Informazione
E' morto il mandante dell'omicidio di Gabriele Moreno Lucatelli
---
Si e' spento ieri a Sarajevo Alija Izetbegovic.
Nei prossimi giorni avremo occasione di registrare e diffondere
commenti e note su questo personaggio, al quale va ascritto il decennio
peggiore della storia recente della sua terra.
Come italiani impegnati contro la guerra di spartizione della
Jugoslavia lo ricordiamo innanzitutto per essere stato il mandante
dell'assassinio del pacifista Gabriele Moreno Lucatelli, ucciso il 3
ottobre 1993 sul ponte di Vrbanja a Sarajevo dai cecchini
bosniaco-musulmani di "Caco" nell'ambito della strategia del terrore e
della demonizzazione della parte serba di cui Izetbegovic fu il vero
artefice.
Riportiamo di seguito un primo ritratto politico di Izetbegovic,
elaborato dalla rivista marxista tedesca KONKRET e riprodotto a cura
del Coordinamento Romano per la Jugoslavia alcuni anni fa.
CNJ
---
Ritratto politico di Alija Izetbegovic
Le analisi sulle cause dello scoppio della guerra fratricida in
Bosnia-Erzegovina hanno regolarmente mancato di riportare alcune
informazioni sulla personalità dell'attuale Presidente Alija
Izetbegovic, leader del Partito di Azione Democratica (SDA).
Analogamente, alcuni elementi di cronaca essenziali vengono
tralasciati: ad esempio il fatto che nel marzo 1992 un accordo tra le
tre parti (musulmana, serba e croata), il cosiddetto "Piano Cutileiro",
era stato già raggiunto e sottoscritto, e la sua applicazione avrebbe
evitato anni di guerra e pesanti strascichi che continueranno chissà
per quanto tempo. Da un articolo di Jürgen Elsässer, apparso sulla
rivista marxista tedesca "KONKRET" (n.4/1994), ricaviamo alcune delle
informazioni che ci sono state negate.
[Tra parentesi quadre le annotazioni del CRJ]
[...] Alija Izetbegovic, classe 1925, come collaboratore della rivista
"El Hidaje" fu condannato già nel 1946 a Sarajevo a tre anni di
carcere, per istigazione all'odio ed attività pan-islamiste. Secondo
fonti jugoslave questi avrebbe fatto parte dei "Giovani Musulmani", che
nella Jugoslavia di Tito erano perseguitati in quanto "filofascisti", a
partire dal 1941. Nel 1949 i "Giovani Musulmani" tentarono una aperta
ribellione che fu tuttavia velocemente sconfitta. Quanto poco
Izetbegovic abbia mutato le sue opinioni negli anni a seguire lo
dimostrano le sue due pubblicazioni "The Islamic Declaration" del 1970
[pubblicata all'estero in inglese, riedita in lingua serbocroata a
Sarajevo nel 1990; una versione non integrale è stata pubblicata in
italiano da LIMES n.1/2-1993. Nel seguito indicheremo questo libro con
le lettere "ID"] ed "Islam between East and West" del 1984 [nel seguito
"IEW"]. Ivi egli propaganda "la lotta per la creazione di una grande
federazione islamica dal Marocco all'Indonesia, dall'Africa nera
all'Asia centrale" (ID, pg.60). Un tale Stato (federale) non potrebbe
essere laicista, bensì dovrebbe orientarsi fortemente in senso
religioso: "In effetti, tutto quello che c'è stato di grande o di
degno di nota nella storia dei popoli musulmani è stato fatto sotto
l'egida dell'Islam... La Turchia come paese islamico dominava il
mondo. La Turchia come brutta copia dell'Europa è oggi un paese di
terza classe" (ID, pg.6). Come modello Izetbegovic vede "lo Stato
islamico". Per respingere l'influsso corruttore dell'Occidente, egli
propone una riorganizzazione fondamentalista della vita pubblica:
"L'educazione del popolo e soprattutto i massmedia - stampa, radio, TV
e cinema - dovrebbero essere nelle mani di persone la cui morale
islamica ed autorità intellettuale sia fuor di dubbio. I media non
possono, come troppo spesso avviene, cadere nelle mani di persone
corrotte e degenerate che poi trasmettono ad altri la vanità e la
vuotezza delle loro vite" (ID, pg.42-43). Bisogna dare un taglio al
ruolo civile della donna: "La civiltà ha disonorato particolarmente la
maternità" (IEW, pg.144). In opposizione a ciò l'Islam difende "i veri
interessi della donna normale e sana. Al posto di una eguaglianza
astratta esso assicura alla donna amore, matrimonio e bambini" (ID,
pg.48).
Nel materialismo Izetbegovic vede l'errore di fondo del mondo moderno
- capitalismo e socialismo sarebbero esclusivamente due varianti di
ciò. Poichè questo materialismo secondo Izetbegovic affonda le sue
radici nell'ebraismo, l'intera ideologia del Presidente bosniaco ha il
suo culmine in un antisemitismo velato di pseudoscientificità: "Tra le
religioni l'ebraismo rappresenta la tendenza 'immanente'. Tutte le idee
e le teorie dello spirito ebraico riguardano il paradiso sulla terra.
(...) Gli Ebrei non hanno mai accettato per intero l'idea della
immortalità. (...) L'esempio di Spinoza mostra la nascita della nuova
filosofia materialista dal ventre dell'ebraismo" (IEW, pg.146-7).
Molti stereotipi della propaganda antisemita - dalla congiura comune di
ebrei e massoni al finanziamento della conquista del mondo dal tempo di
Colombo, fino alla colpa per la bomba atomica - si ritrovano in
Izetbegovic: "L'idea massonica di una rinascita etica dell'umanità
attraverso la scienza è positivistica - ed ebraica. Sarebbe
interessante ricercare i legami intrinseci ed estrinseci tra
positivismo, ebraismo e massoneria. I legami e l'influsso non sono solo
di tipo spirituale, bensì piuttosto concreti. (...) La scienza nucleare
era nota dapprima come 'scienza ebraica'. (...) Non è un caso che i
grandi nomi della fisica atomica, della economia politica e del
socialismo sono ebrei quasi senza eccezione. (...) C'è qualcosa di
simbolico nel fatto che a finanziare il viaggio di Colombo furono degli
ebrei" (IEW, pg.147-8).
Nessuna meraviglia dunque che Izetbegovic si spinga fino a dei veri e
propri accessi d'odio nei confronti di Israele: "Per conservare
Gerusalemme gli Ebrei dovrebbero sconfiggere l'Islam ed i musulmani, e
questo - sia lodato Iddio - supera le loro possibilità. (...) Vorremmo
volentieri distinguere tra ebrei e sionisti, se solo gli ebrei
avessero loro stessi la forza di fare questa distinzione. (...) Se
tuttavia continueranno a starsene sul loro bel puledro, come sembra
oltremodo probabile al momento, ci sarà un'unica soluzione per il
movimento islamico e per tutti i musulmani del mondo: continuare la
lotta, allargarla e protrarla giorno per giorno, anno per anno, per
quante che debbano essere le vittime e comnque a lungo debba durare,
finchè non saranno costretti a restituire ogni centimetro di
territorio rubato. Ogni trattativa ed ogni compromesso che possa
mettere in gioco i diritti elementari dei nostri fratelli di Palestina
è un tradimento che potrebbe distruggere il sistema morale su cui si
fonda il nostro mondo" (ID, pg.69-70).
[...] Come autore della 'Dichiarazione Islamica' ed a causa di altre
attività contro lo Stato Izetbegovic fu condannato nel 1983 a 14 anni
di prigionia, e tuttavia già nel 1988 rilasciato dal carcere. Benchè
costui non si sia mai distanziato dalle pubblicazioni citate, nella
stampa occidentale viene generalmente descritto come persona aperta e
tollerante. Come dimostrazione di una sua presunta svolta dal
fondamentalismo viene dato valore soprattutto al suo impegno per la
creazione di una nuova Confederazione Jugoslava nel 1990, nonchè alla
sua indignazione per il repentino riconoscimento di Croazia e Slovenia
da parte della Repubblica Federale Tedesca, riconoscimento tramite il
quale quel progetto fu privato delle fondamenta. Per protesta
Izetbegovic partì nel novembre 1991 [un mese prima dunque della
formalizzazione di detto riconoscimento; n.d.crj] alla volta di Bonn,
per avere dei colloqui con Kohl e Genscher - e se ne ritornò indietro
come trasformato. Già alla nascita del suo Stato nel marzo 1992 egli
lavorò con un trucco: si dichiarò d'accordo con la suddivisione
cantonale come se la erano immaginata anche i serbi ed i croati - ma
ammettè poco dopo che la sua accettazione era stata solo una messa in
scena per raggiungere velocemente il riconoscimento internazionale
della Bosnia [riferimento al piano Cutileiro del marzo 1992,
sottoscritto da tutte e tre le parti in causa un mese prima dello
scoppio della guerra civile e pochi giorni dopo sconfessato dalle parti
croata e musulmana su istigazione dell'americano Zimmermann; n.d.crj].
La multietnicità, che nella vecchia Jugoslavia era stata tentata
attraverso la divisione equilibrata di tutte le istituzioni bosniache
tra serbi, croati e musulmani ed era stata conservata anche
immediatamente dopo le elezioni del '90, viene distrutta a partire da
quel momento poco a poco sotto la guida di Izetbegovic. Qualche esempio:
1. Il Parlamento bosniaco, che era costituito essenzialmente dal
musulmano SDA (86 seggi), dal serbo SDS (72) e dal croato HDZ (44), fu
sciolto illegalmente all'inizio del 1992 senza che al Presidente
fossero mai stati conferiti i poteri dello stato d'emergenza. Ciò che
si riuniva nel settembre 1993, per rifiutare il piano di pace
internazionale, a parte l'etichetta non aveva più niente a che vedere
con l'istituzione originaria: di 240 parlamentari erano convenuti solo
in 90, dei quali per di più 32 erano a favore della soluzione di pace.
Al Parlamento è stato sovrapposto un senato, il "Sabor" bosniaco, nel
quale non vi sono nè rappresentanti serbi nè croati.
2. Tra le prime unità di combattimento di Izetbegovic c'era la
divisione Handzar, il cui nome si ispira a quello di una delle
divisioni SS musulmane. Le forze militari regolari della
Bosnia-Erzegovina furono inizialmente comandate da ex-ufficiali
dell'JNA, comandante in capo era il serbo Sefer Halilovic [ma il nome
indica inequivocabilmente che si tratta di un musulmano: evidentemente
l'autore dispone di una informazione errata; n.d.crj]. Nell'autunno
1993 l'esercito fu riformato e rigidamente centralizzato attorno al
comando del musulmano Delic. Cattolici ed ortodossi furono allontanati
dai livelli più alti.
3. Già nel '92-'93 il generale dell'ONU Morillon criticò la incalzante
islamizzazione della vita di tutti i giorni in Bosnia. Un aspetto di
questa è il fatto che a Sarajevo non esiste più [1994] nessuna scuola
per bambini croati o serbi, così che questi sono costretti a
frequentare le scuole degli 'hodza' e dei 'mullah', a seguire anche le
lezioni di religione e ad imparare il Corano. L'arcivescovo di Sarajevo
si lamentò del fatto che tutti i non-musulmani venivano poco a poco
privati di tutti i diritti civili, le chiese cristiane venivano chiuse.
Un portavoce governativo chiese alla radio bosniaca che il momento
propizio venisse sfruttato per un eventuale attacco aereo NATO, per
scacciare del tutto i serbi dalla Bosnia. Il corrispondente sul posto
della "Die Zeit" riferisce che i serbi di Sarajevo per paura dei pogrom
hanno cancellato i loro nomi dai campanelli. [...]
4. Izetbegovic ha spaccato la presidenza collettiva dello Stato. A
Sarajevo due rappresentanti fondamentalisti, vale a dire lo stesso
Izetbegovic ed il suo vice Granic, hanno usurpato il gremium. Tre
rappresentanti musulmani ruppero con Izetbegovic nel 1993 e difesero
il piano di pace di Owen e Stoltenberg (così secondo uno dei tre in una
intervista al giornale croato Slobodna Dalmacija - 14/2/94).
5. Il più famoso di questi tre ex-membri della presidenza è Fikret
Abdic. Nel '90 questi ha ottenuto alle presidenziali più voti dello
stesso Izetbegovic. La sua regione di origine, il territorio di Bihac e
Velika Kladusa, nel settembre 1993 dopo un referendum vinto con l'80%
di consensi si è separato dalla Bosnia-Erzegovina ed ha revocato la sua
fedeltà al governo di Sarajevo, perchè - così la motivazione - il suo
sabotaggio delle trattative di Ginevra peggiorava soltanto la
sofferenze delle persone. Come Presidente della 'Provincia Autonoma
della Bosnia Occidentale' fu scelto lo stesso Abdic. In quella zona
vivono 200mila persone, di religione islamica più del 90 per cento.
Queste rappresentano l'ampia corrente dei musulmani laicisti e
tolleranti che sostennero i partigiani di Tito e divennero in seguito
jugoslavi convinti. Se la opinione pubblica internazionale parla "dei"
musulmani bosniaci, questa corrente viene bellamente ignorata: Abdic
non sarebbe un rappresentante della popolazione musulmana, perchè
questi - diversamente da Izetbegovic - con la sua professione di fede
non vuole costruire nessuno Stato. "Non conta certo a suo favore il
fatto che gli è indifferente la sorte di uno stato bosniaco-musulmano",
suggerisce velenosamente E. Rathfelder sulla TaZ [l'equivalente
tedesco dell'italiano "Manifesto"] del 30/9/93.
---
Si e' spento ieri a Sarajevo Alija Izetbegovic.
Nei prossimi giorni avremo occasione di registrare e diffondere
commenti e note su questo personaggio, al quale va ascritto il decennio
peggiore della storia recente della sua terra.
Come italiani impegnati contro la guerra di spartizione della
Jugoslavia lo ricordiamo innanzitutto per essere stato il mandante
dell'assassinio del pacifista Gabriele Moreno Lucatelli, ucciso il 3
ottobre 1993 sul ponte di Vrbanja a Sarajevo dai cecchini
bosniaco-musulmani di "Caco" nell'ambito della strategia del terrore e
della demonizzazione della parte serba di cui Izetbegovic fu il vero
artefice.
Riportiamo di seguito un primo ritratto politico di Izetbegovic,
elaborato dalla rivista marxista tedesca KONKRET e riprodotto a cura
del Coordinamento Romano per la Jugoslavia alcuni anni fa.
CNJ
---
Ritratto politico di Alija Izetbegovic
Le analisi sulle cause dello scoppio della guerra fratricida in
Bosnia-Erzegovina hanno regolarmente mancato di riportare alcune
informazioni sulla personalità dell'attuale Presidente Alija
Izetbegovic, leader del Partito di Azione Democratica (SDA).
Analogamente, alcuni elementi di cronaca essenziali vengono
tralasciati: ad esempio il fatto che nel marzo 1992 un accordo tra le
tre parti (musulmana, serba e croata), il cosiddetto "Piano Cutileiro",
era stato già raggiunto e sottoscritto, e la sua applicazione avrebbe
evitato anni di guerra e pesanti strascichi che continueranno chissà
per quanto tempo. Da un articolo di Jürgen Elsässer, apparso sulla
rivista marxista tedesca "KONKRET" (n.4/1994), ricaviamo alcune delle
informazioni che ci sono state negate.
[Tra parentesi quadre le annotazioni del CRJ]
[...] Alija Izetbegovic, classe 1925, come collaboratore della rivista
"El Hidaje" fu condannato già nel 1946 a Sarajevo a tre anni di
carcere, per istigazione all'odio ed attività pan-islamiste. Secondo
fonti jugoslave questi avrebbe fatto parte dei "Giovani Musulmani", che
nella Jugoslavia di Tito erano perseguitati in quanto "filofascisti", a
partire dal 1941. Nel 1949 i "Giovani Musulmani" tentarono una aperta
ribellione che fu tuttavia velocemente sconfitta. Quanto poco
Izetbegovic abbia mutato le sue opinioni negli anni a seguire lo
dimostrano le sue due pubblicazioni "The Islamic Declaration" del 1970
[pubblicata all'estero in inglese, riedita in lingua serbocroata a
Sarajevo nel 1990; una versione non integrale è stata pubblicata in
italiano da LIMES n.1/2-1993. Nel seguito indicheremo questo libro con
le lettere "ID"] ed "Islam between East and West" del 1984 [nel seguito
"IEW"]. Ivi egli propaganda "la lotta per la creazione di una grande
federazione islamica dal Marocco all'Indonesia, dall'Africa nera
all'Asia centrale" (ID, pg.60). Un tale Stato (federale) non potrebbe
essere laicista, bensì dovrebbe orientarsi fortemente in senso
religioso: "In effetti, tutto quello che c'è stato di grande o di
degno di nota nella storia dei popoli musulmani è stato fatto sotto
l'egida dell'Islam... La Turchia come paese islamico dominava il
mondo. La Turchia come brutta copia dell'Europa è oggi un paese di
terza classe" (ID, pg.6). Come modello Izetbegovic vede "lo Stato
islamico". Per respingere l'influsso corruttore dell'Occidente, egli
propone una riorganizzazione fondamentalista della vita pubblica:
"L'educazione del popolo e soprattutto i massmedia - stampa, radio, TV
e cinema - dovrebbero essere nelle mani di persone la cui morale
islamica ed autorità intellettuale sia fuor di dubbio. I media non
possono, come troppo spesso avviene, cadere nelle mani di persone
corrotte e degenerate che poi trasmettono ad altri la vanità e la
vuotezza delle loro vite" (ID, pg.42-43). Bisogna dare un taglio al
ruolo civile della donna: "La civiltà ha disonorato particolarmente la
maternità" (IEW, pg.144). In opposizione a ciò l'Islam difende "i veri
interessi della donna normale e sana. Al posto di una eguaglianza
astratta esso assicura alla donna amore, matrimonio e bambini" (ID,
pg.48).
Nel materialismo Izetbegovic vede l'errore di fondo del mondo moderno
- capitalismo e socialismo sarebbero esclusivamente due varianti di
ciò. Poichè questo materialismo secondo Izetbegovic affonda le sue
radici nell'ebraismo, l'intera ideologia del Presidente bosniaco ha il
suo culmine in un antisemitismo velato di pseudoscientificità: "Tra le
religioni l'ebraismo rappresenta la tendenza 'immanente'. Tutte le idee
e le teorie dello spirito ebraico riguardano il paradiso sulla terra.
(...) Gli Ebrei non hanno mai accettato per intero l'idea della
immortalità. (...) L'esempio di Spinoza mostra la nascita della nuova
filosofia materialista dal ventre dell'ebraismo" (IEW, pg.146-7).
