata, nelle
sale cinematografiche Usa. Molti critici hanno segnalato le molte
similitudini con l'attuale situazione in Iraq.

(Da "Il Messaggero" dell'11/01/04. Segnalato da Pino sulla mailing list
Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli. )

LA GUERRA E' ORRORE MA ALCUNI ORRORI SONO PIU' UGUALI DEGLI ALTRI

<<Noi dobbiamo avere il coraggio non solo, come
stiamo facendo, di dire la verità, ma - e su questo punto
insisto - di non trovare alcun elemento di giustificazione
nell'orrore che gli oppressori avevano realizzato
precedentemente per giustificare l'orrore che vi fu dopo...>>

Fausto Bertinotti, riferendosi alle "foibe", nell'intervento conclusivo
del Convegno di Rifondazione comunista
LA GUERRA E' ORRORE (Venezia, sabato 13 dicembre 2003,
Aula Magna di Architettura)

<<Auschwitz (...) e' il genocidio. Hiroshima no. Questa differenza c'è
e conta. Hiroshima non aveva come fine l'annientamento. Era un modo
terribile e violento di opporsi ad esso.>>

Fausto Bertinotti nell'intervento conclusivo del Convegno di
Rifondazione comunista LA GUERRA E' ORRORE (Venezia, sabato 13 dicembre
2003, Aula Magna di Architettura)


Sui complessi di colpa di Fausto Bertinotti per i presunti crimini
commessi dai partigiani jugoslavi vedi anche il commento di Claudia
Cernigoi:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088

CROAZIA: PARTITO DI MAGGIORANZA DIFFONDE CALENDARI 2004 CON L'IMMAGINE
DI ANTE PAVELIC

Ante Pavelic, "duce" dello Stato Croato Indipendente nazifascista
(1941-1944) sotto il quale furono sterminati centinaia di migliaia di
non-cattolici e di antifascisti con il concorso attivo del clero,
appare sulle pagine di un calendario promozionale dell'HDZ.
L'HDZ, fondato da Franjo Tudjman e dall'attuale presidente dello Stato
croato Stipe Mesic, ha recentemente riottenuto la maggioranza
elettorale ed il governo grazie al sostegno fattivo degli Stati Uniti
d'America ed alla legittimazione della Unione Europea.

Una pagina del calendario si puo' vedere alla URL:
http://www.slobodan-milosevic.org/images/KalendarPavelicHDZV.jpg

Testi consigliati:
"L'ARCIVESCOVO DEL GENOCIDIO", di Marco Aurelio Rivelli, ed. Kaos,
Milano 1999
http://www.kaosedizioni.com/schnomedio_arcivgenocidio.htm
"IL FASCISMO E GLI USTASCIA 1929-1941: Il separatismo croato in
Italia", di Pasquale Juso, Gangemi Editore, 1998
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2814

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http://www.slobodan-milosevic.org/news/ihr011103.htm

HDZ distributed calendars with Pavelić portrait

Index.hr / vijesti.net (Croatia) - Saturday, 10. January 2004 11:34

The HDZ of Sesvete distributed on New Year's a calendar titled
"Historical Croatia," with the page for every month bore an image of a
notable Croatian historical figure, from [medieval princes] Trpimir,
Domagoj and Branimir, to Franjo Tuđman, whose picture graces the
December 2004 page.

Interestingly, the HDZ received two different versions of the
calendar. Of some 300 calendars they ordered from Široki Brijeg [in
Bosnia], the Sesvete branch of HDZ received 150 with the photo of
Ustaša fuehrer Ante Pavelić on the October page, while the rest had
the picture of Ljudevita Gaja and the Illyrian movement.

Chairman of Sesvete HDZ Ivan Dujmović said he had ordered the calendar
after seeing the Illyrian version, and that they were distributing the
calendars to their members and sympathizers only after ripping out the
pages with Pavelić, quotes Jutarnji list. The paper added that several
hours after giving this statement, Dujmović denied they had received
two versions of the calendar, and said they had none with the picture
of Pavelić.

Spokesman for the HDZ said that the party had nothing to do with these
calendars, and that this must have been a provocation, while the
Sesvete HDZ branch claimed Pavelić had to have been a plant by the
rival Croatian Bloc.


http://www.slobodan-milosevic.org/images/KalendarPavelicHDZV.jpg
 
photo credit: Jutarnji list


Original URL: http://www.index.hr/clanak.aspx?id=179986
Translated by: Nebojsa Malic
Posted for Fair Use only.