Molti stereotipi della propaganda antisemita - dalla congiura comune di
ebrei e massoni al finanziamento della conquista del mondo dal tempo di
Colombo, fino alla colpa per la bomba atomica - si ritrovano in
Izetbegovic: "L'idea massonica di una rinascita etica dell'umanità
attraverso la scienza è positivistica - ed ebraica. Sarebbe
interessante ricercare i legami intrinseci ed estrinseci tra
positivismo, ebraismo e massoneria. I legami e l'influsso non sono solo
di tipo spirituale, bensì piuttosto concreti. (...) La scienza nucleare
era nota dapprima come 'scienza ebraica'. (...) Non è un caso che i
grandi nomi della fisica atomica, della economia politica e del
socialismo sono ebrei quasi senza eccezione. (...) C'è qualcosa di
simbolico nel fatto che a finanziare il viaggio di Colombo furono degli
ebrei" (IEW, pg.147-8).
Nessuna meraviglia dunque che Izetbegovic si spinga fino a dei veri e
propri accessi d'odio nei confronti di Israele: "Per conservare
Gerusalemme gli Ebrei dovrebbero sconfiggere l'Islam ed i musulmani, e
questo - sia lodato Iddio - supera le loro possibilità. (...) Vorremmo
volentieri distinguere tra ebrei e sionisti, se solo gli ebrei
avessero loro stessi la forza di fare questa distinzione. (...) Se
tuttavia continueranno a starsene sul loro bel puledro, come sembra
oltremodo probabile al momento, ci sarà un'unica soluzione per il
movimento islamico e per tutti i musulmani del mondo: continuare la
lotta, allargarla e protrarla giorno per giorno, anno per anno, per
quante che debbano essere le vittime e comnque a lungo debba durare,
finchè non saranno costretti a restituire ogni centimetro di
territorio rubato. Ogni trattativa ed ogni compromesso che possa
mettere in gioco i diritti elementari dei nostri fratelli di Palestina
è un tradimento che potrebbe distruggere il sistema morale su cui si
fonda il nostro mondo" (ID, pg.69-70).
[...] Come autore della 'Dichiarazione Islamica' ed a causa di altre
attività contro lo Stato Izetbegovic fu condannato nel 1983 a 14 anni
di prigionia, e tuttavia già nel 1988 rilasciato dal carcere. Benchè
costui non si sia mai distanziato dalle pubblicazioni citate, nella
stampa occidentale viene generalmente descritto come persona aperta e
tollerante. Come dimostrazione di una sua presunta svolta dal
fondamentalismo viene dato valore soprattutto al suo impegno per la
creazione di una nuova Confederazione Jugoslava nel 1990, nonchè alla
sua indignazione per il repentino riconoscimento di Croazia e Slovenia
da parte della Repubblica Federale Tedesca, riconoscimento tramite il
quale quel progetto fu privato delle fondamenta. Per protesta
Izetbegovic partì nel novembre 1991 [un mese prima dunque della
formalizzazione di detto riconoscimento; n.d.crj] alla volta di Bonn,
per avere dei colloqui con Kohl e Genscher - e se ne ritornò indietro
come trasformato. Già alla nascita del suo Stato nel marzo 1992 egli
lavorò con un trucco: si dichiarò d'accordo con la suddivisione
cantonale come se la erano immaginata anche i serbi ed i croati - ma
ammettè poco dopo che la sua accettazione era stata solo una messa in
scena per raggiungere velocemente il riconoscimento internazionale
della Bosnia [riferimento al piano Cutileiro del marzo 1992,
sottoscritto da tutte e tre le parti in causa un mese prima dello
scoppio della guerra civile e pochi giorni dopo sconfessato dalle parti
croata e musulmana su istigazione dell'americano Zimmermann; n.d.crj].
La multietnicità, che nella vecchia Jugoslavia era stata tentata
attraverso la divisione equilibrata di tutte le istituzioni bosniache
tra serbi, croati e musulmani ed era stata conservata anche
immediatamente dopo le elezioni del '90, viene distrutta a partire da
quel momento poco a poco sotto la guida di Izetbegovic. Qualche esempio:
1. Il Parlamento bosniaco, che era costituito essenzialmente dal
musulmano SDA (86 seggi), dal serbo SDS (72) e dal croato HDZ (44), fu
sciolto illegalmente all'inizio del 1992 senza che al Presidente
fossero mai stati conferiti i poteri dello stato d'emergenza. Ciò che
si riuniva nel settembre 1993, per rifiutare il piano di pace
internazionale, a parte l'etichetta non aveva più niente a che vedere
con l'istituzione originaria: di 240 parlamentari erano convenuti solo
in 90, dei quali per di più 32 erano a favore della soluzione di pace.
Al Parlamento è stato sovrapposto un senato, il "Sabor" bosniaco, nel
quale non vi sono nè rappresentanti serbi nè croati.
2. Tra le prime unità di combattimento di Izetbegovic c'era la
divisione Handzar, il cui nome si ispira a quello di una delle
divisioni SS musulmane. Le forze militari regolari della
Bosnia-Erzegovina furono inizialmente comandate da ex-ufficiali
dell'JNA, comandante in capo era il serbo Sefer Halilovic [ma il nome
indica inequivocabilmente che si tratta di un musulmano: evidentemente
l'autore dispone di una informazione errata; n.d.crj]. Nell'autunno
1993 l'esercito fu riformato e rigidamente centralizzato attorno al
comando del musulmano Delic. Cattolici ed ortodossi furono allontanati
dai livelli più alti.
3. Già nel '92-'93 il generale dell'ONU Morillon criticò la incalzante
islamizzazione della vita di tutti i giorni in Bosnia. Un aspetto di
questa è il fatto che a Sarajevo non esiste più [1994] nessuna scuola
per bambini croati o serbi, così che questi sono costretti a
frequentare le scuole degli 'hodza' e dei 'mullah', a seguire anche le
lezioni di religione e ad imparare il Corano. L'arcivescovo di Sarajevo
si lamentò del fatto che tutti i non-musulmani venivano poco a poco
privati di tutti i diritti civili, le chiese cristiane venivano chiuse.
Un portavoce governativo chiese alla radio bosniaca che il momento
propizio venisse sfruttato per un eventuale attacco aereo NATO, per
scacciare del tutto i serbi dalla Bosnia. Il corrispondente sul posto
della "Die Zeit" riferisce che i serbi di Sarajevo per paura dei pogrom
hanno cancellato i loro nomi dai campanelli. [...]
4. Izetbegovic ha spaccato la presidenza collettiva dello Stato. A
Sarajevo due rappresentanti fondamentalisti, vale a dire lo stesso
Izetbegovic ed il suo vice Granic, hanno usurpato il gremium. Tre
rappresentanti musulmani ruppero con Izetbegovic nel 1993 e difesero
il piano di pace di Owen e Stoltenberg (così secondo uno dei tre in una
intervista al giornale croato Slobodna Dalmacija - 14/2/94).
5. Il più famoso di questi tre ex-membri della presidenza è Fikret
Abdic. Nel '90 questi ha ottenuto alle presidenziali più voti dello
stesso Izetbegovic. La sua regione di origine, il territorio di Bihac e
Velika Kladusa, nel settembre 1993 dopo un referendum vinto con l'80%
di consensi si è separato dalla Bosnia-Erzegovina ed ha revocato la sua
fedeltà al governo di Sarajevo, perchè - così la motivazione - il suo
sabotaggio delle trattative di Ginevra peggiorava soltanto la
sofferenze delle persone. Come Presidente della 'Provincia Autonoma
della Bosnia Occidentale' fu scelto lo stesso Abdic. In quella zona
vivono 200mila persone, di religione islamica più del 90 per cento.
Queste rappresentano l'ampia corrente dei musulmani laicisti e
tolleranti che sostennero i partigiani di Tito e divennero in seguito
jugoslavi convinti. Se la opinione pubblica internazionale parla "dei"
musulmani bosniaci, questa corrente viene bellamente ignorata: Abdic
non sarebbe un rappresentante della popolazione musulmana, perchè
questi - diversamente da Izetbegovic - con la sua professione di fede
non vuole costruire nessuno Stato. "Non conta certo a suo favore il
fatto che gli è indifferente la sorte di uno stato bosniaco-musulmano",
suggerisce velenosamente E. Rathfelder sulla TaZ [l'equivalente
tedesco dell'italiano "Manifesto"] del 30/9/93.
CHE NE FARANNO DELLA MINORANZA GRECA
QUANDO AVRANNO REALIZZATO LA GRANDE ALBANIA?
http://www.realitymacedonia.org.mk/web/news_page.asp?nid=2797
Web posted October 19, 2003
Source: A1 TV, 16.10.2003
Leader of Greek Minority Party in Albania Arrested Because of
"Anti-Albanian Slogans"
The Albanian Prosecutor's Office started a legal process against the
leader of the Party for Human Rights Vangel Dule when following last
week's end of the local elections "members of the party shouted
anti-Albanian slogans and waved Greek national flags in Southern
Albania."
According to Albanian authorities during the celebrations in the Greek
majority town of Himara "Greek nationalism raged and the flag of a
foreign country was exposed" which violates Albanian law.
The independent TV station "Top Albania Channel" recorded the events of
that night and reported that the Albanian police has evidence that
slogans such as "Long live Greece," "the Albanians are Turks," "Himara
is Greek" were shouted, and the TV recordings will serve the
prosecutor's office as an argument in the indictment against the Party
leader Dule.
According to police sources that night several other persons were
arrested, the ones that were "more aggressive in their protesting".
Albanian police also stated that among the crowd, members of the Greek
extremist organization "Mavi" were also noticed, who arrived in Himara
to cause turmoil.
Albanian Prime Minister Fatos Nano gave a comment on the event, saying
that "those people should face the law."
Today's media report that following the local elections results a
representative of the Greek Government asked Tirana to proclaim the
town of Himara as a "minority zone." According to Albanian analysts,
this demand by Greece represents a "dangerous Greek provocation."
Vangel Dule's Party for Human Rights, where majority members are ethnic
Greeks, reported that besides Himera they also won the elections in
other smaller towns in Southern Albania.
QUANDO AVRANNO REALIZZATO LA GRANDE ALBANIA?
http://www.realitymacedonia.org.mk/web/news_page.asp?nid=2797
Web posted October 19, 2003
Source: A1 TV, 16.10.2003
Leader of Greek Minority Party in Albania Arrested Because of
"Anti-Albanian Slogans"
The Albanian Prosecutor's Office started a legal process against the
leader of the Party for Human Rights Vangel Dule when following last
week's end of the local elections "members of the party shouted
anti-Albanian slogans and waved Greek national flags in Southern
Albania."
According to Albanian authorities during the celebrations in the Greek
majority town of Himara "Greek nationalism raged and the flag of a
foreign country was exposed" which violates Albanian law.
The independent TV station "Top Albania Channel" recorded the events of
that night and reported that the Albanian police has evidence that
slogans such as "Long live Greece," "the Albanians are Turks," "Himara
is Greek" were shouted, and the TV recordings will serve the
prosecutor's office as an argument in the indictment against the Party
leader Dule.
According to police sources that night several other persons were
arrested, the ones that were "more aggressive in their protesting".
Albanian police also stated that among the crowd, members of the Greek
extremist organization "Mavi" were also noticed, who arrived in Himara
to cause turmoil.
Albanian Prime Minister Fatos Nano gave a comment on the event, saying
that "those people should face the law."
Today's media report that following the local elections results a
representative of the Greek Government asked Tirana to proclaim the
town of Himara as a "minority zone." According to Albanian analysts,
this demand by Greece represents a "dangerous Greek provocation."
Vangel Dule's Party for Human Rights, where majority members are ethnic
Greeks, reported that besides Himera they also won the elections in
other smaller towns in Southern Albania.
Il seguente articolo e' tratto da "Storia Illustrata" del gennaio 1979
STERMINIO NAZISTA IN SERBIA
In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del
1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la
penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla
rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della
popolazione civile.
di ANTONIO PITAMITZ
Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della
Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città
serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni
iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la
sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la
fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal
regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il
valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta
serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari
lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente
che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma
e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che
inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la
tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla
cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie
lontane da alcuni giorni alimenta.
Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una
vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con
spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La
ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica
contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il
regno dei Karadjeordjevic, ma non ha prostrato i popoli della
Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella
terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i
tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija
i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee
telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate
saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto
è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling
serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si
sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La
lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la
conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una
razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo
principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una
moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella
capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.
Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la
propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le
argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina"
nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di
averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di
salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente
sconfitto sul fronte orientale.
L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla
grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce
uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di
Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione,
lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire
il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare
contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non
mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno.
Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un
treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-
Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e
occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.
È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da
kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la
Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e
socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia.
Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni
partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento
nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le
armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini
e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco.
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di
bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei
signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac
conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma
i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non
sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane
che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di
bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione
anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca
anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non
soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a
sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono
fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.
È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e
il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando
nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il
generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera
che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una
spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere
più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la
"filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non
vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una
"crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano
all'azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo
Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia,
uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai
14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento
muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46
chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10
tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata"
la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di
esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra
impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure,
l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva"
comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di
Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li
trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino,
Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi
d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo
contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di
pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel
quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al
paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio
conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono
pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento
dai partigiani, che attaccano senza sosta.
Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non
tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100
cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a morte.
La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich:
comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66
persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno
successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre
chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac,
Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di
Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dell'altare con il vangelo ancora in
mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della
comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le
mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di
morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".
L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba,
gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate
nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può
più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso.
È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio
che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig,
tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge,
nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente
a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la
salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli
impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani,
pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli
ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente,
che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia
insaponata, l'altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione
di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la
normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone
Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato
presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non
frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della
città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in
aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte
l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione
pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano
presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però
si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i
ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più
violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo
uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule
la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi
propagandisti e sabotatori.
L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti
dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi
hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano.
Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido
che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa
intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di
salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per
rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una
seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi.
Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel
momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della
classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori
tutti.
I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa.
Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe,
e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in
Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della
Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando
hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola
non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere
insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno
insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne
non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i
professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto"
. I ragazzi credono ancora che torneranno.
Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella
immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai
partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per
Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000,
su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno
tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono,
con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.
Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte,
la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di
fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa,
e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati
riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come
Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è
colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco.
Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli
sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla
invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo
striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un
amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo
riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di
vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue
freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano
che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno
la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per
esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono
di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro
amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi.
Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro
protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato
dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un
dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un
croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a
salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la
sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo,
invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle
truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da
parte.
Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore,
insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un
fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua.
Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando
passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe
ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera
natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla
fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori
che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in
due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla
testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia
verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero
danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej
Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.
Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci
chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno
21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni
cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più
che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati
sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere
un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato
successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il
giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela
gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire
con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti
rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma
il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele,
presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano
l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio
pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla
strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando
cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin
Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di
Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più
di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila pani... E furono accese
settemila e trecento candele...".
STERMINIO NAZISTA IN SERBIA
In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del
1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la
penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla
rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della
popolazione civile.
di ANTONIO PITAMITZ
Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della
Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città
serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni
iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la
sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la
fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal
regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il
valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta
serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari
lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente
che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma
e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che
inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la
tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla
cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie
lontane da alcuni giorni alimenta.
Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una
vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con
spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La
ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica
contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il
regno dei Karadjeordjevic, ma non ha prostrato i popoli della
Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella
terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i
tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija
i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee
telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate
saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto
è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling
serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si
sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La
lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la
conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una
razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo
principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una
moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella
capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.
Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la
propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le
argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina"
nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di
averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di
salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente
sconfitto sul fronte orientale.
L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla
grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce
uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di
Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione,
lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire
il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare
contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non
mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno.
Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un
treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-
Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e
occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.
È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da
kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la
Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e
socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia.
Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni
partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento
nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le
armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini
e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco.
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di
bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei
signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac
conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma
i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non
sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane
che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di
bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione
anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca
anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non
soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a
sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono
fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.
È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e
il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando
nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il
generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera
che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una
spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere
più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la
"filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non
vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una
"crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano
all'azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo
Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia,
uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai
14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento
muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46
chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10
tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata"
la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di
esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra
impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure,
l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva"
comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di
Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li
trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino,
Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi
d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo
contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di
pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel
quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al
paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio
conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono
pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento
dai partigiani, che attaccano senza sosta.
Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non
tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100
cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a morte.
La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich:
comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66
persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno
successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre
chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac,
Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di
Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dell'altare con il vangelo ancora in
mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della
comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le
mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di
morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".
L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba,
gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate
nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può
più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso.
È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio
che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig,
tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge,
nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente
a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la
salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli
impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani,
pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli
ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente,
che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia
insaponata, l'altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione
di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la
normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone
Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato
presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non
frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della
città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in
aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte
l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione
pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano
presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però
si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i
ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più
violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo
uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule
la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi
propagandisti e sabotatori.
L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti
dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi
hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano.
Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido
che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa
intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di
salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per
rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una
seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi.
Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel
momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della
classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori
tutti.
I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa.
Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe,
e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in
Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della
Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando
hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola
non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere
insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno
insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne
non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i
professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto"
. I ragazzi credono ancora che torneranno.
Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella
immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai
partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per
Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000,
su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno
tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono,
con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.
Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte,
la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di
fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa,
e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati
riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come
Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è
colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco.
Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli
sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla
invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo
striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un
amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo
riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di
vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue
freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano
che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno
la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per
esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono
di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro
amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi.
Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro
protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato
dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un
dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un
croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a
salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la
sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo,
invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle
truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da
parte.
Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore,
insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un
fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua.
Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando
passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe
ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera
natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla
fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori
che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in
due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla
testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia
verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero
danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej
Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.
Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci
chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno
21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni
cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più
che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati
sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere
un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato
successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il
giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela
gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire
con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti
rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma
il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele,
presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano
l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio
pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla
strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando
cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin
Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di
Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più
di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila pani... E furono accese
settemila e trecento candele...".
http://www.antiwar.com/orig/deliso90.html
ANTIWAR, Monday, October 14, 2003
Exporting Devalued Values: America's Policy of Foreign Interference
by Christopher Deliso
In his latest incisive critique of US foreign intervention, Texas Rep.
Ron Paul takes aim at a pseudo-governmental organization, one that's
sinister insofar as it appears benign – the National Endowment for
Democracy. Charges Rep. Paul,
"…the NED is nothing more than a costly program that takes US taxpayer
funds to promote favored politicians and political parties abroad. What
the NED does in foreign countries, through its recipient organizations
the National Democratic Institute (NDI) and the International
Republican Institute (IRI), would be rightly illegal in the United
States. The NED injects 'soft money' into the domestic elections of
foreign countries in favor of one party or the other. Imagine what a
couple of hundred thousand dollars will do to assist a politician or
political party in a relatively poor country abroad. It is particularly
Orwellian to call US manipulation of foreign elections 'promoting
democracy.' How would Americans feel if the Chinese arrived with
millions of dollars to support certain candidates deemed friendly to
China? Would this be viewed as a democratic development?"
Who Oversees These Interventionist Institutions?
The NED, of course, sees things otherwise. On its website, the NED
publishes a long-winded, self-congratulatory history, and describes
itself as being essentially
"…guided by the belief that freedom is a universal human aspiration
that can be realized through the development of democratic
institutions, procedures, and values. Governed by an independent,
nonpartisan board of directors, the NED makes hundreds of grants each
year to support pro-democracy groups in Africa, Asia, Central and
Eastern Europe, Eurasia, Latin America, and the Middle East."
This alleged "independence" of the board is quite extraordinary,
considering that it consists of powerful establishment figures like
Republican "super-lobbyist" Vin Weber, Bush fave Sen. Bill Frist,
neocon ideologues such as Francis Fukuyama and bellicose
religiosoMichael Novak, not to mention neophyte presidential candidate
Wesley Clark and that perennial Balkan bore, Richard Holbrooke.
NED offshoots like the NDI and IRI are similarly manned. The IRI
directors' board is headed by Sen. John McCain, and includes notables
such as Brent Scowcroft, Lawrence Eagleburger and Jeanne Kirkpatrick.
Representatives of heavy corporate lobbyists are also represented, for
example, the head of Lockheed Martin's missile defense program, Alison
Fortier. Another one is Robert Kimmit, executive VP of AOL Time Warner
– which has, incidentally enough, given over $32,000 since 1999 to that
champion of "campaign finance reform," Sen. John McCain.
The NDI's leadership is numerically greater but appears somewhat less
robust. Its board is a graveyard of failed presidential candidates,
including the likes of Walter Mondale, Geraldine Ferraro, Michael
Dukakis, Bill Bradley and (though he'd be loath to admit it) Dick
Gephardt. On the other hand, the NDI does have one very formidable dark
horse in its chairman – the terrifying Madeleine Albright. What more
need be said?
New NED Mischief: Elections in the Caucasus
The latest challenge for this bunch is policing the upcoming elections
in Azerbaijan and Georgia. For the last few weeks, the
intervention-friendly Eurasianet.org has had the words "Choice 2003"
plastered on its home page. But whose choice is it?
As for the Azeri election, there've been some comic moments, for
example a breathy dispatch from the typically hysterical Human Rights
Watch, demanding that authorities investigate a catfight between local
and imported feminist groups and "voter educators." However, that
election is here (October 15th), and less interesting than the one
slated for two weeks later, in little Georgia.
Here, the once fervent American love affair is waning. Last month, the
US cut financial aid to the government, following similar actions by
the IMF and World Bank, and is now training and cheering on the
opposition. Simultaneously, the crusading Transparency International
has accused the government of corruption.
Last week, a US delegation sent by the NDI, which included IRI head
McCain, former Joint Chiefs of Staff head John Shalikashvili and former
Deputy State Secretary Strobe Talbott, cracked down on Georgia,
pressuring opposition politicians, government incumbents and election
officials alike. Their message was dutifully broadcast by the NDI,
which promises that the upcoming election will be big fun – that is, "a
critical test for the country's democratization."
The Not-So-Veiled Threat
"If the elections are held in a free and fair manner," Georgia will
achieve "…greater political stability and will more easily integrate
into the community of democracies." However, the NDI warns,
"…if these elections fail to meet Georgia's domestic legal requirements
and its international commitments to hold genuinely democratic
elections, the country's representative institutions will face a crisis
of confidence, and Georgia will suffer a serious blow to its
international standing."
Do the Georgians dare protest? According to Eurasianet.org, the
Georgian newspaper Dilis Gazeti last week pondered:
"…Senator McCain clearly wants to teach democracy to all the (former
Soviet) republics by using Georgia as a visual aid…
"...at first glance we should take pride in this… but in effect it is
quite regrettable because, if we do not live up to US expectations, the
full force of the only superpower's righteous wrath will fall upon us."
The Bottom Line: Hardball Tactics
Basically, the situation is this: the US has gotten tired of the
Shevardnadze government. It seems too Russia-friendly, especially after
the August takeover of Georgia's electric company by the Russian EES –
who purchased it for $150 million from an American company (AES), which
is generally fleeing the region and may sell its assets in Kazakhstan
and Ukraine to EES also.
Apparently, a big chunk ($35 million) of the now-frozen aid package had
been dedicated to electricity sector work, and was supposed to be
funneled back into the managing American firm, PA Consulting. However,
this company had arguments with regional authorities and now claims it
never received its money.
By freezing aid to Georgia, and getting the IMF and World Bank to do
the same, the US has interrupted economic projects, wreaked havoc with
budget-planning, and in general helped the opposition to stir up
unrest. Not that this hasn't happened before elsewhere.
Forcing Bipolarity in a Unipolar World
Awareness of its own indisputable hegemony has led the US and its
policy makers to claim a unipolar destiny. Indeed, the belligerent
neocons have been demanding this for years. Now, an unaccountable US
holds other nations up to impossible standards. This is a major reason
why America is hated abroad.
However, while it may be dead, history can be resurrected. Wherever
possible, the US tries to impose models of bipolarity – miniature
versions of the former US-USSR stalemate. This ensures that suppliant
states remain stuck in their own petty rivalries. Oftentimes, it also
ensures that they will need to purchase (from the US) heavy armaments
to wage their own Cold Wars.
Politically, bipolarity is fostered even within the countries in
question. The NED and similar outfits are keen to aid "opposition"
parties, when it is judged that they can eventually take power. As a
power broker, the US likes to buy influence. By helping opposition
candidates against strong incumbents, groups like the NDI and IRI
basically purchase them.
The Macedonia Experiment
Take, for example, Macedonia. Its 2001 civil war was started by
Kosovo-trained Albanian insurrectionists allegedly fighting for ethnic
equality. While the US claimed to be supporting the Macedonian
government, overwhelming examples of political, diplomatic and even
covert military aidto the rebels indicated otherwise. The US was
playing both sides, to ensure that neither would win a satisfactory
victory, as happened repeatedly during Yugoslavia's wars. America thus
became the vital "third party," the dispassionate arbitrator who could,
with deep feeling and magnanimity, lead the country to ethnic harmony,
human rights, and even democracy by aiding specific political parties,
babysitting ethnic spats, and sponsoring insipid children's television
programs.
As is happening now in Georgia, the 2002 elections saw the IMF freeze
donations to Macedonia. Political interference came from the NED and
other groups such as Transparency International. Their efforts helped
elect the opposition Social Democrats, and their multi-ethnic partners,
the Albanian Democratic Union for Integration (led by former terrorist
leader Ali Ahmeti) – a coalition amenable to American interests.
However, it'd been widely predicted beforehand that the SDSM-DUI ticket
would win; they clearly didn't need Western help. Yet by donating to
their campaign, America could ensure that the new government would be
in its debt.
Now, two years after the war, relations between Albanians and
Macedonians have not improved. But you wouldn't know it from the bland
whitewashing of the US and other "international community" bodies in
Macedonia. Claiming to desire a multi-cultural, multi-ethnic future for
Macedonia, they are well aware that this country will always remain
bipolar.
Macedonia hasn't had any unrest from its numerous other minorities. In
fact, they aren't even included when important "arbitration" needs to
be conducted; the problem is always only with the Albanians. As recent
protests from high school students show, the Macedonian reality is one
of a dualistic ethnic divide that appears, to delicate Western eyes,
utterly barbaric, ugly and sub-human. Painting the natives as
unenlightened savages is especially useful, considering that the
so-called "confidence builders" can't, and frankly don't want to change
things.
Example: NDI's Kosovo Whitewash
Covering up this reality is done chiefly through whitewashing. Take,
for example, the testimony of former NDI Kosovo director Scott David
Bates, in an October 2002 interview carried out by – imagine that! –
the US Government. Bates paints a rosy picture of democracy in Kosovo,
that "fairly successful" international mission to which KFOR troops
have brought "order and stability."
In the interview, Bates discusses his 2001 work with Kosovo political
parties and the OSCE in the run-up to Kosovo's colonial elections.
While there were some headaches involving Serbs "left behind" in the
province (i.e., those few who hadn't already been killed or expelled),
it was, according to Bates, "a truly successful election." Says Bates,
"…three years after the war, they held free and fair elections, with
Serbs and Albanians voting together. And in December of last year, they
went to parliament together."
Well wouldn't you know! However, as anyone with even a remote
understanding of the Kosovo situation knows, UNMIK has presided over 4
years of rampant ethnic cleansing, destruction of cultural treasures,
human trafficking, mafia violence and the occasional massacre of
children.
Obviously, Kosovo was the benchmark for failurein intervention. Until
Afghanistan and Iraq, that is. Compared to those disasters, it's
suddenly become "successful." However, the body of literature on the
black hole of Europe is vast and growing by the day. As the reader will
see, cheerful interventionists are deluded in the extreme if they
really believe what they say. Luckily for them, they don't.
Human, All Too Human
On the sweeping scale of world geopolitics, the enforced bipolarity
model holds. As an indicator of official US foreign policy, it's fairly
reliable, and there may even be a few loons in the State Department who
believe it has real democratic significance.
However, when we get down to the actual situation on the ground, other
factors take precedence – chiefly, the tremendous mediocrity inherent
to "democracy-building." This is a mutant combination of two
mentalities: the bureaucratic and the high school.
Derelict, conflict-prone countries such as Macedonia have become
playgrounds for the "international community." This term covers anyone
working for an embassy, NGO, political-education service like the NDI,
mass media, European Union – the list goes on. It doesn't matter where
one's from, so long as one chooses the customs of Brussels or
Washington over those of one's own country.
Indeed, card-carrying members of the "international community" stick
together. The benefits are many: access to reliable modern technology;
air-conditioned private transportation instead of rickety public buses;
friendly relations with important politicians and businessmen; many
perks, and perky colleagues too; as well as many, many social events.
For the last reason especially, members of the "international
community" often exhibit the group dynamics more common to high school
students. The petty jealousies, promiscuity and provincial gossip, the
drinking games, idleness and boredom – a "global village" indeed!
The tasteless exuberance of the self-appointed altruists abroad is
excessive, incestuous and utterly at variance with their stated
mission. And it has nothing to do, let me add, with high ideals. This
is why the day's workload – processing forms, fostering bipolarities
and installing governments – is accomplished with so much tedium,
reticence and disinterest. Nobody really cares, actually. At the end of
the day, local employees of embassies, foundations and groups like the
NDI are, on an individual level, only interested in avoiding
controversy and upheaval. They don't want to think. Above all, they
don't want all hell to break loose on their shift (this buck-passing
proclivity is why Kosovo's final status remains unresolved). Naturally
enough, the internationals would rather spend their time shopping,
drinking, or having sexual encounters with one another, or with
government ministers.
Fast Times at International High
In an incendiary piece entitled "AfghaniScam," Professor Marc Herold
condemns the international community's shameless exploitation of
postwar Kabul. Culling data from several first-hand accounts, Herold
reveals life within the "huge consumption bubble" unwittingly sustained
by US taxpayers:
"…this is the bubble economy of the wealthy and the wannabees,
including the returned 'necktie' Afghans and the proliferating 'expat'
community. They populate the state and services sectors, earn high
incomes which are spent on consumption of imports and local services
catering only to this strata, e.g., beauty salons, hotels, foreign
travel, gardeners and security personnel, weekend parties, golf clubs,
Toyota Land Cruisers (the vehicle of choice), the Excelnet Cafe – the
Intercontinental Hotel's cyber-cafe, bars and restaurants (like B's
Place where a pizza costs $12, when the average daily wage in urban
areas is $1").
According to Herold, the international media has perpetuated the myth
of a "new" Kabul by highlighting signs of false progress:
"…on Christmas Day 2001, Variety Magazine carrolled, 'In Kabul, Hooray
for Bollywood.' An article in the Boston Globe, announces 'Hotel
Critical to Rebirth of Kabul.' For whom, when rooms at the refurbished
Kabul Hotel will cost $125/night single occupancy?
…Another article in the New York Times breathlessly announced how Vogue
was rushing to Afghanistan to assist Afghan women 'to be beautiful
again.' Hip Kabulis are now donning 'skin-tight jeans and waist-high
tops with short sleeves… as young people adopt the clothing they see in
the movies from India and Hollywood,' but the blue jeans for sale in
the Jemhoriat Market sell for $5-25 a pair. Income in Afghanistan for
most people today is $30-50 a month."
Most disturbing is Herold's account of the internationals' excess,
promiscuity, and wanton disrespect for Afghan mores. Afghanistan, it
appears, has become like Kosovo or Macedonia – just magnified tenfold:
"…thousands of well-heeled foreign 'aid' workers and Afghan expats
partake in raucous weekend parties, their Landcruisers parked in a
smart Kabul street. Imported alcohol flows and Madonna echoes in the
street outside. Peter Essen, German owner of the giant Supreme Food
Service warehouse which initially supplied only the international ISAF
force (whose members can only eat imported food for security reasons),
caters to diplomats, foreign aid workers, international journalists,
etc. Essen said, 'we've got beer, wine, whiskey, pork – anything you
want.' Reuters reported some locals in Kabul mentioning foreign women
engaging in solicitation on street corners near foreign offices in
downtown Kabul."
The article also mentions Lai Thai, the new Asian eatery staffed by
"slim waitresses in silk sarongs," and Kabul's Irish bar, guarded by
soldiers carrying AK-47's and staffed by barmen who, though Afghan,
"have all have been given Irish names – Kevin, Jimmy, George, etc."
The West's Fatal Sickness
Buried deep in a September 3rd Brookings Institute discussion is the
revealing disclosure that there are already 173 Westernizing NGO's
operating in Iraq. Dude, it's party time!
In 2003, the US and its lackeys have far exceeded the pious old mission
of the "white man's burden," kept alive by the colonial office bunch.
Now, the contempt for other cultures is blatant and open. However,
under the veneer of "democracy-building," the US continues its system
of exploitation in beleaguered countries the world over. The message is
clear: join us or die.
When President Bush speaks of being 'with us or against us,' he is not
referring to democracy, law, or human rights. These, and the NED's
invocation of freedom as a "universal value," just nauseate. They are
merely the code words of a soulless Western office culture exulting in
tequila shots, shopping malls, life insurance and litigation.
While many Americans are genuinely mystified as to why some people
might like to live according to other customs and values, our educated
leaders surely know better. It's high time that they resolve – as Rep.
Paul concludes – to "…return to the foreign policy of our founders,
based on open relations and trade with all countries and free from
meddling and manipulation in the internal affairs of others."
ANTIWAR, Monday, October 14, 2003
Exporting Devalued Values: America's Policy of Foreign Interference
by Christopher Deliso
In his latest incisive critique of US foreign intervention, Texas Rep.
Ron Paul takes aim at a pseudo-governmental organization, one that's
sinister insofar as it appears benign – the National Endowment for
Democracy. Charges Rep. Paul,
"…the NED is nothing more than a costly program that takes US taxpayer
funds to promote favored politicians and political parties abroad. What
the NED does in foreign countries, through its recipient organizations
the National Democratic Institute (NDI) and the International
Republican Institute (IRI), would be rightly illegal in the United
States. The NED injects 'soft money' into the domestic elections of
foreign countries in favor of one party or the other. Imagine what a
couple of hundred thousand dollars will do to assist a politician or
political party in a relatively poor country abroad. It is particularly
Orwellian to call US manipulation of foreign elections 'promoting
democracy.' How would Americans feel if the Chinese arrived with
millions of dollars to support certain candidates deemed friendly to
China? Would this be viewed as a democratic development?"
Who Oversees These Interventionist Institutions?
The NED, of course, sees things otherwise. On its website, the NED
publishes a long-winded, self-congratulatory history, and describes
itself as being essentially
"…guided by the belief that freedom is a universal human aspiration
that can be realized through the development of democratic
institutions, procedures, and values. Governed by an independent,
nonpartisan board of directors, the NED makes hundreds of grants each
year to support pro-democracy groups in Africa, Asia, Central and
Eastern Europe, Eurasia, Latin America, and the Middle East."
This alleged "independence" of the board is quite extraordinary,
considering that it consists of powerful establishment figures like
Republican "super-lobbyist" Vin Weber, Bush fave Sen. Bill Frist,
neocon ideologues such as Francis Fukuyama and bellicose
religiosoMichael Novak, not to mention neophyte presidential candidate
Wesley Clark and that perennial Balkan bore, Richard Holbrooke.
NED offshoots like the NDI and IRI are similarly manned. The IRI
directors' board is headed by Sen. John McCain, and includes notables
such as Brent Scowcroft, Lawrence Eagleburger and Jeanne Kirkpatrick.
Representatives of heavy corporate lobbyists are also represented, for
example, the head of Lockheed Martin's missile defense program, Alison
Fortier. Another one is Robert Kimmit, executive VP of AOL Time Warner
– which has, incidentally enough, given over $32,000 since 1999 to that
champion of "campaign finance reform," Sen. John McCain.
The NDI's leadership is numerically greater but appears somewhat less
robust. Its board is a graveyard of failed presidential candidates,
including the likes of Walter Mondale, Geraldine Ferraro, Michael
Dukakis, Bill Bradley and (though he'd be loath to admit it) Dick
Gephardt. On the other hand, the NDI does have one very formidable dark
horse in its chairman – the terrifying Madeleine Albright. What more
need be said?
New NED Mischief: Elections in the Caucasus
The latest challenge for this bunch is policing the upcoming elections
in Azerbaijan and Georgia. For the last few weeks, the
intervention-friendly Eurasianet.org has had the words "Choice 2003"
plastered on its home page. But whose choice is it?
As for the Azeri election, there've been some comic moments, for
example a breathy dispatch from the typically hysterical Human Rights
Watch, demanding that authorities investigate a catfight between local
and imported feminist groups and "voter educators." However, that
election is here (October 15th), and less interesting than the one
slated for two weeks later, in little Georgia.
Here, the once fervent American love affair is waning. Last month, the
US cut financial aid to the government, following similar actions by
the IMF and World Bank, and is now training and cheering on the
opposition. Simultaneously, the crusading Transparency International
has accused the government of corruption.
Last week, a US delegation sent by the NDI, which included IRI head
McCain, former Joint Chiefs of Staff head John Shalikashvili and former
Deputy State Secretary Strobe Talbott, cracked down on Georgia,
pressuring opposition politicians, government incumbents and election
officials alike. Their message was dutifully broadcast by the NDI,
which promises that the upcoming election will be big fun – that is, "a
critical test for the country's democratization."
The Not-So-Veiled Threat
"If the elections are held in a free and fair manner," Georgia will
achieve "…greater political stability and will more easily integrate
into the community of democracies." However, the NDI warns,
"…if these elections fail to meet Georgia's domestic legal requirements
and its international commitments to hold genuinely democratic
elections, the country's representative institutions will face a crisis
of confidence, and Georgia will suffer a serious blow to its
international standing."
Do the Georgians dare protest? According to Eurasianet.org, the
Georgian newspaper Dilis Gazeti last week pondered:
"…Senator McCain clearly wants to teach democracy to all the (former
Soviet) republics by using Georgia as a visual aid…
"...at first glance we should take pride in this… but in effect it is
quite regrettable because, if we do not live up to US expectations, the
full force of the only superpower's righteous wrath will fall upon us."
The Bottom Line: Hardball Tactics
Basically, the situation is this: the US has gotten tired of the
Shevardnadze government. It seems too Russia-friendly, especially after
the August takeover of Georgia's electric company by the Russian EES –
who purchased it for $150 million from an American company (AES), which
is generally fleeing the region and may sell its assets in Kazakhstan
and Ukraine to EES also.
Apparently, a big chunk ($35 million) of the now-frozen aid package had
been dedicated to electricity sector work, and was supposed to be
funneled back into the managing American firm, PA Consulting. However,
this company had arguments with regional authorities and now claims it
never received its money.
By freezing aid to Georgia, and getting the IMF and World Bank to do
the same, the US has interrupted economic projects, wreaked havoc with
budget-planning, and in general helped the opposition to stir up
unrest. Not that this hasn't happened before elsewhere.
Forcing Bipolarity in a Unipolar World
Awareness of its own indisputable hegemony has led the US and its
policy makers to claim a unipolar destiny. Indeed, the belligerent
neocons have been demanding this for years. Now, an unaccountable US
holds other nations up to impossible standards. This is a major reason
why America is hated abroad.
However, while it may be dead, history can be resurrected. Wherever
possible, the US tries to impose models of bipolarity – miniature
versions of the former US-USSR stalemate. This ensures that suppliant
states remain stuck in their own petty rivalries. Oftentimes, it also
ensures that they will need to purchase (from the US) heavy armaments
to wage their own Cold Wars.
Politically, bipolarity is fostered even within the countries in
question. The NED and similar outfits are keen to aid "opposition"
parties, when it is judged that they can eventually take power. As a
power broker, the US likes to buy influence. By helping opposition
candidates against strong incumbents, groups like the NDI and IRI
basically purchase them.
The Macedonia Experiment
Take, for example, Macedonia. Its 2001 civil war was started by
Kosovo-trained Albanian insurrectionists allegedly fighting for ethnic
equality. While the US claimed to be supporting the Macedonian
government, overwhelming examples of political, diplomatic and even
covert military aidto the rebels indicated otherwise. The US was
playing both sides, to ensure that neither would win a satisfactory
victory, as happened repeatedly during Yugoslavia's wars. America thus
became the vital "third party," the dispassionate arbitrator who could,
with deep feeling and magnanimity, lead the country to ethnic harmony,
human rights, and even democracy by aiding specific political parties,
babysitting ethnic spats, and sponsoring insipid children's television
programs.
As is happening now in Georgia, the 2002 elections saw the IMF freeze
donations to Macedonia. Political interference came from the NED and
other groups such as Transparency International. Their efforts helped
elect the opposition Social Democrats, and their multi-ethnic partners,
the Albanian Democratic Union for Integration (led by former terrorist
leader Ali Ahmeti) – a coalition amenable to American interests.
However, it'd been widely predicted beforehand that the SDSM-DUI ticket
would win; they clearly didn't need Western help. Yet by donating to
their campaign, America could ensure that the new government would be
in its debt.
Now, two years after the war, relations between Albanians and
Macedonians have not improved. But you wouldn't know it from the bland
whitewashing of the US and other "international community" bodies in
Macedonia. Claiming to desire a multi-cultural, multi-ethnic future for
Macedonia, they are well aware that this country will always remain
bipolar.
Macedonia hasn't had any unrest from its numerous other minorities. In
fact, they aren't even included when important "arbitration" needs to
be conducted; the problem is always only with the Albanians. As recent
protests from high school students show, the Macedonian reality is one
of a dualistic ethnic divide that appears, to delicate Western eyes,
utterly barbaric, ugly and sub-human. Painting the natives as
unenlightened savages is especially useful, considering that the
so-called "confidence builders" can't, and frankly don't want to change
things.
Example: NDI's Kosovo Whitewash
Covering up this reality is done chiefly through whitewashing. Take,
for example, the testimony of former NDI Kosovo director Scott David
Bates, in an October 2002 interview carried out by – imagine that! –
the US Government. Bates paints a rosy picture of democracy in Kosovo,
that "fairly successful" international mission to which KFOR troops
have brought "order and stability."
In the interview, Bates discusses his 2001 work with Kosovo political
parties and the OSCE in the run-up to Kosovo's colonial elections.
While there were some headaches involving Serbs "left behind" in the
province (i.e., those few who hadn't already been killed or expelled),
it was, according to Bates, "a truly successful election." Says Bates,
"…three years after the war, they held free and fair elections, with
Serbs and Albanians voting together. And in December of last year, they
went to parliament together."
Well wouldn't you know! However, as anyone with even a remote
understanding of the Kosovo situation knows, UNMIK has presided over 4
years of rampant ethnic cleansing, destruction of cultural treasures,
human trafficking, mafia violence and the occasional massacre of
children.
Obviously, Kosovo was the benchmark for failurein intervention. Until
Afghanistan and Iraq, that is. Compared to those disasters, it's
suddenly become "successful." However, the body of literature on the
black hole of Europe is vast and growing by the day. As the reader will
see, cheerful interventionists are deluded in the extreme if they
really believe what they say. Luckily for them, they don't.
Human, All Too Human
On the sweeping scale of world geopolitics, the enforced bipolarity
model holds. As an indicator of official US foreign policy, it's fairly
reliable, and there may even be a few loons in the State Department who
believe it has real democratic significance.
However, when we get down to the actual situation on the ground, other
factors take precedence – chiefly, the tremendous mediocrity inherent
to "democracy-building." This is a mutant combination of two
mentalities: the bureaucratic and the high school.
Derelict, conflict-prone countries such as Macedonia have become
playgrounds for the "international community." This term covers anyone
working for an embassy, NGO, political-education service like the NDI,
mass media, European Union – the list goes on. It doesn't matter where
one's from, so long as one chooses the customs of Brussels or
Washington over those of one's own country.
Indeed, card-carrying members of the "international community" stick
together. The benefits are many: access to reliable modern technology;
air-conditioned private transportation instead of rickety public buses;
friendly relations with important politicians and businessmen; many
perks, and perky colleagues too; as well as many, many social events.
For the last reason especially, members of the "international
community" often exhibit the group dynamics more common to high school
students. The petty jealousies, promiscuity and provincial gossip, the
drinking games, idleness and boredom – a "global village" indeed!
The tasteless exuberance of the self-appointed altruists abroad is
excessive, incestuous and utterly at variance with their stated
mission. And it has nothing to do, let me add, with high ideals. This
is why the day's workload – processing forms, fostering bipolarities
and installing governments – is accomplished with so much tedium,
reticence and disinterest. Nobody really cares, actually. At the end of
the day, local employees of embassies, foundations and groups like the
NDI are, on an individual level, only interested in avoiding
controversy and upheaval. They don't want to think. Above all, they
don't want all hell to break loose on their shift (this buck-passing
proclivity is why Kosovo's final status remains unresolved). Naturally
enough, the internationals would rather spend their time shopping,
drinking, or having sexual encounters with one another, or with
government ministers.
Fast Times at International High
In an incendiary piece entitled "AfghaniScam," Professor Marc Herold
condemns the international community's shameless exploitation of
postwar Kabul. Culling data from several first-hand accounts, Herold
reveals life within the "huge consumption bubble" unwittingly sustained
by US taxpayers:
"…this is the bubble economy of the wealthy and the wannabees,
including the returned 'necktie' Afghans and the proliferating 'expat'
community. They populate the state and services sectors, earn high
incomes which are spent on consumption of imports and local services
catering only to this strata, e.g., beauty salons, hotels, foreign
travel, gardeners and security personnel, weekend parties, golf clubs,
Toyota Land Cruisers (the vehicle of choice), the Excelnet Cafe – the
Intercontinental Hotel's cyber-cafe, bars and restaurants (like B's
Place where a pizza costs $12, when the average daily wage in urban
areas is $1").
According to Herold, the international media has perpetuated the myth
of a "new" Kabul by highlighting signs of false progress:
"…on Christmas Day 2001, Variety Magazine carrolled, 'In Kabul, Hooray
for Bollywood.' An article in the Boston Globe, announces 'Hotel
Critical to Rebirth of Kabul.' For whom, when rooms at the refurbished
Kabul Hotel will cost $125/night single occupancy?
…Another article in the New York Times breathlessly announced how Vogue
was rushing to Afghanistan to assist Afghan women 'to be beautiful
again.' Hip Kabulis are now donning 'skin-tight jeans and waist-high
tops with short sleeves… as young people adopt the clothing they see in
the movies from India and Hollywood,' but the blue jeans for sale in
the Jemhoriat Market sell for $5-25 a pair. Income in Afghanistan for
most people today is $30-50 a month."
Most disturbing is Herold's account of the internationals' excess,
promiscuity, and wanton disrespect for Afghan mores. Afghanistan, it
appears, has become like Kosovo or Macedonia – just magnified tenfold:
"…thousands of well-heeled foreign 'aid' workers and Afghan expats
partake in raucous weekend parties, their Landcruisers parked in a
smart Kabul street. Imported alcohol flows and Madonna echoes in the
street outside. Peter Essen, German owner of the giant Supreme Food
Service warehouse which initially supplied only the international ISAF
force (whose members can only eat imported food for security reasons),
caters to diplomats, foreign aid workers, international journalists,
etc. Essen said, 'we've got beer, wine, whiskey, pork – anything you
want.' Reuters reported some locals in Kabul mentioning foreign women
engaging in solicitation on street corners near foreign offices in
downtown Kabul."
The article also mentions Lai Thai, the new Asian eatery staffed by
"slim waitresses in silk sarongs," and Kabul's Irish bar, guarded by
soldiers carrying AK-47's and staffed by barmen who, though Afghan,
"have all have been given Irish names – Kevin, Jimmy, George, etc."
The West's Fatal Sickness
Buried deep in a September 3rd Brookings Institute discussion is the
revealing disclosure that there are already 173 Westernizing NGO's
operating in Iraq. Dude, it's party time!
In 2003, the US and its lackeys have far exceeded the pious old mission
of the "white man's burden," kept alive by the colonial office bunch.
Now, the contempt for other cultures is blatant and open. However,
under the veneer of "democracy-building," the US continues its system
of exploitation in beleaguered countries the world over. The message is
clear: join us or die.
When President Bush speaks of being 'with us or against us,' he is not
referring to democracy, law, or human rights. These, and the NED's
invocation of freedom as a "universal value," just nauseate. They are
merely the code words of a soulless Western office culture exulting in
tequila shots, shopping malls, life insurance and litigation.
While many Americans are genuinely mystified as to why some people
might like to live according to other customs and values, our educated
leaders surely know better. It's high time that they resolve – as Rep.
Paul concludes – to "…return to the foreign policy of our founders,
based on open relations and trade with all countries and free from
meddling and manipulation in the internal affairs of others."
FIABA CRUENTA
(Desanka Maksimovic)
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
Avevano tutti la stessa età,
scorrevano uguali per tutti
i giorni di scuola, andavano alle cerimonie in compagnia,
li vaccinavano tutti
contro la stessa malattia.
Morirono tutti in una giornata sola.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un solo giorno morì
di morte gloriosa.
Cinquantacinque minuti
prima che la morte se li portasse via
sedevano sui banchi di scuola
i ragazzi della piccola compagnia,
e con lo stesso compito assillante;
andando a piedi, quanto
impiega un viandante
e così via.
Erano pieni delle stesse cifre
i loro pensieri,
e nei quaderni, dentro la cartella,
giacevano assurdi innumerevoli
i cinque e gli zeri
Stringevano in saccoccia con ardore
una manciata di comuni sogni,
di comuni segreti
patriottici e d'amore.
E ognuno, lieto della propria aurora,
credeva di poter correre molto
tanto ancora
sotto l'azzurro tetto rotondo
fino a risolvere
tutti i compiti di questo mondo.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
File intere di ragazzi
Si presero per mano
e, dall'ultima ora di scuola,
si avviarono alla fucilazione
calmi, col cuore forte,
come se nulla fosse la morte.
File intere di compagni
salirono nella stessa ora
verso l'eterna dimora.
(La poesia si ispira ad uno dei più terribili
massacri compiuti dagli occupatori nazisti nel
corso della seconda guerra mondiale.
Nei giorni dal 21 al 23 ottobre 1941, a Kragujevac,
in Serbia, i Tedeschi fucilarono oltre 7000
persone, fra cui numerosi alunni delle scuole
di quella città. Insieme ai loro alunni, andarono
alla morte anche alcuni insegnanti, che non avevano
voluto abbandonare i loro ragazzi in quel terribile
momento.
La strage di Kragujevac viene rievocata ogni anno
nel Parco della Rimembranza a Kragujevac con una
manifestazione a cui partecipano poeti e
artisti di tutte le regioni della Jugoslavia.)
(Desanka Maksimovic)
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
Avevano tutti la stessa età,
scorrevano uguali per tutti
i giorni di scuola, andavano alle cerimonie in compagnia,
li vaccinavano tutti
contro la stessa malattia.
Morirono tutti in una giornata sola.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un solo giorno morì
di morte gloriosa.
Cinquantacinque minuti
prima che la morte se li portasse via
sedevano sui banchi di scuola
i ragazzi della piccola compagnia,
e con lo stesso compito assillante;
andando a piedi, quanto
impiega un viandante
e così via.
Erano pieni delle stesse cifre
i loro pensieri,
e nei quaderni, dentro la cartella,
giacevano assurdi innumerevoli
i cinque e gli zeri
Stringevano in saccoccia con ardore
una manciata di comuni sogni,
di comuni segreti
patriottici e d'amore.
E ognuno, lieto della propria aurora,
credeva di poter correre molto
tanto ancora
sotto l'azzurro tetto rotondo
fino a risolvere
tutti i compiti di questo mondo.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
File intere di ragazzi
Si presero per mano
e, dall'ultima ora di scuola,
si avviarono alla fucilazione
calmi, col cuore forte,
come se nulla fosse la morte.
File intere di compagni
salirono nella stessa ora
verso l'eterna dimora.
(La poesia si ispira ad uno dei più terribili
massacri compiuti dagli occupatori nazisti nel
corso della seconda guerra mondiale.
Nei giorni dal 21 al 23 ottobre 1941, a Kragujevac,
in Serbia, i Tedeschi fucilarono oltre 7000
persone, fra cui numerosi alunni delle scuole
di quella città. Insieme ai loro alunni, andarono
alla morte anche alcuni insegnanti, che non avevano
voluto abbandonare i loro ragazzi in quel terribile
momento.
La strage di Kragujevac viene rievocata ogni anno
nel Parco della Rimembranza a Kragujevac con una
manifestazione a cui partecipano poeti e
artisti di tutte le regioni della Jugoslavia.)
Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
> Da: news@...
> Data: Ven 17 Ott 2003 23:40:22 Europe/Rome
> Oggetto: Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
>
>
> Nachrichten 18.10.2003
> Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
> ESSEN - Der deutsche WAZ-Konzern - bereits jetzt der dominierende
> Zeitungsverlag in Südosteuropa - baut seine Vorherrschaft weiter aus.
> Neben weiteren Übernahmen soll die Kooperation mit dem größte
> Zeitungsverlag Griechenlands die weitere Expansion des deutschen
> Medienkonzern befördern.
> mehr
> (http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/
> 1066428000.php?PHPSESSID=052fa167cd4355350714bcc1d6d12cff)
Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
ESSEN - Der deutsche WAZ-Konzern - bereits jetzt der dominierende
Zeitungsverlag in Südosteuropa - baut seine Vorherrschaft weiter aus.
Neben weiteren Übernahmen soll die Kooperation mit dem größte
Zeitungsverlag Griechenlands die weitere Expansion des deutschen
Medienkonzern befördern.
Die WAZ-Gruppe besitzt bereits die führenden Zeitungen in Serbien und
Montenegro und hält in Kroatien mit mittlerweile 70 Prozent der
Zeitungen ein Quasi-Monopol auf dem Pressemarkt 1). Inzwischen hat auch
das Parlament der Region Vojvodina einem Rahmenvertrag über
Privatisierung und Verkauf der auflagenstärksten Tageszeitung der
Region zugestimmt, so daß der deutsche Konzern nun auch auf dem
Zeitungsmarkt von Serbien und Montenegro eine vorherrschende Position
einnimmt. In Mazedonien hat die WAZ ebenfalls die Mehrheitsanteile der
drei führenden Zeitungen übernommen.
Die Expansion des deutschen Medienkonzern setzt sich jetzt in
Griechenland fort. Die Lambrakis-Gruppe, Griechenlands größter
Zeitungsverlag, kündigte die Gründung eines gemeinsamen Unternehmens
mit der WAZ-Gruppe an. Mit dem Joint Venture unterstützt der
griechische Konzern die weitere Ausdehnung der deutschen Medienmacht in
Südosteuropa und hofft von dieser zu profitieren.
1) s. auch s. auch Südosteuropa: Presse unter deutscher Kontrolle
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1055887200.php%5d
und ,,Deutscher Blitzkrieg´´ auf dem Pressemarkt
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1029500348.php%5d
s. auch ,,Drang nach
Osten´´[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/
1057183201.php]
Quellen:
Deutsch-griechische Verlagskooperation; Athener Zeitung 25.7.2003
WAZ erwirbt Mehrheitsanteile führender mazedonischer Zeitungen;
Deutsche Welle Monitor Ost- / Südosteuropa 29.7.2003
WAZ-Gruppe erwirbt ,,Dnevnik´´; Handelsblatt 6.10.2003
> Da: news@...
> Data: Ven 17 Ott 2003 23:40:22 Europe/Rome
> Oggetto: Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
>
>
> Nachrichten 18.10.2003
> Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
> ESSEN - Der deutsche WAZ-Konzern - bereits jetzt der dominierende
> Zeitungsverlag in Südosteuropa - baut seine Vorherrschaft weiter aus.
> Neben weiteren Übernahmen soll die Kooperation mit dem größte
> Zeitungsverlag Griechenlands die weitere Expansion des deutschen
> Medienkonzern befördern.
> mehr
> (http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/
> 1066428000.php?PHPSESSID=052fa167cd4355350714bcc1d6d12cff)
Deutsche Medienmacht in Südosteuropa
ESSEN - Der deutsche WAZ-Konzern - bereits jetzt der dominierende
Zeitungsverlag in Südosteuropa - baut seine Vorherrschaft weiter aus.
Neben weiteren Übernahmen soll die Kooperation mit dem größte
Zeitungsverlag Griechenlands die weitere Expansion des deutschen
Medienkonzern befördern.
Die WAZ-Gruppe besitzt bereits die führenden Zeitungen in Serbien und
Montenegro und hält in Kroatien mit mittlerweile 70 Prozent der
Zeitungen ein Quasi-Monopol auf dem Pressemarkt 1). Inzwischen hat auch
das Parlament der Region Vojvodina einem Rahmenvertrag über
Privatisierung und Verkauf der auflagenstärksten Tageszeitung der
Region zugestimmt, so daß der deutsche Konzern nun auch auf dem
Zeitungsmarkt von Serbien und Montenegro eine vorherrschende Position
einnimmt. In Mazedonien hat die WAZ ebenfalls die Mehrheitsanteile der
drei führenden Zeitungen übernommen.
Die Expansion des deutschen Medienkonzern setzt sich jetzt in
Griechenland fort. Die Lambrakis-Gruppe, Griechenlands größter
Zeitungsverlag, kündigte die Gründung eines gemeinsamen Unternehmens
mit der WAZ-Gruppe an. Mit dem Joint Venture unterstützt der
griechische Konzern die weitere Ausdehnung der deutschen Medienmacht in
Südosteuropa und hofft von dieser zu profitieren.
1) s. auch s. auch Südosteuropa: Presse unter deutscher Kontrolle
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1055887200.php%5d
und ,,Deutscher Blitzkrieg´´ auf dem Pressemarkt
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1029500348.php%5d
s. auch ,,Drang nach
Osten´´[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/
1057183201.php]
Quellen:
Deutsch-griechische Verlagskooperation; Athener Zeitung 25.7.2003
WAZ erwirbt Mehrheitsanteile führender mazedonischer Zeitungen;
Deutsche Welle Monitor Ost- / Südosteuropa 29.7.2003
WAZ-Gruppe erwirbt ,,Dnevnik´´; Handelsblatt 6.10.2003
Goran Matic: Teret dokazivanja
http://www.artel.co.yu/sr/reakcije_citalaca/2003-10-16.html
Beograd, 15. oktobar 2003. godine
Karla del Ponte priznala da nema dokaze.
Glavni tužilac Haškog tribunala Karla del Ponte optužila je u Savetu
bezbednosti UN vlasti u Beogradu da nedovoljno saraduju sa Tribunalom i
da zadržavaju važna dokazna dokumenta'' - prenosi Fonet 10. oktobra
2003. godine.
U intervjuu za BBC ona je izjavila da su je poslednji razgovori u
Beogradu naveli da ne da pozitivniju ocenu saradnji Srbije i Crne Gore
s Hagom. Na pitanje šta se to u Beogradu desilo što je toliko promenilo
njeno mišljenje, odgovorila je da je rec o "raznim stvarima''. ''Ono na
šta se odnosila moja recenica u izveštaju tice se dokumenata iz perioda
rata u Bosni. Oni su odbili da mi daju ta dokumenta koja su mi potrebna
za sudski postupak protiv Miloševica. Zvanicno obrazloženje bilo je da
bi time bila ugrožena nacionalna bezbednost, ali u suštini, i to mi je
receno nezvanicno, radi se o postupku pred Medunarodnim sudom pravde i
strahom vlasti da bi ta dokumenta mogla biti iskorišcena u tužbi BiH i
Hrvatske protiv Beograda", rekla je ona. "Moram vam reci da je takvo
obrazloženje za mene neprihvatljivo", naglasila je Karla del Ponte,
dodajuci da ce od sudskog veca Haškog tribunala tražiti da se Beogradu
naloži da preda ta dokumenta.
U vezi s hapšenjem Ratka Mladica, Karla del Ponte je ponovila da joj je
iz razlicitih izvora potvrdeno da je on u Srbiji, što je ona "još
jednom predocila i vlastima u Begradu i zatražila njegovo hapšenje".
"Oni to nisu porekli, ali cini se da je, po svemu sudeci, teško
utvrditi njegovu tacnu lokaciju i uhapsiti ga. No, videcemo. Mislim da
u tom slucaju medunarodna zajednica može odigrati važnu ulogu, cemu se
i nadam".
Poslednje istupanje Karle del Ponte u SB UN, kao i aktuelne javne
izjave još jednom su potvrdile politikantski (politicki je suviše
ozbiljna rec) karakter njene funkcije i uloge. Nastavljajuci antisrpsku
kampanju ''majke Haškog tribunala'' (Madlen Olbrajt), del Ponteova je u
svojim nastupima potvrdila neutemeljenost dosadašnjih politickih
optužnica. Panicni zahtevi za dokazima, upuceni srpskim vlastima,
ukazuju da je dosadašnji tok ''sudenja'' zasnovan na defileu svedoka
''iz druge ruke'' doživeo fijasko. Kako i ne bi kada su ''bosanski
svedoci'' pripremani na ideološko-propagandnoj matrici PR agencije
''Ruder Finn'', privatne obaveštajne korporacije ''Haklet'' ili Fonda
za humanitarno pravo.
Isto tako je poznato da su ''kosovski svedoci'' uglavnom regrutovani
policijskom audicijom koju je sproveo UNMIK po mestima i lokacijama
opisanim u štampanom OEBS-ovom izveštaju, pod nazivom ''Kako videno,
tako receno'', za koji je predgovor pisao jedan od organizatora
audicije Bernar Kušner. Na prvoj strani pomenutog izveštaja stoje reci
izvesnog Bila Klintona izrecene 23. novembra 1999. godine prilikom
posete tadašnjeg americkog predsednika Kosovu: ''Nikada necete moci da
zaboravite nepravdu koja vam je naneta. Niko ne može da vas natera da
oprostite ono što vam je ucinjeno. Ali, morate pokušati''.
Poruka je jasna. Pošto je prethodno dala znacajan doprinos naoružavanju
šiptarskih terorista, bombardovanju SR Jugoslavije i upalila zeleno
svetlo za etnicko cišcenje preko 200. 000 Srba sa Kosova, Klintonova
ekipa traži pokrice za svoje postupke i etnicki cisto Kosovo, koje je
rezultat njihove politike. Zato Klinton može da kaže da pokušaju da
poštuju medunarodne i civilizacijske standarde. Ako to i ne ucine,
nikom ništa. Nema pretnji, sankcija, nece padati bombe. Umesto toga
predstavnici bivše americke administracije im obecavaju ''nezavisno
Kosovo''.
Na toj platformi nastupa i otpušteni clan Klintonove ekipe, antisrpski
lobista Ricard Holbruk, koji još zahteva i da se SDS u Bosni proglasi
za nacisticku stranku. Po njemu je odbrana srpskih nacionalnih prava
nacizam, a ista takva odbrana hrvatskih ili muslimanskih prava
predstavlja legitimno pravo i civilizacijsku tekovinu. Nije naveo sa
koliko nula se piše lobiranje za to legitimno pravo i te tekovine. Tek
na ovako radikalnim istupanjima može da se potpuno sagleda ''moralna
beda'' antisrpskih lobista. Nažalost, ta ''moralna beda'' ima i svoju
realnu dimenziju i konkretne tvorevine na medunarodnom planu. Jedna od
njih je svakako i Tribunal u Hagu.
Ukoliko Glavni tužilac nekoliko godina po podizanju optužnice, na
sednici SB UN ''kuka'' za dokazima o državnom lancu komande u SR
Jugoslaviji, za pocinjene ''srpske zlocine'' (samo srpske) u gradanskom
ratu u Bosni, na cemu je onda bilo utemeljeno podizanje optužnice,
odnosno njeno proširenje na jugoslovenske zvanicnike. Ako tužilac, u
trenutku podizanja ili proširenja optužnice, nije posedovao
odgovarajuce dokaze, nego ih nekoliko godina kasnije panicno traži, na
cemu je onda zapravo zasnovana optužnica.
Zna se, na geopolitickim interesima velikih i regionalnih sila da
otklone prepreke u atomiziranju Balkana i stvore uslove za komadanje
Srbije. Medijski demonizovanim Srbima se mora ''medunarodnom presudom''
uskratiti pravo na suverenu i jedinstvenu državu.
U tome zajedno sa Haškim tribunalom ucestvuje i vlast u Srbiji dovedena
spolja režiranim pucem. ''Majka Haškog tribunala'' sa svojom
medunarodnom familijom ih je proglasila za vlast, i to na zgarištu
zapaljenih glasackih listica i zgrade Parlamenta. Sve to su zajednicki
nazvali istorijskom pobedom demokratije u Srbiji. Ta ''majka'' je inace
obezbedila sredstva za njihov dolazak na vlast. Pre toga je pozvala
NATO da bombarduje civilne ciljeve u SR Jugoslaviji kako bi se
transformisala volja naroda u pravcu prihvatanja njenih politickih
favorita. Njene dece.
Del Ponteova dobro zna od koga traži da dokaže odgovornost prethodne
vlasti u Jugoslaviji i Srbiji za zlocine u Bosni. Od svoje brace i
sestara ''po majci''.
Pošto su do sada izrucili sve optužene, osim Ratka Mladica (tvrdi se da
njega Širak ne želi da vidi u Hagu iz veoma licnih razloga), dobili su
zadatak da dostave i dokaze. Kada budu izrucili i poslednjeg od naredne
tridesetorice, kako najavljuje del Ponteova, srpske vlasti ce dobiti
zahtev da dokažu optužnice, kad vec ne može ona. Scenario je poznat.
Integracija u organizacije medunarodne zajednice i evroatlantske
strukture podrazumeva punu saradnju sa medunarodnom zajednicom. Ako je
preduslov uspešne saradnje dokazivanje ''srpskih zlocina'', to ce vlast
u Srbiji rutinski preuzeti kao ''tehnicki zadatak'' na otklanjanju bilo
kakve eventualne ''svade sa svetom''.
Ne treba sumnjati da ce vredno prionuti na ovaj zadatak jer ni oni nisu
zadovoljni dosadašnjim tokom sudenja. Priželjkuju preokret. Kako je to
lepo objasnio jedan od malobrojnih potpredsednika srpske vlade (poznati
ekspert za telekomunikacije, informacije, duvan, likvidacije,
bezbednost, decije sveznanje i sve ostalo) u cuvenoj izjavi: ''Ako se
sudenje ovako nastavi, mi cemo morati da bežimo iz zemlje''. Ne znam
samo u koju zemlju.
Del Ponteova je u istupanju na SB UN potvrdila da je u toku istraga u
13 prioritetnih slucajeva, koja bi mogla da dovede do 9 sudskih procesa
i 30 novih optužnica. Time se još jednom pokušala da izvrši pritisak na
lica koja za sada imaju tretman osumnjicenih. Poslala im je jasnu
poruku da, ukoliko ne budu ''kooperativni'' i ne pruže dokaze o
''srpskim zlocinima'' rizikuju da budu optuženi.
Zastrašivanje ''osumnjicenih'' joj je uzaludan posao.
Prvo, zato što je ''zlocinacko udruženje'' iz optužnice, fikcija Haškog
tribunala, i cele plejade organizacija placenih za demonizaciju Srba.
Cak i miljenici sadašnjih vlasti, pretekli u policijskim strukturama iz
''bivšeg režima'' su nedvosmisleno pokazali da ne žele da iznose
neistine. (na primer o Racku i slicnim tackama optužnice).
Drugo, ''strah od Haga'' sve više postaje relativna kategorija. Velika
vecina ''osumnjicenih'' ima jasnu predstavu o tome. Jer, nije danas
strašno biti u Hagu, bez obzira što je rec o zatvoru. Strašno je biti u
DOS-ovoj Srbiji.
To bar nije teško dokazati.
A majka Haškog tribunala se odmara u zasluženoj penziji. Bilo je zaista
teško realizovati koncepte ''humanitarne intervencije'', ''diplomatije
sile'' i ''vladavine opozicije''. Ali, nije ona kriva za sve to.
Za sve je kriv Džozef Olbrajt, koji je osamdesetih godina prošlog veka
došao kuci i saopštio svojoj supruzi: ''Gotovo je, ženim se sa
Maršom''. Tako je Madlen bila prinudena da nade novu porodicu. I novu
decu. A deca - vršljaju li, vršljaju...
To bar nije teško dokazati.
http://www.artel.co.yu/sr/reakcije_citalaca/2003-10-16.html
Beograd, 15. oktobar 2003. godine
Karla del Ponte priznala da nema dokaze.
Glavni tužilac Haškog tribunala Karla del Ponte optužila je u Savetu
bezbednosti UN vlasti u Beogradu da nedovoljno saraduju sa Tribunalom i
da zadržavaju važna dokazna dokumenta'' - prenosi Fonet 10. oktobra
2003. godine.
U intervjuu za BBC ona je izjavila da su je poslednji razgovori u
Beogradu naveli da ne da pozitivniju ocenu saradnji Srbije i Crne Gore
s Hagom. Na pitanje šta se to u Beogradu desilo što je toliko promenilo
njeno mišljenje, odgovorila je da je rec o "raznim stvarima''. ''Ono na
šta se odnosila moja recenica u izveštaju tice se dokumenata iz perioda
rata u Bosni. Oni su odbili da mi daju ta dokumenta koja su mi potrebna
za sudski postupak protiv Miloševica. Zvanicno obrazloženje bilo je da
bi time bila ugrožena nacionalna bezbednost, ali u suštini, i to mi je
receno nezvanicno, radi se o postupku pred Medunarodnim sudom pravde i
strahom vlasti da bi ta dokumenta mogla biti iskorišcena u tužbi BiH i
Hrvatske protiv Beograda", rekla je ona. "Moram vam reci da je takvo
obrazloženje za mene neprihvatljivo", naglasila je Karla del Ponte,
dodajuci da ce od sudskog veca Haškog tribunala tražiti da se Beogradu
naloži da preda ta dokumenta.
U vezi s hapšenjem Ratka Mladica, Karla del Ponte je ponovila da joj je
iz razlicitih izvora potvrdeno da je on u Srbiji, što je ona "još
jednom predocila i vlastima u Begradu i zatražila njegovo hapšenje".
"Oni to nisu porekli, ali cini se da je, po svemu sudeci, teško
utvrditi njegovu tacnu lokaciju i uhapsiti ga. No, videcemo. Mislim da
u tom slucaju medunarodna zajednica može odigrati važnu ulogu, cemu se
i nadam".
Poslednje istupanje Karle del Ponte u SB UN, kao i aktuelne javne
izjave još jednom su potvrdile politikantski (politicki je suviše
ozbiljna rec) karakter njene funkcije i uloge. Nastavljajuci antisrpsku
kampanju ''majke Haškog tribunala'' (Madlen Olbrajt), del Ponteova je u
svojim nastupima potvrdila neutemeljenost dosadašnjih politickih
optužnica. Panicni zahtevi za dokazima, upuceni srpskim vlastima,
ukazuju da je dosadašnji tok ''sudenja'' zasnovan na defileu svedoka
''iz druge ruke'' doživeo fijasko. Kako i ne bi kada su ''bosanski
svedoci'' pripremani na ideološko-propagandnoj matrici PR agencije
''Ruder Finn'', privatne obaveštajne korporacije ''Haklet'' ili Fonda
za humanitarno pravo.
Isto tako je poznato da su ''kosovski svedoci'' uglavnom regrutovani
policijskom audicijom koju je sproveo UNMIK po mestima i lokacijama
opisanim u štampanom OEBS-ovom izveštaju, pod nazivom ''Kako videno,
tako receno'', za koji je predgovor pisao jedan od organizatora
audicije Bernar Kušner. Na prvoj strani pomenutog izveštaja stoje reci
izvesnog Bila Klintona izrecene 23. novembra 1999. godine prilikom
posete tadašnjeg americkog predsednika Kosovu: ''Nikada necete moci da
zaboravite nepravdu koja vam je naneta. Niko ne može da vas natera da
oprostite ono što vam je ucinjeno. Ali, morate pokušati''.
Poruka je jasna. Pošto je prethodno dala znacajan doprinos naoružavanju
šiptarskih terorista, bombardovanju SR Jugoslavije i upalila zeleno
svetlo za etnicko cišcenje preko 200. 000 Srba sa Kosova, Klintonova
ekipa traži pokrice za svoje postupke i etnicki cisto Kosovo, koje je
rezultat njihove politike. Zato Klinton može da kaže da pokušaju da
poštuju medunarodne i civilizacijske standarde. Ako to i ne ucine,
nikom ništa. Nema pretnji, sankcija, nece padati bombe. Umesto toga
predstavnici bivše americke administracije im obecavaju ''nezavisno
Kosovo''.
Na toj platformi nastupa i otpušteni clan Klintonove ekipe, antisrpski
lobista Ricard Holbruk, koji još zahteva i da se SDS u Bosni proglasi
za nacisticku stranku. Po njemu je odbrana srpskih nacionalnih prava
nacizam, a ista takva odbrana hrvatskih ili muslimanskih prava
predstavlja legitimno pravo i civilizacijsku tekovinu. Nije naveo sa
koliko nula se piše lobiranje za to legitimno pravo i te tekovine. Tek
na ovako radikalnim istupanjima može da se potpuno sagleda ''moralna
beda'' antisrpskih lobista. Nažalost, ta ''moralna beda'' ima i svoju
realnu dimenziju i konkretne tvorevine na medunarodnom planu. Jedna od
njih je svakako i Tribunal u Hagu.
Ukoliko Glavni tužilac nekoliko godina po podizanju optužnice, na
sednici SB UN ''kuka'' za dokazima o državnom lancu komande u SR
Jugoslaviji, za pocinjene ''srpske zlocine'' (samo srpske) u gradanskom
ratu u Bosni, na cemu je onda bilo utemeljeno podizanje optužnice,
odnosno njeno proširenje na jugoslovenske zvanicnike. Ako tužilac, u
trenutku podizanja ili proširenja optužnice, nije posedovao
odgovarajuce dokaze, nego ih nekoliko godina kasnije panicno traži, na
cemu je onda zapravo zasnovana optužnica.
Zna se, na geopolitickim interesima velikih i regionalnih sila da
otklone prepreke u atomiziranju Balkana i stvore uslove za komadanje
Srbije. Medijski demonizovanim Srbima se mora ''medunarodnom presudom''
uskratiti pravo na suverenu i jedinstvenu državu.
U tome zajedno sa Haškim tribunalom ucestvuje i vlast u Srbiji dovedena
spolja režiranim pucem. ''Majka Haškog tribunala'' sa svojom
medunarodnom familijom ih je proglasila za vlast, i to na zgarištu
zapaljenih glasackih listica i zgrade Parlamenta. Sve to su zajednicki
nazvali istorijskom pobedom demokratije u Srbiji. Ta ''majka'' je inace
obezbedila sredstva za njihov dolazak na vlast. Pre toga je pozvala
NATO da bombarduje civilne ciljeve u SR Jugoslaviji kako bi se
transformisala volja naroda u pravcu prihvatanja njenih politickih
favorita. Njene dece.
Del Ponteova dobro zna od koga traži da dokaže odgovornost prethodne
vlasti u Jugoslaviji i Srbiji za zlocine u Bosni. Od svoje brace i
sestara ''po majci''.
Pošto su do sada izrucili sve optužene, osim Ratka Mladica (tvrdi se da
njega Širak ne želi da vidi u Hagu iz veoma licnih razloga), dobili su
zadatak da dostave i dokaze. Kada budu izrucili i poslednjeg od naredne
tridesetorice, kako najavljuje del Ponteova, srpske vlasti ce dobiti
zahtev da dokažu optužnice, kad vec ne može ona. Scenario je poznat.
Integracija u organizacije medunarodne zajednice i evroatlantske
strukture podrazumeva punu saradnju sa medunarodnom zajednicom. Ako je
preduslov uspešne saradnje dokazivanje ''srpskih zlocina'', to ce vlast
u Srbiji rutinski preuzeti kao ''tehnicki zadatak'' na otklanjanju bilo
kakve eventualne ''svade sa svetom''.
Ne treba sumnjati da ce vredno prionuti na ovaj zadatak jer ni oni nisu
zadovoljni dosadašnjim tokom sudenja. Priželjkuju preokret. Kako je to
lepo objasnio jedan od malobrojnih potpredsednika srpske vlade (poznati
ekspert za telekomunikacije, informacije, duvan, likvidacije,
bezbednost, decije sveznanje i sve ostalo) u cuvenoj izjavi: ''Ako se
sudenje ovako nastavi, mi cemo morati da bežimo iz zemlje''. Ne znam
samo u koju zemlju.
Del Ponteova je u istupanju na SB UN potvrdila da je u toku istraga u
13 prioritetnih slucajeva, koja bi mogla da dovede do 9 sudskih procesa
i 30 novih optužnica. Time se još jednom pokušala da izvrši pritisak na
lica koja za sada imaju tretman osumnjicenih. Poslala im je jasnu
poruku da, ukoliko ne budu ''kooperativni'' i ne pruže dokaze o
''srpskim zlocinima'' rizikuju da budu optuženi.
Zastrašivanje ''osumnjicenih'' joj je uzaludan posao.
Prvo, zato što je ''zlocinacko udruženje'' iz optužnice, fikcija Haškog
tribunala, i cele plejade organizacija placenih za demonizaciju Srba.
Cak i miljenici sadašnjih vlasti, pretekli u policijskim strukturama iz
''bivšeg režima'' su nedvosmisleno pokazali da ne žele da iznose
neistine. (na primer o Racku i slicnim tackama optužnice).
Drugo, ''strah od Haga'' sve više postaje relativna kategorija. Velika
vecina ''osumnjicenih'' ima jasnu predstavu o tome. Jer, nije danas
strašno biti u Hagu, bez obzira što je rec o zatvoru. Strašno je biti u
DOS-ovoj Srbiji.
To bar nije teško dokazati.
A majka Haškog tribunala se odmara u zasluženoj penziji. Bilo je zaista
teško realizovati koncepte ''humanitarne intervencije'', ''diplomatije
sile'' i ''vladavine opozicije''. Ali, nije ona kriva za sve to.
Za sve je kriv Džozef Olbrajt, koji je osamdesetih godina prošlog veka
došao kuci i saopštio svojoj supruzi: ''Gotovo je, ženim se sa
Maršom''. Tako je Madlen bila prinudena da nade novu porodicu. I novu
decu. A deca - vršljaju li, vršljaju...
To bar nije teško dokazati.
Data: Fri, 17 Oct 2003 14:11:07 +0200
Da: Radio Città Aperta <segreteria@...>
Oggetto: "L'onda lunga". Iniziative per i 25 anni di Radio Città
Aperta
"L'onda lunga"
Radio Città Aperta 88,9 mhz compie venticinque anni
Giovedi 30 ottobre, ore 18.00
Alla Casa delle Culture, via S.Crisogono 45
Dibattito - memoria - ricostruzione storica
La meglio gioventù
Radio Città Aperta: venticinque anni di storia e trasmissioni dentro i
movimenti remando contro i poteri forti e il conformismo
Intervista collettiva degli studenti dell'Università "La Sapienza" con:
Sergio Cararo, Prince Faster, Franco Ottaviano, Fabio Giovannini,
Vincenzo Miliucci, Giovanni Russo Spena, Francesco Piccioni
Venerdi 7 novembre, ore 21.30
Ex Bocciodromo (Vecchio Mattatoio)
Via Monte Testaccio 23
Concerto con
Mikey Dread
E poi serata con i D.J. di Radio Città Aperta
(Entrata 5 euro a sottoscrizione)
Radio Città Aperta 88,9 mhz
Quotidiano multimediale di resistenza
Lo puoi ascoltare sugli 88,9 mhz - lo puoi leggere su
www.radiocittaperta.it
Lo puoi scrivere a: lettere@...; puoi intervenire
telefonando a:
06-4393512 o inviando gli sms al 340-3605299
Da: Radio Città Aperta <segreteria@...>
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Aperta
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Giovedi 30 ottobre, ore 18.00
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Dibattito - memoria - ricostruzione storica
La meglio gioventù
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movimenti remando contro i poteri forti e il conformismo
Intervista collettiva degli studenti dell'Università "La Sapienza" con:
Sergio Cararo, Prince Faster, Franco Ottaviano, Fabio Giovannini,
Vincenzo Miliucci, Giovanni Russo Spena, Francesco Piccioni
Venerdi 7 novembre, ore 21.30
Ex Bocciodromo (Vecchio Mattatoio)
Via Monte Testaccio 23
Concerto con
Mikey Dread
E poi serata con i D.J. di Radio Città Aperta
(Entrata 5 euro a sottoscrizione)
Radio Città Aperta 88,9 mhz
Quotidiano multimediale di resistenza
Lo puoi ascoltare sugli 88,9 mhz - lo puoi leggere su
www.radiocittaperta.it
Lo puoi scrivere a: lettere@...; puoi intervenire
telefonando a:
06-4393512 o inviando gli sms al 340-3605299
http://www.balkans.eu.org/article3659.html
DELO
Slovénie : une euro-région au profit de Trieste ?
TRADUIT PAR ELENA MALINOVSKA VISNAR
Publié dans la presse : 28 septembre 2003
Mise en ligne : lundi 6 octobre 2003
Un projet d’euro-région a été lancé par l’ancien maire de Trieste et
actuel gouverneur du Frioul-Julienne, Riccardo Illy ; l’ensemble
« adriatico-alpin » comprendrait la région italienne de
Frioul-Vénétie-Julienne, la Carinthie autrichienne, une partie de la
Slovénie et l’Istrie croate. Mais au profit de qui ?
Par Boris Jez
Comment les pêcheurs de Piran, d’Umag et de la Chioggia italienne
pourraient-ils parvenir à se comprendre dans quelques années ? La
question paraît triviale, mais elle est au cœur même d’un processus
diplomatique amorcé par Bruxelles. Ces pêcheurs - qui se sont disputés,
pris aux cheveux et parfois battus pendant des siècles - pourraient
vivre à l’avenir dans une « eurorégion » commune, susceptible d’avoir
plus de force de gravitation que les États-nations eux-mêmes. Y
croyez-vous ?
Francis Fukuyama restera dans l’histoire pour y avoir prédit la fin de
celle-ci. Mais l’histoire recommence, non seulement en Afghanistan, en
Irak ou en Corée, mais également en Europe. « Même » sur le vieux
continent, il y a de nouveaux États, la configuration politique est
très dynamique, et Bruxelles et Strasbourg mettent en branle un avenir
continental - sans parfois demander conseil à quiconque. Ainsi, nous,
les sujets, sommes obligés de vivre avec une nouvelle configuration
politique - comme si nous n’avions pas suffisamment de problèmes avec
les communes, les régions, les frontières, … À peine avons-nous pu
reprendre notre souffle depuis l’indépendance que nous sommes plongés
jusqu’aux oreilles dans les questions territoriales, du Golfe de Piran
jusqu’à la dernière tentative de l’usurpation de la partie
internationale de l’Adriatique [1].
Les Croates se sont d’ailleurs fait taper sur les doigts récemment,
mais il ne faut pas crier victoire trop rapidement : l’histoire n’est
pas encore terminée. Et cette histoire comprend désormais la région
italienne de Frioul-Vénétie-Julienne, la Carinthie autrichienne, une
partie de la Slovénie et l’Istrie et Rijeka, incluant Gorski Kotar.
L’initiateur est notre bon ami l’ancien maire de Trieste et actuel
gouverneur du Frioul-Julienne, Riccardo Illy. Et je pense qu’il faut
faire confiance à ses bonnes intentions : coopération entre les ports,
corridors de circulation, infrastructure énergétique commune, etc. Il a
vraisemblablement parlé de ce projet lorsqu’il était de passage à
Ljubljana récemment. Tout comme il doit le faire dans quelques jours, à
Venise et à Vienne, et probablement à Zagreb avec Stipe Mesic.
Devrions-nous de prime abord nous opposer à un pareil projet ? A
première vue, non. La Slovénie milite pour la création des « ponts »
(entre les nations et les pays), donc pour des frontières ouvertes et
une coopération croissante. Pourtant, une petite dose de scepticisme ne
nuit pas : pourquoi inclure ces régions dans un conglomérat
« alpino-adriatique », présenté comme étant une « euro-région » ? Et
pourquoi pas les autres ? Les réseaux de transport sont d’une grande
signification dans cette région, mais… Pour qui ? Tout d’abord,
évidemment, pour Trieste et le Frioul-Julienne, qui se voient déjà
comme étant l’épicentre de cet euro-territoire post-féodal.
Et que veut dire « une partie de la Slovénie », dans le vocabulaire
d’Illy ? Cela s’étend jusqu’à la frontière de Rappal, donc jusqu’à
Postojna… Ainsi, l’on pourrait de nouveau boucler l’hinterland de
Trieste, et assurer le contrôle du transport jusqu’à Rijeka et surtout
en direction du « Corridor 5 », où les intérêts italiens sont criants.
Nous ne pouvons pas ne pas y penser, parce que cette « Realpolitik »
n’est pas seulement appuyée historiquement, elle est également évidente
dans les initiatives diplomatiques actuelles.
Les politiciens slovènes devraient comprendre que cette ambiance
puérile dans laquelle l’Europe baignait après la chute du Mur de Berlin
n’existe plus. Une nouvelle dynamique ébranle l’Europe, et ne se
reflète pas seulement dans les offensives françaises pour assujettir
juridiquement et constitutionnellement les petits États (comme dans la
constitution de Valéry Giscard d’Estaing) : il semble qu’une vague de
fond fouette l’Europe. La Croatie, par exemple, tente de peser de tout
son poids et use de tous les moyens pour faire figure de « puissance
régionale » : le différend sur les eaux territoriales internationales
dans l’Adriatique ne sont pas l’œuvre de quelque manœuvre
pré-électorale, il s’agit bel et bien d’une orientation stratégique à
long terme, et au détriment de la Slovénie.
Alors, quelle euro-région ? C’est n’importe quoi ! Comment les pêcheurs
de Chiogge, d’Umag et du Piran se comprendront si le premier ne veut
pas entendre de langues étrangères dans son village, si le Croate ne
veut pas entendre un mot de slovène… ? Le « multiculturalisme » existe
essentiellement chez ceux qui pensent d’abord à créer une grande
« région d’Istrie » - ils sont bien entendu à Trieste… qui ne se trouve
même pas en Istrie ! Et maintenant Illy modernise le concept pour y
intégrer Haider et les Vénitiens. Ces euro-régions sont des puzzles qui
se construisent avec le capital, alors que les gens pensent bien sûr
autrement. Malheureusement, ils ne disent rien…
Comme par hasard, le Guardian de Londres fut le premier à parler de
cette combinaison du « hinterland » du Nord de l’Adriatique, en y
identifiant la marque d’une « connexion » austro-vénitienne. En somme,
les Anglais ne donneraient pas leur bénédiction à ce projet à cause de
Haider, mais aussi et surtout à cause de leurs intérêts traditionnels
dans cette partie de l’Europe. On ne peut pas créer les euro-régions
aussi simplement, ad hoc, comme l’estiment quelques maires et hommes
politiques influents : si les régions sont importantes pour l’Europe du
futur, il faut tout d’abord se plonger dans un débat sérieux, avant que
d’y laisser entrer les instances du grand capital. Les euro-régions
esquissées à Bruxelles, sont-elles une réincarnation de la géographie
féodale ? Quelles seront leurs relations avec les États-nations ?
La politique slovène semble désorientée, même s’il existe presque un
consensus national en faveur de la non-division du territoire national
en régions. Il est facile de partager l’Allemagne en euro-régions : il
est clair à l’avance que le pays restera uni. Mais pour la Slovénie
minuscule, ceci pourrait être fatal. A ce propos : quand Illy
apprendra-t-il le slovène, et quand changera-t-il d’opinion à propos de
« l’absence » de bilinguisme à Trieste ?
On ne peut pas réduire ces contradictions au plus petit dénominateur
commun. La Slovénie est tout simplement prise dans une nouvelle
tempête, celle du « regroupement » en Europe, où elle ne se sent pas
pour le mieux, parce que les initiatives sont prises par les autres,
par la Croatie, par le Frioul, etc. Ljubljana n’a pas réussi pour le
moment à se présenter et à s’établir comme le centre potentiel d’une
région plus large, même si elle le mériterait par son statut ainsi que
par sa position géographique. Les autres veulent nous prendre par
morceaux, de la mer jusqu’à la frontière de Rappal. La Slovénie agace
ses voisins par sa situation géographique, parce qu’elle fait obstacle
aux multiples communications du Nord vers le Sud et de l’Ouest à l’Est.
Le recueil intitulé « Le morcellement de la Slovénie », édité en 2001 à
Velenje, a attiré l’attention sur ces problèmes. Le Dr. France Bucar y
dit : « Si nous considérons la situation en Europe centrale (où une
partie des petits pays affrontent de grands voisins qui, par le passé
et même aujourd’hui, revendiquent des parts de ces petits États comme
étant partie prenante de leur propre territoire national), la formation
des régions mixtes serait un feu vert à l’annexion répétée de ces pays
aux puissances impériales d’autrefois. De telles régions serviraient
aux anciennes puissances impériales de formule très élégante pour
s’approprier des territoires… »
En somme, la Slovénie s’est retrouvée dans un environnement
exceptionnellement dynamique, et elle fait trop peu pour être un acteur
actif de cet environnement : notre politique étrangère est trop peu
animée, et il semble qu’après l’entrée à l’OTAN et à l’UE, elle oublie
sa « petitesse » régionale, qui pourrait s’accentuer dans le futur de
manière significative. De toute façon, il est évident que la Slovénie
ne peut pas naviguer entre l’Europe et les États-Unis, comme le fait
Berlusconi : elle doit d’abord trouver son rôle parmi ses voisines pour
enfin faire sa place.
(Mise en forme : Étienne Dubé)
[1] Voir nos articles, Slovénie-Croatie : partie d’échecs sur
l’Adriatique et Slovénie-Croatie : la zone exclusive des désaccords.
DELO
Slovénie : une euro-région au profit de Trieste ?
TRADUIT PAR ELENA MALINOVSKA VISNAR
Publié dans la presse : 28 septembre 2003
Mise en ligne : lundi 6 octobre 2003
Un projet d’euro-région a été lancé par l’ancien maire de Trieste et
actuel gouverneur du Frioul-Julienne, Riccardo Illy ; l’ensemble
« adriatico-alpin » comprendrait la région italienne de
Frioul-Vénétie-Julienne, la Carinthie autrichienne, une partie de la
Slovénie et l’Istrie croate. Mais au profit de qui ?
Par Boris Jez
Comment les pêcheurs de Piran, d’Umag et de la Chioggia italienne
pourraient-ils parvenir à se comprendre dans quelques années ? La
question paraît triviale, mais elle est au cœur même d’un processus
diplomatique amorcé par Bruxelles. Ces pêcheurs - qui se sont disputés,
pris aux cheveux et parfois battus pendant des siècles - pourraient
vivre à l’avenir dans une « eurorégion » commune, susceptible d’avoir
plus de force de gravitation que les États-nations eux-mêmes. Y
croyez-vous ?
Francis Fukuyama restera dans l’histoire pour y avoir prédit la fin de
celle-ci. Mais l’histoire recommence, non seulement en Afghanistan, en
Irak ou en Corée, mais également en Europe. « Même » sur le vieux
continent, il y a de nouveaux États, la configuration politique est
très dynamique, et Bruxelles et Strasbourg mettent en branle un avenir
continental - sans parfois demander conseil à quiconque. Ainsi, nous,
les sujets, sommes obligés de vivre avec une nouvelle configuration
politique - comme si nous n’avions pas suffisamment de problèmes avec
les communes, les régions, les frontières, … À peine avons-nous pu
reprendre notre souffle depuis l’indépendance que nous sommes plongés
jusqu’aux oreilles dans les questions territoriales, du Golfe de Piran
jusqu’à la dernière tentative de l’usurpation de la partie
internationale de l’Adriatique [1].
Les Croates se sont d’ailleurs fait taper sur les doigts récemment,
mais il ne faut pas crier victoire trop rapidement : l’histoire n’est
pas encore terminée. Et cette histoire comprend désormais la région
italienne de Frioul-Vénétie-Julienne, la Carinthie autrichienne, une
partie de la Slovénie et l’Istrie et Rijeka, incluant Gorski Kotar.
L’initiateur est notre bon ami l’ancien maire de Trieste et actuel
gouverneur du Frioul-Julienne, Riccardo Illy. Et je pense qu’il faut
faire confiance à ses bonnes intentions : coopération entre les ports,
corridors de circulation, infrastructure énergétique commune, etc. Il a
vraisemblablement parlé de ce projet lorsqu’il était de passage à
Ljubljana récemment. Tout comme il doit le faire dans quelques jours, à
Venise et à Vienne, et probablement à Zagreb avec Stipe Mesic.
Devrions-nous de prime abord nous opposer à un pareil projet ? A
première vue, non. La Slovénie milite pour la création des « ponts »
(entre les nations et les pays), donc pour des frontières ouvertes et
une coopération croissante. Pourtant, une petite dose de scepticisme ne
nuit pas : pourquoi inclure ces régions dans un conglomérat
« alpino-adriatique », présenté comme étant une « euro-région » ? Et
pourquoi pas les autres ? Les réseaux de transport sont d’une grande
signification dans cette région, mais… Pour qui ? Tout d’abord,
évidemment, pour Trieste et le Frioul-Julienne, qui se voient déjà
comme étant l’épicentre de cet euro-territoire post-féodal.
Et que veut dire « une partie de la Slovénie », dans le vocabulaire
d’Illy ? Cela s’étend jusqu’à la frontière de Rappal, donc jusqu’à
Postojna… Ainsi, l’on pourrait de nouveau boucler l’hinterland de
Trieste, et assurer le contrôle du transport jusqu’à Rijeka et surtout
en direction du « Corridor 5 », où les intérêts italiens sont criants.
Nous ne pouvons pas ne pas y penser, parce que cette « Realpolitik »
n’est pas seulement appuyée historiquement, elle est également évidente
dans les initiatives diplomatiques actuelles.
Les politiciens slovènes devraient comprendre que cette ambiance
puérile dans laquelle l’Europe baignait après la chute du Mur de Berlin
n’existe plus. Une nouvelle dynamique ébranle l’Europe, et ne se
reflète pas seulement dans les offensives françaises pour assujettir
juridiquement et constitutionnellement les petits États (comme dans la
constitution de Valéry Giscard d’Estaing) : il semble qu’une vague de
fond fouette l’Europe. La Croatie, par exemple, tente de peser de tout
son poids et use de tous les moyens pour faire figure de « puissance
régionale » : le différend sur les eaux territoriales internationales
dans l’Adriatique ne sont pas l’œuvre de quelque manœuvre
pré-électorale, il s’agit bel et bien d’une orientation stratégique à
long terme, et au détriment de la Slovénie.
Alors, quelle euro-région ? C’est n’importe quoi ! Comment les pêcheurs
de Chiogge, d’Umag et du Piran se comprendront si le premier ne veut
pas entendre de langues étrangères dans son village, si le Croate ne
veut pas entendre un mot de slovène… ? Le « multiculturalisme » existe
essentiellement chez ceux qui pensent d’abord à créer une grande
« région d’Istrie » - ils sont bien entendu à Trieste… qui ne se trouve
même pas en Istrie ! Et maintenant Illy modernise le concept pour y
intégrer Haider et les Vénitiens. Ces euro-régions sont des puzzles qui
se construisent avec le capital, alors que les gens pensent bien sûr
autrement. Malheureusement, ils ne disent rien…
Comme par hasard, le Guardian de Londres fut le premier à parler de
cette combinaison du « hinterland » du Nord de l’Adriatique, en y
identifiant la marque d’une « connexion » austro-vénitienne. En somme,
les Anglais ne donneraient pas leur bénédiction à ce projet à cause de
Haider, mais aussi et surtout à cause de leurs intérêts traditionnels
dans cette partie de l’Europe. On ne peut pas créer les euro-régions
aussi simplement, ad hoc, comme l’estiment quelques maires et hommes
politiques influents : si les régions sont importantes pour l’Europe du
futur, il faut tout d’abord se plonger dans un débat sérieux, avant que
d’y laisser entrer les instances du grand capital. Les euro-régions
esquissées à Bruxelles, sont-elles une réincarnation de la géographie
féodale ? Quelles seront leurs relations avec les États-nations ?
La politique slovène semble désorientée, même s’il existe presque un
consensus national en faveur de la non-division du territoire national
en régions. Il est facile de partager l’Allemagne en euro-régions : il
est clair à l’avance que le pays restera uni. Mais pour la Slovénie
minuscule, ceci pourrait être fatal. A ce propos : quand Illy
apprendra-t-il le slovène, et quand changera-t-il d’opinion à propos de
« l’absence » de bilinguisme à Trieste ?
On ne peut pas réduire ces contradictions au plus petit dénominateur
commun. La Slovénie est tout simplement prise dans une nouvelle
tempête, celle du « regroupement » en Europe, où elle ne se sent pas
pour le mieux, parce que les initiatives sont prises par les autres,
par la Croatie, par le Frioul, etc. Ljubljana n’a pas réussi pour le
moment à se présenter et à s’établir comme le centre potentiel d’une
région plus large, même si elle le mériterait par son statut ainsi que
par sa position géographique. Les autres veulent nous prendre par
morceaux, de la mer jusqu’à la frontière de Rappal. La Slovénie agace
ses voisins par sa situation géographique, parce qu’elle fait obstacle
aux multiples communications du Nord vers le Sud et de l’Ouest à l’Est.
Le recueil intitulé « Le morcellement de la Slovénie », édité en 2001 à
Velenje, a attiré l’attention sur ces problèmes. Le Dr. France Bucar y
dit : « Si nous considérons la situation en Europe centrale (où une
partie des petits pays affrontent de grands voisins qui, par le passé
et même aujourd’hui, revendiquent des parts de ces petits États comme
étant partie prenante de leur propre territoire national), la formation
des régions mixtes serait un feu vert à l’annexion répétée de ces pays
aux puissances impériales d’autrefois. De telles régions serviraient
aux anciennes puissances impériales de formule très élégante pour
s’approprier des territoires… »
En somme, la Slovénie s’est retrouvée dans un environnement
exceptionnellement dynamique, et elle fait trop peu pour être un acteur
actif de cet environnement : notre politique étrangère est trop peu
animée, et il semble qu’après l’entrée à l’OTAN et à l’UE, elle oublie
sa « petitesse » régionale, qui pourrait s’accentuer dans le futur de
manière significative. De toute façon, il est évident que la Slovénie
ne peut pas naviguer entre l’Europe et les États-Unis, comme le fait
Berlusconi : elle doit d’abord trouver son rôle parmi ses voisines pour
enfin faire sa place.
(Mise en forme : Étienne Dubé)
[1] Voir nos articles, Slovénie-Croatie : partie d’échecs sur
l’Adriatique et Slovénie-Croatie : la zone exclusive des désaccords.
History of misinformation tarnishes Clark's military record
--- LINKS:
CHECK THE GENERAL'S SENSES
http://www.webheaven.co.yu/nato/general.htm
Wesley Clark farà domani il contrario di ciò che ha fatto ieri?
in english:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2822
en francais:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2811
in italiano:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2825
Wesley Clark, un “nuovo patriota” verso la Casa Bianca
http://www.clorofilla.it/articolo.asp?articolo=3316
Wesley Clark for President? A Ticket to Armageddon
(by TV Weber)
http://www.serbianna.com/columns/weber/007.shtml
NY Sun: Clark's Misinformation Problem
(by Thomas Lipscomb)
http://www.freerepublic.com/focus/f-news/996650/posts
--- MORE FROM OUR PREVIOUS MAILINGS:
Wesley Clark War Crimes amply documented
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2822
War Criminal Wesley Clark for President?
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2795
===
Chicago Sun-Times - Other views
http://www.suntimes.com/output/otherviews/cst-edt-clark06.html
History of misinformation tarnishes Clark's military record
October 6, 2003
BY THOMAS H. LIPSCOMB
The latest entry in the Democratic presidential candidate lineup has
rocketed to become the top candidate within two weeks of his
announcement. Wesley Clark is a retired general and a Rhodes scholar,
and he served as NATO commander during the Kosovo War as well as a CNN
commentator during the Iraq war this spring. His words of July 11 sound
like the kind of straight talk that could reassure Americans
increasingly uncertain about the direction of the war in Iraq: "When I
was in the military," he said, "I took an oath to uphold the
Constitution. There is nothing in the Constitution that says you can
mislead people."
But in one astonishing statement three days before Clark announced his
candidacy, Clark's former boss, Gen. H. Hugh Shelton, raised the most
serious questions about Clark's military record, which is, of course,
all he really has to run on. Shelton, who was chairman of the Joint
Chiefs of Staff on 9/11, said: "I've known Wes a long time. I will tell
you the reason he came out of Europe early had to do with integrity and
character, issues that are very near and dear to my heart."
According to military historian Thomas Fleming, "This is the most
critical statement by one senior military officer on the record on the
conduct of another in the history of the United States armed forces."
Shelton is not alone in his opinion. Clark is widely disliked in the
Army. Many commentators wondered at the time why Clark "came out of
Europe early." It was unheard of for Clark or any NATO commander to be
relieved months before his tour was up and quickly retired. Now Shelton
has revealed that the reason Clark was relieved involved issues of
"integrity and character." Within the military code there could be no
more damning statement.
There are clues to Shelton's indictment from Clark's Kosovo campaign.
The war began after a chorus of charges that the Serbians were
unleashing genocidal holocaust upon Kosovars, Albanians and other
largely Muslim minorities. And the NATO commander's headquarters
rapidly became an echo of the "five o'clock follies" of press
misinformation at Army headquarters in Saigon two decades earlier.
Here are a few examples: There were supposed to be 100,000 prisoners
detained by the Serbs in a soccer stadium in Pristina. An Agence France
Presse reporter dropped by the stadium a few days later and admired its
green grass and empty seats with the single caretaker on the site.
NATO headquarters passed along Albanian allegations that Serbian
victims were being incinerated at a Trpca mine smelter. But when
interviewed by reporter Ben Works, NATO officers admitted they had
monitored the site during the entire war and the smelter had never been
fired up.
Even the NATO bomb-damage assessment team Clark sent in after the truce
found that instead of the several hundred Serbian tanks Clark had
claimed were destroyed by his air war, there were only 12 and about as
many personnel carriers. As for atrocities, according to Works, Clark's
team found "no credible indications of large scale atrocities or any
other pattern of smaller scale crimes against humanity."
If Clark was singularly unsuccessful in his high-altitude air war on
the Serb forces, which he had predicted would bring victory in a few
days, it caused a lot of civilian casualties. Besides blowing up the
Chinese Embassy, some civilian convoys, a lot of radio and TV
facilities, and an amazing number of chicken coops, one incident stands
out. A train loaded with civilians was crossing a bridge near Grdelica
when it was attacked by NATO F-15s. A dozen were killed and many
wounded. In briefing the press Clark termed it "unfortunate." Clark ran
gun camera photo footage. "You can see if you are focusing on your job
as a pilot how suddenly that train appeared." NATO was claiming their
target was the bridge and the train was moving so fast they couldn't
reinstruct the missile in time to avoid the train.
Looking at the film the train does appear to suddenly jump into the
frame. There was only one problem: According to the Ottawa Citizen's
Scott Taylor, the film had been doctored. The F-15s had made two passes
and hit the bridge the first time, knocking out the train's electrical
power. On the second pass, they hit the train. The two segments were
spliced together so it looked like the stationary train was moving.
This is not the only time Clark suffered from the failure of monitoring
cameras. Cameras also failed at the tragic bombing at the village of
Korisa which killed 87 Albanian civilians, and at the final assault on
the Koresh compound at Waco. Eighty six civilians were killed in the
assault, in which 17 armored vehicles and personnel as well from the
First Cavalry Division at Ft. Hood commanded by Clark participated.
Mistakes happen. Subordinates send up bad or intentionally skewed
information. The fog of war makes any headquarters press communications
difficult at best. But if Shelton and Defense Secretary Bill Cohen were
receiving reports as misleading as the ones furnished to the press by
Clark's headquarters it couldn't have made their task any easier.
Clark is the leading Democratic candidate for president. He is also the
only candidate who is registered with several agencies, including the
Defense Department, as a paid lobbyist. To avoid a possible conflict of
interest, did he tell CNN he was a registered Defense lobbyist when he
signed on as their on-air military commentator? According to CNN
spokesman Mark Furman, "We did not know." When CNN fired him, Clark
blamed the influence of President Bush, which CNN denied.
Perhaps for Wesley Clark, like Bill Clinton, another brilliant Rhodes
Scholar Arkansan who served as Clark's commander in chief, it may
depend on what the word "mislead" means.
Thomas H. Lipscomb is chairman of the Center for the Digital Future in
New York.
--- LINKS:
CHECK THE GENERAL'S SENSES
http://www.webheaven.co.yu/nato/general.htm
Wesley Clark farà domani il contrario di ciò che ha fatto ieri?
in english:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2822
en francais:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2811
in italiano:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2825
Wesley Clark, un “nuovo patriota” verso la Casa Bianca
http://www.clorofilla.it/articolo.asp?articolo=3316
Wesley Clark for President? A Ticket to Armageddon
(by TV Weber)
http://www.serbianna.com/columns/weber/007.shtml
NY Sun: Clark's Misinformation Problem
(by Thomas Lipscomb)
http://www.freerepublic.com/focus/f-news/996650/posts
--- MORE FROM OUR PREVIOUS MAILINGS:
Wesley Clark War Crimes amply documented
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2822
War Criminal Wesley Clark for President?
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2795
===
Chicago Sun-Times - Other views
http://www.suntimes.com/output/otherviews/cst-edt-clark06.html
History of misinformation tarnishes Clark's military record
October 6, 2003
BY THOMAS H. LIPSCOMB
The latest entry in the Democratic presidential candidate lineup has
rocketed to become the top candidate within two weeks of his
announcement. Wesley Clark is a retired general and a Rhodes scholar,
and he served as NATO commander during the Kosovo War as well as a CNN
commentator during the Iraq war this spring. His words of July 11 sound
like the kind of straight talk that could reassure Americans
increasingly uncertain about the direction of the war in Iraq: "When I
was in the military," he said, "I took an oath to uphold the
Constitution. There is nothing in the Constitution that says you can
mislead people."
But in one astonishing statement three days before Clark announced his
candidacy, Clark's former boss, Gen. H. Hugh Shelton, raised the most
serious questions about Clark's military record, which is, of course,
all he really has to run on. Shelton, who was chairman of the Joint
Chiefs of Staff on 9/11, said: "I've known Wes a long time. I will tell
you the reason he came out of Europe early had to do with integrity and
character, issues that are very near and dear to my heart."
According to military historian Thomas Fleming, "This is the most
critical statement by one senior military officer on the record on the
conduct of another in the history of the United States armed forces."
Shelton is not alone in his opinion. Clark is widely disliked in the
Army. Many commentators wondered at the time why Clark "came out of
Europe early." It was unheard of for Clark or any NATO commander to be
relieved months before his tour was up and quickly retired. Now Shelton
has revealed that the reason Clark was relieved involved issues of
"integrity and character." Within the military code there could be no
more damning statement.
There are clues to Shelton's indictment from Clark's Kosovo campaign.
The war began after a chorus of charges that the Serbians were
unleashing genocidal holocaust upon Kosovars, Albanians and other
largely Muslim minorities. And the NATO commander's headquarters
rapidly became an echo of the "five o'clock follies" of press
misinformation at Army headquarters in Saigon two decades earlier.
Here are a few examples: There were supposed to be 100,000 prisoners
detained by the Serbs in a soccer stadium in Pristina. An Agence France
Presse reporter dropped by the stadium a few days later and admired its
green grass and empty seats with the single caretaker on the site.
NATO headquarters passed along Albanian allegations that Serbian
victims were being incinerated at a Trpca mine smelter. But when
interviewed by reporter Ben Works, NATO officers admitted they had
monitored the site during the entire war and the smelter had never been
fired up.
Even the NATO bomb-damage assessment team Clark sent in after the truce
found that instead of the several hundred Serbian tanks Clark had
claimed were destroyed by his air war, there were only 12 and about as
many personnel carriers. As for atrocities, according to Works, Clark's
team found "no credible indications of large scale atrocities or any
other pattern of smaller scale crimes against humanity."
If Clark was singularly unsuccessful in his high-altitude air war on
the Serb forces, which he had predicted would bring victory in a few
days, it caused a lot of civilian casualties. Besides blowing up the
Chinese Embassy, some civilian convoys, a lot of radio and TV
facilities, and an amazing number of chicken coops, one incident stands
out. A train loaded with civilians was crossing a bridge near Grdelica
when it was attacked by NATO F-15s. A dozen were killed and many
wounded. In briefing the press Clark termed it "unfortunate." Clark ran
gun camera photo footage. "You can see if you are focusing on your job
as a pilot how suddenly that train appeared." NATO was claiming their
target was the bridge and the train was moving so fast they couldn't
reinstruct the missile in time to avoid the train.
Looking at the film the train does appear to suddenly jump into the
frame. There was only one problem: According to the Ottawa Citizen's
Scott Taylor, the film had been doctored. The F-15s had made two passes
and hit the bridge the first time, knocking out the train's electrical
power. On the second pass, they hit the train. The two segments were
spliced together so it looked like the stationary train was moving.
This is not the only time Clark suffered from the failure of monitoring
cameras. Cameras also failed at the tragic bombing at the village of
Korisa which killed 87 Albanian civilians, and at the final assault on
the Koresh compound at Waco. Eighty six civilians were killed in the
assault, in which 17 armored vehicles and personnel as well from the
First Cavalry Division at Ft. Hood commanded by Clark participated.
Mistakes happen. Subordinates send up bad or intentionally skewed
information. The fog of war makes any headquarters press communications
difficult at best. But if Shelton and Defense Secretary Bill Cohen were
receiving reports as misleading as the ones furnished to the press by
Clark's headquarters it couldn't have made their task any easier.
Clark is the leading Democratic candidate for president. He is also the
only candidate who is registered with several agencies, including the
Defense Department, as a paid lobbyist. To avoid a possible conflict of
interest, did he tell CNN he was a registered Defense lobbyist when he
signed on as their on-air military commentator? According to CNN
spokesman Mark Furman, "We did not know." When CNN fired him, Clark
blamed the influence of President Bush, which CNN denied.
Perhaps for Wesley Clark, like Bill Clinton, another brilliant Rhodes
Scholar Arkansan who served as Clark's commander in chief, it may
depend on what the word "mislead" means.
Thomas H. Lipscomb is chairman of the Center for the Digital Future in
New York.
Varvarin 30/5/1999 (italiano / english)
=== ITALIANO ===
Il Manifesto 16-10-03
NATO
Primo processo per i raid del 1999
Si è aperto ieri a Bonn il processo per il risarcimento delle vittime
di Varvarin, piccolo villaggio della Serbia, bombardato dalla Nato
nella guerra «umanitaria» del 1999. 35 serbo-montenegrini, parenti
delle vittime e feriti sopravvissuti al raid, hanno fatto causa al
governo federale tedesco - «uno dei governi della Nato qualsiasi» ha
sostenuto la difesa, e la magistratura tedesca ha accettato
l'interpretazione - richiedendo in totale 3,5 milioni di euro di
risarcimento. Nel bombardamento di un ponte a Varvarin, a fine maggio
1999, dieci persone rimasero uccise, 17 riportarono ferite gravi e
altre 30 rimasero ferite lievemente. E' la prima causa del genere
contro un paese membro dell'Alleanza atlantica. Il governo tedesco
aveva finora sostenuto che tali questioni dovevano essere affrontate a
livello bilaterale fra stati, la parte civile ha argomentato invece che
il raid Nato era in aperta violazione del diritto internazionale perché
il ponte non era un obiettivo militare - furono centinaia gli obiettivi
civili colpiti (effetti collaterali), 1.500 le vittime civili. Gli
aerei Nato colpirono in due attacchi consecutivi il ponte d'acciaio
sulla Morava. La maggior parte delle vittime furono abitanti di
Varvarin accorsi per soccorrere i feriti del primo raid. La Nato ha
chiesto alla nuova leadership filoatlantica di Belgrado che, se vuole
diventare partner, deve ritirare la denucnia per crimini di guerra
contro i leader della Nato presentata dall'ex presidente Kostunica.
(ringraziamo Luca per la segnalazione)
---
http://www.ansa.it/balcani/serbiamontenegro/serbiamontenegro.shtml
KOSOVO: PROCESSO A STATO TEDESCO PER STRAGE SERBI IN 1999
(ANSA) - BERLINO, 15 OTT - A quattro anni dai raid aerei della Nato
sulla Serbia durante la crisi del Kosovo, si e' aperto oggi a Bonn un
processo intentato contro lo stato tedesco da un gruppo di cittadini
serbi, che chiedono alla Germania un risarcimento per le vittime di un
bombardamento aereo della Nato sulla localita' serba di Varvarin.
A intentare causa contro la Germania - i cui aerei presero parte alle
incursioni in Serbia - sono stati 35 cittadini della
Serbia-Montenegro, parenti delle dieci vittime di Varvarin, o essi
stessi rimasti feriti nel bombardamento Nato del 30 maggio 1999.
Dagli originari 3,5 milioni di Euro, la richiesta di risarcimento e'
scesa a circa un milione. I rappresentanti dello stato tedesco
hanno respinto oggi in tribunale la richiesta dei serbi, e una
sentenza sulla disputa e' stata annunciata per il 10 dicembre.
(ANSA). QN 15/10/2003 20:28
GERMANIA: KOSOVO, STATO CHIAMATO IN CAUSA PER ATTACCHI NATO
(ANSA) - BERLINO, 14 OTT - Si apre domani a Bonn il processo per il
risarcimento delle vittime di Varvarin, un piccolo villaggio della
Serbia, bombardato dalla Nato durante la campagna del Kosovo del
1999. 35 serbo-montenegrini, parenti delle vittime e feriti
sopravvissuti al raid, hanno fatto causa al governo federale tedesco,
richiedendo in totale 3,5 milioni di euro di risarcimento. In
seguito al bombardamento di un ponte nei pressi del villaggio di
Varvarin, alla fine del maggio 1999, dieci persone rimasero uccise, 17
riportarono ferite gravi e altre 30 rimasero ferite in maniera piu'
lieve. Per la prima volta dei cittadini intentano una causa del
genere contro uno stato. Mentre il governo tedesco ha finora sostenuto
che tali questioni devono essere affrontate a livello bilaterale fra
gli stati, la parte civile argomenta invece che il raid della Nato era
in aperta violazione del diritto internazionale perche' il ponte non
era un obiettivo militare. Gli aerei Nato colpirono in due attacchi
consecutivi il ponte d'acciaio sul fiume Morava, in Serbia. La maggior
parte delle vittime furono soprattutto abitanti di Varvarin accorsi
per soccorrere i feriti del primo raid. (ANSA).
COR*QN 14/10/2003 19:45
=== ENGLISH ===
http://www.ptd.net/webnews/wed/cq/Qgermany-nato-serbia.R0sc_DOF.html
Agence France-Presse - October 14, 2003
Serbian families seek payout from Germany over 1999
NATO bombing
BERLIN, Oct 15 (AFP) - A German court begins hearing a
landmark case Wednesday into whether the government
here should compensate the relatives of civilians
killed when NATO aircraft bombed the Serbian town of
Varvarin in 1999.
The suit, lodged by 35 citizens from former
Yugoslavia, is thought to be the first of its kind to
go before a European tribunal, and could serve as a
test case for other people seeking damages from NATO's
19 members.
The case will be heard in a civil court in the western
city of Bonn, with the relatives seeking total damages
of about 3.5 million euros (4.1 million dollars).
Ten civilians were killed and 17 badly wounded on May
30, 1999, when NATO planes launched missiles at a
bridge in Varvarin, during the alliance's campaign to
end Belgrade's crackdown on ethnic Albanians in
Kosovo.
Three people, including a 15-year-old girl, were
killed and five wounded when the planes initially
struck.
Seven died and 12 others were hurt, many of them
people who had come to help the victims hit earlier,
when the aircraft attacked again minutes later.
The bridge was close to the town's market, which was
crowded early on the Sunday afternoon of the
airstrike, and was hit during good weather.
NATO said it was a "designated" and "legitimate
target" but an inquiry found that the bridge was only
capable of supporting a maximum 12-tonne load, making
it too small to shift much military equipment.
Varvarin lies some 180 kilometres (110 miles)
southeast of Belgrade, which was bombed by NATO, and
200 kilometres from Kosovo, the province where former
president Slobodan Milosevic had ordered his troops to
end an ethnic Albanian uprising.
No Serbian military infrastructure was thought to be
near the town, which lies in a largely agricultural
area.
A lawyer for the relatives, Ulrich Dost, claims
Germany knew of and approved the attack.
He said it was a deliberate act meant to hit civilians
and that despite the fact the German military was not
involved, Germany as a NATO member must take
responsibility for the deaths and violations of human
rights.
Dost said the victims could sue based on a 1977
protocol added to the Geneva Convention which calls on
signatories to distinguish between civilians and the
military and "direct their operations only against
military objectives. "
According to former Yugoslav president Vojislav
Kostunica, 1,500 Serb civilians, 81 of them children,
died in NATO's two-and-a-half-month campaign to force
an end to Belgrade's repression in Kosovo.
===
Related links / Altri articoli:
A summary of NATO destructions, with many photos:
http://www.sramota.com/nato/
March 24, 1999: NATO's Humanitarian Trigger
(by Diana Johnstone):
http://www.ess.uwe.ac.uk/Kosovo/Kosovo-controversies16.html
Wesley Clark War Crimes amply documented:
NATO's War of Aggression against Yugoslavia
(by Michel Chossudovsky):
http://globalresearch.ca/articles/CHO309C.html
Les deux volumes du livre blanc des
crimes de l’OTAN en Yougoslavie 1999:
http://otan99.chiffonrouge.org
=== ITALIANO ===
Il Manifesto 16-10-03
NATO
Primo processo per i raid del 1999
Si è aperto ieri a Bonn il processo per il risarcimento delle vittime
di Varvarin, piccolo villaggio della Serbia, bombardato dalla Nato
nella guerra «umanitaria» del 1999. 35 serbo-montenegrini, parenti
delle vittime e feriti sopravvissuti al raid, hanno fatto causa al
governo federale tedesco - «uno dei governi della Nato qualsiasi» ha
sostenuto la difesa, e la magistratura tedesca ha accettato
l'interpretazione - richiedendo in totale 3,5 milioni di euro di
risarcimento. Nel bombardamento di un ponte a Varvarin, a fine maggio
1999, dieci persone rimasero uccise, 17 riportarono ferite gravi e
altre 30 rimasero ferite lievemente. E' la prima causa del genere
contro un paese membro dell'Alleanza atlantica. Il governo tedesco
aveva finora sostenuto che tali questioni dovevano essere affrontate a
livello bilaterale fra stati, la parte civile ha argomentato invece che
il raid Nato era in aperta violazione del diritto internazionale perché
il ponte non era un obiettivo militare - furono centinaia gli obiettivi
civili colpiti (effetti collaterali), 1.500 le vittime civili. Gli
aerei Nato colpirono in due attacchi consecutivi il ponte d'acciaio
sulla Morava. La maggior parte delle vittime furono abitanti di
Varvarin accorsi per soccorrere i feriti del primo raid. La Nato ha
chiesto alla nuova leadership filoatlantica di Belgrado che, se vuole
diventare partner, deve ritirare la denucnia per crimini di guerra
contro i leader della Nato presentata dall'ex presidente Kostunica.
(ringraziamo Luca per la segnalazione)
---
http://www.ansa.it/balcani/serbiamontenegro/serbiamontenegro.shtml
KOSOVO: PROCESSO A STATO TEDESCO PER STRAGE SERBI IN 1999
(ANSA) - BERLINO, 15 OTT - A quattro anni dai raid aerei della Nato
sulla Serbia durante la crisi del Kosovo, si e' aperto oggi a Bonn un
processo intentato contro lo stato tedesco da un gruppo di cittadini
serbi, che chiedono alla Germania un risarcimento per le vittime di un
bombardamento aereo della Nato sulla localita' serba di Varvarin.
A intentare causa contro la Germania - i cui aerei presero parte alle
incursioni in Serbia - sono stati 35 cittadini della
Serbia-Montenegro, parenti delle dieci vittime di Varvarin, o essi
stessi rimasti feriti nel bombardamento Nato del 30 maggio 1999.
Dagli originari 3,5 milioni di Euro, la richiesta di risarcimento e'
scesa a circa un milione. I rappresentanti dello stato tedesco
hanno respinto oggi in tribunale la richiesta dei serbi, e una
sentenza sulla disputa e' stata annunciata per il 10 dicembre.
(ANSA). QN 15/10/2003 20:28
GERMANIA: KOSOVO, STATO CHIAMATO IN CAUSA PER ATTACCHI NATO
(ANSA) - BERLINO, 14 OTT - Si apre domani a Bonn il processo per il
risarcimento delle vittime di Varvarin, un piccolo villaggio della
Serbia, bombardato dalla Nato durante la campagna del Kosovo del
1999. 35 serbo-montenegrini, parenti delle vittime e feriti
sopravvissuti al raid, hanno fatto causa al governo federale tedesco,
richiedendo in totale 3,5 milioni di euro di risarcimento. In
seguito al bombardamento di un ponte nei pressi del villaggio di
Varvarin, alla fine del maggio 1999, dieci persone rimasero uccise, 17
riportarono ferite gravi e altre 30 rimasero ferite in maniera piu'
lieve. Per la prima volta dei cittadini intentano una causa del
genere contro uno stato. Mentre il governo tedesco ha finora sostenuto
che tali questioni devono essere affrontate a livello bilaterale fra
gli stati, la parte civile argomenta invece che il raid della Nato era
in aperta violazione del diritto internazionale perche' il ponte non
era un obiettivo militare. Gli aerei Nato colpirono in due attacchi
consecutivi il ponte d'acciaio sul fiume Morava, in Serbia. La maggior
parte delle vittime furono soprattutto abitanti di Varvarin accorsi
per soccorrere i feriti del primo raid. (ANSA).
COR*QN 14/10/2003 19:45
=== ENGLISH ===
http://www.ptd.net/webnews/wed/cq/Qgermany-nato-serbia.R0sc_DOF.html
Agence France-Presse - October 14, 2003
Serbian families seek payout from Germany over 1999
NATO bombing
BERLIN, Oct 15 (AFP) - A German court begins hearing a
landmark case Wednesday into whether the government
here should compensate the relatives of civilians
killed when NATO aircraft bombed the Serbian town of
Varvarin in 1999.
The suit, lodged by 35 citizens from former
Yugoslavia, is thought to be the first of its kind to
go before a European tribunal, and could serve as a
test case for other people seeking damages from NATO's
19 members.
The case will be heard in a civil court in the western
city of Bonn, with the relatives seeking total damages
of about 3.5 million euros (4.1 million dollars).
Ten civilians were killed and 17 badly wounded on May
30, 1999, when NATO planes launched missiles at a
bridge in Varvarin, during the alliance's campaign to
end Belgrade's crackdown on ethnic Albanians in
Kosovo.
Three people, including a 15-year-old girl, were
killed and five wounded when the planes initially
struck.
Seven died and 12 others were hurt, many of them
people who had come to help the victims hit earlier,
when the aircraft attacked again minutes later.
The bridge was close to the town's market, which was
crowded early on the Sunday afternoon of the
airstrike, and was hit during good weather.
NATO said it was a "designated" and "legitimate
target" but an inquiry found that the bridge was only
capable of supporting a maximum 12-tonne load, making
it too small to shift much military equipment.
Varvarin lies some 180 kilometres (110 miles)
southeast of Belgrade, which was bombed by NATO, and
200 kilometres from Kosovo, the province where former
president Slobodan Milosevic had ordered his troops to
end an ethnic Albanian uprising.
No Serbian military infrastructure was thought to be
near the town, which lies in a largely agricultural
area.
A lawyer for the relatives, Ulrich Dost, claims
Germany knew of and approved the attack.
He said it was a deliberate act meant to hit civilians
and that despite the fact the German military was not
involved, Germany as a NATO member must take
responsibility for the deaths and violations of human
rights.
Dost said the victims could sue based on a 1977
protocol added to the Geneva Convention which calls on
signatories to distinguish between civilians and the
military and "direct their operations only against
military objectives. "
According to former Yugoslav president Vojislav
Kostunica, 1,500 Serb civilians, 81 of them children,
died in NATO's two-and-a-half-month campaign to force
an end to Belgrade's repression in Kosovo.
===
Related links / Altri articoli:
A summary of NATO destructions, with many photos:
http://www.sramota.com/nato/
March 24, 1999: NATO's Humanitarian Trigger
(by Diana Johnstone):
http://www.ess.uwe.ac.uk/Kosovo/Kosovo-controversies16.html
Wesley Clark War Crimes amply documented:
NATO's War of Aggression against Yugoslavia
(by Michel Chossudovsky):
http://globalresearch.ca/articles/CHO309C.html
Les deux volumes du livre blanc des
crimes de l’OTAN en Yougoslavie 1999:
http://otan99.chiffonrouge.org
DISPUTA SUI COLORI DELLA BANDIERA DELLA
EX-POST-JUGOSLAVIA ANCHE DETTA
"STATO-CHE-ENTRO-TRE-ANNI-NON-C'E'-PIU'".
E LA BBC HA DECISO CHE BISOGNA ANCHE CAMBIARE L'INNO NAZIONALE
"COMUNISTA".
http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/europe/3170416.stm
Tuesday, 7 October, 2003
Belgrade flag flap reveals identity crisis
By Matthew Price
BBC correspondent in Belgrade
C300 has come to the rescue of Serbia and Montenegro's politicians.
At last a scientific answer to the political problems countries in the
Balkans have faced for years.
C300 is a specific shade of blue which apparently keeps both Serbs and
Montenegrins happy in the "flag battle" which followed the collapse of
Yugoslavia.
The colour is a classic compromise - halfway between the Serbian dark
blue, and the light blue of Montenegro.
The wrangling began when Yugoslavia was abolished in March this year,
and changed its name to Serbia and Montenegro.
But no-one could agree on the new state symbols. Including the flag.
So the old Yugoslav tricolour continues to fly above state buildings
while arguments persist over what colour blue the new flag should
contain.
It's not as though Serbia and Montenegro doesn't have enough to worry
about - the legacy of war, international isolation, and the extradition
of suspected war criminals, to name just a few.
But this is what politics can be like here. Politicians argue over what
elsewhere around the world might seem to be the most incredibly minor
things.
Hence seven months of wrangling over the flag.
Just round the corner from the parliament is Belgrade's foremost
flag-makers.
Here Zorica Alksic and her staff are still stitching together the old
communist red, white and blue flag of Yugoslavia.
"Yugoslav flags still legally have to be flown outside federal
institutions," she says.
"So we're still getting orders for the old flag. But Serbian flags for
the republic are definitely our biggest seller now."
Yugoslav throwbacks
And it's not just the flag that needs replacing.
The old communist national anthem is still played at international
football and basketball games.
When Serbia and Montenegro (and yes, people here think it's a mouthful
too) played Italy in Euro 2004 qualifiers the national anthem was booed.
The money still has the old name on it.
The internet domain here is still .yu.
And then there's the passport.
At Belgrade's airport people pass through immigration clutching the old
dark blue book with "Jugoslavija" embossed in gold on the cover.
As they queued up for the JAT flight to London (that's Yugoslav
Airlines), I asked a few passengers what their country is called.
The first person I asked was caught completely off balance, and could
not immediately reply.
I tried to put it another way. "When people ask you what country you
come from, what do you say?"
"Actually I say Yugoslavia because nobody knows this new one."
Next to him there was a woman. "I try to say Serbia now," she said.
"Not Serbia and Montenegro?" I inquire.
"Err. Yes. Well I say I'm Serbian but I come from Serbia-Montenegro.
Right."
It's all a bit confusing.
Professor Dusan Stojnov, a psychologist at Belgrade University reckons
Serbia and Montenegro is going through a bit of an identity crisis.
"For many years people knew what it is to be Serb, or what it is to be
Yugoslav. They even had some vague ideas of what it means to be
European," he said.
"But at the moment they don't have a clue as to what does it mean to be
a Serbian Montenegrin or whatever."
Other problems
Most people, of course, have plenty of other things to be worrying
about.
Unemployment here is among the highest in Europe. Wages are low. Costs
going up.
And many know that in three years' time both Serbia and Montenegro have
the chance to hold a referendum to leave the union.
So all this angst over the state symbols may be for nothing in the end.
At least C300 has come to the rescue over the colour in the flag.
Now all the politicians have to do is decide on a coat of arms. And
they may only have three years to do that.
EX-POST-JUGOSLAVIA ANCHE DETTA
"STATO-CHE-ENTRO-TRE-ANNI-NON-C'E'-PIU'".
E LA BBC HA DECISO CHE BISOGNA ANCHE CAMBIARE L'INNO NAZIONALE
"COMUNISTA".
http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/europe/3170416.stm
Tuesday, 7 October, 2003
Belgrade flag flap reveals identity crisis
By Matthew Price
BBC correspondent in Belgrade
C300 has come to the rescue of Serbia and Montenegro's politicians.
At last a scientific answer to the political problems countries in the
Balkans have faced for years.
C300 is a specific shade of blue which apparently keeps both Serbs and
Montenegrins happy in the "flag battle" which followed the collapse of
Yugoslavia.
The colour is a classic compromise - halfway between the Serbian dark
blue, and the light blue of Montenegro.
The wrangling began when Yugoslavia was abolished in March this year,
and changed its name to Serbia and Montenegro.
But no-one could agree on the new state symbols. Including the flag.
So the old Yugoslav tricolour continues to fly above state buildings
while arguments persist over what colour blue the new flag should
contain.
It's not as though Serbia and Montenegro doesn't have enough to worry
about - the legacy of war, international isolation, and the extradition
of suspected war criminals, to name just a few.
But this is what politics can be like here. Politicians argue over what
elsewhere around the world might seem to be the most incredibly minor
things.
Hence seven months of wrangling over the flag.
Just round the corner from the parliament is Belgrade's foremost
flag-makers.
Here Zorica Alksic and her staff are still stitching together the old
communist red, white and blue flag of Yugoslavia.
"Yugoslav flags still legally have to be flown outside federal
institutions," she says.
"So we're still getting orders for the old flag. But Serbian flags for
the republic are definitely our biggest seller now."
Yugoslav throwbacks
And it's not just the flag that needs replacing.
The old communist national anthem is still played at international
football and basketball games.
When Serbia and Montenegro (and yes, people here think it's a mouthful
too) played Italy in Euro 2004 qualifiers the national anthem was booed.
The money still has the old name on it.
The internet domain here is still .yu.
And then there's the passport.
At Belgrade's airport people pass through immigration clutching the old
dark blue book with "Jugoslavija" embossed in gold on the cover.
As they queued up for the JAT flight to London (that's Yugoslav
Airlines), I asked a few passengers what their country is called.
The first person I asked was caught completely off balance, and could
not immediately reply.
I tried to put it another way. "When people ask you what country you
come from, what do you say?"
"Actually I say Yugoslavia because nobody knows this new one."
Next to him there was a woman. "I try to say Serbia now," she said.
"Not Serbia and Montenegro?" I inquire.
"Err. Yes. Well I say I'm Serbian but I come from Serbia-Montenegro.
Right."
It's all a bit confusing.
Professor Dusan Stojnov, a psychologist at Belgrade University reckons
Serbia and Montenegro is going through a bit of an identity crisis.
"For many years people knew what it is to be Serb, or what it is to be
Yugoslav. They even had some vague ideas of what it means to be
European," he said.
"But at the moment they don't have a clue as to what does it mean to be
a Serbian Montenegrin or whatever."
Other problems
Most people, of course, have plenty of other things to be worrying
about.
Unemployment here is among the highest in Europe. Wages are low. Costs
going up.
And many know that in three years' time both Serbia and Montenegro have
the chance to hold a referendum to leave the union.
So all this angst over the state symbols may be for nothing in the end.
At least C300 has come to the rescue over the colour in the flag.
Now all the politicians have to do is decide on a coat of arms. And
they may only have three years to do that.
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